Cultura commestibile 234

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Numero

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Con la cultura non si mangia Giulio Tremonti (apocrifo)

La betulla nell’occhio

Maschietto Editore


NY City, 1969

La prima

immagine Siamo sempre nella stessa zona, solo qualche isolato più in là! I ragazzi sono allegri, sorridenti e pieni di energia. Riguardando questa immagine ho provato una grande nostalgia e una grande invidia. Vorrei poter tornare indietro nel tempo anch’io per rivivere quei momenti di spensierata allegria e divertimento senza troppi pensieri. Ricordo di aver trascorso molto tempo in mezzo a loro perché mi aveva colpito la reazione positiva e la gioia che sprigionavano vedendo che qualcuno era davvero interessato a loro e ai loro giochi. C’era una grande carica di energia positiva e questo mi faceva quasi dimenticare, almeno per un pò, la sofferenza per quell’orrendo clima caldo e umido che era una delle caratteristiche decisamente più fastidiose della città.

dall’archivio di Maurizio Berlincioni


Numero

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Riunione di famiglia Je suis Rubaldo Merello Le Sorelle Marx

Ignazio parevi Kennedy I Cugini Engels

PER UNA CULTURA COMMESTIBILE Un incontro organizzato Giancarlo Cauteruccio, all’interno del programma “Nel chiostro delle meraviglie”. Mercoledì 18 ottobre ore 21,15 pres-

so il chiostro di S.Verdiana, con la partecipazione di Antonio Natali, Giuseppe Centauro e Eva Parigi. E naturalmente la redazione di Cuco.

In questo numero SOS Fattoria Laurenziana di Giuseppe Alberto Centauro

Donna Gatto di Claudio Cosma

Contro il senso comune di Laura Monaldi

I giocattoli sono indispensabili come l’acqua, l’aria, la luce di Cristina Pucci

Nomadismo mittleuropeo di Alessandro Michelucci

Fatevi ingannare da Sofia di Mariangela Arnavas

La porta claustrale in Costa s. Giorgio di M. Cristina François

Contaminazioni culturali di Valentino Moradei Gabbrielli

L’Allegria di Sieni di Simone Siliani

Oltre il giardino di Susanna Cressati

Il secondo surrealismo fotografico di Danilo Cecchi

Il Club des Hachichins di Simonetta Zanuccoli

Ranuccio Bianchi Bandinelli, la guida del Fürher di Roberto Barzanti

Addio Giorgio Pressburger di Sandro Damiani

e Gianni Biagi, Mariangela Arnavas, Matteo Rimi...

Direttore Simone Siliani

Illustrazioni di Massimo Cavezzali, Lido Contemori

Redazione Gianni Biagi, Sara Chiarello, Aldo Frangioni, Vittoria Maschietto, Michele Morrocchi, Sara Nocentini, Barbara Setti

Editore Maschietto Editore via del Rosso Fiorentino, 2/D - 50142 Firenze tel/fax +39 055 701111

Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012

Progetto Grafico Emiliano Bacci

redazione@culturacommestibile.com culturacommestibile@gmail.com www.culturacommestibile.com www.facebook.com/cultura.commestibile


di Giuseppe Alberto Centauro Il tempo è ormai quasi scaduto, in quel di Prato la Fattoria di Lorenzo de’ Medici, fiore all’occhiello dell’architettura rinascimentale, cade letteralmente a pezzi dopo più di 10 anni di rovinoso e paradossale disfacimento. A niente sono fin qui valsi gli appelli che da più parti si sono levati per salvare questa preziosa testimonianza della cultura umanistica del ‘400 che “il Magnifico” in prima persona volle edificare sui solidi dettami vitruviani, messi in pratica nella “rivoluzionaria” visione di Leon Battista Alberti, ispirata al più puro classicismo. Una “fattoria modello” dunque, sulla quale anche i Lorena, dopo i Medici, vollero investire, sperimentando nuove colture agrarie, ampliando e riabilitando con nuove attribuzioni le vetuste fabbriche. A giudicare dagli eventi di questi ultimi anni tutto ciò sembra non bastare, non contare ancora abbastanza. Ma ciò nonostante ci sarebbero ancora i tempi e i modi per compiere il salvataggio di questo straordinario giacimento culturale se solo si tornasse ad investire in cultura, ponendo al centro dell’interesse della comunità il recupero ambientale di questo grandioso e speciale resedio che ha fatto la storia dell’architettura rurale toscana. Basterebbe rivalutarne in chiave imprenditoriale le molteplici potenzialità funzionali e culturali offerte dalla peculiare ed archetipa tipologia “a corte”, con i suoi voluminosi annessi, già ben documentati dall’iconografia cinquecentesca. Tuttavia, a conferma dell’“inquietante” stato di cose che caratterizza il degrado attuale delle strutture sta l’esito negativo, dopo il fallimento della proprietà, di una quinta asta giudiziaria, andata deserta, come le altre che l’hanno preceduta, il 26 luglio scorso. Un disinteresse, quello al quale oggi assistiamo che, a dire il vero, non è stato sempre tale perché la tenuta pratese delle Cascine di Tavola, facente parte della bandita medicea di Poggio a Caiano, che ha il suo fulcro nella fattoria pratese, con i suoi casali, i boschi secolari e le vaste praterie a seminativo a ridosso delle colline del Montalbano, è stata oggetto in altre occasioni di trattative pubblico-private e di compravendite. Infatti, dopo l’abbandono rurale - qui particolarmente avvertito dopo l’alluvione del ’66 - l’asse dell’interesse si è spostato fin dagli anni ’80, dall’investimento agricolo a quello più remunerativo delle attrezzatu-

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SOS Fattoria Laurenziana

La Fattoria laurenziana allo stato attuale. Fonte: G.A. Centauro

re private per il tempo libero, sportivo-ricreative, determinando le premesse di un completo riassetto fondiario dell’area per far posto a campi da golf e impianti ippici con esteso galoppatoio. Ancora ben lungi dai vincoli paesaggistici e monumentali che verranno posti solo alla fine degli anni ’90 fu allora sostenuta come scelta strategica una riproposizione fortemente speculativa, ad uso esclusivo ed elitario, dei fasti ludici delle origini, riadattando in chiave contemporanea i luoghi granducali di “delizie e di svago”, tralasciando però ogni aspetto legato alla valenza storico agraria del territorio non meno rilevante, memore degli appode-

ramenti granducali. Questa esiziale trasformazione territoriale è bene evidenziata nel confronto delle foto aeree, prima e dopo tali trasformazioni fondiarie. Si è trattato tuttavia di una scelta che oggi si dimostra “disgraziata”, sia da un punto di vista economico, vista la crisi che sta coinvolgendo tutte le attività private che furono allora impiantate sia, soprattutto, culturale per la mancata valorizzazione del profilo eco-ambientale del paesaggio agrario storico. La grande fattoria medicea rimasta allora esclusa dagli investimenti immobiliari, in attesa di una definitiva rivalutazione, intrapresa solo successivamente


Un patrimonio architettonico in colpevole abbandono mento residenziale della fattoria. Sono rimasti inascoltati i richiami che, da più di un lustro, comitati di cittadini ed associazioni hanno reiterato nel richiedere un intervento pubblico da parte della Regione Toscana, la sola in grado di assicurare con l’acquisto diretto dell’immobile una regia pubblica per il futuro del bene. A poco sono serviti pure i nuovi studi e le ricerche in ambito universitario condotti per dimostrare la fattibilità del restauro architettonico e la bontà dell’investimento per il recupero funzionale della fattoria, non più solo residenziale, bensì integrato al rilancio del comparto agroalimentare e della filiera dei prodotti tipici locali. Allo stato attuale si può affermare che al danno procurato si è aggiunta, dal 2013, la beffa dell’indifferenza dei maggiorenti istituzionali che ha coinciso con l’inizio della “triste stagione” delle aste con incan-

e poi bruscamente interrotta, ha finito per pagare in modo drammatico le scelte di quel tempo rimanendo esclusa da ogni possibile “rigenerazione” e restauro ambientale. Tant’è vero che le infauste vicende che, fin dal 2006, stanno mestamente segnando i destini di quel prestigioso complesso architettonico sono sotto gli occhi di tutti. Le vicissitudini che da allora si sono succedute lo dimostrano. L’ esposto denuncia di Italia Nostra ha determinato, nel corso del 2008, l’intervento della Procura della Repubblica con il conseguente sequestro conservativo del cantiere e blocco dei lavori di ristrutturazione in corso per il fraziona-

to disposte dall’Autorità giudiziaria. Nel frattempo le condizioni conservative della fattoria sono arrivate all’estremo scadimento, al capolinea, tant’è vero che il 3 ottobre 2014 i vari fabbricati facenti parte del complesso, nessuno escluso, sono stati dichiarati inagibili con Ordinanza 2933 del Comune di Prato. Per tutte le ragioni sopra esposte la fattoria laurenziana, da risorsa culturale primaria, è passata ad essere un bene ingombrante, una sorta di “vuoto a perdere”, un accidente nel cuore stesso del compendio paesaggistico del parco pratese delle Cascine di Tavola. Così muore l’espressione più alta dei postulati teoretici, umanistici e scientifici dell’agronomia moderna, quella Cascina ai cui lavori (1470-1485) “Il Magnifico” attese con grande ardore per dare un segno concreto di rinascita in un territorio afflitto da esondazioni, per trasformare le terre impaludate, poste al di qua e al di là dell’Ombrone, in un rigoglioso e fertile eden, a fare da traino di una ritrovata bellezza in congiunzione polisemica con la nascente, limitrofa villa Ambra di Poggio a Caiano che, ironia della sorte, nel 2013, mentre la Cascina “rovinava” nell’indifferenza dei più, veniva dichiarata sito protetto dall’UNESCO come Patrimonio dell’Umanità.

La fattoria durante l’alluvione del 1966

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Le Sorelle Marx

Je suis Rubaldo Merello

Caro direttore, in che mondo strano viviamo! Noi che siamo del Secolo breve, siamo un po’ vecchia maniera: pensiamo che ognuno debba fare il mestiere suo. Per esempio, il nostro bisnonno Karl faceva l’intellettuale e il teorico politico con una certa perizia; lo avremmo visto male a fare il fontaniere o il ferroviere. Per questo ci sfugge il motivo per cui a fare il presidente di una delle più prestigiose sedi espositive d’Italia come Palazzo Ducale a Genova si debba nominare un comico, quale Luca Bizzarri. Il quale si dichiara, programmaticamente, ignorante in materia: “io sono un analfabeta” in materia e non sapevo chi fosse Rubaldo Merello, per questo “sono andato su Google, non sto qui a scrivervi chi

I Cugini Engels

Ignazio parevi Kennedy

Ascoltare il dibattito sulla legge elettorale è impresa interessante ma al limite del masochismo. Tra peones pentastellati, rappresentanti di improbabili sottogruppi parlamentari, arrampicatori di specchi professionali della maggioranza, spiccava come un novello Churchill persino La Russa che rispondeva da buon conoscitore di politica e regolamenti a un piccato (strano) Giachetti in quel momento in presidenza. Il buon La Russa si è infatti rifiutato di dare parere da relatore di minoranza agli articoli della legge elettorale non sottoposti a fiducia dal governo visto che quella scelta dell’esecutivo aveva reso quasi inutile quella discussione. Non va meglio a leggere i giornali l’indomani che spiegano e ipotizzano gli esiti della nuova legge sul prossimo parlamento, in cui l’unica certezza è che nessuno uscirà vincente dall’elezioni nonostante tutti, la sera del voto, dichiareranno di aver vinto.

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è , andatelo a vedere” E, imperiosamente, ci intima: “Alzate il culo, venite a vedere Merello”. Il buon Bizzarri ha continuato con questo gioco comunicativo andando su Facebook, poi su Instagram (con il cartello “Je suis Rubaldo Merello”), mietendo strage di like, followers, ecc. Non sappiamo quanti di questi fan sui social si trasformeranno poi in effettivi visitatori, ma supponiamo pure che un qualche effetto trascinamento vi sia. Ma, allora, perché nominare Bizzarri presidente? Nominatelo web master, social media market expert, pubblicitario, influenzer! Insomma, va bene il principio dell’incompetenza specifica nella pubblica amministrazione, ma qui si esagera. Allora, il nostro bisnonno potevano farlo Santo!

Avanzi di Avanti Piccola rubrica per i distratti che raccoglie le migliori frasi di “Avanti”, il bestseller di Matteo Renzi. Ho pensato a lungo alla transizione tra il quarantaquattresimo e il quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti

Anche in questo caso il silenzio sornione di Berlusconi è persino consolante. Insomma se mettiamo insieme l’attuale classe dirigente del Paese, quelli che aspirano a diventare tale, il meccanismo elettorale talmente astruso da rendere intellegibili le conversazioni tra aborigeni della Nuova Guinea, neo leader rivoluzionari con una m sola, risse tra ex generali e padri di candidati leader, ci possiamo solo consolare del fatto che la prossima legislatura, che si annuncia persino peggiore di questa, ci darà tanto materiale per le nostre rubriche.


Nel migliore dei Lidi possibili

Signor Felipe VI – chiede Carles Puigdemont – va bene, abbiamo rotto un pezzo di mondo, ma in attesa di sapere chi paga, se non l’indipendenza intanto possiamo prendere i cocci?

disegno di Lido Contemori

didascalia di Aldo Frangioni

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di Laura Monaldi Felice Piemontese ha carpito egregiamente l’anima pulsante e l’energia militante delle nuove tendenze sperimentali degli anni Sessanta, facendo della scrittura un’azione mirata a decostruire il senso comune e la tradizione canonica del Sistema. Fin dagli albori della sua produzione ha collaborato con giornali e riviste, ha frequentato scrittori e ambienti sperimentali fino a divenire esso stesso scrittore e giornalista: approda nel 1965 alla redazione de «L’Unità» di Napoli diretta all’epoca da Ennio Simeone; conosce e frequenta lo scrittore Luigi Incoronato e Luigi Compagnone; profondamente affascinato dal mondo letterario entra in contatto con il Gruppo 63, partecipando all’incontro tenutosi a Fano nel 1967 e si lega alla redazione di «Quindici»; inizia collaborazioni giornalistiche presso diverse riviste come «Che fare», «Nuovo impegno», «Uomini e Idee», «E/mana/azione», «Continuum», ecc.; verso gli anni Settanta comincia la sua attività di scrittore con un libro di poesie Là-bas (Torino, Geiger, 1971), il romanzo iper-sperimentale Testo (Ravenna, Longo, 1973), la sperimentazione di Ancora delle poesie visive, (Continuum, 1972), nonché saggi critici e teorici apparsi su diverse riviste d’avanguardia. Quella di Felice Piemontese è una poesia che si sposta continuamente, che scorre senza sosta le vicissitudini del quotidiano e dell’attualità. È una scrittura che si apre inaspettatamente sul gioco eversivo dove tutto può accadere e tutto è lecito. È un’Arte poetica all’insegna della libertà espressiva e comunicativa, l’unica in grado di rinnovare costantemente la Cultura e i sensi del mondo, nella convinzione che la parola non ha perso del tutto il proprio ruolo e nel presente, che la saturazione è ancora lontana e che tra favola e tragedia esiste un confine sottilissimo. Felice Piemontese è uno spettatore conscio delle macerie del mondo passato e delle meraviglie del mondo utopico del futuro; è un ‘reporter’ poeitico consapevole della forza rinnovatrice della scienza estetica, poiché la messa in crisi di qualcosa è un atto di coraggio e di positività, è un atto rivoluzionario dal quale rinascere e con il quale educare tutti coloro che non sanno porsi oltre le apparenze. Il neoavanguardismo di Felice Piemontese è una metafora epistemologica il cui compito è lo smascheramento della realtà che può compiere utilizzando il linguaggio come mezzo di rivelazione.

Felice Piemontese

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Contro il senso comune


Musica

Maestro

Nomadismo mitteleuropeo

di Alessandro Michelucci La Slesia è una regione storica dell’Europa centrale. Grande il doppio della Sicilia, oggi è divisa tra la Polonia, che ne contiene la parte maggiore, la Repubblica Ceca e la Germania. Terra culturalmente ricca, ha dato i natali ad alcuni musicisti di grande rilievo. Pensiamo a Otto Klemperer (18851973), famoso anche come direttore d’orchestra. Oppure a Wojciech Kilar (19322013), noto come compositore di colonne sonore, fra le quali il celebre Dracula di Bram Stoker diretto da Francis Ford Coppola (1992). O ancora a Henryk Mikołaj Górecki (1933–2010), assurto a inattesa popolarità negli anni Novanta grazie alla Sinfonia n. 3 per soprano e orchestra, nota anche come Symphony of Sorrowful Songs (Nonesuch, 1992). Negli ultimi anni la pianta slesiana ha continuato a dare buoni frutti. Uno di questi è Vołosi, un quintetto nato attorno ai fratelli Krzysztof e Stanisław Lasón. Quest’ultimo ha composto la maggior parte dei 14 pezzi che compongono Nomadism (Unzipped Fly Records, 2015), secondo CD del gruppo dopo il debutto omonimo del 2010. In pratica si tratta del classico quartetto d’archi (due violini, viola e violoncello) con l’aggiunta del basso doppio. Non si tratta di un ensemble cameristico nel senso usuale del termine: le influenze classiche non mancano, ma si intrecciano con il ricchissimo patrimonio tradizionale dell’Europa centrale e orientale. La frase “Un nomade è un uomo libero”, che apre le note di copertina, è un chiaro riferimento alla cultura zingara, ma allude anche alla libertà espressiva che caratterizza la formazione polacca. Carico e vivace come un gruppo rock, il quintetto è “così compatto che sembra uno strumento solo suonato da cinque persone”, come ha scritto la rivista specializzata Songlines. La melodia suadente di “Szara Godzina” e i toni melanconici del brano che intitola il disco si alternano a quelli più ritmati ed esuberanti di “Taniec” e “Baja”. Ascoltando questi ultimi si capisce che il gruppo dà

il meglio di sé dal vivo. Non a caso svolge un’intensa attività concertistica in vari paesi europei. Nel marzo del 2018 il gruppo dei fratelli Lasón si esibirà anche a Foggia e ad Avellino. Registrato egregiamente alla Polskie Radio (la radio pubblica polacca), che l’ha anche

SCavez zacollo

coprodotto, il disco attesta che la Polonia dispone ormai di strutture discografiche qualificate. Il fondatore della casa discografica, Karol Czajkowski, è attivo anche come chitarrista in vari CD, tra i quali Alamut (2007) e Neurasja (2011), entrambi pubblicati dalla sua etichetta.

disegno di Massimo Cavezzali

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Per Enzo Faraoni

È scomparso a 97 anni uno dei nostri più grandi artisti del novecento, ma il Comune di Firenze non se ne è accorto di Andrea Granchi Enzo Faraoni è stato un grande artista e un grande uomo, un testimone e un protagonista del dibattito più vivo che ha coinvolto i nostri maggiori artisti al tempo di quel tragico snodo che fu il passaggio della guerra che portò, nel secolo scorso, il nostro paese da un regime totalitario alla libertà e che lo vide anche impegnato sul campo in episodi di lotta partigiana. Con lui perdiamo uno dei protagonisti dell’arte e della cultura italiana, non solo figurativa, della seconda metà del novecento. Con lui se ne va anche una figura simbolo di quel legame tra immagine e scrittura, tra visione e poesia che ha caratterizzato il meglio del nostro ‘900. E’ stato, più di ogni altro, esempio di quell’andare insieme tra pittura e poesia che ha segnato tutta la sua vita, i suoi rapporti personali con Piero Santi, Mario Luzi, Alessandro Parronchi, Romano Bilenchi, Alfonso Gatto, Betocchi, Alessandro Bonsanti, e storici dell’arte come Testori, Baldini, Antonio Natali e tanti altri. Il suo rapporto prediletto e del tutto speciale con la scrittura, il racconto, la narrazione, emerge in particolare con i cicli di lavori in xilografia come quelli per il Cantico delle Creature dai colori vividi e quasi allucinati o, tra le tante imprese, quella del ciclo in bianco e nero per il Maestro e Margherita di Michail Bulgakov. Anche i racconti visionari e fantastici di E.T.A. Hoffmann vedono Faraoni produrre xilografie di straordinaria vivezza come quelle per Nano Zaccaria soprannominato “Cinabro”, un ciclo tra i più preziosi ed emblematici della sua vena narrativa. Siamo nella seconda metà degli anni ’40, in linea con il miglior espressionismo europeo ma Enzo “carica” il suo segno con tratti che già lo distinguono nettamente per impegno e risultati nel panorama italiano. Sono gli anni in cui Rosai chiama Faraoni come suo assistente all’Accademia di Belle Arti di Firenze e sono gli anni delle partecipazioni, numerose, alle bien-

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nali di Venezia città che gli assegnerà, proprio per la xilografia, il primo premio alla Biennale dell’incisione italiana nel 1968. Quando in tempi a noi più vicini, nel 2011, il Polo Museale Fiorentino grazie a Cristina Acidini dedicò a Enzo Faraoni la grande esposizione antologica di Palazzo Pitti curata da Simonella Condemi e Mirella Branca e l’Accademia delle Arti del Disegno, in parallelo, volle dedicargli “Il carico del segno” una esposizione interamente legata alla sua grafica - incisioni e xilografie - mi ritorna in mente come egli, uomo problematico e sempre autocritico, fosse indeciso, quasi restìo, a voler esporre in particolare proprio le xilografie che riteneva troppo lontane nel tempo e a suo parere inattuali e fu abbastanza arduo convincerlo, ma poi, a mostra allestita, si arrivò a riconoscere un corpus di lavori in gran parte inedito di grande freschezza e straordinaria attualità che destò in tutti sorpresa e ammirazione. Quell’occasione fu una grande lezione, nel segno del disegno, anche per le generazioni più giovani. Dopo una serie di incontri e di affascinanti colloqui, scrissi in quella circostanza pensieri che a lui piacquero molto: “..Faraoni nutre fin da bambino una innata predilezione per il disegno, in esso egli vede la possibilità suprema (estrema) di esprimere i più alti sentimenti. Il segno diviene segnale, traccia, ma anche metafora, evocazione. Attraverso il segno egli, dietro la cortina degli oggetti rappresentati nel groviglio dei tratti, esprimerà la sua malinconica e raffinata percezione di cose, persone, luoghi, paesi, animali, ognuno strettamente connesso all’altro in una grande sistema di memoria poetica ed evocativa”. Anche altri hanno sottolineato questo suo senso lirico: vibrante, acceso, a volte addirittura umbratile, oscuro e misterioso, una visione che va ben al di là del semplice “naturale”, per cui nel suo lavoro, come qualcuno ha scritto, è impossibile distinguere «i dati del reale dal dato dell’emozione». Ed è proprio all’interno di questo temperamento che il suo lavoro rivela una evidente contiguità, un parallelismo profondo, con la poesia fiorentina del Novecento. Enzo dunque è stato un grande maestro che ha insegnato tanto anche a noi più giovani, da lui abbiamo imparato coerenza, fiducia e senso morale nel fare, difesa forte della qualità, indipendenza di pensiero, rispetto per le idee anche contrarie. Come accademico e presidente della Classe di Pittura, ruolo che ha rivestito a lungo e generosamente - e qui i ricordi personali, taluni molto cari, scorrono e si sovrappongono in un tempo di quasi trent’anni - ci ha lasciato una eredità forte: l’idea di un pensiero condiviso e scambiato, un modo di lavorare assieme, in gruppo, rispettoso di ogni posizione nel segno

di un dialogo sempre ricercato, l’apertura e la curiosità verso modi di lavorare anche diversi dai suoi ma di cui egli percepiva e riconosceva l’impegno e la serietà. E’ stato sempre un uomo di grande equilibrio ma anche, se necessario, tenace e combattivo e non rinunciava mai a far sentire apertamente il peso del proprio pensiero anche con vigore. Gli ultimi anni, difficili, segnati dalla scomparsa della sua cara Dianora - artista anch’essa e compagna insostituibile di vita e di viaggi memorabili - e da una grave e progressiva cecità, gli avevano tolto la gioia del vedere e del percepire quel colore protagonista del suo fare pittorico e lo avevano incupito e amareggiato ma non gli avevano offuscato una limpidezza di pensiero mantenuta fino all’ultimo. Dunque Faraoni protagonista e interprete del nostro ‘900, un secolo per molti versi ancora inesplorato o non adeguatamente conosciuto se non talvolta frainteso. Attraverso la sua figura e la sua opera, ed è un impegno che noi sentiamo fortemente, dovremo trovare pretesto e stimolo per ulteriori studi e riflessioni che ne valorizzino in modo adeguato l’opera in sinergia anche con l’Accademia delle Arti del Disegno istituto al quale Enzo ha dedicato, per oltre vent’anni, molte delle sue energie e tanta passione e dove ha lasciato, come uomo e come artista, un segno indelebile con un lascito di un migliaio di incisioni. Alle sue esequie, tenute nella Cappella dei Pittori dell’Accademia delle Arti del Disegno presso la Basilica della SS. Annunziata a Firenze, piena di amici, artisti, storici dell’arte e estimatori, era presente anche una rappresentante del Comune di Carmignano che aveva visto il giovane Faraoni partecipe di storiche imprese di guerra partigiana. Nessuno in rappresentanza del Comune di Impruneta dove da molto tempo Enzo aveva fissato la sua residenza. Assente, inspiegabilmente, anche il Comune di Firenze ove Faraoni aveva insegnato a lungo e lavorato per decenni in uno degli studi storici più belli e affascinanti di Piazza Donatello.

Enzo Faraoni e Andrea Granchi, Impruneta gennaio 2011


di Marinagela Arnavas Il Blade Runner 2049 di Denis Villeneuve segue a distanza di 35 anni il primo Blade di Ridley Scott edito nel 1982, ma è proiettato in un futuro che dista solo 30 anni dall’ambientazione del primo che era il 2019. Questo tempo che va avanti e indietro da un film all’altro è certamente una delle chiavi di lettura dell’interesse che entrambi i film hanno sicuramente per gli spettatori (anche se il Blade Runner di Scott alla prima uscita fu un clamoroso flop di pubblico). È la paura del futuro, soprattutto delle catastrofi che il nostro modo di vivere attuale potrebbe determinare, l’amore/odio per il post umano, per i replicanti, specchio di una possibile metamorfosi della nostra specie che rende attraente questo viaggio di 163 minuti in un mondo senza luci che non siano artificiali, in una Los Angeles con pioggia e neve costante come nel l’inferno dantesco, che confina con montagne di rifiuti e detriti di civiltà precedenti (impossibile non ricordare le immagini di Wall -e, il robottino del film d’animazione del 2008 che si affannava da mattina a sera a ripulire montagne di spazzatura), dove la solitudine è così acuta e dolorosa che una pentola che bolle sul fuoco con un odore di aglio fa quasi piangere di nostalgia. E non ha molta importanza per il sequel che il primo Blade Runner fosse ambientato nel 2019, un futuro che possiamo ormai quasi toccare, senza che praticamente nulla della narrazione si sia effettivamente realizzato, il che dimostra, e ci fa piacere, che la creatività umana non è facilmente prevedibile perché sono le nostre ossessioni e paure, splendidamente declinate dalla fotografia di Roger Deakins, ad essere proiettate sullo schermo. E tutto nasce dalla fantasia dello scrittore Philip Dick, dal suo “Do androids dream of electric sheep?”, in italiano “Il cacciatore di androidi”, a cui entrambi i film sono ispirati e a cui entrambi si riconnettono anche nel legame tra loro rappresentato dal personaggio interpretato da Harrison Ford che ritroviamo anziano ma ancora personaggio chiave nel sequel. Certo è stata molto diversa temporalmente la gestazione dei due lungometraggi: il primo Blade, quello di Ridley Scott, in cui erano stati utilizzati anche scarti di pellicole di Shining e di Legend, ha impiegato circa 26 anni per arrivare alla stesura finale; nel frattempo da un clamoroso flop di pubblico era diventato un vero e proprio cult a livello mondiale; il nuovo Blade 2049 è stato girato in tre mesi e postprodotto e montato negli 11 mesi seguenti, non a caso era situato in un futuro quasi con-

Blade Runner reloaded temporaneo rispetto all’ambientazione del primo. Nell’ultimo Blade è centrale il ruolo dei media che costantemente accompagnano qualunque azione, all’interno di un sistema sociale in cui ciascuno è solo mentre la realtà virtuale prende il posto di quella reale. Non a caso un ruolo di primo piano in questo film è occupato dagli ologrammi: in primis, interpretata da Ana de Armas, l’assistente digitale del protagonista, l’agente K o John (Ryan Gosling), che non solo si immola per lui, nella migliore tradizione delle donne innamorate non virtuali, ma addirittura si fonde con una prostituta reale per dare piacere al suo amato, incarnando un sogno accarezzato probabilmente da molti maschi, poi il gigantesco e luminoso ologramma femmina che troneggia nel centro di questa Los Angeles buia e fredda con funzioni vagamente consolatorie, che ricorda la Jessica di Roger Rabbit e infine gli ologrammi anche miniaturizzati sotto vetro di Marilyne , di Elvis Presley e Sinatra affascinanti come opere d’arte. Il tutto è pervaso da una forte, struggente nostalgia del passato dell’uomo, della sua carnalità: la nascita di un bambino da replicanti evoluti è un miracolo

e il rapporto casuale con i rarissimi animali rimasti scatena intense emozioni, dai vermi grassi allevati dal primo androide sterminato da Kappa alle api incontrate in uno dei viaggi alla ricerca del bambino nato fino al cane compagno di Deckart (Harrison Ford) ormai anziano; in questo il sequel recupera rispetto al primo film il ruolo degli animali molto presente a livello simbolico nel libro ispiratore di Philip Dick. Volendo stigmatizzare qualche limite si può citare l’eccessiva involuzione della trama, che lascia alcuni spazi di non chiarezza, che non sono però misteri e soprattutto la lentezza faticosa e piuttosto banale del conflitto finale tra la cattivissima (non è dato sapere perché) assistente dello scienziato cieco che vuole mantenere in casta schiavitù i replicanti e l’agente Kappa nonché l’anziano, ammanettato e piuttosto imbambolato Deckart che attende fino all’ultimo con l’acqua che gli arriva alla gola invadendo il mezzo sul quale è imprigionato per aprire con un click la cintura di sicurezza. Complessivamente un film da vedere sicuramente, magari accompagnandolo con una rilettura del primo Blade.

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Il secondo surrealismo fotografico di Danilo Cecchi

La conclusione della fase poetica e letteraria del surrealismo, affossata dalla contrapposizione, anche di natura politica, fra Aragon e Dalì, e nonostante il tentativo di mediazione di Breton, ma soprattutto dall’incombere del secondo conflitto mondiale, mette fine ad una stagione in cui il surrealismo tende a coinvolgere ogni tipo di espressione artistica, dal teatro al cinema, dalla danza alla grafica, dalla pittura alla fotografia, pur senza imporre alcun tipo di imposizione per quanto riguarda la poetica o gli indirizzi da seguire. Nei confronti della fotografia, attraverso le pagine della rivista “La révolution surréaliste” si cerca piuttosto di arruolare nelle file del surrealismo anche autori distanti dal movimento, purché autori di opere enigmatiche e poco comuni, pubblicando le loro opere a corredo dei testi. Una certa autonomia linguistica dei fotografi che si rifanno in maniera più cosciente alle teorie surrealiste viene raggiunta invece più tardi, nei decenni successivi alla fine della guerra, quando cominciano a farsi largo anche presso i fotografi concetti come “libera associazione delle immagini”, “liberazione del subconscio” e soprattutto “rivalutazione delle immagini dei sogni”. Fino dall’inizio i fotografi che si ispirano al surrealismo operano in due distinti campi, attraverso il fotomontaggio, le esposizioni doppie o multiple e le manipolazioni in camera oscura i primi, attraverso la ricerca nel mondo reale di situazioni paradossali, illogiche e fortemente contraddittorie i secondi. Se per i primi quello che gioca un ruolo determinante è la fantasia, la realizzazione per mezzo di tecniche sempre più raffinate di accostamenti e mescolanze fra elementi incongrui, fotografati separatamente e combinati successivamente e sapientemente, per i secondi quello che invece è importante è il caso, l’incontro non programmato con situazioni anomale, personaggi bizzarri o combinazioni imprevedibili di uomini e cose. Per i primi, a monte delle immagini vi è un lavoro preparatorio, sulla falsariga di una idea o di una intuizione felice. Per i secondi vi è l’allenamento a vedere le cose del mondo al di là della loro apparenza, a scoprire nel disordine della realtà sensibile dei nessi e dei collegamenti nascosti, tali da spostare il senso delle cose. Con lo sviluppo della tecnologia digitale e con la possibilità quasi illimitata di modificazione e di sostituzione delle immagini con altre immagini, il monopolio della fotografia surrealista passa nelle mani dei fotografi-ma-

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nipolatori, con la realizzazione di opere sempre più fantasiose e sorprendenti, sempre meno verosimili e realistiche, ma rese perfettamente “accettabili” ed estremamente “credibili” dal mezzo fotografico. Nella più pura accezione del termine “surreale”. Opere che in camera oscura richiedevano giornate di lavoro vengono realizzate al computer in tempi assai più rapidi e con risultati assai più precisi, e la diffusione delle fotografie “surrealiste” conosce una fase di espansione inarrestabile, difficile da seguire ma non da catalogare. Dove è presente la figura umana, essa viene stravolta e deformata, quasi sempre viene mescolata con elementi animali o vegetali, oppure con porzioni di paesaggio

naturale o urbano. L’uomo viene disumanizzato, mentre vengono umanizzati animali, piante ed oggetti diversi. Dove invece la figura umana non è presente, si deformano i luoghi e gli oggetti, alterandone forma e dimensioni, creando inesistenti connubi fra case ed alberi, città e deserti, rocce e nuvole. La forza di gravità viene annullata, le persone e gli oggetti fluttuano liberamente nello spazio, i rapporti fra le cose vengono capovolti. Come nella migliore tradizione surrealista, la realtà non viene negata, ma viene descritta minuziosamente e dettagliatamente, cioè fotograficamente. Tuttavia, per quanto perfettamente visibile e leggibile, si tratta di un’altra realtà.


di Susanna Cressati Scrisse Angiolo Pucci: “Dopo queste di famiglia le gioie più pure e più serene io le ho avute nella mia lunga vita dai giardini e dai fiori”. Era, il grande giardiniere, coetaneo di Giacomo Puccini e le sue parole riecheggiano, per intensità ed entusiasmo, l’aria celeberrima del Gianni Schicchi: “Firenze è come un albero fiorito...”. L’uomo che ha lasciato una impronta indelebile nel verde pubblico della sua città apparteneva a una schiatta di giardinieri: c’erano stati infatti un Angiolo Pucci senior (1758-1840) capo giardiniere alla Certosa del Galluzzo e poi a Boboli; poi un figlio, anche lui di nome Angiolo,(1791/92-1867), giardiniere granducale alla villa della Petraia e a Boboli. Il figlio seguente Attilio (1816-1885) fu capo giardiniere all’Orto botanico del Museo di Scienze, tra i fondatori della Società Toscana di Orticultura (una costola dell’Accademia dei Georgofili) e Soprintendente dei Pubblici Giardini e Passeggi di Firenze. Il nostro Angiolo, chiamiamolo “junior”, (1851-1934) sostituì il padre alla direzione dei giardini comunali, fu insegnante (nel 1891 ottenne la cattedra di Giardinaggio presso la Scuola di Pomologia, primo nucleo della Facoltà di Agraria) e divulgatore (con manuali editi da Hoepli). Fu soprattutto l’uomo appassionato e colto (e anche molto noto ed apprezzato) che fece uscire la sua arte dal recinto dei giardini dei palazzi nobiliari e mise la professione al servizio del piano di sviluppo di Firenze capitale, collaborando con Giuseppe Poggi e Giacomo Roster e trasformando ampi spazi urbani in una rete, in una infrastruttura, in un sistema verde dal forte valore sociale ed economico, oltre che urbanistico e paesaggistico, offerto alla libera disponibilità di tutti i cittadini. Non è un caso dunque che la Società Toscana di Orticultura, il Gabinetto Vieusseux, la Casa editrice Olschki, la Fondazione Cucinelli e gli Eredi Pucci, abbiano voluto realizzare a Firenze (era il novembre 2015) un importante convegno per approfondirne l’opera e la figura e che gli stessi enti abbiano presentato nei giorni scorsi gli atti di quell’evento, raccolti in un volume curato da Ilaria Spadolini (“Angiolo Pucci e I giardini di Firenze. Un’opera e un archivio ritrovati”), nel corso dell’annuale mostra mercato che si svolge proprio al giardino dell’Orticultura e in quella scintillante costruzione in vetro e ghisa di cui Roster la dotò nel 1880. Al tiepido sole di ottobre Angiolo Pucci è stato ricordato con un nuovo “assaggio” parziale di una operazione molto ambiziosa: la pubblica-

Oltre il giardino zione da parte di Olschki della monumentale opera del giardiniere fiorentino, “I giardini di Firenze”, un manoscritto straordinario, ritrovato in modo rocambolesco negli anni ‘90 dal secolo scorso e ora conservato al Vieusseux, più di mille pagine di scritti, disegni, cartoline, foto d’epoca in cui Pucci ha riversato tutto il suo sapere e l’amore per il suo mestiere e per la sua città, il “giardino d’Europa”. La pubblicazione ha già compiuto il giro di boa, perché sono da tempo disponibili tre volumi sui sei previsti. Nel primo, intitolato “I giardini dell’Occidente dall’antichità a oggi. Un quadro

generale di riferimento”, Pucci si cimenta, per la prima volta in Italia, in una storia universale del giardino, dalle origini al Novecento. Con il secondo (“Giardini e passeggi pubblici”), ricostruisce la storia dei giardini pubblici della città, Cascine, viali dei colli ma non solo. Infine il terzo (“Palazzi e ville medicee”) è un omaggio alla grande dinastia fiorentina e alle sue realizzazioni urbane. L’evento appena concluso anticipa la pubblicazione del quarto volume, “Giardini e orti privati della città”, che precederà gli ultimi due, “Suburbio vecchio e nuovo di Firenze” e “Comuni della cintura di Firenze”.

di Gianni Biagi

Dialogo a tre su teatro, tempo e spazio Una piacevole conversazione fra amici sul teatro e sullo spazio scenico all’interno di uno spazio teatrale per eccellenza: una chiesa. Questo è stata la serata che si è svolta nell’ambito della manifestazione “Nel chiostro delle Geometrie” organizzata da Tearc laboratorio di Teatro/architettura con la direzione scientifica di Carlo Terpolilli e la direzione artistica di Giancarlo Cauteruccio. Andrè Benaim è architetto e scenografo e mostra in ogni progetto e in ogni scenografia il segno della sua cultura e della sua attenzione al contesto. Siro Ferrone è storico del teatro e professore universitario e racconta l’evolversi del concetto di spazio teatrale nel tempo e nello spazio. Giancarlo Cauteruccio è attore e regista e, quasi da un fuori scena, guida invisibilmente la conversazione. Quasi due ore di “lezione” sul teatro e sulla scenografia interrotte solo dalle esigenze logistiche del Diparti-

mento di Architettura di Santa Verdiana che alle 11 di sera deve chiudere i battenti. Altrimenti il numeroso pubblico presente avrebbe volentieri fatto “le ore piccole” per ascoltare i tre protagonisti che si sono prodotti in quella che il programma presentava come una “lezione scenica” dove ognuno ha un ruolo e lo svolge con attenzione. Protagoniste della serata sono state le scenografie di Benaim che spaziano dal teatro greco al contemporaneo e che ogni volta restituiscono la consapevolezza che quello era il modo giusto di affrontare il testo e il contesto. Come nella scenografia per la rappresentazione del Rudens, su testo di Plauto, che si è svolta nel teatro greco di Segesta dove il contesto ha una tale valenza paesaggistica, storica e simbolica che la scenografia si fa piano di calpestio per sorreggere il contesto. Una invenzione perfetta.

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di Matteo Rimi Non sempre l’espressione “avere un chiodo fisso” ha valenza positiva. Sicuramente non ne ha quando rasenta il concetto di ossessione, incubo ricorrente o la biasimevole abitudine (tipica anche di questi tempi) di imputare agli stessi la responsabilità dei problemi che vedi impotente crescere attorno a te. Anche tra gli artisti avere un chiodo fisso non è sempre sintomo di un giusto temperamento: sebbene il concentrarsi su di un lavoro, su di un aspetto della realtà, per sviscerarlo fino in fondo, possa regalare al mondo magnifiche opere da dettagli che continuano a stupire anche a distanza di secoli (si potrebbero citare, tra le molte, le decine di “ninfee” che Monet ritrasse in cerca di quella “perfetta”), in animi geniali ma estremamente fragili come quello di Van Gogh, il “chiodo fisso” può portare anche a nefaste conseguenze! Se poi “Chiodo fisso” è il nome che venne dato ad uno storico locale fiorentino, dalla caratteristica penombra fumosa attraversata dal suono di chitarre acustiche e di voci intonanti le parole dei cantautori, chiuso ormai da tempo ma redivivo adesso in piazza Mino a Fiesole con il nome di “Nuovo Chiodo fisso”, si può intuire quale si sia piantato tra i pensieri del suo fondatore (oggi come allora) Andrea Ardìa, e quale invece si appunti adesso nelle teste già fumanti dei tanti componenti dell’Associazione Artisti Fiesolani, invitati a riempire le pareti del nuovo locale di chiodi su cui appendere le proprie opere! Ma non bastano le attaccaglie, i chiodi che gli espositori (Lorenzo Montagni, Valerio Mirannalti, Carlo Nannini, Roberto Coccoloni, Fernando Cardenas, Alessandro Goggioli, Fiamma Antoni Ciotti, Simonetta Zanuccoli, Francesco Beccastrini) saranno tenuti a maneggiare sono quelli su cui gira la propria produzione artistica, confessandoli con il criterio che useranno per scegliere le opere ma anche durante l’inaugurazione delle 9 mostre della rassegna dal titolo, appunto, “Il chiodo fisso degli artisti” che si susseguiranno mensilmente dal prossimo venerdì 20 ottobre. Non contenti, verranno sottoposti alla stessa “tortura” altrettanti poeti (Bernardo Pacini, Francesco Gurrieri, Nicolas Cunial, Sergio Talenti, Danilo Breschi, Iacopo Ninni, Paolo Fabrizio Iacuzzi, Marthia Carrozzo, Alfredo Vestrini) dalle cui parole sarà divertente carpire segreti, magari inconfessati, sulla propria opera. Ad alleviare questo stimolante “supplizio”, l’aperitivo servito dal locale a prezzi abbor-

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Un chiodo fisso per la poesia

dabilissimi! Chi scrive ha sempre la fortuna di dirigere il gioco, di porsi da una parte anziché dall’altra e sentirsi quindi, come in questo caso, esentato dal rivelare il proprio chiodo fisso... Ma è una sensazione effimera perché la scrittura non è facile da domarsi e, se anche si riesce a governare le righe, il proprio “io” si anniderà TRA esse inevitabilmente e starà solo a chi legge saperlo individuare. E, questa volta, ci siete riusciti?

PRESENTANO

Il chiodo fisso degli artisti Creativi si confessano

a cura di

di Matteo Rimi

9 incontri: 1 presentazione di un poeta 1 mostra di un socio 5 € l’aperitivo

I fiori privati di Andrea Papi a Sensus 20 Ottobre 2017, h. 18,30 Bernardo Pacini, poeta Lorenzo Montagni, pittore

4 Novembre 2017, h. 17,30 Francesco Gurrieri, poeta Valerio Mirannalti, pittore

a cura di Claudio Cosma

2 Dicembre 2017, h. 17,30

12 Aprile 2018, h. 17,30 13 Gennaio 2018, h. 17,30 Roberto Coccoloni, scultore Paolo Fabrizio iacuzzi, poeta Sergio Talenti, poeta Fiamma Antoni Ciotti, pittrice Fulvio Renzi e Alex Biagi, compositori iN “TRACCe dA TeRRA MATeR”

3 Febbraio 2018, h. 17,30 danilo Breschi, poeta Fernando Cardenas, pittore 3 Marzo 2018, h. 17,30

5 Maggio 2018, h. 17,30 Marthia Carrozzo, poeta Simonetta Zanuccoli, pittrice 9 Giugno 2018, h. 17,30

DalleNicolas nebbie dei poeta nostri ricordi d’infanzia Alfredo Vestrini, poeta Cunial, iacopo Ninni, poeta emergono i fiori di un giardino incantato, Francesco Beccastrini, pittore Carlo Nannini, scultore Alessandro Goggioli, pittore una botanica spirituale che ci fa apparire Presso il nuovo Chiodo Fisso in Piazza Mino, 12 Fiesole le specie floreali, i dettagli delle foglie, dei boccioli, dei rami che si flettono al peso dei fiori o del vento, come altrettante rappresentazioni di una galleria di ritratti, dove sono descritte le inclinazioni di quei singoli fiori, non solo reali, ma anche psicologiche. Sabato 14 ottobre dalle 18 alle 20,, verranno presentate, a Sensus viale Gramsci42a e nella Vetrina Sensus in Piazza Mino a Fiesole


di Claudio Cosma Mi sono sempre piaciuti i monumenti da tavolo, quelle sculture che osservate quando stiamo studiando o scrivendo, ci appaiono attraverso una distrazione, prive di punti di riferimento che ne determinino la scala e fra penne, lampade, vasi da fiori e gli altri oggetti disparati che si trovano sulla scrivania, si mostrano grandiose fra due battiti di ciglia. Queste opere particolari mi fanno compagnia, sono quasi sempre d’accordo con me e non cambiano posto una volta trovato quello giusto. Altra qualità che possiedono questi straordinari soprammobili è quella di essere abitudinari, proprio come me, solitamente ci incontriamo alle stesse ore e nello stesso posto, neanche avessimo appuntamento. Non facciamo mai questioni di proprietà, di preferenze e di simpatia, ci siamo già scelti reciprocamente e talvolta penso di essere io proprietà della scultura e

Donna gatto questa non lo fa mai pesare o rimarcare. Naturalmente ho un atteggiamento animista con gli oggetti e quelli fatti dagli artisti non contengono mai forze contrarie o negative, come può succedere con pezzi di antiquariato o archeologici o religiosi o di uso personale come i gioielli d’epoca. Sono le piccole sculture oggetti da interni alle quali si confà la luce indiretta, le chiacchiere sottovoce, i segreti mondani e qualche peccato di gola al quale assistono solitamente imperturba-

te. Il monumento in questione è il busto di una donna gatto, in argilla essiccata, in parte dipinta e quindi cotta. Riposa su di un materasso in miniatura dall’aria molto confortevole, appoggiata su di un basamento di legno di recupero del quale si percepiscono gli anelli di accrescimento. Niente di prezioso come si confà ad una gatta per la quale niente è abbastanza di lusso da poter stare al suo pari. Le orecchie sono notevoli, dritte e nere come due punte di lancia, l’atteggiamento è serio e sicuro, lo sguardo deciso come di chi abbia in mente un obbiettivo imminente nella realizzazione. Indossa una camicetta leggera, essendo stata creata in un caldo mese di settembre, un’arietta leggera le smuove i capelli che sporgono dalla maschera, in quanto la nostra gatta ne sfoggia una proprio come solitamente fanno i supereroi o semplicemente le civette. Come scrivevo sopra, la scultura ha la dignità del ritratto di una personalità in posa, e lo si può immaginare d’infilata nella galleria di un museo insieme a tanti altri simili, ma sicuramente non uguali essendo il nostro sì un autoritratto dell’autore e nello stesso tempo un personaggio di fantasia, partecipe dell’unicità che spetta a chi entra ed esce da una fiaba con la stessa facilità mia di uscire di casa. In realtà scompare o si dissolve quando esce, forse per compiere una qualche missione e si materializza nuovamente quando prende il suo convenzionale posto sulla mia scrivania, di buon grado e assai compita, piena dello spirito di avventure trascorse, con la sua elegante mascherina di velluto nero. La foto della Donna Gatto riprodotta è della stessa autrice della scultura, quindi si configura come riproduzione della stessa, ma anche come un a sé stante lavoro d’arte e nella asemantica collocazione sembra, appunto, un monumento, tendendo ad immaginare il materasso a grandezza naturale. L’effetto della fotografia è leggermente spiazzante e forse un poco surreale per la diversità difficilmente conciliabile dei quattro materiali usati: argilla, colore, legno, cotone. Io, talvolta la faccio scendere dal piedistallo e dal materasso e la tengo in mano e la controllo, non si sa mai. Una volta aveva sulla maschera un piccolissimo puntino bianco che ho prontamente ridipinto di nero, forse procuratosi in una delle sue scorribande che ha tutto il diritto di compiere quando siamo reciprocamente lontani l’una dall’altro. Spero mi vorrà perdonare Elene Usdin, autrice della scultura e della foto, per questa inconsueta, ma affezionata descrizione del suo lavoro.

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di Roberto Barzanti Ai primi di maggio del 1938 fu organizzata dal governo italiano una visita del Führer che ha dato luogo ad una vasta letteratura. Fu immortalata dagli operatori dell’Istituto Luce in immagini di rara incisività. Ma l’opera che gli ha dato maggior risonanza è stata “Una giornata particolare” (1977) di Ettore Scola. Sullo sfondo delle fastose celebrazioni romane (6 maggio) si sviluppa e s’inceppa il rapporto impossibile tra Antonietta e Gabriele. L’uomo è stato licenziato dall’EIAR per la sua omosessualità e sta per essere spedito al confino in Sardegna. La donna è schiava di un volgare marito fanatico del regime, e non trova la forza per liberarsene. Un dramma privato che del regime fascista rivela l’amara realtà quotidiana, contrapponendola alla retorica e alla grancassa ufficiali. L’infausta visita è stata portata alla ribalta anche per un altro aspetto: a fare da Cicerone a Hitler fu comandato Ranuccio Bianchi Bandinelli, archeologo illustre e per giunta perfetto conoscitore del tedesco, lingua della madre. Siccome successivamente Ranuccio divenne uno degli intellettuali più autorevoli e ascoltati del Partito comunista – al quale si iscrisse nel 1944 – è stato inevitabile il fiorire di sarcasmi, attacchi, battutacce tese a enfatizzare l’episodio al di là della sua effettiva portata. Le immagini si prestano a una tale operazione: il professore incede a tratti come il protagonista dell’incontro. Da un lato è percepibile la presa intellettuale che esercita sul dittatore tedesco, dall’altro un certo suo compiacimento, non disgiunto da uno stile impeccabile. L’episodio è raccontato dal docente senese nel suo “Dal diario di un borghese” (1948) sotto un titolo, “Intermezzo agli Inferi”, che ne fa una sezione a parte. Sicché se ne sono avute autonome edizioni, e pure traduzioni, in Francia e in Germania che io conosca: talmente forbita e beffarda è una prosa davvero classica, arguta, penetrante. Bianchi Bandinelli era troppo onesto per bluffare. Quel “dal” nel titolo del volume, che uscì da Mondadori in un anno cruciale, chiariva che non si trattava della semplice trascrizione del diario tenuto discontinuamente, ma di un testo ricavato, appunto, scegliendo, montando e ritoccando o rendendo espliciti fogli di diario, note e appunti buttati giù per personale memoria, in contemporanea con gli eventi o a commento di letture o per abbozzare giudizi, futuri progetti, propositi da definire. Ranuccio all’epoca insegnava a Pisa e abitava a Firenze. Dopo metà marzo ’38 si vide

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Ranuccio Bianchi Bandinelli

la guida del Fürher

recapitare un telegramma del Ministero della Pubblica Istruzione che lo convocava a Roma. Prima di presentarsi incontrò – rivela – due amici: le sole persone che conoscesse nell’ambiente, seppe che cosa gli veniva richiesto e si rese conto che «erano stati essi, A. e B., a suggerire» il suo nome, credendo, magari, di fargli un piacere. Le due lettere

iniziali nascondono nomi altisonanti: Giulio Carlo Argan e Cesare Brandi, entrambi membri tra i più attivi dell’ “entourage” di Bottai. Un funzionario spiegò a Ranuccio che avevano deciso di affidargli «l’incarico di accompagnare Hitler nei musei, nelle gallerie e nelle visite dei monumenti di Roma e di Firenze, data – scrive – la mia conoscen-


za della lingua tedesca, il mio interesse non limitato solo alle cose archeologiche, giacché si voleva che una sola fosse la persona incaricata, e la mia ‘disinvoltura mondana’». Ranuccio assicura che tentò di affrancarsi da una tal compito, dichiarando perfino di non nutrire simpatia per il personaggio da accogliere. Non ci fu verso. Il funzionario fu irremovibile e così Ranuccio fu cacciato in un bell’«imbroglio». Da quel giorno è tormentato da cupe fantasticherie e da ipotesi ardite: non era mica difficile «far penetrare una bomba, o più» dalla finestrelle del Corridoio vasariano e far fuori l’illustre ospite! Altri marchingegni avrebbero potuto essere adottati. Lui non aveva la stoffa del “kamikaze”, ma non sarebbero mancate le occasioni per mettere in atto un vero e proprio attentato letale. Dopotutto la polizia non esercitava su di lui alcun controllo: «...ero un antifascista generico, senza una direttiva politica, senza una precisa convinzione, senza un programma. E tali erano gli altri antifascisti di mia conoscenza. Nessuno di questi sapeva o mostrava di sapere dell’esistenza, ad esempio, di un Partito comunista clandestino, che aveva conservato anche durante la persecuzione i suoi contatti e i suoi dirigenti». Questo è uno dei passaggi che meglio comprova la stesura inevitabilmente “ex-postea” del testo. Lo stesso autore, del resto, non lo nasconde. Il brillante racconto è un’invenzione letteraria nella quale si sovrappongono tempi e idee: non un documento in diretta, ma una sorta di “autofiction”, come oggi si dice. I maligni potranno sostenere che era anche un “escamotage” per alleggerire il peso di una missione che spiacque molto a Ranuccio. Il suo compito fu senz’altro neutro e non implicava

alcun attestato di fede ideologica, ma quelle immagini, quella deferenza, e la compagnia che attorniava – un goffo Mussolini in testa – destano fastidio e consentono malevolenze, favoriscono (improprie) amplificazioni propagandistiche, stanno sullo stomaco. Anche quando si difendeva dagli attacchi degli avversari, delimitando il senso di quanto capitatogli, Ranuccio non riusciva a nascondere un imbarazzo di fondo. Ho avuto solo una volta occasione di accennare di sfuggita (ingenuamente) alla vicenda, in uno dei tanti colloqui intrattenuti con lui e non posso dire che nella conversazione ne riferisse con l’ironia sfoderata nella pagina scritta con affilata eleganza. Lunga premessa per commentare il “docu-film” o “docu-thriller” di Enrico Caria “L’uomo che non cambiò la storia” (2016). È un’opera che merita apprezzamento perché concepita e realizzata con intelligenza, intrecciando le parole del racconto di Bianchi Bandinelli e le immagini del Luce o di altri archivi senza cedere a furbeschi sensazionalismi o verbose escogitazioni. L’innesto del linguaggio “graphic-novel” è dosato con gusto e rende visive le amare riflessioni di Ranuccio. La sceneggiatura di Caria, giornalista vivace, scrittore estroso e corrosivo, documentarista esperto, aderisce allo spirito della testimonianza e la colloca entro coordinate storiche che le danno spessore didattico. Ovviamente maneggiare una materia così bruciante è impresa che può suscitare qualche perplessità o far insorgere dubbi e distinguo. Nell’insieme regge e registra non a caso un successo giustificatissimo. Ciò non vuol dire che non siano leciti rilievi critici. Anticipare come introduttiva premessa, ad

esempio, le tragiche immagini della conclusione del conflitto crea un clima che destoricizza le giornate della visita. Anche il riferimento agli ammonimenti tattici di Togliatti, che incita i compagni a lavorare in patria per preparare il riscatto dell’Italia dall’ignominia fascista, è anacronistico e ha poco a che fare con la posizione che Ranuccio, e con lui tanti intellettuali, avevano nel ’38. Quando erano nell’aria angoscianti presagi di vigilia. Ma la pretesa di uno storicismo strettamente filologico contrasta con le esigenze di spettacolarizzazione tipiche di un’opera del genere. Avrei – ma è osservazione molto toscana e personale – abbondato in immagini fiorentine. Il mite cardinale Elia Dalla Costa fece serrare le porte della Cattedrale in segno di protesta. E fu un gesto netto, suonò condanna drastica. Fotogrammi non inclusi ne serbano memoria. Hitler considerava Firenze il culmine del suo viaggio di artista. Quel lunedì 9 maggio fu una giornata luminosa e infernale. Il Fürher sbottò con Ranuccio, mentre osserva con la colta guida la meravigliosa conca da piazzale Michelangelo, in una battuta che esprimeva il sottofondo psicologico e politico che lo stava animando: «E pensare – esclamò – che, se fosse venuto il bolscevismo, oggi tutto questo sarebbe distrutto, come in Spagna. La Toscana, il paese più ricco di cultura al mondo!». Eugenio Montale ha tramandato (“La primavera hitleriana”) il fremito avvertito in quelle ore di abietto servilismo: «Da poco sul corso è passato a volo un messo infernale / tra un alalà di scherani…». Altro che corteo trionfale! Era l’annuncio d’una tragedia. Quando Ranuccio fu una seconda volta invitato a presenziare all’incontro tra Hitler e Mussolini, il 28 ottobre 1940, l’insigne archeologo con la scusa di un raffreddore, ebbe il coraggio di dire no e riattaccò il ricevitore del telefono. La bufera si era già scatenata.

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di Andrea Caneschi In molti luoghi della Sardegna ancora oggi si rinnova la tradizione dei Novenari, una pratica religiosa costruita intorno alla venerazione dei santi introdotti in Sardegna dai monaci bizantini in fuga dalla persecuzione di Leone III l’Isaurico o creati dalla fantasia religiosa popolare. Sembra infatti risalire a quel tempo, tra il VI e l’VIII secolo, la celebrazione dei Novenari, all’inizio semplici luoghi di riunione delle genti circostanti intorno alla chiesetta campestre intitolata al santo, dove i convenuti si radunavano, accampati all’aperto per i giorni della preghiera. Era un periodo di sospensione del lavoro quotidiano, durante il quale si rinforzavano i legami comunitari, si concludevano affari garantiti dalla sacralità del luogo, si pregava e si faceva festa insieme per i nove giorni che conducevano alla ricorrenza del Santo. Dunque una pratica antica che il tempo non ha interrotto, come scopriamo sulla via del ritorno, quando notiamo l’indicazione turistica dell’esistenza nei dintorni di altri novenari e di piccole chiese di campagna. Siamo nel territorio di Ghilarza, sull’altipiano di Abbasanta intorno al lago Omodeo, il grande invaso artificiale alimentato dalle acque del Tirso, creato per alimentare la pianura di Oristano. Le distanze sono brevi e decidiamo di approfittare delle ore del pomeriggio per indagare più a fondo questa curiosa persistenza. Seguendo le indicazioni turistiche lungo stradine di campagna asfaltate, che servono le rade coloniche e le rudimentali strutture di servizio alla pastorizia e all’allevamento disseminate nel territorio, incontriamo ben presto il Novenario di San Michele. Come vedremo anche negli altri due novenari che visiteremo a breve distanza da questo, quello di san Giovanni e quello di San Serafino, la chiesa e i muristenes – le casette in fila, basse e povere, del tutto analoghe a quelle che abbiamo visto a Santa Cristina – mostrano interventi successivi nei secoli, quando non una completa riedificazione in tempi anche relativamente recenti, nel corso del 1800 e 1900, sempre però nelle forme semplici proprie di un piccolo santuario di campagna. Le informazioni affisse ci raccontano di luoghi frequentati da sempre, sorti in questo caso ai margini di una struttura viaria Romana, costellata di mansiones – stazioni di posta, diremmo oggi –, di piccoli villaggi e di santuari campestri. Sulle rovine di queste antiche presenze umane sono sorti numerosi, per lo più dopo il mille, questi piccoli edifici sacri dedicati ai santi della tradizione bizantina e sarda, punti di raccolta della devozione delle popolazioni. L’impressione è forte, ancora di

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Viaggio in Sardegna Un filo di fede/2

più che nel sito archeologico, dove la presenza dei visitatori contestualizza l’esperienza e la consegna al passato. Qui invece il passato resiste caparbiamente e riemerge tutto insieme nel presente di queste silenziose piazzette deserte, strette tra la chiesetta e i muristenes, che dall’alto delle colline guardano il lago e la distesa dei campi, in una testimonianza sospesa della comunità dei fedeli, come in attesa, con un’apertura all’infinito che non crediamo casuale. Un anziano gentilissimo, che troviamo presso il novenario di San Michele – lui e la moglie, uniche presenze in questo ordinato e vuoto piccolo villaggio – si prepara a trascorrere, molto laicamente, il fine settimana nella sua casetta di campagna, una delle casupole del complesso che, come ci spiega, sono oggi quasi tutte vendute a privati, salvo alcune rimaste nella disponibilità del parroco che le

aprirà ai fedeli nei giorni della preghiera. Ci fa visitare la sua casa, due stanze modeste, ma riempite del senso di appartenenza alla comunità del Novenario, che le rende preziose e non cedibili. Ci racconta le preghiere, i canti, le processioni che riempiono i giorni della festa del Santo, ma anche ci lascia intravedere il gusto di trovarsi lontano dagli affanni quotidiani, in una sorta di villeggiatura riempita da cene, lotterie, giochi, che animano – sembra di capire in maniera molto secolare – questi periodici raduni di una fede popolare, semplice ma tenace. Poi di nuovo il silenzio, solo un cane nervoso abbaia a perdifiato quando ci affacciamo a visitare il Novenario di San Serafino. Il sole ormai basso arrossa il bosco e il piccolo villaggio: un pezzo di bellezza che emerge con tutta naturalezza dalla misteriosa semplicità di questi luoghi.


di Simone Siliani Non troppo diversamente dall’Allegria di naufraghi di Ungaretti, quella di Sieni – messa in scena in “Diario di vita. Isolotto”, lo scorso 11 ottobre al Teatro della Pergola di Firenze – è allegria e felicità di una vita, scampata (come tutte, del resto) ad imminenti naufragi, sempre in equilibrio precario fra il perdersi e il trovarsi miracolosamente vivi, fra l’inconsapevole fluire del presente e il riconoscimento del valore salvifico della memoria. Da qualche tempo, Virgilio Sieni va riscoprendo e riflettendo su questa dimensione vitale della memoria, andando in profondo alle radici della sua storia. Se può essere diversamente scritto un diario che non sia cronaca del passato ma indicazione di un movimento verso qualcosa e comprensione del perché si sta, in quel preciso momento, “scrivendo” quel diario, questo è possibile attraverso la forma simbolico-descrittiva e artistica della danza. Perché nel Diario di Sieni è in gioco il corpo che passa attraverso il tempo, si trasforma ma allo stesso tempo plasma – con il suo movimento, anche impercettibile - la spazio intorno. E’ così che Virgilio Sieni configura il suo Isolotto. Quartiere di Firenze, per chi non lo sapesse, che è stato teatro di processi di valorizzazione urbanistica, di scontro sociale, di forme inedite di solidarietà, di definizione di parametri diversi sulla qualità della vita, di esperimenti di comunità religiose e sociali decisamente eterodosse, fin dalle requisizioni delle case e dalla costruzione del quartiere con le case popolari di Giorgio La Pira, fino alle esperienze di pastorale sociale di don Enzo Mazzi, fin dentro l’inizio del nuovo secolo con le lotte per la pace e contro le ingiustizie globali. La cosa sorprendente, anche per un fiorentino doc come lo scrivente, è come – di generazione in generazione, fino a quelle nate a a cavallo del nuovo Millennio – essere nati all’Isolotto costituisca un elemento d’orgoglio, di riconoscimento, di identità culturale e politica anche oggi, quando queste identità si vanno sciogliendo in quella indefinita globale o in quelle chiuse del comunitarismo più gretto. “Sono dell’Isolotto” significa molto di più che essere di S.Croce o delle Cure o di Novoli a Firenze; ma significa molto di più in generale di ogni appartenenza anagrafico-geografica; vuol dire appartenere ad una comunità, ad una storia, ad uno spazio sociale vivo, di cui ci si sente fieri. Ho avvertito tutto questo nelle parole di una ragazza appena diciottenne che, come tutte le sue coetanee, viaggia per il mondo in aereo o nella Rete; eppure, appartenere all’Isolotto è qualcosa che la rende fiera e la identifica con “quella” storia. La stessa cosa che si avvertiva vedendo la coreografia di

L’Allegria di Sieni

Virgilio Sieni alla Pergola e il suo attraversare, “scrivere” con l’inchiostro della sua danza, le fasi della sua vita dentro “quella” storia dell’Isolotto. Ho immaginato quali lacerazioni abbai vissuto uno come lui, nato in una zona operaia e per certi versi anche “tradizionale” della Firenze della fine degli anni ‘50, che però veniva trasformata – socialmente prima ancora che urbanisticamente – dal sindaco La Pira: le radici ben piantate in quel luogo, ma una mente, uno spirito che spingeva il suo corpo lontano, in dimensioni certo più ampie di un rione cittadino. Ci sono “fuga” e “dolore” fra le danze in serie che costituiscono “Diario di vita. Isolotto”; ma ci sono anche “gioco”, “felicità” (“A quattro zampe”!), “dondolarsi”: contrasti che ci dicono qualcosa su quelle lacerazioni, ma anche sulla volontà di rimanere dentro una realtà che pure

si avverte vitale. La musica, eseguita dal vivo, di Eivind Aarset ha reso straordinariamente questi contrasti e ha certamente aiutato Virgilio Sieni a presentare quella allegria di un naufrago, capace di mettere in fila una straziante “crocifissione” e la più strepitosa e felice delle danze “pulcinesche”, l’incontenibile felicità dello scoprirsi infine vivo, dietro la maschera della commedia dell’arte (perché niente altro che questo, infine, è la vita) e lo strisciare in terra e saltare in aria, senza un attimo di tregua. Tutte le esperienze della vita sono percorse dalle diramazioni del corpo, in questa coreografia: si resta sospesi a lungo sulla soglia della caduta e il naufragio è la condizione quasi costante, fino al “Giù” definitivo e possibile. Ma è la danza, la felicità e l’allegria di questa vita ad avere infine la meglio.

Pietro Porcinai a Pierrefitte-sur-Seine

Il 19 ottobre presso gli “Archives nationales” a Pierrefitte-sur-Seine ed il 20 ottobre presso l’“École nationale supérieure du paysage” di Versailles si terranno le giornate di studio «Archives et paysagistes. Collecte, enjeux et prati-

ques». Il 20 ottobre nella sessione mattutina “ Transmettere pour Comprendre, Gérer et Renouveler” è previsto l’intervento di Francesca Ghersetti e di Luigi Latini sull’archivio Pietro Porcinai.

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di M. Cristina François Finora, in questa sede, ho parlato del complesso di S.Felicita (Chiesa e Monastero) come pure del Vicolo della Cava dove ho accennato anche all’esistenza di altri due Monasteri i quali formano tutt’oggi un ‘poligono’ di strutture conventuali che ha per confine, ad est, il ‘Monastero di S.Giorgio’, a nord, la ‘Chiesa di S.Giorgio alla Costa e dello Spirito Santo’. Dopo una chiusura forzata durata circa trent’anni, determinata dalla necessità della messa in sicurezza del tetto, il 30 settembre 2017 questo edificio sacro ha riaperto le porte e ha ripreso la sua funzione parrocchiale. Se ci soffermiamo a guardare il muro della Chiesa rivolto a nord e che segue l’andamento della collina, superata la porta laterale timpanata che dà accesso al suo interno, e proseguendo pochi metri per la salita, vediamo una piccola porta moderna che pare immetta nell’anditino alla base del campaniletto. Immediatamente dopo, una terza porta conduce al Presbiterio della Chiesa e al Capitolo riconducibile alla fine del ‘500 o ai primi del ‘600. Questa Sala capitolare è di pertinenza della Chiesa di S.Giorgio, come pure l’importante ingresso chiuso con antiche bozze di ‘pietre a vista’. Sosto davanti a questo largo accesso tamponato poiché si tratta del vano della ‘porta claustrale’ del Monastero di S.Giorgio (di essa rinvenni il relativo documento in una carta d’Archivio conservata presso la Curia Arcivescovile di Firenze), cioè di quella porta che era ritualmente aperta e poi rimurata ogni volta prima e dopo la Vestizione delle Monache Corali. Fra la ‘porta claustrale’ e la porta di fianco della Chiesa non esistevano altre aperture. La porta delle monacazioni credo sia una delle rare testimonianze sopravvissute di questo genere. L’evento della Vestizione era un rito solenne che vedeva, da una parte, snodarsi processionalmente per la salita i nobili familiari della Novizia, dall’altra, consacrava l’ultimo apparire agli occhi dei propri cari della fanciulla destinata alla “cerimonia del velo”. Accompagnata dalla Badessa, dalla Priora, dalla Monaca Maestra e dal Padre Confessore, la giovane scompariva attraverso la ‘porta claustrale’, per sempre. Dietro di lei veniva murato e lasciato fuori quel mondo che la religiosa non avrebbe più rivisto. Questo accesso è da considerarsi, dunque, icona della Clausura e unico suo segno ancora tangibile. Nonostante gli stravolgimenti architettonici subiti nel corso dei secoli, questo Monastero, in origine, seguiva gli stilemi che qui descrivo. La ‘Regula’ di S.Benedetto non suggerisce

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La porta claustrale in Costa s. Giorgio la forma architettonica del Monastero. Ogni edificio dell’Ordine, in quanto autonomo, non è nei primi tempi soggetto a norme precise. La sua struttura, edificata intorno al nucleo del chiostro, ricorda l’“atrium” della casa romana: infatti il monaco Gottfridus Vindonensis chiama il chiostro “atria” e, quanto alla morfologia conventuale, l’abate Petronace parla di “romano more”. Nel 906, Ildemaro da Civate specifica i caratteri generali: il Monastero o Convento deve essere edificato su terreni liberi da vincoli politici ed economici, in un luogo ricco di acque, lontano da donne (per i Conventi maschili) e da chierici e laici (per i Monasteri femminili), infine deve auto-sostentarsi. In Hugonis de Folieto (cfr. ‘De Claustro Animæ libri quatuor’, 1059) si descrive materialmente la forma dell’Anima così come Dio la infuse nell’uomo. L’Anima fu creata a forma di Chiostro quadrilatero. L’orientamento dei suoi lati, ognuno con tre colonne, aveva lo scopo di condurre alla perfezione: ad est il disprezzo di sé (vi corrisponde il Capitolo dove i religiosi danno prova di

subordinazione alla Badessa o all’Abate). Le Virtù d’obbedienza e sottomissione trovano forza e sostegno nelle tre colonne che Hugonis disegna nel lato orientale del suo portico spirituale e che così definisce: “umiliazione del cuore”, “afflizione della carne”, “discorso umile”. Ad ovest l’Amore per il prossimo (vi corrispondono in architettura la Foresteria, la Ruota, i Parlatori). Le tre colonne del portico a ovest rappresentano tre forme di sostegno per mettere in pratica l’Amore verso il prossimo e cioè: il “disprezzo degli onori”, “la fuga da ogni forma di lode”, “l’amore per l’altro nell’obbedienza”. A sud il disprezzo del mondo e di tutto ciò che è materiale (vi corrispondono Refettorio, Cucine, Magazzini, Lavanderia, Orti). Anche da questo lato tre colonne sostengono l’Anima eletta e simboleggiano: “l’umiltà della veste”, “la semplicità del cibo”, “la fatica nel lavoro”. A nord la virtù più alta, l’Amore di Dio e perciò la Chiesa, rispetto al Convento, è posta a nord (l’altare rivolto a est, verso Gerusalemme). Su questo lato del portico, tre colonne significano a loro volta, la forza dell’Amore verso Dio tramite “il confidare in Lui”, “il sottomettersi a Lui”, “l’obbedire alla Sua voce”. Al centro, il pozzo, edenica ‘Fons Salutis’ con intorno le piante di un ‘Hortus conclusus’, specchio del Paradiso e “vivaio delle Anime” secondo S.Pier Damiani. In questo spazio della Clausura benedettina, nelle ore di preghiera, le religiose compivano un itinerario mentale, meditando di colonna in colonna ai quattro punti cardinali. Questa planimetria dell’Anima la ritroviamo materializzata nei cenobi benedettini. Anche il Monastero di S.Giorgio - pur superfetato nel corso dei secoli - fu eretto dapprima intorno a un Chiostro, luogo distributivo degli altri ambienti. Precedentemente al Convento fu eretta la Chiesa e a est di essa, la Sala Capitolare, punto di incontro privilegiato tra Chiesa e Cenobio. A Giorgio, santo martire, si richiede ora il compito di salvare i beni materiali e immateriali della sua Chiesa in antitesi con il battage giornalistico che ricorda, di questi luoghi in origine consacrati, solo la memoria recente della caserma Vittorio Veneto e della sua destinazione a complesso alberghiero di lusso.


Il Club des Hachichins di Simonetta Zanuccoli L’hashish si diffuse in Francia attraverso le truppe napoleoniche che lo avevano scoperto durante la campagna in Egitto. Il dottor Jacques-Joseph Moreau (1804-1884), uno dei primi pionieri della moderna psicofarmacologia, che stava studiando l’assimilazione tra la fantasia onirica e la follia, capì che, con questa droga, poteva provocare la disorganizzazione della coscienza con esperienze allucinatorie (metodo usato poi, in tempi più moderni, con LSD). Lui stesso ne sperimentò gli effetti intorno al 1840. Qualche anno più tardi, nel 1844, descrisse le sensazioni di euforia in un flusso di idee estremamente rapido al filosofo, scrittore e giornalista Theophile Gautier che rimase particolarmente impressionato soprattutto dal fatto che per Moreau la cannabis dava un’intossicazione intellettuale preferibile all’ignoranza dell’ubriacatezza da alcol. Gautier diffuse la notizia tra i suoi amici intellettuali e artisti come Dumas, Hugo, Balzac, Baudelaire, Delacroix e molti altri che decisero, in accordo con il dottor Moreau, di fondare nello stesso anno il Club des Hachichins (club dell’hashish) per sperimentare a livello creativo gli effetti di questa droga. Il club durò fino al 1849. Gli incontri si svolgevano tutti

i primi lunedì del mese nelle stanze abitate dal pittore Francois Boissard all’ultimo piano dell’hotel Lauzun, un antico palazzo del XVII secolo in stile gotico nell’Ile St Luis a Parigi. Il rituale era sempre lo stesso: il dottor Moreau preparava personalmente delle palline verdastre fatte da un tritato di cannella, chiodi di garofano, noce moscata, pistacchi, zucchero, succo d’arancia, burro e noci amalgamato con resina di haschish che poi serviva su piattini in stile giapponese ai partecipanti, vestiti, per meglio creare l’atmosfera, con abiti di foggia araba. Seguiva poi un ricco banchetto per dare il tempo alla droga di fare effetto. Gautier stesso, nelle cronache sull’esperimento pubblicate nel 1846 sulla Revue des deux monde, descrive gli effetti provati. Le fisionomie dei commensali cominciavano ad apparirgli deformate mentre un caldo morente ha

invaso i miei arti e la demenza, come un’ondata che si rompe schiumandosi su una roccia e poi si ritira infrangendosi di nuovo...viene a dimorare dentro di me. Anche Dumas aveva parlato un anno prima, nel 1845, tra le righe del suo romanzo Le Comte de Monte-Cristo, della sua esperienza al Club des Hachichins, se sei un uomo dell’immaginazione, un poeta, provalo. I limiti del possibile sembrano sparire e i campi dell’infinito si apriranno. Baudelaire ha invece un atteggiamento più ambiguo. Nel Les paradis artificiels pubblicato nel 1860, confrontando gli effetti del vino e del hashish come mezzi per espandere l’individualità, all’inizio sembra favorire quest’ultimo che permettere alle parole più comuni e alle idee più semplici di assumere un aspetto nuovo e bizzarro...Ogni domanda difficile diventa chiara e trasparente, ogni contraddizione è riconciliata...I sensi diventano straordinariamente acuti: la vista è infinita, l’orecchio può distinguere il minimo suono percepibile anche attraverso i rumori più rumorosi...L’eternità risulta essere stata solo un minuto...L’uomo ha superato gli dei...ma poi mette in guardia gli artisti di non affidarsi completamente agli effetti provocati dalla cannabis che, pur aumentando l’immaginazione e la creatività, può anche distruggere la personalità. Il dottor Moreau pubblicò nel 1846 Du hachisch et de l’alienation mentale, primo testo medico sull’uso della droga quale strumento terapeutico sulla follia e sul delirio.

Una mostra tra amici di Gianni Biagi

Franco Busignani e Alessandro Gioli sono amici. Lo si capisce da molte cose. Ma in primis da come si presentano con le loro opere. Sono opere diverse fra di loro ma che trasmettono entrambe sentimenti di riflessione e di ricerca sul senso delle cose. La bella mostra che si è aperta a Villa Arrivabene sabato 7 ottobre e che rimarrà aperta fino a sabato 21 ottobre sta li a dimostrarlo. Un percorso di ricerca e di attenzione agli attimi della vita che devono essere espressi (per parafrasare un passaggio della presentazione di Pina Giacobbe delle gouaches di Busignani). Una mostra bella da vedere che espone le opere di Gioli realizzate su carta Fabriano e matite colorate come pezzi di una città raccontata per segmenti. Una città in cui la presenza dell’uomo è quasi inesi-

stente (solo in un’opera si vede un piccolissimo uomo quasi insignificante, o forse per questo essere piccolo ma centrale nell’opera molto significante) e le architetture sono metafisicamente rappresentate in varie aggregazioni urbane. Quasi una ricerca di una struttura tipologica urbana che nella realtà delle città contemporanee è troppo volte dispersa. A questa strutturazione formale delle opere di Gioli, dove la stereometriadegli edifici che costruiscono le forme urbane è espressa con sapienza tecnica, fa da contrappunto la completa informalità delle opere di Busignani dove, con la tecnica dell’acquerello, è espresso, per dirla con Francesco Gurrieri, “un dialogo reciproco fra pensiero e immagine”. Due modalità e tecniche di rappresentazione quasi opposte

ma che ispirano e suscitano un sentimento di serenità inquieta, di attesa di un avvenimento che da qualche parte deve essere nascosto nelle pieghe delle strutture urbane o fuori dal disegno acquerellato. Un qualcosa che si sente debba accadere e non si sa quando e come. Una sensazione di attesa sospesa pervade le opere dei due artisti.

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di Sandro Damiani Ci ha lasciati che aveva 80 anni, Giorgio Pressburger. Una bella età. Ma in spirito e in lucidità, e in capacità di darci di ulteriori testimonianze della sua intelligenza, dell’acume e del talento del grande scrittore, era molto, ma molto più giovane. Del Pressburger scrittore, parecchio si è letto in questi giorni. Io che l’ho conosciuto e frequentato quale operatore teatrale, mi soffermerò su questo aspetto. Quando dico “operatore teatrale”, non penso al regista, ma all’organizzatore di cultura, nello specifico – teatrale. E’ infatti qui che Giorgio, a mio parere, ha dato il meglio, anzi, ha dato ciò che nessuno aveva dato prima, né dopo: in qualità di fondatore e per un decennio direttore di Mittelfest, la rassegna artistica, principalmente teatrale, di Cividale del Friuli. Se, infatti, giustamente del Pressburger si parla come di un “intellettuale mitteleuropeo”, direi che questa caratteristica e collocazione letterario-geografica si confa assai di più alla sua opera di organizzatore di cultura. Dello Scrittore, mi limito a riportare un acuto giudizio di Paolo Di Stefano: “Quei libri furono una sorpresa, un po’ per le atmosfere che raccontavano, insieme mitiche e abbiette, dal grande respiro mitteleuropeo, comunque insolite per la nostra letteratura; molto per la straordinaria capacità di scriverle con prosa disadorna, anche cruda, eppure fortemente lirica, un realismo dalle perturbanti accensioni metafisiche”. “Inventando” Mittelfest, infatti, Giorgio Pressburger ha spalancato una finestra del tutto estranea al panorama teatrale italiano. (Bisogna aggiungere che l’unico serio tentativo di aprirsi anche alla Mitteleuropa in campo teatrale fu la sfortunata Rassegna Internazionale dei Teatri Stabili di Firenze, le cui non molte edizioni sin dalla prima della seconda metà degli anni Sessanta erano diventate un appuntamento europeo a cui mai mancarono teatrologi, critici e storici del teatro di ogni dove). Parlando di Mitteleuropa si incoccia immediatamente su due nomi, triestini ovviamente: Italo Svevo e Claudio Magris, ma costoro sono due rondini, non la... primavera. Anche perché, appunto, si tratta di una primavera che con il mondo delle lettere italiano (idem dicasi per la cultura drammatica) non ha nulla a che fare. E’ attraverso questa sua “creatura” – una

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settimana densa di accadimenti scenici provenienti da numerosi Paesi del bacino centro-rientale europeo, di cui conosceva buona parte delle lingue, che l’Italia scopre la mitteleuropa, ciò che ne resta e, attraverso la riproposizione di testimonianze teatrali e letterarie di ieri, ciò che fu. Ovviamente, non mi riferisco solo a quanto Pressburger in prima persona ha portato in scena da regista (a cividale e altrove): l’amico Magris (“Danubio” e “Micrcosmi”), Kleist, Canetti, frammenti di testi del primo Miroslav Krleza, Horvath e Handke, rispettivamente figlio e nipote di quella unica stagione, ecc. Parlo invece della scelta di testi e spettacoli provenienti dall’area interna e quelle limitrofe dell’Europa centrale, la quale se in Occidente non si è spinta più in là di Trieste, ad Est ha toccato una vastissima area che, magari scavalcando alcune realtà (la Polonia, per esempio), è arrivata fino ai Paesi Baltici. Puntualizziamo. Non è che prima di Mittelfest (1991-2003, gli anni della “gestione Pressburger”) i teatri non conoscessero, sebbene superficialmente, gli Schnitzler e gli Horvath, i Kohout e gli Havel,ma li conoscevano per il tramite di una “lettura” registica italiana, non dun-

que, diciamo così “autoctona”. Da intellettuale mitteleuropeo curioso e nemico dei confini, Giorgio possedeva un gusto rarissimo: amava dividere con gli altri – con chiunque, finanche nelle chiacchierate amichevoli – le proprie conoscenze letterarie e drammatiche. Si pensi, per esempio, agli anni in cui diresse l’Istituto Italiano di Cultura di Budapest: non si limitò a promuovervi la cultura italiana, ma fece anche sì che la cultura italiana familiarizzasse con quella magiara. Si pensi al periodo in cui presiedette la giuria letteraria del Premio Internazionale Ennio Flaiano; tanto per dire, fu lui che “importò” Imre Kertesz, a cui l’anno seguente la vittoria del prestigioso premio intitolato al poliedrico Flaiano, venne assegnato il Nobel per la Letteratura. Fu lui, ancora, che in numerose occasioni avvicinò e fece collaborare autori, registi, mattatori centro ed est europei con colleghi e omologhi italiani. Concludo questo ricordo di Giorgio Pressburger con le parole della presidente della Regione Friuli-Venezia Giulia (Giorgio aveva scelto Trieste, quale casa definitiva), Debora Serracchiani, perché meglio di altri, a mio parere, ne ha “fotografato” la persona e l’opera: “La nostra Regione deve molto a Pressburger che, con quella che è stata una vera e propria sua ‘invenzione’, il Mittelfest di Cividale, ha spinto il nostro territorio a svolgere un ruolo di attiva intermediazione culturale con l’Est prima della caduta della Cortina di ferro, trasformando la Mitteleuropa da ipotesi letteraria in pratica umana e culturale. Il Friuli Venezia Giulia rende onore alla persona, all’intellettuale, al cosmopolita dalle molte radici e anche all’uomo che non schivò l’agone politico. Sono convinta che la traccia da lui lasciata apparirà sempre più chiara: Pressburger ha realmente contribuito a tracciare la fisionomia culturale della nostra regione, e lo ha fatto ad un livello internazionale”. Ahinoi, non lascia eredi. Ma è l’unico a non esserne responsabile.

Addio Giorgio Pressburger


di Crisitna Pucci Facebook permette di conoscere, ed intervistare, collezionisti di gran classe, suggeriti da altri, sempre di gran classe, già intervistati e sempre grazie a Facebook. Stefano Bossi è un giovane uomo che vive e lavora a Milano e che ha una collezione di giocattoli, bambole e loro accessori. Forse, dice, un centinaio e più pezzi e, da quel che si vede dalle foto, di grandissimo pregio ed età. “I giocattoli sono indispensabili come l’acqua, l’aria, la luce. Vi sono infatti nel mondo grandi fabbriche di cannoni, di navi, ma altresì grandi fabbriche di giocattoli. Vi entrano lunghe file di operai, quello che conta i soldatini di piombo, quello che dipinge i palloncini, quello che fa i buchi nei flauti di latta....” Cesare Zavattini nel 1937 così parlava di questi oggetti, oggi fabbricati in modo meno artigianale, ma sempre indispensabili. La passione di Stefano prese vita grazie ad una scatola di cubi di legno degli anni ‘20 che apparteneva al suo nonno. Le facce dei dadi, avvicinate nel giusto modo, componevano scene di bambini che giocavano, i loro abiti, carrettini, pupazzi e secchielli d’antan esercitavano una vera fascinazione su di lui. Come premio per la promozione di V elementare chiese un servitino da caffè per bambole, in porcellana. Frequentava con i suoi in tarda mattinata il Mercatone dei Navigli...Finito il Liceo, con i soldi della vendita dei libri, acquistò la sua prima bambola, tedesca, di Biscuit, degli anni ‘20. Non ce l’ha più, ora compra più giocattoli che bambole; nei fine settimana gestisce un banco in cui vende oggetti recenti e di modernariato che meno gli inte-

Contaminazioni culturali di Valentino Moradei Gabbrielli Ho acquistato in un negozio Tiger, a Torun’ in Polonia, un paio di occhiali da lettura particolari. Un Design certamente nordico. Vivace ed elegante senza essere eccentrico. La loro “particolarità” sta nel fatto che una lente è contenuta da una montatura quadrata, l’altra lente da una montatura circolare. Simpatici! Mentre conversavamo con Clizia, Cesare e Renato seduti all’Antica Osteria Milanese, un

I giocattoli sono indispensabili come l’acqua, l’aria, la luce

ressano. Di lui non racconto altro e passo alla descrizione di due delle foto che mi ha inviato che costituiscono una parte pregiata della sua collezione. La prima mostra un mondo collocabile intorno alla metà dell’Ottocento, vi troneggia la sua preferita, una grande Pauline, alta più di 65 cm, che, oltre ad essere elegantemente vestita, ha vicino a sé due abiti con cuffietta del suo, immaginiamo, guarnitissimo guardaroba. Sempre una bella Pauline quella con il vestito verde e grembiulino bianco. Prodotte in Germania per il mercato Francese hanno corpo in pelle di capretto e bustino in cartapesta. Sul cassettoncino una Pauline-automa è seduta su un trici-

clo, nascosto dallo sgalettante abito chiaro, che, caricato a molla, la fa girare in tondo. Dentro una deliziosa carrozzina di giunco una bambolina con il corpo di cartapesta ricoperta di cera che, grazie ad un meccanismo, “squittisce” e si siede, sempre dei medesimi materiali le altre due bambole, hanno vicino due animaletti da compagnia, staccando la testa del coniglio si scopre che è una scatola! Appoggiato per terra un gioco da tavolo detto Metamorphosi, formato da carte acquerellate che assemblate e via via riscomposte disegnano varie figure ironiche. La seconda foto raccoglie oggetti tutti dei primi anni del Novecento in primo piano la scatola di cubi in cromolitografia del nonno di Stefano, primum movens della sua passione. Intorno tre bellissime bambole Burgarella, una ancora nella sua scatola, prodotte negli anni ‘20 a Roma da questa Ditta attiva per non più di 10 anni, sono le più rare e costose della collezione, una quarta è dal “dottore” per restauri. Sbuca da dietro un Pinocchio in legno e cartapesta della Furga, importante ditta italiana attiva per gran parte del ‘900, la graziosa “bambina” vestita alla marinara è una preziosa Lenci, degli anni ‘30, della stessa epoca il piccolo giocattolo a carica della tedesca Schuco. Aggiungo una unica, fra le mille possibili, curiosità, nel sarcofago di una giovinetta romana insieme ad oggetti preziosi fu trovata la sua bellissima bambola, detta Crepareia dal suo nome, aveva testa e busto intagliati nell’avorio, così come braccia e gambe articolate, solo le vergini potevano essere seppellite con la loro bambola...

ristorante nei pressi del Castello Sforzesco, Renato, ha osservato che la montatura dei miei occhiali ricordava un’antica calligrafia giapponese e, cercando sul web, ha trovato il disegno che vi mostro. Il significato di questo “disegno”, è da riferire alla filosofia che anima l’Aikido un’arte marziale giapponese. Quando s’indossano gli occhiali, il naso ripete e sostituisce il disegno del triangolo. Questa composizione con il quadrato il triangolo e il cerchio, ha un importante valore simbolico ed è usata frequentemente nel mondo occidentale. Proposta il più delle volte nei tre colori primari: giallo, rosso e blu. A questo punto, non è facile ipotizzare quale sia la cultura che ha influenzato maggiormente il progettista per realizzare questa montatura.

Resta da domandarsi soltanto se la famosa quadratura del cerchio altro non sia che il triangolo.

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Diritto padano di Sergio Favilli I nostri progenitori latini avevano un’attenzione quasi maniacale per la definizione razionale dei diritti elargiti alla popolazione, prima della Repubblica e poi dell’Impero. Per esempio un diritto fondamentale ed inalienabile era definito Ius Cogens e quasi sempre va a braccetto con lo Ius Gentium in quanto osservato ed in uso in eguale misura fra tutti i popoli. Molto praticato dai nostri politici è invece lo Ius Variandi che consente a tutti di modificare scelte ed idee a seconda delle convenienze del momento. Nonostante l’impegno profuso per oltre 20 anni da Berlusconi, è ormai in disuso il famoso Ius Primae Noctis. Lo Ius ad Bellum codificava addirittura i giusti requisiti necessari per una dichiara-

zione di guerra: che ne sanno lo spazzolone coreano e lo spettinato biondone made in USA di come si dichiara guerra!! Il resto del mondo li guarda attonito e presto, dovrebbe mettere in atto in base allo Ius Puniendi una pubblica gogna internazionale per questi due paranoici personaggi.

Forti di questo enorme bagaglio giuridico, noi italiani siamo ancora privi di un diritto primario, lo Ius Soli, ormai abbondantemente in uso in varie forme in tutti i paesi occidentali, nelle due Americhe ed anche in paesi insospettabili quali Pakistan, Tanzania e Lesotho. Molti di noi italiani sono rimasti legati allo Ius Sanguinis attualmente in vigore e ritengono altamente lesiva dei loro diritti l’introduzione dello Ius Soli quasi sempre confondendolo con i problemi derivanti dalle migrazioni in atto : no all’invasore!! No allo straniero!! No al diverso!! Questi signori, sempre pronti ad alzar barriere e muri, magari se ne vanno ad operarsi in ospedale e ricevono trasfusioni e trapianti con sangue ed organi di provenienza extra europea senza batter ciglio, come definirli se non letteralmente sanguisughe?? Per fortuna non siamo lontani dalle elezioni ed un barlume di ottimismo pervade questi nostri connazionali ed i politici che li rappresentano : presto Matteo Salvini potrebbe diventare il nostro Presidente del Consiglio e magari nominare il Sen. Roberto Calderoli alla Giustizia per un rapido aggiornamento del nostro ordinamento giuridico : introdurre il nuovo Ius Favae !! Ci mancava.

Il bianco e nero a Libriliberi Sabato 14 ottobre si aprirà ufficialmente la dodicesima edizione della Giornata del Contemporaneo, il grande evento dedicato all’Arte Contemporanea che coinvolge tutte le istituzioni, le gallerie e i poli culturali delle grandi città e i centri più piccoli, da sempre molto attivi, con mostre, laboratori, eventi e conferenze per creare un’imperdibile occasione di vivere da vicino la vivacità e la ricchezza dell’arte oggi nel panorama italiano. Tra le gallerie di Firenze che aderiscono all’iniziativa Libriliberi, in via San Gallo 25 rosso, presenta dal 13 ottobre al 2 novembre una mostra molto particolare con opere di pittura, grafica, fotografia e scultura di un team di artisti, che si caratterizza per originalità e creatività, riuniti sotto il comune denominatore del bianco e nero e del formato 25x25. Gli artisti in esposizione sono: Rebecca Hayward, Laura Felici, Silvia Fossati, Vanna Liverani, Fiorella Noci, Marcello Paoli, Susanna Pellegrini, Massimo Podestà, Marta Sarti, Giovanna Sparani, Sylvia Teri e

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Simonetta Zanuccoli (vecchia conoscenza di Cultura Commestibile). Di loro saranno presenti anche altre opere di periodi diversi ma tutte rigorosamente in bianco e nero.

Loris Cecchini a Parigi, in rue du Faubourg Saint-Honoré dal 16 ottobre


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