Numero
7 ottobre 2017
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“Urs Fischer è uno dei più grandi artisti viventi... Continuiamo con tenacia questo progetto di coniugare arte contemporanea con Rinascimento perché pensiamo che Firenze viva ancora oggi il suo Rinascimento, Firenze rinasce ogni giorno grazie all’arte” Dario Nardella
Con la cultura non si mangia Giulio Tremonti (apocrifo)
La caduta degli dei
Maschietto Editore
Guggenheim Museum NY City, 1969
La prima
immagine Ecco un gruppo di ragazzi più grandi, più o meno vicini al passaggio verso quella che potrebbe essere la nostra quinta o la nostra prima media. Erano ancora giovanissimi, ma avevano già lo sguardo lesto e vivace di chi è abituato a muoversi con una certa disinvoltura in una megalopoli di questo tipo. Per quelle famiglie che non potevano permettersi delle vacanze quando non c’era più la scuola, avere a portata di mano una possibilità di questo tipo era un’ottima soluzione per tenere i ragazzi fuori da giri che avrebbero potuto essere anche ad alto rischio. Ricordo bene di aver quasi sempre percepito la presenza di alcuni adulti, genitori o fratelli e sorelle più grandi, che, in qualche modo, discretamente a distanza e senza dare troppo nell’occhio, cercavano di tenere sempre la situazione sotto controllo.
dall’archivio di Maurizio Berlincioni
Numero
7 ottobre 2017
300
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Riunione di famiglia La filostrocca del trenino Le Sorelle Marx
“Nanni” Renzi Lo Zio di Trotzky
Rignano Mia I Cugini Engels
In questo numero Un dialogo fra non-più-giovani sui giovani di Simone Siliani
La stagione degli amori di Claudio Cosma
La fine delle orge e dei misteri di Laura Monaldi
L’intrusa di Cristina Pucci
Ai confini dell’Europa di Alessandro Michelucci
Fatevi ingannare da Sofia di Mariangela Arnavas
Spigolature per il recupero dell’identità di un quartiere di M. Cristina François
Architettura da nascondere di Valentino Moradei Gabbrielli
Una Lettera racconto di Stefano Giovannelli
La bellezza di ArtLab di Barbara Setti
Fotografia e surrealismo di Danilo Cecchi
Houellebecq, una feroce ironia da rileggere di Simonetta Zanuccoli
Cesare Leornadi, l’architetto degli alberi di Francesco Gurrieri
Petali delicati di Ruggero Stanga
e Remo Fattorini, Aldo Frangioni, Sergio Favilli...
Direttore Simone Siliani
Illustrazioni di Massimo Cavezzali, Lido Contemori
Redazione Gianni Biagi, Sara Chiarello, Aldo Frangioni, Vittoria Maschietto, Michele Morrocchi, Sara Nocentini, Barbara Setti
Editore Maschietto Editore via del Rosso Fiorentino, 2/D - 50142 Firenze tel/fax +39 055 701111
Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012
Progetto Grafico Emiliano Bacci
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di Simone Siliani Stefano De Martin ha curato un libro importante, dal curioso destino: man mano che passa il tempo dalla sua pubblicazione cresce, anziché esaurirsi, la sua attualità. È un libro sulla questione generazionale in Italia. È un “Lessico generazionale. Adulti che si occupano di giovani” (Edizioni Piagge, Firenze, 2017); un libro polifonico, sapientemente orchestrato e diretto da De Martin, che si occupa di un tema che costituisce in altri paesi il centro di politiche pubbliche o di sviluppo di imprese, oppure di ricerche sociologiche, investimenti economici o tecnologici, mentre in Italia i giovani restano ai margini dell’agenda politica o accademica. Resta quella giovane, una questione-ombra e per questo sostanzialmente sconosciuta, incompresa e insondata. Paola Tronu nel volume parla della “moratoria giovanile”, quella avvenuta negli anni ’80 del secolo scorso: l’allungamento del tempo degli studi e dell’ingresso nel mondo del lavoro. Oggi siamo forse di fronte ad una nuova moratoria o al continuamento di quella del Novecento, che però si rovescia nel paradosso: siamo in una società (quella occidentale o del capitalismo maturo) con pochi giovani, come ci spiega la demografia da cui parte Alessandro Rosina nel suo saggio inaugurale del volume, e in cui quei pochi sono penalizzati dalle politiche pubbliche. Salvo che, ad ogni Legge Finanziaria, la politica fa grandi professioni di impegni per i giovani che, però, puntualmente, si rivelano esiziali o fallimentari. Nella prossima, il governo si propone di istituire significativi incentivi alle assunzioni di under 29 (-50% sui contributi) e in particolare nel Sud; o ancora nuove assunzioni nella PA. Ma perché queste politiche poi non vengono perseguite o non sortiscono effetti significativi? In Francia e in Germania, che pure soffrono di simili crisi demografiche, hanno messo in campo politiche significative e continuate per affrontarle. Perché in Italia si è lasciato degenerare il problema senza governarlo? Il tema dei “Nuovi” rimanda da sempre a quanto e come una nazione intenda investire sul proprio futuro; parlare di giovani, infatti, significa sintonizzare gli interventi sull’educazione, l’istruzione, la formazione, il lavoro, la cultura, l’inclusione sulle lunghezze d’onda dell’innovazione e del cambiamento. L’Italia si è distinta in questi ultimi trent’anni per i continui appuntamenti mancati nel leggere e valorizzare il contributo che ogni nuova generazione può dare alla propria comunità. Gli investimenti nei settori pubblici hanno fatto registrare costanti disallineamenti rispetto agli
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Un dialogo fra
non-più-giovani sui
giovani
standard europei; hanno prodotto performances inadeguate a innescare processi virtuosi. Ci siamo arresi alla crisi montante di questi anni con fatalismo e con scarso spirito reattivo e creativo. Niente o poco è stato fatto sul fronte del sostegno alla natalità, per la creazione di nuove famiglie (come hanno fatto in Francia); poco per favorire l’ingresso nel mondo del lavoro e per innovare il tessuto produttivo, per ampliare le competenze e i saperi attraverso percorsi di qualità, per ibridare istruzione e mondo del lavoro (come hanno fatto in Germania). Si è preferito puntare sul sicuro, drenando risorse a favore della montante marea grigia chiedendo poi a questa di supportare i percorsi accidentati delle nuove generazioni
anestetizzandone la carica trasformativa (e dilatando le tappe della loro emancipazione: i ventenni nel 2004 ci mettevano 10 anni per costruirsi una vita autonoma; nel 2020 ce ne metteranno 18, secondo una recente indagine sul divario generazionale). Agli “anziani” (e alle famiglie) si è chiesto di fare da camera compensativa (e non a caso registriamo una grande ricchezza privata immobilizzata nella rendita) assegnando loro un potere strumentale e pure ricattatorio. Un colpevole immobilismo politico ha penalizzato in primis i suoi figli migliori. Possiamo asserire che i Millennials (che potremmo meglio definire “la generazione della crisi”) formano oggi un’area di criticità che meriterebbe un’attenzione
particolare da parte della politica e dell’intero corpo sociale. Nel libro si propone un approccio a 360 gradi alla questione giovanile, in particolare affrontando il tema del loro protagonismo. Da un lato l’intervento di don Alessandro Santoro tematizza la problematica del restituire la parola ai giovani come parte di un nuovo discorso sulle comunità urbane e sul risanamento delle periferie, dall’altro si ritrovano appelli per sfatare il mito della mancata partecipazione civile dei giovani. Entrambi questi temi conducono alla necessità di costruire politiche di cittadinanza attiva dei giovani e non per i giovani. Una delle caratteristiche peculiare della realtà odierna è la divaricazione tra la cittadinanza assegnata dai modelli e pratiche di consumo e quella civile e politica; i giovani, intendo dire, sono degli ottimi consumatori ma non per questo risultano “cittadini sovrani” (direbbe don Milani). Sono bravissimi consumatori -e non va banalizzata tale competenza; e dunque concorrono attivamente alla trasformazione della realtà, partecipano con la loro intelligenza e il loro spirito critico al cambiamento (li definiamo “prosumer”, consumatori e produttori insieme, di prodotti e contenuti). Entra qui in ballo il tema dell’educazione non-formale: non esistono corsi, non esistono insegnanti, non esistono titoli, non esistono master; esiste solo una gigantesca osservazione tra pari. Un flusso pervasivo che si dichiara “esclusivo” pur essendo straordinariamente “inclusivo” in quanto prende tutti. Ecco allora che cambia radicalmente la prospettiva del nostro lavoro e mette un faro sul nostro mestiere di “adulti che si occupano di giovani” (come dice il sottotitolo del libro). Si tratta dunque di porci la domanda se i nostri giovani li vogliamo crescere come spettatori o come protagonisti di questa trasformazione. E allora il tema dell’educazione non-formale è uno straordinario dispositivo per far nascere domanda di conoscenza (se non ce la giochiamo noi questa partita se la gioca solo il mercato); penso a quanta energia potremmo mettere in relazione con i problemi contemporanei (quelli delle periferie, dell’immigrazione, etc.) se concediamo spazi che ora sono ibernati nelle nostre chiuse stanze. Il più potente sistema di innovazione della storia dell’uomo, a parere di uno studio internazionale sugli ecosistemi dell’innovazione, era nella Firenze dei Medici che dava spazio agli apprendisti, dava chances di trasformazione agli inesperti. Gli inesperti, i giovani, i nuovi arrivati sono uno straordinario strumento per portare le nostre comunità un passo avanti e aiutarci ad affrontare le nuove sfide che ci attendono. “Quelli che non ci sono ancora
sono gli unici che ci possono salvare la pelle”, direbbe Annibale D’Elia, tra i protagonisti del ripensamento in atto sulle professioni educative e sociali. A scuola fino a 18 anni, smarthphone in classe, liceo breve: ogni Ministro della Pubblica Istruzione che passa non manca di spararla grossa per lasciare comunque un segno, qualcosa che lo/la ricordi. Ma resta il fatto che l’Italia detiene il poco invidiabile record europeo del maggior tasso di abbandono scolastico e una preoccupante diminuzione del numero di laureati. Allora, forse non c’è da tentare di ricostruire un senso, una nuova motivazione della scuola per i giovani, che non può esaurirsi e risolversi nell’essere un periodo di vita prodromico al lavoro, funzionale a produrre strumenti di lavoro? Il tema della motivazione è centrale anche nel ridefinire i rapporti di forza all’interno delle varie istituzioni (dalla scuola alla politica, dalla famiglia alle realtà associazionistiche, dalla chiesa al mondo del lavoro). Penso vada
Seminario Nazionale Get Up In collaborazione con il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca è organizzato all’Istituto degli Innocenti, il 12 e il 13 ottobre un seminario nazionale dedicato al progetto Get Up, Giovani ed Esperienze Trasformative di Utilità sociale e Partecipazione. Dopo il saluto della presidente dell’Istituto degli Innocenti, Maria Grazia Giuffrida interverranno giovedì 12 ottobre tra gli altri Adriana Ciampa, Dirigente Ministero del Lavoro e delle politiche sociali, Francesco Chezzi e Elena Di Padova, Coordinatori tecnici progetto Get Up dell’Istituto degli Innocenti, Claudia Fiaschi, Presidente di Confcooperative Toscana. Nel pomeriggio sono previsti i gruppi di discussione per riflettere sulle opportunità date dal service learning (una metodologia d’insegnamento che combina lo studio a scuola con l’impegno a favore della comunità locale) e dalle cooperative scolastiche (che hanno un loro statuto, un loro consiglio di amministrazione, un’assemblea dei soci). Alle 17,30 durante la plenaria si parlerà di “Nuovo lessico generazionale. Ovvero dell’occuparsi e del pre-occuparsi”, la tavola rotonda è coordinata da Donata Bianchi, responsabile del Servizio Ricerca e monitoraggio Istituto degli Innocenti. In collaborazione con la Biblioteca Innocenti Library. Venerdì 13 ottobre i lavori proseguono con interventi sulle analisi dei bisogni e l’organizzazione della didattica. Di documentazione delle attività parlerà Antonella Schena, Responsabile Servizio Documentazione dell’Istituto degli Innocenti.
riformato il dialogo intergenerazionale, come ho tentato di dire nel mio Lessico, mettendo al centro lo sguardo sul futuro che desideriamo ottenere (Gandhi invitava ad “essere il cambiamento che vogliamo vedere avvenire nel mondo”). Se vogliamo un mondo più giusto, un ambiente più pulito e naturale, se vogliamo vivere in pace, se vogliamo delle città più a misura d’uomo possiamo trovare una forma di intesa con le nuove generazioni tendenzialmente orientate su valori post-materialistici. E allora, l’età di chi si mette in cammino non sarà più una discriminante o un ostacolo alla reciproca comprensione ma una diversità in grado di arricchire entrambi i poli della relazione. retorica e il discorso sui giovani sono praticati soprattutto dalla politica: il merito, premiare l’eccellenza (che però manca di esaudire la propria promessa e, dunque non premia né merito né eccellenza). Tuttavia questa retorica impedisce, fornisce l’alibi per non occuparsi dei margini, delle fragilità. Una tema che si preferisce appaltare ad altri (il Terzo Settore, la società civile) anche perché in esso si rispecchia il fallimento della politica. Ma allora come affrontare questo lato meno luminoso della questione giovani? Non è una contraddizione, in fondo, respingere i nuovi giovani che vengono dai mondi “altri” e che potrebbero fornire nuova materia per affrontare davvero positivamente la questione giovanile? Se la categoria “giovani” è stata fin qui descritta come un’area omogenea di forte criticità, non possiamo non osservare come le differenze al proprio interno siano forti e predittive di futuri differenti. Chi va all’estero per un master avanzato e chi ci va per cercare uno straccio di lavoro che qui non trova; chi ha una famiglia benestante e chi vive il disagio quotidiano di quartieri fatiscenti; chi fugge minorenne da luoghi di guerra e si trova solo in un paese che non conosce e chi vive tranquillo nella propria casa fino a 30/35 anni; chi si laurea e chi vive la condizione drammatica di Neet. Per ogni stato si declina un discorso differente e le nuove trasformazioni contengono una forte propensione alla divaricazione dei destini. Dobbiamo saper distinguere ed operare conseguentemente. Le politiche sociali che cercano di ridurre gli scompensi e le distanze vanno però riformate perché ancora rischiano di produrre logiche assistenzialistiche e scarsamente capaci di produrre empowerment individuale e sociale. Nel libro vi sono alcuni interventi illuminanti come quello di Alessandro Salvi; ecco, penso che il suo ragionamento, come quello di altri presente nel volume, possa aiutarci a trovare soluzioni più innovative ed efficaci.
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Le Sorelle Marx
La filostrocca del trenino
“Tutti in carrozza! Si parte!”: lo abbiamo visto aggirarsi per la stazione di Roma Termini quel bel giovine di Rignano che ha fatto anche il presidente del governo per qualche tempo. Aveva in testa il berretto delle FS, la paletta (come andava un tempo) e il fischio in bocca. Correva da un treno all’altro per dare il via con un bel fischio. Ci hanno informati che stava facendo le prove perché il 17 ottobre, alle 10 del mattino, farà partire il treno del PD che per otto settimane farà un percorso di ascolto e confronto attraverso le 107 province italiane. Che bravo questo bel giovine! Così almeno per due mesi i treni arriveranno in perfetto orario, così come aveva preteso Benito, la buon’anima. Ora, a dire il vero lo studioso Alexander Cockburn
I Cugini Engels
Rignano mia
Matteo Renzi ha decisamente intrapreso una carriera nel mondo dello spettacolo, avendo preclusa per il momento quella di inquilino di Palazzo Chigi. Così lo abbiamo visto, evidentemente con un tasso alcolico importante, cantare a squarciagola “Romagna mia”, insieme ai compagni di piadina Giuliano Poletti (imolese de estimatore del lambrusco), Raoul Casadei (la rockstar di Gatteo, nel forlivese, autore della immortale hit della riviera romagnola) e Matteo Richetti (decisamente il più sobrio del quartetto). Il sipariettoè andato in onda alla chiusura della Festa nazionale dell’Unità di Imola, quando il segretario generale del Pd deluso dalla scarsa affluenza alla Festa e al suo comizio, si è consolato con il lambrusco. Così il video di questo “4+4 di Elena Boschi” de’ noantri è diventato subito virale, surclassando (giustamente) quelli del comizio di chiusura della Festa. Tanto da suscitare la frase storica dell’altrimenti non imprescindibile segretario imolese del PD, il segretario imolese del Pd, Marco Raccagna.
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ha dimostrato che non è proprio vero che durante il fascismo i treni arrivassero sempre in orario, anzi pare che i treni locali accumulassero spesso un ampio ritardo ma Benito, da grande comunicatore, impose ai giornali di non riportare queste notizie e di propagandare il mito della puntualità ferroviaria. E comunque non gli è andata proprio bene alla fine, né a lui en al suo treno che Atac ha demolito nel 2012. Ma forse Matteino si ispira piuttosto a Abramo Lincoln, che nel 1861 scelse di arrivare a Washington con un viaggio lungo 12 giorni in cui tenne cento discorsi... Oddio, neanche a lui è andata molto bene alla fine. Comunque sia, Renzi ha proprio il piglio del duce: nel treno ha fatto mettere una carroza
per i social e ha detto che sul suo trenino ci fa salire chi gli pare a lui e chi fa polemiche, scende! A noi è venuta in mente, chissà perché, una bella filastrocca di Gianni Rodari, che dedichiamo volentieri a Matteino: L’accelerato è un treno di buon cuore, incapace di negare un favore: si ferma, sapete, a certe stazioncine, appena più grandine di un casello, senza nemmeno il passaggio a livello. ... Fermatevi un pochino; ce l’ho anch’io il capo col fischietto, con tre righe sul berretto, e c’è un viaggiatore, perfino, nella sala d’aspetto. Non posso, non posso, ho molta premura sbuffa l’accelerato; e fa la grinta dura. Però diventa rosso … Eh! Eh! Che vi dicevo? S’è fermato.
Avanzi di Avanti Piccola rubrica per i distratti che raccoglie le migliori frasi di “Avanti”, il bestseller di Matteo Renzi.
“È stata una giornata memorabile. Per Imola e per il Pd. Ognuno di noi avrà i suoi ricordi, le sue gioie, le sue incazzature. Le sue immagini. ...Grazie a chi è venuto a trovarci [li conosco uno ad uno]. Spero siate stati bene. Grazie a chi ci ascolta [se vi regge lo stomaco]. Vogliamo ascoltarvi [ascoltiamo chiunque, anche ‘sti quattro ciucchi!]. Grazie a chi ci guarda di nascosto.... parliamone. Grazie a Matteo Renzi che ha scelto Imola. È stato bellissimo. Faticoso e bellissimo. Il Pd è questo. Una comunità vera in carne e ossa. Alla grande!”. Pregevole iniziativa
Letta mi riceve nel suo ufficio e mi consegna un foglio scritto a mano in tutta fretta, con alcuni punti appena abbozzati. È un fogliaccio che sembra una brutta copia di qualcosa. L’ho tenuto con me per mille giorni, nel cassetto di destra della scrivania. E quando ho lasciato Palazzo Chigi me lo sono portato via, per ricordarmi sempre come non si lasciano le cose.
La lettera Gentile Direttore, nell’ultimo numero della rivista Cultura Commestibile.com da Lei diretta è apparso un articolo, non firmato, che riferisce in maniera assolutamente distorta e palesemente errata di un’iniziativa che Publiacqua sta portando avanti ormai da anni all’interno dello Spazio Alfieri (e in altri luoghi quali, ad esempio al Teatro Puccini e al Teatro Metastasio) per promuovere l’utilizzo dell’acqua del rubinetto. L’iniziativa? Offrire l’acqua del rubinetto per farne apprezzare la qualità: un gesto forse banale, quello di offrire l’acqua, ma che testimonia dell’attenzione all’altro. La distribuzione dell’acqua si accompagna a cartoline, e altro materiale, in cui sono riportati i valori dei parametri chimico/fisici dell’acqua, invitando i cittadini ad approfondire il tema sul sito di Publiacqua. Un mezzo per informare sulla bontà della risorsa che esce dai rubinetti delle nostre case e sulla modalità di leggere un’etichetta dell’acqua. Le cartoline contengono immagini specifiche al luogo dove sono localizzate. Per coinvolgere un pubblico di cinefili, quali quelli che frequentano le sale dello Spazio Alfieri, i gestori del cinema ci hanno proposto di utilizzare delle citazioni da film d’autore (Jarmush nel caso segnalato sulla rivista da Lei diretta). L’iniziativa va avanti ormai da anni e non ha mai incontrato critiche da parte degli spettatori, anzi è sempre stata apprezzata. Strano che chi abbia scritto l’articolo non si sia reso conto che stavamo offrendo acqua, essendo le cartoline distribuite in un corner dove sono localizzati bicchieri e bottiglie. Ha visto invece la cartolina con la citazione di Jarmush -Qui c’è acqua, quando al sud ci sarà la siccità qui tutto splenderà di nuovo - e ha pensato che fosse utilizzata per magnificare l’attività svolta da Publiacqua al fine di evitare che la siccità del 2017 producesse danni e disservizi nei nostri territori, irridendone altri. A riguardo evidenzio che le cartoline sono state realizzate ormai da anni e che erano in distribuzione anche durante l’arena estiva alla Galleria degli Uffici, quindi in pieno rischio siccità, nel momento in cui dichiaravamo la possibilità che in aree importanti del nostro territorio fosse attivato il razionamento e la turnazione del servizio. Inoltre, avendo la campagna il doppio logo (Spazio Alfieri e Publiacqua), è evidente che non è pubblicità del gestore del servizio idrico. Pulsioni separatiste? Se non fosse una citazione (ben evidenziata tra l’altro) potrebbero darsi dei dubbi. Analogamente potrebbero esserci dubbi se l’Autore citato avesse manifestato pensieri in tale direzione. Jarmush nelle vesti di agitatore contro un eventuale sud? Il luogo stesso dove viene svolta la pubblicità ha inoltre importanza: non mi sembra che lo Spazio Alfieri sia un circolo di simpatizzanti del Klu Klux Klan (per richiamare il vostro articolo). La scarsità d’acqua - in particolare modo nei pe-
riodi siccitosi – è un problema comune a diversi territori, anche a noi limitrofi, per risolvere il quale – mi permetta un po’ di marketing - Publiacqua sta portando avanti un rilevante piano di investimenti. Bilancino, il lago citato nell’articolo, assicura infatti un’importante capacità di invaso, ma in assenza di interconnessioni tra l’impianto di potabilizzazione dell’Anconella (che potabilizza la risorsa che da Bilancino viene immessa in Arno) e i territori a tradizionale scarsità acqua, come il Chianti, l’acqua invasata nel lago sarebbe inutile: non vorrei che chi ha scritto l’articolo si interessi solo della città di Firenze, ignaro di quello che accade nei territori limitrofi. Purtroppo i prolungati e frequenti periodi di assenza di precipitazioni che si stanno succedendo evidenziano chiaramente la fragilità dei territori e la necessità di investimenti per garantire il corretto approvvigionamento idrico. Non è una questione di sud o nord Italia (basti pensare alla ricorrenti problematiche che il Po in secca determina, ma anche alla necessità che tuttora abbiamo di rifornire con autobotti importanti località del nostro territorio) ma una questione che trasversalmente interessa il nostro paese (e non solo) e che lo interesserà sempre più se le previsioni di cambiamento climatico sono corrette. Per questo motivo la frase tratta dal film Jarmush è fortemente evocativa e credo che bene richiami l’attenzione sul valore della risorsa idrica: contrappone, a un luogo caratterizzato da prolungata scarsità di precipitazioni (questo il significato di siccità), un luogo dove l’abbondanza d’acqua garantisce la vita. Questo erano gli obbiettivi che avevo anni fa avviando l’iniziativa di distribuzione dell’acqua allo Spazio Alfieri: porre l’accento sul valore della risorsa e promuovere l’utilizzo dell’acqua del rubinetto. Cordiali saluti Matteo Colombi (Responsabile Regolazione, Comunicazione e Relazioni Esterne Publiacqua) Caro Colombi, prendo atto della sua risposta e del chiarimento che ha voluto dare ai nostri lettori. Credo che si sia trattato di un equivoco, spiacevole ma del tutto involontario da parte dell’autore dell’articolo e della rivista. Era un pezzo satirico, come è nello spirito di quella pagina nella quale scrivono i cd. “parenti” (Sorelle Marx, Cugini Engels, ecc.) che certamente non rispecchiano seriamente il marxismo, così come la firma di parenti del Ku Kux Klan non significava certo voler attribuire all’iniziativa di Publiacqua o dello Spazio Alfieri pulsioni razziste. La satira tende, per sua natura, a forzare, sottolineare, irridere alcuni fatti o parole. Qui, certamente fraintendendo, volevano evidenziare un (apparente) contrasto fra le parole di Jarmush e la situazione idrica italiana. Ma comprendo che invece si è inteso e si poteva intendere di attribuire a Publiacqua pulsioni separatiste. Me ne dispiace e mi scuso per questo. Anche perché nessuno di noi ha mai dubitato, neppure per un momento, che sia intento di Publiacqua e Spazio Alfieri valorizzare la risorsa idrica di qualità. Spero che con questo si sia chiarito l’equivoco e si sia... gettata un po’ di acqua sul fuoco. Cordiali saluti Simone Siliani
Lo Zio di Trotzky
“Nanni” Renzi
Renzi giramondo: come Nanni Moretti sta girando un documentario, un remake di “Caro Diario”. Vaga felice e giulivo per la sua città e gode nel vederla piena di cantieri, così ci informa su Instagram: “Sto girando molto per la mia città e la vedo piena di cantieri. Per muoversi il vecchio motorino (o la bici) è spesso l’unica salvezza. Ma gli investimenti fatti sulle tramvie e sulle infrastrutture che abbiamo finanziato anche nel Patto per Firenze sono rivoluzionari. Me lo dicevo tra me e me, anche stamani, nel traffico”. Il commento iniziale continuava così: “Se prendo quel grullo di Dario, gli dò una pacchina che lo spettino e gli tiro le orecchie a sventola che c’ha: oggi ho preso più buche che corna in un cesto di lumache. Proprio non capisce un tubo: doveva fare come ho fatto io... cioè... nulla. Tutto fermo, zero cantieri, zero rompimenti di scatole! E poi basta attestarsi le opere fatte dagli altri, come quel bischero di Domenici per la tramvia, e il gioco è bell’e fatto!” Poi il suo addetto stampa, il redivivo Marco Agnoletti gli ha consigliato un tono un po’ più diplomatico e il commento è stato trasformato in “Lasciatemi dire bravo al Sindaco Nardella e alla sua squadra: nel 2018 arriveranno i primi risultati.” Però la stoccatina finale non ha potuto evitarla: “Intanto noi fiorentini andiamo a zigzag tra i cantieri. Ma il gioco vale la candela, parola di ex sindaco.”, che pare fosse in origine invece “...e io qui un moccolo ce lo schiaccio proprio: porc...
7 7 OTTOBRE 2017
di Laura Monaldi Il “Teatro delle Orge e dei Misteri” è per Nitsch il luogo di un comune sentire in cui vivere l’alterità e cogliere i frutti catartici del rito collettivo; un’esaltata estasi sessuale/sensuale che porta alla perdita di sé, in nome di un mito e di un personaggio in grado di incarnare la psiche umana nella sua totalità; un teatro che conduce inesorabilmente all’illuminazione e all’«avvenimento dell’essere», alla «festa della vita». Creatività e Vita si uniscono in una sintesi unica e in una fusione delle diverse arti che fa dell’evento un momento sinestetico di Arte Totale. L’attività artistica di Hermann Nitsch si qualifica come un’Arte totale tesa a profanare il linguaggio e la parola, ormai del tutto prive della propria consistenza comunicativa ed espressiva, per giungere a una piena aderenza dell’universo oltre il reale. Ciò che l’apparenza linguistica nasconde è un’autenticità che va vissuta con una maggiore sensibilità e una maggiore presa di coscienza. Il tramonto heideggeriano del linguaggio può essere colto solo attraverso l’esaltazione delle contraddizioni, il ritorno a un’istintività primordiale, capace di redimere e purificare l’individuo moderno. Nel “Teatro delle Orge e dei Misteri” il logos esce di scena per far spazio alla presenza vitalistica dei sensi, portati alle estreme conseguenze da un connubio di musica, pittura e performance: l’ordine cede il posto al caos, l’apollineo al dionisiaco, la bellezza mediatica alla sublimità oscura. Attraverso le partiture di un teatro denso di citazioni filosofiche e teologiche, Hermann Nitsch uccide la ratio e la possibilità espressiva contemporanea, con l’intento di mettere in luce il senso di rinascita spirituale che emerge dalla distruzione fisica della carne. Leggere Nitsch significa interfacciarsi con un universo unico e totale, con un connubio di cultura e scienza, con l’apogeo della storia dell’uomo che nell’azione estetica trova concretezza e dimostrazione, in virtù della sua personale ricerca volta a ristabilire, attraverso l’arte, lo stretto legame con lo stato di natura dell’umanità: solo regredendo a tale stadio e colpendo il subconscio degli attori si verifica la catarsi e la presa di coscienza che il linguaggio ha perso qualsiasi valore e qualsiasi funzione. Per riuscire a vedere nuovamente Dio e percepire la sacralità nella vita, l’uomo deve immergersi nella propria crudeltà artificiosamente ricreata e da quella rinascere, come essere intellegibile con un valore aggiunto rispetto alla massa. Dopo ben quattro mesi, con le opere provenienti dalla collezione Carlo Palli, la retrospettiva di Nitsch a Prato – presso la Limonaia dell’ex Convento dei Padri Cappiccini - chiuderà il 15 ottobre con un finissage d’eccezione alla presenza del Maestro in persona.
8 7 OTTOBRE 2017
La fine delle orge e dei misteri
Hermann Nitsch
Musica
Maestro
Ai confini dell’Europa
di Alessandro Michelucci Bagad è il termine bretone che indica una piccola orchestra composta da cornamusa scozzese, percussioni e bombarda. Quest’ultima è uno strumento musicale a fiato ad ancia doppia che appartiene alla famiglia degli oboi. La musica bretone utilizza regolarmente questa formazione, sia nelle espressioni della tradizione più ortodossa che in quelle moderne orientate verso la contaminazione. Fra gli artisti del secondo gruppo si segnala Youn Kamm, originario di Lorient (in bretone An Oriant), una cittadina portuale della Bretagna occidentale. Si tratta di una località molto importante per la cultura celtica: qui si tiene ogni anno il Festival interceltique, una grande manifestazione musicale alla quale partecipano artisti provenienti da tutte le regioni di cultura celtica (Galles, isola di Man, Scozia, etc.). Kamm è un polistrumentista: suona la tromba, il flauto e la bombarda. Inoltre canta. Per molti anni ha suonato nelle tradizionali feste serali bretoni (fest-noz). Al tempo stesso ha collaborato con Ibrahim Maalouf
ed Erik Marchand. Negli ultimi anni il musicista ha deciso di formare il proprio gruppo e realizzare un CD come titolare, Youn Kamm et le Bagad du Bout Monde. Questa “orchestra dei confini del mondo”, che si aggiunge al suo gruppo, è un ensemble tradizionale di undici elementi (otto bombarde e tre cornamuse scozzesi). Kamm è affiancato da Morwenn Le Normand, che canta in bretone; Yann Ar Gall, chitarra elettrica; Olier Guenego alle tastiere; Etienne Callac, basso; completa il gruppo Yvon Molard, batteria e percussioni. Il disco fonde rock e musica tradizionale con ottimi risultati. In brani come “Ar vosenn” e la rockeggiante “Din vinourez” bombarda, cornamusa e percussioni creano pieni strumentali di grande efficacia. La bella “Kalon skorn” è uno dei vertici del disco, col fraseggio ammaliante della tromba e la voce di Morwenn Le Normand in primo piano. “Ne ouelit kat”, composta dal percussionista iraniano Bijan Chemirani, parte in sordina e poi si fa ritmata, con la
voce in evidenza. La collaborazione con Chemirani non è casuale, ma conferma gli stretti legami fra i musicisti bretoni e quelli extraeuropei. Nella splendida Symphonie celtique (Dreyfus, 1980) di Alan Stivell compare il sitar dell’indiano Narendra Bataju; Erik Truffaz ha collaborato con Murcof, figura centrale dell’avanguardia messicana (Mexico, EMI, 2008); la pianista giapponese Ryoko Nuruki ha espresso il proprio amore per la Bretagna con Le voyage en Bretagne (L’Oz production, 2015). Ma torniamo a Youn Kamm, che dopo il CD suddetto ne ha già realizzato un altro, Son’Rod, in uscita il 10 novembre. Qui la formazione è diversa: accanto a Kamm ci sono tre validi strumentisti bretoni (Timothée Le Bour, Yann Le Corre e Jérôme Kerihuel). Sax, fisarmonica, tromba e percussioni in un lavoro stimolante e maturo. Ma ne riparleremo.
Segnali di fumo
la bici. Il fatto è che nelle nostre città gli spostamenti su due ruote sono a rischio e quelli sui bus sono a passo di lumaca: vanno piano ma non lontano. Impiegano mediamente più di un’ora per compiere 5 chilometri. Il doppio del tempo rispetto a Parigi, Madrid, Berlino o Londra. Risultato: mentre lì il 51% degli spostamenti avvengono su mezzi collettivi, noi ci fermiamo ad un modesto 30%. Tradotto, ci salgono solo coloro che non hanno alternative. L’auto continua ad essere il mezzo preferito dagli italiani e in costante crescita, tanto che più di 2 spostamenti su 3 viaggia sulle 4 ruote. Le conseguenze sono arcinote: città super-congestionate con alti livelli di inquinamento. Ci vuole poco a capire che questo andazzo non potrà durare a lungo. Volendo le cose potrebbero cambiare nel giro di tre-cinque anni. Ce lo dice uno studio realizzato da The European House-Ambrosetti, che ha elaborato un indice di mobilità per misurare lo stato di salute dei trasporti nelle 14 città metropolitane, dove vivono 22 milioni di persone. Ri-
sultato: Milano con un indice di mobilità collettiva del 48% è al primo posto di questa classifica (Firenze è sesta), ma risulta ben 22 punti sotto Parigi e 5 dopo Londra. Lì il trasporto pubblico è efficiente e produce reddito e profitti, mentre da noi i ricavi di bus e treni coprono appena il 26% dei costi. Tutto il resto è coperto dai contributi pubblici da parte dello Stato, Regioni e Comuni. In pratica noi sborsiamo contributi per 2,4 euro a chilometro mentre nel Regno Unito bastano 0,8 euro, in Germania 0,9, in Spagna 1,7 e in Francia 2,2 euro. Ahimè, da noi il trasporto pubblico funziona peggio e ci costa di più. Abbiamo i bus più vecchi d’Europa, un terzo di tram e metropolitane della Spagna, metà della Germania. Se l’Italia riuscisse ad avere trasporti urbani più efficienti, in modo da dimezzare i tempi di spostamento, in linea con quelli delle altre città europee, risparmierebbe (solo nelle 14 Città metropolitane) 12 miliardi all’anno. Un miliardo al mese val bene una rivoluzione.
di Remo Fattorini Insisto. Rispetto alla mobilità urbana non servono piccoli accorgimenti o aggiustamenti in corso d’opera. Serve una vera e propria rivoluzione. Mentre la domanda di mobilità è in forte crescita e interessa ogni giorno più di 8 italiani su dieci, di fatto i tempi di percorrenza dei mezzi pubblici si allungano a causa della congestione del traffico. Non è un caso se dal 2001 ad oggi l’uso del mezzo privato è cresciuto dell’8% mentre quello dei mezzi green è calato del 15%. Nel 2016 solo un terzo degli italiani ha usato il bus o
9 7 OTTOBRE 2017
Stefano Giovannelli, nato a Pistoia nel 1954, ingegnere elettronico, ha lavorato per 27 anni per le Nazioni Unite ed ha conosciuto molti paesi in Asia, Africa e Medio-Oriente. Dal 2009 al 2015 è stato Direttore dell’Agenzia di Promozione Economica della Toscana. Ha insegnato il corso di “Organizzazioni Internazionali” all’Università di Ferrara ed ha pubblicato per la Franco Angeli il libro “Nazioni Unite e Sviluppo Industriale”. Ha sempre coltivato la passione per la narrativa ed ha recentemente pubblicato per Maschietto il romanzo “Il nuovo fiore”. di Stefano Giovannelli La lettera era arrivata quella mattina. L’aveva subito riconosciuta, nel mucchio della corrispondenza e ne aveva intuito il significato prima ancora di aprirla. Adesso era lì davanti a lui anche se la sua mente si rifiutava di leggerla, di interpretare quella scrittura fiammeggiante, così familiare. Il suo sguardo seguiva soltanto il segno delle parole sulla carta, un geroglifico di tracce, sforzandosi di trovarvi una trama oppure un disegno. Non riusciva a convincersi che Cristina se ne fosse andata per sempre, che avesse deciso di dirglielo così, con una lettera che profumava vagamente di violetta. La sua mente si rifiutava di pensare, rifugiandosi in un limbo solitario e silenzioso, lasciando che le immagini intorno a lui si sfuocassero, si confondessero come in un caleidoscopio, si smarrissero nelle acque grigiastre di quel mattino. Restò seduto nello studio ed i minuti passavano, come sempre, con il loro ritmo immutabile, un filarsi di bava opalescente, scorrevano nell’alternarsi di luce ed ombre del mattino, si rincorrevano tra le quinte infinite del tempo, un tempo d’improvviso sconosciuto, chiaro e scuro, lontano e vicino, e solitario. Il tempo era in quella stanza ed era fuori da quella stanza, si stendeva sulla distesa di tetti e di cose inanimate, sull’allungarsi della città in una prospettiva che l’acqua di quel Novembre aveva intristito, e più in là sul caliginare lontano delle campagne. E lui sentiva quella tristezza impadronirsi di lui, una tristezza imprescindibile, ne avvertiva il languore, sull’orlo nascosto della disperazione. Lasciò vagare lo sguardo intorno sé. Dall’ingresso il vecchio specchio gli restituì l’immagine argentata di sé stesso, una figura abbandonata, invecchiata, il suo corpo nello spazio della casa, niente di più che un vestito usato addosso ad un manichino, indifeso ed incolpevole, mentre il suo io cercava una via di fuga, nei mille interstizi della realtà, cercava una barriera dietro la quale nascondere i suoi pensieri. E la pioggia sembrava sparpagliare quei pensieri, insinuan-
10 7 OTTOBRE 2017
Il racconto
Una lettera
dosi tra l’uno e l’altro, incidendo il tempo col suo bisturi ritmato, facendone coriandoli, tasselli fatiscenti di un mosaico ormai perduto, ogni tassello un ricordo, un gesto, un’emozione. Non avrebbe mai immaginato che sarebbe successo, nemmeno il giorno prima, quando l’aveva accompagnata al suo treno per Milano. Avevano passato il fine settimana insieme, come al solito, e non era stato un fine settimana bellissimo. Lei era stanca e lui distratto. Come al solito. Risentiva la sua strana voce, a volte sottile, sempre sul punto di incrinarsi, e a volte un po’ roca, da bambina appena sveglia che seguiva il corso indeciso dei suoi pensieri, e ricordava la nebbia evanescente dei suoi occhi. Avevano discusso, di piccole cose insignificanti e lei non era voluta uscire con i soliti amici il sabato sera. Alla stazione, la domenica sera, c’era un’aria gelida ed il suo saluto era stato frettoloso, appena uno sfiorare delle labbra sulla guancia. Lui l’aveva vista allontanarsi, scuotendo i capelli, alternando al camminare brevi passi di corsa. Si era voltata prima di salire e gli aveva fatto un gesto di saluto. Ora sapeva che quello era stato il suo ultimo saluto. Ricordava che in quel saluto, in quel suo indugiare un attimo prima di salire gli scalini del treno aveva provato una pena improvvisa, e insieme la voglia di dirle che le voleva bene, di colmare quella distanza tra di loro e nella luce cupa della sera, nel vortice della gente anonima che arrivava e partiva intorno a lui, si era sentito smarrito. E tuttavia non poteva darsi pace che proprio in quel momento, quella lettera di addio fosse stata già in viaggio, che la parola fine della loro storia fosse stata già scritta e che se anche avesse vinto la propria reticenza, se fosse corso da lei come voleva fare, niente sarebbe cambiato. Si forzò a concentrarsi sulla lettera, a decifrarne il senso, ed in quella scrittura nervosa e disperata lesse la sua sofferenza di donna, la sua fragilità e le sue lacrime, e soprattutto vide, messi a nudo, i propri errori, l’egoismo e la presunzione. Capiva, forse per la prima volta, l’immensità della solitudine in cui lei aveva vissuto il loro legame, e se ne vergognò. Lei era stata lo specchio in cui si erano riflesse le sue follie, il suo bisogno di essere grandioso, eroico e romantico, era stata per tutti quegli anni il suo pubblico attento e disponibile, il pubblico che poteva far ridere o far piangere a suo piacimento ma che lui aveva considerato soltanto un accessorio della sua recita.
Si erano conosciuti al mare, a casa di un amico comune in una delle feste sulla spiaggia con la solita rumorosa compagnia del mare, tutti vecchi amici di una vita, un’estate dopo l’altra. Cristina era una delle poche facce nuove e lo aveva subito intrigato il suo apparente distacco dall’allegria generale. Ricordava i suoi occhi quando li avevano presentati, sembrava spaventata, e quella sua strana voce. La festa si era via via spenta ma loro due erano rimasti a parlare fino all’alba, una cortina nebbiosa che il primo sole aveva acceso piano piano. La loro storia era nata lì, nell’incanto di quel mattino tra le cabine chiuse e deserte, aveva l’odore del salmastro e la sensazione del legno sotto i loro piedi scalzi, aveva il filo rosso della sua collanina di corallo ed i movimenti incerti, imbarazzati, delle sue bellissime mani, aveva i contorni del suo sbadiglio e del suo timido saluto quando l’aveva riaccompagnata a casa. Gli restava il brivido di quel suo sorriso pallido, evanescente, e della sua voce soffocata nella risacca. Non aveva capito quello che gli aveva detto ma aveva capito l’acquietarsi di una vecchia tempesta nel verde screziato dei suoi occhi ed il lento fiorire di una inaspettata felicità. E c’erano stati i giorni dell’oro, del lento affidarsi l’uno all’altra, delle inattese complicità, delle facili promesse e delle intese improvvise, e infine i baci, pudici, infiniti, dolcissimi. E c’erano state mille follie, emozioni e naufragi colossali, si erano inventati giorno dopo giorno e riconosciuti fantastici seduttori ed amanti, e grandi attori. Ma c’erano stati anche i giorni bui della consuetudine, delle parole che la facevano soffrire, delle delusioni silenziose, dell’asciutta levigatezza del suo cercarlo e respingerlo insieme. E anche quei giorni gli sembravano adesso preziosi, aveva nostalgia dello strusciare pigro delle abitudini, dei suoi gesti consueti, avrebbe voluto richiamarli uno ad uno ed aggiustarli, spogliarli delle sue paure e colorarli di emozione, ma sapeva che non avrebbe potuto farlo, che era troppo tardi ormai. Scostò la lettera di lato e la busta cadde per terra. Si alzò, incerto se raccattarla, e si avvicinò alla finestra. Aveva smesso di piovere ma il cielo prometteva altra pioggia. Le strade, sotto di lui tagliavano la città, segnavano il tappeto rosso dei tetti con dei solchi scuri. Niente era cambiato, c’erano i vasi di fiori secchi sul terrazzino di fronte, i panni stesi tra due finestre, un cane abbaiava ai mille fantasmi dell’inverno e la pendola seguiva l’eco del giorno. C’era solo l’inutilità dei suoi rimpianti, l’improvviso pallore della solitudine ed il suo pianto silenzioso, e sul tavolo quella lettera dal profumo delicato di violetta, il solco preciso di un amore finito.
di Marinagela Arnavas Comincia con una lunga sequenza il film di Sofia Coppola, “L’inganno”, premiato a Cannes per la miglior regia, in cui una ragazzini magra e apparentemente fragile, con le trecce sottili, un lungo grembiule a quadretti e un cestino appeso al braccio raccoglie funghi in un bosco di alberi secolari, a tratti velato dalla nebbia, fino ad imbattersi in un soldato yankee ferito ad una gamba; la guerra di Secessione è in corso e la fragile ragazzina soccorre e trasporta a spalle l’uomo fino alla casa dove vive con un piccolo gruppo di altre ragazze, sotto la guida di una direttrice insegnante. La superba fotografia di Philippe de Sourd evidenzia fin da subito un cardine del film ovvero il contrasto tra la realtà e l’apparenza: il gruppo di donne rimaste isolate all’interno di un’abitazione aristocratica in uno stile neoclassico quasi astratto, in mezzo ad una guerra che non si vede ma si ascolta attraverso i rumori dei cannoni che arrivano dall’esterno pesanti e ovattati, accoglierà il soldato nemico e disertore, salvandolo ma, al contempo chiudendolo come in un bozzolo all’interno della casa. Si tratta di un piccolo gruppo di giovani donne d’età diversa rimaste isolate nel Sud del paese con un’unica insegnante, Martha ovvero Nicole Kidman, dopo la fuga dalla guerra di tutti gli altri, insegnanti e schiavi. Sono all’apparenza caste e così misurate nelle parole e nei movimenti da sembrare quasi astratte; trascorrono il tempo cucendo e studiando il francese, indossano impeccabili abiti dai colori chiari di giorno e raffinate toelette da sera nelle cene a lume di candela ma riveleranno, a contatto con il corpo del giovane soldato la loro passionalità repressa e una determinazione quasi spietata a mantenere la propria integrità, una forza granitica rispetto alla quale il muscoloso sergente, in arte Colin Farrel, finisce per apparire un fragile fantoccio. Il puntiglioso recupero dell’originalità degli abiti e delle musiche suonate dalle giovani studentesse contribuisce sensibilmente alla raffinatezza stilistica della narrazione. L’orchestrazione della vicenda è perfetta; un crescendo viscerale e sotterraneo che intreccia amore e morte come in ogni melò che si rispetti, con una sottile ironia che percorre tutta la narrazione e tocca uno dei suoi punti più alti quando Martha, sempre impeccabile, avendo deciso di amputare la gamba del soldato, chiede cortesemente una sega, un po’ di cloroformio e un manuale di anatomia. Martha, l’algida Kidman, è, del resto, una perfetta leader; ad ogni decisione da prendere circa la sorte del Caporale Mc Burney, peraltro rozzo e ingenuamente opportunista, simu-
Fatevi ingannare da Sofia
la ogni volta di tener conto del parere delle altre, in realtà conducendole con mano ferma al finale, non senza mancare di sorvegliare implacabile l’accuratezza dei punti sul sudario. Una ferrea leadership che insieme all’apparente, perfetto candore delle più giovani del gruppo sfata il luogo comune delle donne che si dividono per compiacere il maschio, anche se l’atmosfera rarefatta e il ritmo implacabile
Nel migliore dei Lidi possibili
con cui è scandito il loro inesorabile avvicinamento al corpo del soldato le fa apparire più figure mitiche che vere ragazze. Una spietata critica all’ipocrisia religiosa e alla connessa repressione sessuale trova il suo culmine nella preghiera di ringraziamento prima dell’ultima cena e il desiderio femminile timido e oltraggiato, audace e vendicativo fa da protagonista ad un film decisamente da vedere.
disegno di Lido Contemori
didascalia di Aldo Frangioni
Adelante, Puigdemont, si puedes con juicio
11 7 OTTOBRE 2017
di Danilo Cecchi Se è vero che quasi tutte le correnti delle avanguardie artistiche del Novecento (dal dadaismo al futurismo, dal cubismo al costruttivismo, e così via) hanno avuto dei rapporti con la fotografia, è anche vero che questi rapporti sono stati spesso superficiali e di breve durata. Questo si deve sia al rapido esaurirsi delle stesse avanguardie, sia alla mancanza da parte dei fotografi di una maturazione di quei fondamenti ideali ed estetici posti alla base dei diversi movimenti artistici, con la realizzazione, in molti casi, di immagini fotografiche che si limitano a scimmiottare ed a fare il verso alle opere pittoriche, imitandone gli aspetti esteriori ma non lo spirito innovativo. L’unico esempio di un rapporto profondo e duraturo fra un movimento artistico e letterario e la fotografia è il surrealismo. Già André Breton proclamava a proposito della fotografia che “Non bisogna praticare un’arte di imitazione dell’oggetto, ma creare un mondo nuovo istituendo fra gli elementi rappresentati un nuovo ordine. Questa è la strada per dare allo spirito il suo slancio”. Tuttavia lasciava ai fotografi, come agli altri artisti, ampi spazi di espressione. Fino dalla fondazione del movimento surrealista i fotografi (Man Ray per primo) sono presenti ed attivi, fino dal suo primo numero “La Révolution Surréaliste” pubblica, a corredo dei testi, una selezione di immagini fotografiche, e lo stesso Breton impiega delle immagini fotografiche inserite nei suoi romanzi, anche se è sottinteso che le immagini hanno una funzione “secondaria” rispetto al testo. Nonostante questa iniziale limitazione concettuale, ben presto superata, la fotografia si presta benissimo ad incarnare lo spirito del surrealismo, cosa che non ha ancora smesso di fare, ad oltre novant’anni dalla nascita del movimento, ed una volta definitivamente esaurita la sua spinta innovativa nei campi della letteratura e delle arti figurative tradizionali. I motivi di questo felice e fecondo connubio fra surrealismo e fotografia sono molti e molto diversi. Fino dall’inizio i surrealisti, affascinati dall’idea delle immagini prodotte in qualche modo “automaticamente”, hanno fatto una distinzione fra le immagini “fatte di sola luce”, senza l’ausilio della fotocamera, come le famose “shadografie” ed i “rayogrammi”, esperienze ben presto archiviate, e le immagini “fatte con la macchina”, sia quelle manipolate in camera oscura, come le “solarizzazioni”, le bruciature e le deformazioni, con un occhio particolare per i fotomontaggi e le doppie esposizioni, e le immagini “dirette”, non manipolate ma colte direttamente dalla realtà, e che mostrano una realtà “diversa”. Nonostante siano numerosi i
12 7 OTTOBRE 2017
Fotografia e surrealismo fotografi che nel periodo d’oro del surrealismo, fra il 1925 ed il 1940, gravitano attorno al movimento, sperimentando tecniche e metodi fra i più diversi, e realizzando opere estremamente diverse per taglio e poetica, anche di tipo commerciale, i motivi profondi del successo della fotografia surrealista, ancora validi oggi, possono essere facilmente riassunti. La fotografia rappresenta una sorta di specchio della realtà, ambiguo come tutti gli specchi, e capace di deformazioni come quasi tutti gli specchi, e si dimostra capace di dare della realtà una visione “capovolta”, nel più puro stile surrealista. Tuttavia, rendendo affascinante ciò che è orribile, piccolo ciò che è grande, vicino ciò che è lontano, o viceversa, la fotografia, con la sua presunta
“oggettività”, rende “credibile” questo capovolgimento della realtà, ovvero della sua percezione, aprendo nuove strade interpretative del reale. Inoltre la fotografia è un “ritaglio” dello spazio, che toglie l’oggetto, la persona o l’azione, dal suo contesto, sottraendogli ogni significato “oggettivo” e facendogli assumere qualsiasi altro tipo di significato. Ma è anche un “ritaglio” del tempo, capace di bloccare i movimenti e le espressioni in posizioni innaturali ed anomale, aprendo anche qui un intero ventaglio di possibili diversi significati. Anche senza ricorrere al moderno “ritocco” o fotomontaggio digitale, che partendo da dei dati reali, offre delle immagini del tutto “surreali”. Ma questo è un altro capitolo di una lunga storia.
di Aldo Frangioni Fabrizio Pettinelli è stato per decenni un caposaldo della azienda di trasporto fiorentina. La sua sconfinata conoscenza delle caratteristiche della città ne hanno fatto sempre un punto di riferimento per coloro che hanno governato, non solo l’azienda, ma anche il comune di Firenze e gli altri comuni serviti da Ataf. Fabrizio conosce tutti i dettagli della toponomastica provinciale, il cambiare dei nomi nei vari momenti storici di strade e piazze e gli avvenimenti che, nei secoli, son lì accaduti. Quarantasei anni di lavoro svolto sempre con grande passione oggi gli permettono di scrivere montagne di conoscenze e ricordi, infatti, ha già pubblicato “Firenze in tranvai” nel 2007 e il saggio all’interno del volume “Il nuovo tram di Firenze” nel 2016. Le sue fonti dalle quali vengono tratte le informazioni di questa “Una fermata tira l’altra, una storia tira l’altra” sono le letture storiche, come memorie raccolte da un autista, da un amico o sentite narrare. Nel libro scritto insieme a Luca Giannelli, che ha svolto un’accurata ricerca iconografica, ci viene raccontato cosa è successo ad una curva, in un angolo buio, dentro un palazzo dando la stessa importanza all’atto di un imperatore o di un barrocciaio. Così si svolge questa originale e curiosa guida della città, seguendo il metodo originale di raccontare la storia, o meglio, le storie di Firenze prendendo come linea guida le fermate,
di Sergio Favilli In barba a tutti i nomignoli che gli sono stati affibbiati, Matteo Renzi è salito in cattedra presso la succursale fiorentina della Stanford University per tenere agli studenti americani, in un buon inglese, una sua prima lezione sull’Europa e sui riflessi della brexit. Alla precisa domanda di cosa pensasse degli inglesi che hanno scelto l’uscita dalla UE, con la solita schiettezza di sempre ha risposto che son stati dei coglioni, ma si è letteralmente inceppato nella traduzione della parola “coglioni” e per completare il concetto si è dovuto recare ad una improvvisata lavagna per sostituire la parola stessa con un approssimativo disegno: scarabocchia di qui, scarabocchia di là, è venuto fuori un accrocco che più che a due coglioni assomigliava , e non poco, ai baffi di Massimo D’Alema! Ilarità alle stelle! Saputa la notizia, l’On. Luigi Di Maio, premier in pectore del movimento grillonzo, ha allertato tutti i suoi
Da una fermata all’altra prima del tram, poi del filobus e dei bus e da pochi anni di nuovo della tranvia. E’ una guida contro la noia dell’attesa, ma soprattutto si tratta di una serie di chiaccherate fatte per sconfiggere la disattenzione mentre si percorrono strade e piazze. Gli autori ci invitano a girare Firenze con i mezzi pubblici, lasciando a casa l’auto e magari chiudendo il cellulare, strumento formidabile ma così estranianti dai luoghi che ci circondano e dalle persone che stanno intorno a noi, in gran parte sconosciute e quindi ancor più interessanti. Una guida, questa di Pettinelli & Giannelli, che va letta mentre si sta aspettando l’autobus o mentre si cammina per raggiungere la fermata. Per ognuna delle 100 fermate scelte si salta da un secolo ad un altro. Camminando lungo Borgo Pinti possiamo immaginare che quasi 1000 anni fa avremmo passeggiato nell’alveo del torrente Mugnone. La fermata del Palazzo dei Congressi è oggi coinvolta dai grandi lavori della nuova rete tranviaria, ma il 9 maggio del 1938 era zona proibita, irraggiungibile. Era il
giorno della visita di Hitler p. Quella visita, si legge nel libro, costò alla collettività 27.000 euro attuali al minuto! Alla fermata del 6 a Porta S.Frediano veniamo informati delle cinque fiere di quaresima, la quarta domenica, proprio nei pressi della nostra fermata si svolgeva quella detta dei “rifiniti”, con palese riferimento ai portafogli dei clienti, prosciugati nelle domeniche precedenti. Una testimonianza inedita, raccolta dagli autori, ci viene resa alla fermata dell’11 al Salviatino, dove fu fucilato Giovanni Gentile. Secondo Moreno Cipriani, l’esecuzione di Gentile non fu ordinata dal CNL o dagli inglesi ma fu una reazione spontanea dei GAP all’uccisione dei 5 giovani a Campo di Marte. Del gruppo che giustiziò il filosofo faceva parte anche Italo Menicalli non citato da nessun’altra parte. Questi alcuni esempi di un libro che ci invita a viaggiare sui mezzi pubblici con il solo interesse della curiosità, un viaggio storicamente sincronico, come se apparissero all’improvviso, nello stesso momento in quel luogo dove ci troviamo tutti i fantasmi dei protagonisti citati e i fatti che in quel posto sono avvenuti in secoli e secoli di genialità, di scontri cruenti, di disgrazie e di curiosi fatti della vita di ogni giorno. L’amore critico e senza troppe illusioni dei fiorentini per la propria città è lo stesso sentimento che ha ispirato il lavoro di Pettinelli e Giannelli.
più stretti collaboratori per organizzargli una Lectio Magistralis presso una qualsivoglia università, purchè di indiscusso prestigio. Bocconi, Normale di Pisa, Sapienza, MIT, Yale, un fragoroso silenzio, nessuna università ha raccolto la disponibilità del leader pentastellato. Dopo qualche attimo di sconforto, il valoroso parlamentare si è subito ripreso ed ha telefonato al preside del suo antico liceo: - sai mai- dice a se stesso - son diventato un personaggio non potrà dirmi di no – e prosegue – non sarà una università ma un liceo è pur sempre un liceo. Risultato? Nisba! Il preside si è fatto negare ed ha immediatamente inoltrato la domanda per cambiare nome alla sua scuola, troppo squalificante aver avuto un allievo come Giggino o’ Congiuntivo, la pubblicità negativa non ha mai pagato!! A fronte dell’accaduto, il valente
fanciullo si è abbandonato alla più distruttiva depressione, tre giorni senza mangiare, tre giorni senza parlare ( con gaudio della Casaleggio Ass.ti), tre giorni lontano dalle TV, insomma , una catastrofe di comunicazione negativa per tutto il movimento di cui, recentemente, è diventato i Capo Carismatico ed Ideologico. Furbo come una volpe, è subito intervenuto il buon Toninelli che dall’alto della sua lunga esperienza e dei suoi contatti personali ha finalmente risolto al Capo il problema della Lectio Magistralis : sarà tenuta presso la Scuola Materna “TopoGigio” di RoccaCannuccia, nota alle cronache per la sua didattica innovativa, unica condizione, Luigi Di Maio dovrà tenere la Lectio Magistralis vestito da Pinocchio, ma non è un problema, le balle sono il suo forte!!
Tutti in cattedra
13 7 OTTOBRE 2017
di Francesco Gurrieri Raramente capita di vedere una città, con i suoi maggiori istituti culturali, porre una comune attenzione per un architetto (vivente). L’evento di Modena è, in questo senso, una lezione di civiltà. Ben tre sedi pubbliche ospitano il vasto lavoro intellettuale di architetto, designer e artista, quale è stato Cesare Leonardi. Diciamo subito che non esiste nell’intero nostro paese uno studio di architettura che, insieme al Manuale dell’Architetto (promosso da Zevi) e il Neufert (“Progettare e Costruire”), non abbia anche il volume L’Architettura degli Alberi di Cesare Leonardi e Franca Stagi (in prima edizione nel 1982 con i tipi di Mazzotta). Già, Franca Stagi, presente in quel bellissimo “volume-manuale”, con un raffinato saggio dal titolo “La città, il verde, l’architettura degli alberi”; compagna di una vita nello studio, fors’anche essenziale in non poche elaborazioni creative, azzardiamo che, forse, avrebbe potuto avere qualche più avvertibiule spazio nella mostra e nel catalogo. Scriveva la Stagi, interpretando anche il pensiero di Leonardi: “Traditi dalla loro ‘immobilità’, dal loro essere fatalmente ancorati a un luogo, spesso riteniamo gli alberi “cose”, “oggetti-parasole” da usare, da modellare, da costringere in spazi angusti, da piegare alla nostra antropocentrica visione del mondo. Dimentichiamo che vivono accanto a noi su questo pianeta che è stato loro prima che nostro per decine di migliaia di anni, pianeta al quale “si aggrappano”, come dice Huxley, irriducibili e forti, capaci di rigenerarsi, di ricominciare daccapo foglia dopo foglia nonostante le devastazioni più crudeli. Ci dimentichiamo del loro respiro quotidiano, foglia a foglia finché dura il giorno, della loro esclusiva e straordinaria capacità di fare della luce cibo ed energia, del loro costante e vitale contributo alla vita del pianeta producendo ossigeno e provvedendo a tutti gli altri organismi”. La mostra modenese è accompagnata da un bellissimo catalogo – Cesare Leonardi / L’Architettura della vita – curato da Andrea Cavani e Giulio Orsini, edito da “lazy dog”: è il risultato di un lungo lavoro , paziente e qualificato dei due bravi collaboratori di Leonardi, e del paziente impegno archivistico di Francesco Samassa. Un analitico Regesto dei progetti di Jessica Pagani consente di ricostruire l’attività progettuale (Leonardi-Stagi) delle opere di architettura, arredamento, design; i primi arredi di Casa Bussoli a Vignola, il Complesso scolastico di Spilamberto, le Case Gescal di Campogalliano, il Centro Nuoto di
14 7 OTTOBRE 2017
Cesare Lombardi, l’architetto degli alberi
Vignola, il concorso per la Nuova Stazione di Bologna, il Parco della Resistenza a Modena, le Case Montanari, Vicini e Colombini; la Poltrona Guscio, la Sedia Emmenthal, lo Sgabello Zig Zag, le Lampade per Lumenform, i Contenitori componibili Metro. Più tardi, da quando si scioglie lo studio Leonardi-Stagi (1983), Leonardi porrà più sistematica attenzione alla fotografia: viaggia come fotografo free-lance in Unione Sovietica, pubblica il monumentale volume sul Duomo di Modena, il rilevamento dei mestieri artigiani del restauro. Dal 2002 al 2008 la fotografia, la scultura e la pittura diventeranno la sua principale, se non sostanziale, attività creativa.
Nel 2011 l’Archivio professionale di Leonardi viene notificato e dichiarato di “interesse pubblico” dalla Soprintendenza Archivistica dell’Emilia-Romagna. Leonardi si è laureato a Firenze. Ne ricordiamo i lunghi anni della sua tesi, alla fine degli anni Sessanta. Fra gli amici di facoltà correva una frase: “Hai più visto il Leonardi? No!, ma sarà dietro ai suoi alberi...”. Li rincorreva e li disegnava stagione per stagione. Ma ne valeva la pena. Così, oggi, gli siamo tutti grati: il suo libro sull’architettura degli alberi è un monumento culturale di cui, architetti, paesaggisti e ambientalisti non potrebbero più fare a meno.
Cesare Leonardi -Controsoffitto
SCavez zacollo
disegno di Massimo Cavezzali
di Claudio Cosma Questa immagine fa parte di una serie chiamata Mating Season, nasce come “performance” e di questa rimangono foto e video, oltre la possibilità di svolgere nuovamente l’azione in gallerie e musei. L’artista, che è anche il modello, si confronta con una serie di oggetti e con questi recita una azione tesa a sacralizzare le cose che tocca e al contempo a creare una corrente di scambio con la propria gestualità corporea. La sinuosità serpentina del giovane artista e la sua nitida perfezione, sollevano una riflessione di casto erotismo rimandando al titolo del lavoro, ma parimenti l’ambigua bellezza del modello, paragonabile a quella di un ermafrodito, contenente in se stesso il mistero dei due sessi, lo smontano o meglio non lo fanno neanche decollare. Una stagione degli amori che si concentra nella fase iniziale del corteggiamento senza culminare nella logica conclusione del concepimento. Un sesso senza sesso, un adornarsi della propria apollinea bellezza che tuttavia produce un vapore leggero, una nebbia impalpabile,
quasi un ectoplasma evocato dalla propria concentrata inazione, dal proprio sopito desiderio. L’attore tiene nelle mani, uniche a tradire il proprio sesso, tre cilindri di una pietra porosa, forse di quelle usate per la sauna, che scaldate fino all’incandescenza e successivamente bagnate emanano e sviluppano vapore acqueo per compiere la purificazione del corpo. La purificazione che si compie nel racconto descritto dalla fotografia non è naturalmente fisica, bensì spirituale, è un risveglio primaverile quasi floreale, uno scambio di respiri che si mescolano ai vapori delle pietre o forse provocato da un cambiamento di temperatura ve-
rificatosi nel luogo dell’azione, come succede con le nuvole quando incontrandosi in quota, provocano la pioggia. Un’estasi da semidio, quasi un martirio se si pensa alle pietre roventi fino ad emanare fumo e vapore, che non provocano nessuna sofferenza alle mani che le sostengono ed al corpo che le avvolge con grazie. Un San Sebastiano in dimestichevole confidenza con gli oggetti del proprio martirio, non fatti di dardi ma di meteore. Si offre in un rapporto subliminale fatto di mollezza, ritrosia ed abbandono. Ancora si lascia corteggiare in questa stagione dedicata agli amori, accendendo negli occhi dell’osservatore un desiderio destinato a rimanere inappagato come il veloce dissolversi della nebbia che si eleva come offerta votiva dalle mani raccolte a coppa, duplicandosi nella sembianza di scura ombra sul muro, ugualmente a come si delineano le curve del corpo che vanno a smaterializzarsi in una serie di grigi leggerissimi nella parte più lontana dalla luce. Inoltre i mattoni che sorregge hanno per l’autore anche un valore d’impegno sociale e di critica alla speculazione dei costruttori cinesi e li usa in azioni e “performance”, spesso abbracciandoli e spesso usando i fumi dell’incenso; con queste due componenti fisiche intendendo un doppio modo di produrre calore attraverso il contatto e attraverso la combustione dei bastoncini d’incenso. L’artista si chiama Han Bing, è cinese e vive e lavora a Pechino ed è nato nel 1986, Mating Season è un opera del 2010. Per finire, un’altra cosa legata piacevolmente a questa fotografia è la velocità con la quale l’ho avuta. Dopo averla vista esposta ad una mostra, mi sono messo in contatto con lui e mi sono inteso benissimo. In capo a tre giorni ricevevo da Pechino un cilindro di cartone contenente la foto arrotolata, con allegata lettera in cinese, che per mantenere l’aura della provenienza “da un altro mondo” non ho ancora fatto tradurre.
La stagione degli amori
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7 OTTOBRE 2017
di Simone Siliani Per tre serate, dall’11 al 13 ottobre, la piazza della Santissima Annunziata tornerà ad essere il palcoscenico di una grande macchina teatrale così come fu nei primi decenni del Quattrocento per ser Filippo Brunelleschi che inventò una vera e propria macchina scenica che ne dimostrava “l’ingegno e l’industria” nell’occasione della festa della Nunziata. Sarà Giancarlo Cauteruccio a rinnovare il genio di Brunelleschi architetto, proiettando sulla facciata dello Spedale degli Innocenti la rappresentazione scenica che Brunelleschi rappresentò “nella mezza palla tonda a uso di scodella vota”, con le moderne tecnologie del tempo. Se proprio si vuole celebrare il Rinascimento, fuori dalla trita retorica per turisti con cui si è soliti sparlare a Firenze, bisogna andare alle forme perfette dell’architettura che troviamo in questa piazza (e nel Palazzo Strozzi) e alle invenzioni tecniche e meravigliose di Filippo Brunelleschi. Giorgio Vasari, nelle sue “Vite dei più eccellenti pittori, scultori e architetti” ce ne fornisce il racconto certo nella vicenda (architettonica, non meno che storica e “sindacale”) della Cupola di S.Maria del Fiore, ma si sofferma con quasi altrettanta cura su questa invenzione alla Nunziata. L’ingegno della macchina concepita da Brunelleschi era tale che “si vedeva in alto un cielo pieno di figure vive moversi, et una infinità di lumi, quasi in un baleno scoprirsi e ricoprirsi”. Purtroppo, ci dice Vasari oggi non siamo più in grado di darne testimonianza precisa perché gli uomini che ne potevano parlare per esperienza vissuta sono spenti: l’Annunziata non è più abitata dai monaci di Camaldoli. Pur tuttavia, anche per analogia con altre opere sue, Vasari ne tenta una ricostruzione narrativa e ci spiega come era fatta questa mezza palla tonda (tavole sottili di legno conficcate in una stella di ferro che girava, retta da un grande anello di ferro, ecc. ecc.) e quale azione scenica vi si svolgeva: dodici fanciulli “vestiti da Angeli con ali dorate e capegli di mattasse d’oro, si pigliavano, quando era tempo, per mano l’un l’altro; e dimenando le braccia, pareva che ballassino”, e poi “lumi da terra che parevano stelle; e le mensole, essendo coperte di bambagia, parevano nuvole”. Ecco, Giancarlo Cauteruccio comprende, non da oggi, unico fra gli artisti d’oggi, che il genio del Rinascimento consiste nelle geometrie, nelle proporzioni, nelle simmetrie con cui Brunelleschi (e molti architetti e artisti a lui coevi) organizza lo spazio e vi costruisce una drammaturgia, una rappresentazione teatrale: realtà e immaginazione si catalizzano e si confondono, perché la vita, quella in cui si muovono le “figure vive”, è teatro. La tecnologia, quella più estrema e innovativa, è per Brunelleschi come per Cauteruccio
16 7 OTTOBRE 2017
una fonte a cui attingere a piene mani per costruire questa altra realtà che è il teatro, per materializzare l’immaginazione in corpi vivi e strutture materiali. Il progetto che andrà in scena in queste tre uniche serate è, dice Cauteruccio, un progetto di teatro-architettura, un linguaggio, una metodologia che ha caratterizzato l’esperienza pluridecennale del regista e di Krypton. Un progetto dedicato ai giovani, e non solo perché tutto il cast (danzatori, pattinatrici, tecnici, le Voci Bianche del Coro del Maggio) è formato da giovani, ma crediamo perché quel luogo, l’Annunziata, ha avuto nei secoli la funzione di tutela e promozione dei giovani. Ma, soprattutto, perché architettura e rappresentazione teatrale sono arti vive, per gli uomini e le donne di domani, non simulacri e stanche repliche di copioni polverosi. La testimonianza di questa passione per giovani e vita è confermata dalla lettera che Cauteruccio scrive a ser Filippo Brunelleschi che introduce e accompagna l’azione scenica e che è certamente un tributo con il quale il regista dichiara la sua dipendenza culturale dall’eredità brunelleschiana. Come ben si comprende dall’incipit: “1,2,3,4,5,6,7,8,9,10,11 – il numero 11 è il numero del Cortile delle Donne dello Spedale degli Innocenti – Caro ser Filippo, grande Maestro Brunelleschi, qui, in questa magica piazza, preso da una incontenibile commozione, sento risuonare le tue parole, ribollire i tuoi desideri, percepisco il tuo indelebile percorso, nella speranza di riuscire a darne una interpretazione percettiva nuova, amplificare quella voce che esso contiene. Ancora diciottenne, scelsi Firenze per i miei studi attratto dalle tue magnifiche opere. Proprio qui, di fronte alla tua fondamentale fabbrica, partecipai ad una lezione di storia dell’architettura tenuta dal professor Battisti, uno tuo grande studioso ed estimatore. Quel giorno, condotto dalla sapienza del professore, e trovandomi al cospetto di questa magnifica struttura, mi si aprì la mente, compresi che l’architettura non è sol-
tanto forma, ma è intrisa di parole, essa parla, ed esprime così le ragioni della sua bellezza...” Cauteruccio così propone un percorso che si svolgerà all’interno dello spettacolo, dalle figure vive, quelle che animano un grande momento brunelleschiano, quello dell’invenzione del Volo dell’Angelo. Brunelleschi nella chiesa di S.Felicita progettò questa macchina per far volare gli angeli, figure vive, nel soffitto della navata centrale. Una grande macchina teatrale che non poteva non affascinare un giovane teatrante, studioso di architettura: siamo all’origine della macchineria teatrale ed essa è al servizio dell’artista e scultore, riuscendo a portare verso il cielo i marmi trasformati in carne viva (i dodici putti, illustrati nel racconto del Vasari). Sulle orme di quella folle invenzione di macchineria teatrale, Cauteruccio – a 6 secoli di distanza – costruire la sua macchina teatrale, un mapping digital video di cinquanta metri di base che determinerà lo scenario di una architettura dinamica, di un palcoscenico urbano nel quale abiteranno i performer, operai delle geometrie, le pattinatrici, angeli in volo, e i giovani artisti, macchinisti costruttori di quella scenotecnica di cui Brunelleschi fu il primo sperimentatore. Brunelleschi torna ad accendere quella nuova luce che noi chiamiamo Rinascimento, ma di cui – nella sua trasformazione in una vuota crisalide commerciale per turisti globali – abbiamo smarrito la capacità di comprenderne il genio. Il teatro-architettura di Cauteruccio, invece, riesce a ricollocare al centro della scena (è il caso di dirlo) il protagonista di quel tempo nuovo, cioè l’organizzazione dello spazio e delle forme come grande scena (o scenografia) in cui si rappresentano certo i valori plastici che risorgevano dall’età classica, ma soprattutto le intuizioni, le invenzioni, le ossessioni, la determinazione che condussero i suoi interpreti alla “magica” creazione della bellezza, che risiede in una straordinaria sintesi tra Arte e Scienza, che è appunto il genio dell’Umanesimo.
L’ingegno e l’industria
di Cristina Pucci L’intrusa è un bel film, capace di proporre, in modo sensibile e realistico, un tema spinoso, i bambini delle famiglie colluse con camorra o mafia, il loro inevitabile appartenere ad un mondo malato da cui è difficile se non impossibile affrancarli. Ne è regista Leonardo Di Costanzo, documentarista soprattutto, ma autore di un’altra perla su questo tema “L’intervallo”, di 5 anni fa. In tutti e due i lavori c’è la scelta di un luogo altro, come fuori dalla quotidiana realtà che, anche grazie a questo, può assumere la funzione di spazio di parola, di attiva vicinanza e possibile comprensione. Là due ragazzi, appena adolescenti, costretti in un Manicomio abbandonato, lei la prigioniera, lui il sedicente e coatto guardiano che trovano i punti di sintonia delle loro età , nessuna speranza di cambiamento o riscatto sia chiaro, qui un gruppo di ragazzini accolti in un doposcuola, coordinato da una donna , Giovanna, asciutta, determinata ,accogliente e comprensiva. Uno spazio alternativo alla strada, non certo foriera di belle esperienze e messaggi positivi. I bambini dopo la scuola vi trascorrono il tempo costruendo un serpentone con la cartapesta ed un primordiale, enorme, robot con pezzi di biciclette, detto “Mister Jones”. Imparano anche a relazionarsi con un minimo di correttezza e forse, grazie a Giovanna che nutre fiducia nelle parole, a parlare per mediare i loro litigi. La Masseria, così si chiama, sta in una specie di cortile circondato da alti muri fra palazzoni degradati della periferia napoletana, nel mezzo c’è un casottino che ha intorno un campo, un pò coltivato. E’ qui che Giovanna ha ospitato, come altre volte, una persona in difficoltà, una giovane mamma con due figli, uno piccolissimo, però. ..I mondi pericolosi tali risultano, questa nasconde in quel minuscolo e quasi invivibile spazio il marito, pericoloso criminale, Boss di camorra ricercatissimo. Vengono scoperti, lui arrestato lei, portata via dalla Polizia, torna dopo poco in quella “casa”, rifiuta di seguire le donne della famiglia del marito che arrivano a bordo di un lucidissimo, enorme e sinistramente nero, fuoristrada. Sembra proprio che voglia restare lì. La sua bambina “tiene scuorno” e non vuole andare a scuola. Giovanna, nella sua essenziale capacità di capire, coglie il dramma della donna...chissà ha fatto un matrimonio “piccolo”, come si dice colà, giovanissima cioè, senza rendersi ben conto, ora forse vorrebbe
L’intrusa
proteggere i figli da quel mondo di violenze e illegalità. Sarebbe opportuno continuare ad accoglierla. Avvicina la bimba, il regista ce la mostra chinarsi e parlarle da pari altezza, cosa che spesso i grandi dimenticano di fare, e la include nel gruppo dei meccanici di Mister Jones. Però.....c’è sempre un però nella vita di tutti, tanti però nelle vite difficili. Insegnanti e Preside della scuola
che manda i bambini nel “laboratorio” e loro madri non appaiono per nulla disposti ad usare comprensione ed umana accoglienza verso la moglie di un Boss attore di pestaggi efferati e soprusi quotidiani, reo di avere ucciso, sbagliando obbiettivo, “un innocente”. Uccidere un colpevole sarebbe stato accettabile? Colpisce un’altra battuta, all’educatore che chiede ai ragazzi “voi state sempre dalla parte dei criminali?” “E’ logico” la risposta, agghiacciante nella sua immediata spontaneità. Maria, questo il nome della misera giovane, superba ed altezzosa nella sua enigmatica disperazione, intuito di essere d’ingombro, dal vuoto che si fa alla Masseria, se ne va insalutata ospite. Giovanna ha ragione, solo offrendole qualcosa si sarebbe potuto sperare di strappare il neonato dal segnato destino malavitoso. Impossibile certo in quel luogo semplice e senza mezzi. Difficile sempre intendiamoci, anche per quelle donne e madri che si pentono e vengono portate altrove, maledette dalle famiglie, piene sempre di paura, tormenti e solitudine.
di Valentino Moradei Gabbrielli
Architettura da nascondere Da molti anni assistiamo al rivestimento totale o parziale degli edifici architettonici appena progettati e costruiti. Si costruiscono edifici che già nella loro progettazione prevedono un rivestimento. Mascherati con pannelli in pietra e metallo, griglie colorate o effetti ottici. Una prassi utilizzata frequentemente, per nascondere temporaneamente, angoli e strutture già esistenti, fatiscenti o poco decorose. Questo mi fa pensare che si costruisce per costruire. Si progetta “brutto” perché comunque la struttura sarà mascherata. Senza preoccuparsi dell’impatto che l’edificio avrà agli occhi della comunità. Affidando a un successivo intervento di “make up” (comunque diventato parte integrante del progetto) la risoluzione estetica dell’intervento. La condizione che ne deriva, è una sensazione di provvisorietà. Di apparente indefinitezza, che contrasta con l’effettiva permanenza del
costruito, spesso in cemento armato con linee dure e forme pesanti. Una realtà scenica e scenografica che accompagna la nostra vita sempre più spettacolo e non “spettacolare”. Una realtà di cartone come i villaggi costruiti a Cinecittà. La differenza sta nel fatto che non saranno smontati dopo aver girato il film.
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17 7 OTTOBRE 2017
di Andrea Caneschi La lettura di un libro della Murgia (Michela Murgia, “Viaggio in Sardegna”, Einaudi) ci aveva suggerito di riempire una giornata di tempo ventoso, assolato ma troppo fresco per il mare, con una escursione in parti della Sardegna a noi poco note. Obiettivo il pozzo sacro di Santa Cristina, che nel libro la scrittrice rappresenta come il simbolo più forte di una religiosità potente ed oscura, antica di migliaia di anni, radicata nel popolo nuragico che per tutta l’età del bronzo aveva disseminato di segni sacri e misteriosi l’intera isola. Poco meno di un’ora di viaggio da Nuoro ci porta al complesso archeologico che ospita il pozzo, una ventina di chilometri prima di Oristano sulla Carlo Felice. Il sito è ben curato, circondato da un robusto muro a secco, costruito con l’abbondanza di pietre che tappezzano l’area. I resti più antichi rinvenuti sono rappresentati dalle poche rovine di un villaggio nuragico risalenti all’età del bronzo, tra il 1500 e il 1200 a.C.: in mezzo agli ulivi centenari si rintracciano sul terreno strutture rotondeggianti di grossi sassi accostati o sovrapposti, ultimi resti di primitive abitazioni costruite con le stesse pietre che adesso sostengono il muro perimetrale. Un tozzo nuraghe, decapitato dalla rapina di pietre, vigila sui resti delle capanne e su due curiose costruzioni, strette e allungate, erette con le lastre di basalto sottratte al nuraghe, ma con una modalità costruttiva che gli esperti ritengono molto più tarda, forse dell’epoca della dominazione Romana, delle quali peraltro la funzione appare oscura. L’oggetto di maggiore interesse è però il pozzo sacro, rinvenuto a poche centinaia di metri dai resti del villaggio, in un’area che gli studiosi hanno identificato come riservata alla sacralità dei riti religiosi. Il pozzo, datato intorno al mille a.C., affascina per il salto tecnologico che ci propone rispetto alla secca funzionalità delle pietre del nuraghe, appena sbozzate e sovrapposte, per l’accuratezza del taglio delle pietre, per la precisione dell’assemblaggio e per gli accertati rimandi ad una scienza astronomica strutturata, in grado di far combaciare in precise ricorrenze le acque del pozzo con la rotondità del disco lunare, proiettato in quelle attraverso la chiave di volta della copertura che le sovrasta. La scalinata che si inoltra in profondità restringendosi ad imbuto verso il basso, completa, fiancheggiata com’è da due pareti fatte di pietre perfettamente tagliate e sovrapposte tra loro, una specie di piramide rovesciata che affonda il suo vertice nell’oscurità del pozzo, a fatica rischiarato dalla luce che chiude la camera conica sette metri più in alto del livello delle acque sacre. Intorno al pozzo resti di capanne adibite a ospitare
18 7 OTTOBRE 2017
Viaggio in Sardegna Un filo di fede
i sacerdoti e i fedeli in occasione delle celebrazioni che periodicamente attiravano intorno a questi luoghi le antiche popolazioni, in un rito comunitario la cui memoria sembra riproporsi nella terza delle strutture conservate nel sito. A un centinaio di metri dal pozzo trimillenario, quasi a confermare la vocazione di questo spazio dedicato ai riti sacri, sorge infatti un piccolo complesso monastico eretto intorno al 1200 dai frati Camaldolesi: una chiesetta modestissima, antica nelle fondazioni e nei muri perimetrali, che inglobano ancora resti della civiltà nuragica circostante, circondata da una fila di minuscole abitazioni, basse, essenziali, una porticina ed una piccola finestra, attaccate le une alle altre di seguito come un corpo unico. Costruite con la stessa pietra basaltica che affiora tutto intorno, la stessa degli antichi resti, si mostrano per
questo curiosamente coerenti, nell’immagine pietrosa che l’occhio raccoglie, al villaggio nuragico che abbiamo appena visitato, legate insomma ad esso da un filo tenace, non però di sola materia, evocando una sensazione di continuità nei millenni, cui non ci si sottrae. Poco più di misere celle, adatte allora ad ospitare i frati e che oggi si aprono in occasione delle feste dedicate alla Santa, quando per nove giorni i fedeli, ora come allora, si ritrovano a vivere e a pregare insieme, riaprendo le case ed abitandole della loro fede, secondo una pratica che si è mantenuta viva fino ad oggi; già allora così simile – ci permettiamo di immaginare – alle antiche, misteriose riunioni delle genti sarde intorno ai pozzi sacri, il cui senso sembra essere stato in parte assorbito dai riti cristiani comunitari che ancora si svolgono in queste campagne.
di Barbara Setti ArtLab è davvero, come recita il sito di progetto, la più importante piattaforma indipendente al servizio dell’innovazione delle politiche, dei programmi e delle pratiche culturali. Nata nel 2006 a Torino per opera di Fitzcarraldo, è ora diventata una realtà consolidata e un appuntamento tradizionali di incontro e scambio tra operatori culturali, società civile, amministratori pubblici e imprese. Si parla di cultura in senso trasversale, con attenzione alle reti culturali e ai progetti europei e transnazionali, intervengono artisti, manager, professionisti e rappresentanti di organizzazioni profit e no profit. Quest’anno Mantova è stata la quarta tappa di un percorso che ha attraversato tutto il 2017 con Taranto e Matera a maggio a parlare della rigenerazione a base culturale della città e di Matera Capitale Europea della Cultura 2019; Milano a giugno con una due giorni dedicata prevalentemente alle imprese culturali e creative e al rapporto tra cultura e creatività; Treia a luglio, all’interno del Festival sulla Soft Economy promosso da Symbola, due giornate di lavoro nei territori colpiti dal terremoto su identità, rigenerazione e sviluppo sostenibile nelle aree terremotate; infine a Mantova. Il format mantovano, a cui ho avuto l’occasione di partecipare direttamente all’interno di uno dei “laboratori”, è stato interessante perché improntato a un vero e proprio esercizio di progettazione condivisa su una serie tavoli, in vista dell’Anno Europeo della Cultura 2018. Il Consiglio e il Parlamento Europeo hanno dichiarato, il 17 maggio, il 2018 quale Anno Europeo della Cultura. Gli obiettivi principali saranno la promozione della diversità culturale, il dialogo interculturale e la coesione sociale; evidenziare il contributo economico offerto dal patrimonio culturale ai settori culturale e creativo, compreso per le piccole e medie imprese, e allo sviluppo locale e regionale; sottolineare il ruolo del patrimonio culturale nelle relazioni esterne dell’UE, inclusa la prevenzione dei conflitti, la riconciliazione postbellica e la ricostruzione del patrimonio culturale distrutto. Alla sessione plenaria inaugurale di ArtLab a Mantova erano presenti la parlamentare europea Silvia Costa e Erminia Sciacchitano (esperto Mibact in forza alla UE), che hanno raccontato le tappe di questo percorso, fortemente voluto dalla delegazione italiana. I punti più interessanti del loro intervento: il tema della domanda, dei fruitori di cultura, in un’agenda, quale quella europea, prevalentemente rivolta all’offerta, in un’Europa in cui i paesi del nord hanno una percentuale di 1 cittadino su
La bellezza di ArtLab 2 che in un anno ha frequentato un almeno 1 museo, di contro al 20% delle regioni del sud Europa, Italia compresa. Molti slogan (“capacità di interpretare il patrimonio culturale dove il passato incontra il futuro” tra tutti), ma una informazione interessante e importante non solo per l’approccio, ma anche per i prossimi bandi in uscita: l’approccio alla cultura, oltre che specifico, sarà anche trasversale, incrociando le 13 Direzioni Generali Europee che si occupano di cultura. Questo significa che la cultura non avrà solo un bando dedicato a se stante, nello specifico il sottoprogramma Cultura di Europa Creativa (2014 – 2020) che prevede una call, con scadenza a novembre, specificamente dedicata a progetti di cooperazione relativi a 2018 Anno Europeo della Cultura, ma sarà anche un elemento premiante per le principali linee di finanziamento europeo, da Horizon 2020 a Erasums+, da COSME a Europa dei Cittadini. Ma veniamo alla parte laboratoriale di ArtLab. Sono stati costituiti 11 gruppi di lavoro, per 6 temi: 1) Il patrimonio per chi (verso un welfare per la cultura); 2) il patrimonio per l‘educazione e l’apprendimento permanente; 3) sostenibilità e governance del patrimonio; 4) politiche pubbliche, sviluppo locale, turismo sostenibile; 5) imprese creative e innovazione per il patrimonio; 6) produzione artistica contemporanea e patrimonio. I gruppi di lavoro erano seguiti da un conduttore/facilitatore del gruppo e da un rapporteur (in sostanza quella persona che mette a sintesi i discorsi e, con l’aiuto di tantissimi post-it, prova a dare un senso al caos); erano stati individuati 5/6 discussant che aprivano le danze sulla discussione e sul dibattito rispetto ai vari temi. Alla fine delle due giornate i risultati dei gruppi, raggruppati per i macro temi, sono stati presentati alla sessione plenaria dai 6 rappresentanti dei temi identificati. Io ho partecipato al gruppo 1 - Accessibilità e
inclusività per il patrimonio culturale. Obiettivo del gruppo era quello di redigere da 5 a 10 “raccomandazioni” da riportare in plenaria sul tema, cioè sostanzialmente su come si può cambiare il modo in cui le persone entrano, accedono al patrimonio. Al di là dei contenuti specifici del tavolo, è sulla metodologia che mi interessa focalizzarmi. Noi eravamo un gruppo alla fine abbastanza piccolo, composto da circa 15 persone di varia provenienza, formazione, estrazione, ruolo: dal componente della direzione nazionale dell’Unione Italiana Ciechi e Ipovedenti al vicepreseidente del Teatro dell’argine di Bologna, da docenti universitari al presidente di Onlus che lavorano con la disabilità, da direttori di museo a dirigenti del MIBACT. Dovevamo in due ore, con 5/6 minuti per ciascuno, presentarci, conoscerci, cominciare a parlare dei temi sul tavolo e, il giorno dopo, redigere le raccomandazioni. Un lavoro estremamente impegnativo, per il poco tempo a disposizione e per l’enormità di un tema come questo e l’estrema facilità di cadere in inutili quanto ridicole banalizzazioni. Come si riesce a gestire la complessità di un gruppo in questo tempo? Come armonizzare le istanze specifiche con i temi politici? Come armonizzare tutte le voci? Partendo dall’usare un linguaggio comune e quindi definire cosa diciamo quando parliamo di bene culturale, che nel nostro tavolo andava dal museo al sito archeologico, dal teatro al quartiere periferico, dalle persone ai reperti. Alla fine le abbiamo presentate, le nostre raccomandazioni, presentate benissimo in plenaria da Alessandra Gariboldi, che coordinava i due tavoli. E ascoltando tutti i temi dei tavoli, a parte le specificità ci sono una serie di temi che si sono riproposti con prepotenza: fare rete e mettere insieme le competenze specifiche, creando reti interdisciplinari e territoriali; la cultura della progettazione e della valutazione di impatto dei progetti; il valore del lessico e della creazione di un nuovo glossario; l’empowerment (che va oltre il concetto di formazione ed educazione permanente); welfare culturale. La plenaria di venerdì all’ora di pranzo ha visto lo stupendo Teatro Bibiena strapieno ovunque, con sicuramente più di 300 persone. Una meraviglia il teatro e vedere così tanta gente presente. A parte il Teatro, di Mantova non ho visto quasi niente. Ma ho incontrato, parlato, discusso con tantissime persone che si occupano di cultura, teatro, musei, inclusione sociale, alternanza scuola-lavoro, progettazione europea, recupero edifici dismessi, lavoro nelle periferie…... con molti di loro davanti a un fantastico piatto di tortelli di zucca o a una sbrisolona. Perché anche a Mantova, con la cultura si mangia!
19 7 OTTOBRE 2017
di M. Cristina François La Chiesa di S.Felicita è documentata come Parrocchia dal 972. Quale fosse allora la sua estensione non lo sappiamo. È molto probabile che abbracciasse i tre sobborghi: di San Jacopo, di S.Felicita, e del Pidiglioso. L’importanza di questa Parrocchia è documentata nei secoli (cfr. Archivio Storico Parrocchiale di S.Felicita) dai Curati i quali ci consegnano una lista delle presenze - in quel contesto dei “Parrocchiani Illustri” (Ms.730, p.608 e p.622). Lista da cui ‘spigoliamo’ alcuni nomi, considerando, tra l’altro, che negli Stati d’Anime, nei Libri Lunghi dei Morti e nei Libri dei Matrimoni, i numeri civici delle loro abitazioni (quando essi compaiono) non corrispondono agli attuali. Inoltre, nei diari dei Curati (Ms.729 e Ms.730), la selezione delle personalità avviene in modo parziale e arbitrario. Si comincia con S. FILIPPO BENIZZI, 1253: il suo palazzo era “in quella parte di Piazza [Pitti] che mena alle Scuderie del Reale Palazzo, ma una gran parte del quale venne incorporato in quello dei Guicciardini quando un’altra parte venne atterrata per allargare la Piazza medesima e ciò avvenne dopo la estinzione di detta Famiglia nel secolo XVII” (p.33). Seguono: GIOVANNI BOCCACCIO, 1360: che fu “per qualche tempo nostro Parrocchiano […] come grande amico di Francesco di Amaretto Mannelli, più volte, specialmente dopo la terribile peste dell’anno 1348 venne a passare alcuni mesi in sua casa” (p.47); PAOLO TOSCANELLI, 1397: “nato in questa Parrocchia […] di S.Felicita in Via Nuova […] presso il pubblico pozzo [...], detto […] pozzo anche Toscanelli” (p.53); MICHELOZZO MICHELOZZI, 1430: “In questa Parrocchia nella via de’ Michelozzi vi hà abitato per non pochi secoli la famiglia dei Michelozzi […] e la loro abitazione è quella unica che vi si vede, oggi [1868] di proprietà dei signori Capponi […]. Morto di anni 68 fu sepolto in S. Marco.” (p.60); NICCOLO’ MACCHIAVELLI, 1469: “Nella Via dei Guicciardini nella casa segnata di n.16 di proprietà anticamente dei Signori Macchiavelli nacque il celebre Niccolò. Esiste tuttora [1868] l’antica porta d’ingresso di quella casa e presso di essa nella parete esterna della facciata vi ha una piccola memoria in marmo […]. Tornato a Firenze fu assalito da fieri dolori colici, morendo nella sua propria casa qui in Parrocchia nell’anno 1527 di anni 58”. Non se ne conosce dai “Libri Lunghi dei Morti” il giorno preciso, ma si conosce il luogo dove Niccolò fu allora seppellito, in quanto i Macchiavelli “avevano la loro sepoltura gentilizia davanti alla Cap-
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Spigolature per il recupero dell’identità di un quartiere pella di loro patronato [oggi dei Maccabei]” (p.70); FRANCESCO GUICCIARDINI, 1482: “Nacque nel Palazzo di sua proprietà […], nell’anno 1540 finì la sua vita in età di anni 58.” (p.72) e il 22 maggio fu sepolto nella Chiesa di S.Felicita dal Priore Santi Assettati (I° Libro Lungo dei Morti); LODOVICO ARIOSTO, 1513: “Fu di questa Parrocchia per 6 mesi […]. Prese stanza nella Magione dei Cavalieri di Malta presso il Ponte Vecchio n°2, di proprietà del Cav. Carovana”, ebbe così occasione di vedere Firenze “se non altro per apprendere la dolcezza della toscana favella” (p.79); CARD. NICCOLO’ RIDOLFI, 1528: “fu nostro Parrocchiano e fu quegli che durante la pestilenza del 1529 ordinò una gran processione di penitenza facendo portare in Firenze la Madonna dell’Impruneta” che sostò in S.Felicita (p.84); GIORGIO VASARI, 1555: “Vi prese su stanza in questa Parrocchia in Via Guicciardini, perché in vicinanza di Palazzo Pitti, tre case sopra quella di Niccolò Macchiavelli che sarebbe al n.22 o 24 prima di arrivare all’Arco […], durante il tempo che egli abitò in questa Parrocchia, lui architetto, furono fabbricati gli Uffizi […], e nel 1564 eresse la loggia esterna di nostra Chiesa” (p.93); FRANCESCO CURRADI, 1662: “Morì il 17 Gennaio 1662. Di anni 93 sepolto in Chiesa nostra in una cassa coll’abito della sua religione e posto nella sepoltura di n.56 che era presso la Sagrestia […]. Abitava nella casa dell’avvocato Castellini” (p.207). Dagli “Stati d’Anime” risulta ancora
che: nel 1690, in Via Guicciardini n° 39, abita Ferdinando Ruggieri (di anni 3), figlio del merciaio Giovan Battista Ruggieri; nel 1696, in Via Guicciardini n° 38 il pittore Pietro Antonio Gabbrielli, figlio di Giovan Francesco; in Via Guicciardini n° 45 il pittore Giovanni Pieratti; sulla Costa del Canneto n° 72 il doratore Lorenzo Lignoni di anni 60; nel 1697, in Via Guicciardini n° 6 lo scultore Giorgi; in Via Guicciardini n° 39 Ferdinando Ruggieri, figlio di Giovan Battista, di anni 8; in Via de Bardi 62 Giovan Battista Garbi pittore; in Via de’ Velluti n° 177, l’intagliatore Domenico Puccioni di anni 22; in Via Sguazza n° ? Giovanni Pieratti pittore, di anni 29; nel 1699, in Via de’ Velluti n° 162, Giovanni Pieratti pittore; nel 1700, in Via de’ Bardi n° 52 G. Battista Cappelli pittore di anni 23; in Bg. S.Jacopo n° 47 Benedetto Carnesecchi intagliatore di anni 25. Nei “Libri Lunghi dei Morti” risulta pure che: il 26 giugno 1575 muore in Parrocchia Benedetto di Girolamo dipintore; il 28 aprile 1598 Giovanni scultore in Ognissanti; il 22 marzo 1609 Bartolomeo di Biagio, dipintore; 8 giugno 1610 Batista di Giuliano, pintore. Questi uomini sono ai nostri tempi più o meno illustri, ma, con la loro presenza, i loro mestieri e i loro “ruoli”, marcano una delle identità del quartiere che ruota attorno alla Chiesa di S.Felicita. Consegniamo questa memoria agli studiosi e agli appassionati di storia perché con gli scritti e le parole tentino di ridare vita a un quartiere segnalato in rete solo per i B & B.
Houellebecq, una feroce ironia da rileggere
di Simonetta Zanuccoli Con un tempismo sorprendente, non per niente il suo autore francese viene spesso assimilato al movimento anglosassone detto di Anticipazione Sociale, nei giorni nei quali la Francia era ancora frastornata dall’attentato a Charlie Hebdo, non immaginando certo che sarebbe stato il primo di una tragica, lunga serie, nelle librerie francesi usciva Soumission (Sottomissione) di Michel Houllebecq. Nel romanzo, “impressionante favola politica e morale” come è stato definito, si immagina che alle elezioni presidenziali del 2022 vince al secondo turno, sconfiggendo Marine Le Pen, Mohammed Ben Abbes, leader moderato e saggio del partito dei Fratelli Musulmani. Il suo governo riuscirà in poco tempo, con misure drastiche, a risolvere molti dei problemi sociali più gravi come i disordini nelle banlieue, la disoccupazione (proibendo alle donne di lavorare), le violenze sessuali (permettendo la poligamia che spenge gli ardori maschili) e la crisi economica con gli investimenti miliardari degli Emirati Arabi in nome della fraternità religiosa. L’uscita del libro diventò subito in Francia un caso letterario con dibattiti e polemiche a partire dal titolo, Sottomissione, che è la traduzione di Islam, ma si presta anche all’equivoco di un’interpretazione più politica. Lo scrittore francese, autore di romanzi di grande successo, in numerose interviste, forse per un personale ritorno pubblicitario, non ha mai cercato di placare le critiche affermando che per lui la civiltà francese, che ha conosciuto il suo apogeo nel secolo dell’illuminismo, e che ha prodotto la Rivoluzione, sta morendo. Al tempo in cui si svolge la storia le forze in gioco nel Paese hanno incrinato il sistema politico fino al crollo in una società invecchiata, dagli ideali svuotati e dal crescente fatalismo. Mohammed Ben Abbes si presenta come l’unico politico francese che ha da proporre dei valori forti e una visione chiara del futuro del Paese. E così vince. Un cambiamento culturale radicale che avviene non attraverso una rivoluzione ma per l’apatia dei cittadini che, stanchi dei soliti e inutili “teatrini politici”, hanno finalmente trovato un sistema che li governa sapendo, almeno, dove vuole andare. Anche l’elite intellettuale capisce subito che invece della solita opposizione è meglio sfruttare i vantaggi offerti dal nuovo regime. Lo stesso protagonista, Francois, annoiato insegnante universitario, inizialmente desta-
bilizzato, si adatta al cambiamento trovando una rinnovata serenità. Nel libro infatti la religione musulmana non è confusa con l’estremismo ma, al contrario, il presidente, eletto democraticamente, appare moderato e si allea ai vecchi partiti politici dando loro importanti cariche governative eccetto l’Istruzione. Mohammed Ben Abbes ha l’ambizione di formare un Impero Europeo (sul tipo dell’Impero Romano) e l’educazione fin in giovane età dei bambini verso la dottrina islamica diventa la pietra miliare di questo progetto di potere. La critica francese si divise tra chi accusava Houellebecq di essere un provocatore di destra che attaccava i valori democratici della società europea (lo stesso Charlie Hebdo gli dedicò una delle sue terribili copertine) e chi lo tacciava di essere un razzista islamofobico presentando la figura di un religioso musulmano che finge moderazione per avere il po-
tere e distruggere quegli stessi valori. Alla critica americana invece il libro piacque molto per la sua feroce ironia. Marx Lilla della New York Review of Books scrisse in un suo articolo è sbagliato credere che l’Islam sia il protagonista di Soumission. Il vero tema del romanzo è la scommessa che l’Occidente ha fatto con la Storia: più l’uomo e libero, tanto più sarà felice. Per Houellebecq la scommessa è stata persa. L’uomo ormai secolarizzato è alla deriva e potrebbe soccombere alla vecchia tentazione di sottomettersi a chi parla di Dio. Il libro, letto un paio di anni fa e capitatomi per caso tra le mani mentre stavo rimettendo in ordine uno scaffale, è comunque, oggi, da rileggere.
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di Ruggero Stanga Non si vedono ad occhio nudo, ci vuole un telescopio. Ai primi astronomi che le osservarono, a metà del 1700, apparivano come piccole nuvole tonde, e le chiamarono nebulose planetarie. Ora, grazie a telescopi che raccolgono più luce e a rivelatori molto sensibili, ci appaiono come delicati fiori nel cielo; il nome è rimasto, anche se si è visto che non hanno niente a che fare con i pianeti. Una nuova tecnica usata dalla metà del 1800 riuscì a svelare la natura di questi oggetti celesti: la spettroscopia. La spettroscopia nacque come un metodo che la chimica poteva usare per analizzare le sostanze in laboratorio. Consisteva nel fare passare la luce di una sorgente attraverso un prisma: su uno schermo veniva proiettato lo spettro che, secondo il tipo di sorgente, poteva essere una sorta di arcobaleno (spettro continuo), o una serie di immagini colorate, separate l’una dall’altra. In particolare, un gas riscaldato produceva uno spettro di immagini colorate (spettro di emissione) e i colori erano specifici del gas, come lo è una impronta digitale per una persona, e permettevano di riconoscerlo. Nel 1814 Fraunhofer mise un prisma davanti all’obiettivo di un telescopio, e mosse i primi passi nella spettroscopia astronomica, e nell’astrofisica, osservando il Sole. Trovò una cosa inattesa: sopra lo spettro continuo prodotto dalla superficie del Sole apparivano delle linee scure, intervallate. Ci vollero “solo” 45 anni perché Kirchoff e Bunsen capissero che quelle linee scu-
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re corrispondevano alla posizione delle zone illuminate dello spettro di emissione di gas: apparivano scure (righe di assorbimento), perché sul Sole quel gas era più freddo della superficie sottostante che lo illuminava, e assorbivano quella parte di radiazione che le caratterizzava. Kirchoff e Bunsen avevano trovato il modo di analizzare la composizione di Sole e stelle, facendo giustizia di una famosa affermazione di August Comte, che aveva avuto l’ardire di sostenere che gli umani non sarebbero mai stati capaci di capire di che cosa erano fatte le stelle (c’è un certo gusto nel sottolineare che anche i grandi pensatori ogni tanto farebbero meglio a stare zitti…). Sir William Huggins, un astronomo britannico, nel 1864 per primo osservò lo spettro di una nebulosa planetaria, per la cronaca NGC 6326, l’Occhio di gatto. Invece dello spettro consueto di una stella, uno spettro continuo con le righe di assorbimento, simile a quello del Sole, c’era solo uno spettro di emissione. Addirittura, trovò una riga che non corrispondeva a nessun gas noto sulla Terra, che fu chiamato Nebulio, proprio come successe per il Sole, nel cui spettro furono trovate le righe di assorbimento di un elemento ignoto, che fu chiamato Elio. Per la cronaca, all’inizio del ventesimo secolo si capì che il Nebulio non era un elemento particolare, ma un
elemento noto, l’Ossigeno, in condizioni di temperatura e densità non ottenibili in laboratorio. Ora le nebulose planetarie, queste delicate strutture colorate e aggraziate, hanno trovato il loro posto nello zoo degli abitanti dell’Universo. Sono nubi di gas molto caldo, circa 10000 gradi, con diametro di qualche volta la distanza Terra-Sole, tenuissime: la densità va da un milione di particelle per centimetro cubo, per quelle che si sono formate da poco, a 10000-100 particelle per centimetro cubo. Per confronto, l’atmosfera della Terra ha una densità di circa 25 miliardi di miliardi di particelle per centimetro cubo. I colori mostrano appunto come è distribuito il gas: idrogeno, appunto il nebulio, cioè l’ossigeno, l’azoto, lo zolfo. Sono generate da stelle di piccola massa, meno di 8 volte la massa del Sole, nelle fasi finali della loro vita come stelle. Soffiano via la parte più esterna della loro atmosfera, a velocità di qualche decina di km/s. Della stella rimane la parte più centrale, molto calda, che illumina la nebulosa, e la scalda. La nebulosa, allontanandosi, si diluisce nello spazio fino a dissolversi, in tempi dell’ordine di qualche migliaio di anni. Porta con sé grani di polvere, grandi fra un decimo di millesimo di millimetro e un millesimo di millimetro, composti degli elementi che la stella ha sintetizzato, che si sono condensati nel gas espulso. Questi granelli si disperdono nella galassia, e vanno a costituire le nubi da cui si formano le generazioni successive di stelle. Anche il Sole seguirà questa strada. Fra circa 5 miliardi di anni la sua atmosfera si espanderà, inglobando l’orbita di Venere, e verrà espulsa, generando un altro fiore nell’Universo. Non è per noi un problema urgente; però sarà bene che la nostra discendenza, se ci sarà, abbia trovato il modo di andarsene, e di andarsene molto lontano, perché al quel punto la Terra, privata della atmosfera dall’impatto di un vento solare tremendamente più intenso di quello attuale, e a una temperatura molto più alta di quella che possiamo sopportare, sarà diventata un luogo molto meno piacevole del piccolo pianeta azzurro che ora abitiamo.
Petali delicati