Cultura commestibile 236

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Numero

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Io credo ai musei come centri di ricerca, come agorĂ aperta, capaci di programmare e di crearsi nuove possibilitĂ di crescita Christian Greco, direttore del Museo egizio di Torino

Con la cultura non si mangia Giulio Tremonti (apocrifo)

Dancing like an egyptian Maschietto Editore


NY City, 1969

La prima

immagine Una mia cara amica, Yvonne Bastide Miranda, in mezzo ad un gruppo di ragazzini ad un Block Party ai limiti esterni di Spanish Harlem. E’ un momento di riposo prima del pranzo. Come spesso accade in Italia nel week-end, gruppetti di ragazzini, specialmente nel periodo estivo, passano una giornata all’aperto, con o senza i loro genitori. Purtroppo non erano molti questi spazi comuni nel quartiere. In giorni diversi vi si svolgevano anche altre attività di socializzazione di vario tipo, come i concerti spontanei di musica Rock.

dall’archivio di Maurizio Berlincioni


Numero

28 ottobre 2017

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Riunione di famiglia Stretching egizio Le Sorelle Marx

No alle fioriere Lo Zio di Trotzky

Nardella Beccaio I Cugini Engels

Sì alle fioriere L’architetto del popolo

In questo numero Il selfie del mondo di Susanna Cressati

Beccati questo di Claudio Cosma

La sfida di Sabrina di Laura Monaldi

Il quotidiano trasfigurato di Paola Staccioli di Ornella Casazza

Anima alpina di Alessandro Michelucci

I mostri di Mendini di Mariangela Arnavas

Il complesso di S.Giorgio: non solo ex-caserma di M. Cristina François

Robakowski Ossessione e normalità di Gianni Biagi

L’inaugurazione racconto inedito di Stefano Giovannelli

Memorie di vacanze estive di Franco Manescalchi

Ama, fra Iwase e Maraini di Danilo Cecchi

Le eterne Gualchiere di Remole di Annamaria M.Piccinini

Verso il centro del proprio sognare di Angela Rosi

Quella febbre sotto le parole di Gabriella Fiori

e Valentino Moradei Gabbrielli, Andrea Caneschi...

Direttore Simone Siliani

Illustrazioni di Massimo Cavezzali, Lido Contemori

Redazione Gianni Biagi, Sara Chiarello, Aldo Frangioni, Vittoria Maschietto, Michele Morrocchi, Sara Nocentini, Barbara Setti

Editore Maschietto Editore via del Rosso Fiorentino, 2/D - 50142 Firenze tel/fax +39 055 701111

Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012

Progetto Grafico Emiliano Bacci

redazione@culturacommestibile.com culturacommestibile@gmail.com www.culturacommestibile.com www.facebook.com/cultura.commestibile


di Susanna Cressati “Basta essere lagnosi, turisti che disprezzano i turisti, che li chiamano il “gregge”, le “mandrie”, “Il volgo è volgare, la plebe è plebea” e via di questo passo. Due studiosi francesi, Jean-Maurice e Gaétane Thurot, hanno notato con spirito, nel 1983, che “lo svago delle masse, che è recentissimo, ha ricevuto dagli intellettuali più critiche in dieci anni di quante il tempo libero degli aristocratici ne abbia ricevute in 2000 anni!”. Basta con questo disprezzo che a ben vedere è di classe, contro i borghesi che imitano la nobiltà di una volta in un perpetuo inseguimento temporale e sociale. O contro chi finalmente, dopo aver lavorato e faticosamente risparmiato, si può permettere di viaggiare, di visitare i musei, di portare i figli a vedere la Gioconda. Cosa dovrebbero fare, la calza, le parole crociate, portare i nipoti ai giardinetti? Vogliamo abolire il tempo libero? Nel turismo trovo anche una fame di mondo buona. Il fatto che tanta gente possa permettersi di viaggiare e vedere cose impensabili anche solo pochi decenni fa è un bene per l’umanità, il segno che c’è una volontà di cercare di aprire la mente, migliorare se stessi, una fiducia nel self-improvement”. Il colloquio nello spazio InKiostro di via degli Alfani con Marco D’Eramo, autore di un saggio di grande interesse, “Il selfie del mondo” (Feltrinelli 2017) comincia dalla fine, o meglio da un pensiero a cui l’autore è approdato al termine del lungo percorso intrapreso per realizzare la sua indagine sull’età del turismo. Tuttavia questa invocazione non è per niente assolutoria delle conseguenze pesantemente negative del fenomeno e non scalfisce di un millimetro il rigore analitico a cui D’Eramo lo sottopone, rivelandone gli aspetti urbanistici e sociali più drammatici e contraddittori. Il turismo va affrontato, suggerisce D’Eramo all’inizio del volume con il sostegno di un forte apparato di dati statistici, per quello che è, ossia “la più importante industria di questo nuovo secolo”, industria, non fronzolo “superstrutturale”, che non risparmia ai territori che invade “la sua materialità di acciaio, auto, navi, cemento”, e quindi inquinamento, usura, deterioramento. Snaturamento. “Ma negli anni ‘50 a Torino – prosegue - non è che ci si chiedeva se fare una fabbrica di automobili o no, anche se tutti sapevano che inquinava. Fino a che nei grandi siti industriali ci sono stati

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Il selfie del mondo

operai che lavoravano nessuno protestava, anche se tutti sapevano che si ammalavano. Il turismo ha lo stesso effetto doppio: da un lato porta ricchezza, in modo diseguale naturalmente, a volte inquina. Pensiamo, ad esempio, al turismo invernale e alle devastazioni lasciate in montagna dalle piste di sci. Le città invece le svuota, le fa diventare un fondale teatrale, delle Disneyland. Le prosciuga, le uccide. Ma secondo me il turismo non si può evitare. Faccio sempre un altro esempio, che riguarda l’industria dei trasporti. La globalizzazione è stata resa possibile dall’innovazione dei containers, perchè riducono dell’80% il costo del trasporto marittimo. Il problema è che ogni nave porta container ha bisogno di circa 20 ettari di parcheggio. Quindi i porti necessari per queste navi non possono stare nelle città: per la prima volta nella storia ci sono grandi città marittime che non sono porti e grandi porti che non sono città. Il più grande porto per container italiano, ad esempio, è Gioia Tauro, che come città in pratica non esiste. E’ così accaduto che tutte le vecchie città portuali al mondo, come Genova,


Marsiglia, Rotterdam, San Francisco, hanno avuto il problema di cosa farsene degli ex porti e tutte ci hanno fatto delle destinazioni turistiche. Non è stato trovato un altro modo per riciclare questi “oggetti”. Il turismo è l’”Ersatz”, la sostituzione di funzioni indotta dalla deindustrializzazione”. In fondo, prende atto D’Eramo, quello del turismo è il problema della modernità. In ogni momento della nostra vita siamo alla ricerca dell’autenticità, ma la nostra stessa ricerca la rende irraggiungibile: le montagne possono apparire meravigliosamente azzurre, ma solo di lontano. Il turismo fa sopravvivere le città ma di fatto le uccide svuotandole delle funzioni loro proprie, le snatura, le trasforma in qualcosa di mummificato, e così le rende più vulnerabili, al terrorismo ma anche al progressivo degrado ambientale. “Firenze – ammette - è già avanti su questa china”. Siamo di fronte a una trasformazione ineluttabile e irreversibile? Che effetto possono ottenere le politiche di gestione come quelle, ad esempio, che sta mettendo in atto l’amministrazione di Amsterdam che vuole vietare l’apertura di nuovi spazi commerciali turistici, dai venditori di souvenir alle bici a noleggio, ai rivenditori di gelati, ciambelle, wafel, formaggi e minimarket, di nuovi hotel, “finti” musei di birra, erotismo, cannabis e così via? “Sono palliativi – sostiene D’Eramo - Ma a volte... Nella teoria dei sistemi c’è una cosa che si chiama retroazione, in parole povere il fenomeno per cui una decisione produce conseguenze non volute. Un esempio: nessun generale francese che andava a conquistare l’Africa si sarebbe mai aspettato che, avendo avuto successo, avendo costruito l’impero coloniale l’unica conseguenza sarebbe stata, 150 anni dopo, che in Africa non c’è più un francese e in Francia ci sono cinque milioni di persone di origine africana. Ma tornando ad Amsterdam, prima del ‘65 in quella città

non c’erano biciclette. I Provos elaborarono allora una proposta politica, quella dei “Progetti bianchi”, che intendeva tra l’altro socializzare i mezzi di trasporto. Il primo di questi progetti, il Piano delle Biciclette Bianche, proponeva di sostituire progressivamente il traffico motorizzato con quello ciclistico attraverso la distribuzione pubblica di biciclette di proprietà comune. Oggi Amsterdam “è” bicicletta, e questa caratteristica è diventata una attrazione turistica. Naturalmente ci sono delle tecniche a cui ricorrere per difendersi dagli effetti del turismo. Le grotte rupestri di Altamira, bellissime, si rovinano con la luce e quindi si è ricorsi al numero chiuso. Oggi per visitarle c’è una attesa di anni ma accanto al sito è stata realizzata una sua copia. Ho trovato d’altro canto fantastici gli abitanti di Dresda, che con un referendum hanno rinunciato all’etichetta World Heritage dell’Unesco pur di realizzare un nuovo ponte sull’Elba. L’Unesco è l’anima bella che consente di accettare le devastazioni turistiche in nome del salvataggio, che cura la malattia uccidendo il paziente. Alla fine i numeri ci dicono che l’Italia è un paese turisticamente sottosviluppato rispetto ad altri. L’invasione non esiste. Il turismo è una industria capitalistica che richiede una struttura capitalistica avanzata e noi non l’abbiamo. Il problema, tutto politico, è il suo governo. E poi non è mica detto che il turismo di massa come lo conosciamo duri per sempre”. Smetteremo di viaggiare? “Certamente no. Anzi, saremo sempre di più esistenze nomadi, temporanee, e questo scardinerà tutto, diventerà sempre di più la nostra nuova condizione di esistenza. Tutte le rivoluzioni nelle comunicazioni e nei trasporti hanno una un effetto a doppio taglio, avvicinano qualcosa e allontanano qualcos’altro. Alcune avvicinano ciò che è lontano geograficamente. Internet allontana ciò che è vicino geograficamente mentre riorganizza la società in gruppi socialmente e ideologicamente omogenei. Io che parlo con il mio amico di Sidney non so chi sia il mio vicino di casa. Viviamo in uno spazio multidimensionale. A Copenhagen i turisti non li chiamano più turisti ma residenti temporanei. Gli eufemismi nascondo sempre un po’ di ipocrisia – ammette in conclusione D’Eramo - però questo corrisponde a una realtà”

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Le Sorelle Marx

Stretching egizio

La meravigliosa statuaria del Museo egizio di Torino, il secondo museo di arte dell’antico egizio del mondo dopo quello de il Cairo è stato invaso da una folla di pazzi scalmanati che si sono dati allo stretching, pilates, zumba e power yoga, guidati da leader e istruttori evidentemente sotto l’effetto di pesanti allucinogeni e tarantolati da una musica che pretenderebbe, su chissà quali basi di studi musicologici, di discendere da quelle del popolo egizio. Ora, fin qui siamo nell’ambito del kitsch cui sempre più di frequente viene associato il nostro patrimonio storico-artistico con la scusa di sottrarlo agli esperti parrucconi e ammannirlo al grande pubblico. L’obiettivo dichiarato della serata, che sarà replicata al teatro Regio, è quella di portare l’attività fisica in posti non convenzionali, nell’idea che si possa fare sport in qualunque luogo della città (sic!). Il fatto è che, forse involontariamente, questo deprimente spettacolo altro non è che una metafora perfettamente riuscita del PD di Renzi.

SCavez zacollo

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Intervistata, l’ideatrice di questa pagliacciata, ha così spiegato che “L’idea nasce dalla voglia di trasmettere il benessere della persona. Le persone hanno bisogno di essere guidate; si sono un po’ perse in questa società, che non hanno più una guida; la società è un po’ stressata, la tecnologia... le persone vanno in macchina, non va più a piedi, prende l’ascensore... noi abbiamo bisogno, abbiamo voglia di trasmettere alle persone di muoversi, perché muoversi è la migliore medicina che può esserci come prevenzione per qualsiasi malattia.”. Diteci se non è la fotografia della filosofia renziana. Peraltro una dei personal trainer durante un raptus ha chiesto a gran voce agli astanti sumbanti “foto! Foto!”, crdendo evidentemente di trovarsi alla Leopolda (che comunque sospettiamo non saprebbe distinguere dal Museo Egizio). Un altro, “vola, vola! vola, vola l’uccellino! Va’ che arriva Cliopatra!”. Alla fine, tutti felici e sudati, ignari della storia che li circondava: l’Italia sognata da Renzi.

disegno di Massimo Cavezzali

I Cugini Engels

Nardella beccaio

Notiziona fresca sul sito di Repubblica Firenze: al Mercato di San Lorenzo per registrare la trasmissione tv “La Tara” su Tele Iride condotta da Giacomo Guerrini, il sindaco Dario Nardella ha indossato il grembiule e si è messo in posa dietro al bancone di una macelleria. Ecco la sua vera vocazione, il beccaio, etimologicamente venditore di carne di becco (il maschio della capra che, nel Medioevo, era l’unica carne macellabile), in modo estensivo, macellaio. I gestori del banco gli hanno fatto notare che il pavimento del mercato non viene pulito a dovere e il sindaco ha immediatamente telefonato al Quadrifoglio chiedendo un sopralluogo. Incredibile, ma vero! Ora il centralino di Palazzo Vecchio è intasato da centinaia di telefonate: c’è chi lo vuole invitare a casa sua a riprendere il gatto scappato sul tetto, chi perché gli si è intasato il lavandino; altri lo vogliono invitare al ristorante per lavare le stoviglie. E’ un problem solving man il nostro Nardella! In giornata al suo attivo anche la decisione di dedicare una piazza al presidente Ciampi (facendo marameo a Nogarin cui invece non è riuscito il magheggio); la presentazione del libro di Piero Fassino, “PD davvero!” al Gabinetto scientifico-letterario “G.P. Vieusseux” (laddove un tempo sedeva Montale oggi si presentano libretti politici, con la benedizione del sindaco), una foto imbracciante violino con i giovani musicisti della Scuola di Musica di Fiesole. Insomma, niente male.


Lo Zio di Trotzky

No alle fioriere

Annunciando l’installazione di ostacoli antiterrorismo nel centro storico di Firenze, dopo l’attentato di Barcellona, il prode Nardella ebbe a dichiarare che a Firenze non si sarebbero messi degli antiestetici blocchi calcestruzzo come in mezzo ad una superstrada qualunque, ma si sarebbero messe fioriere e addobbi consoni al luogo. Fu persino chiamato l’architetto Boeri a far da consulente. Non mancò naturalmente, anche in quell’occasione, la retorica della bellezza che salverà il mondo. Poi sono spuntate fioriere spelacchiate su parallelepipedi di cemento grezzo. Se fosse vera che sarà la bellezza a salvarci siamo probabilmente spacciati.

Sì alla fioriere Carissimo zio, l’ottimismo del suo illustre parente le ha fatto perdere di vista lo snodo fondamentale della opera. Nell’ultimo secolo la richiesta fatta agli architetti è il dialogo tra il vecchio e il nuovo, tra l’antico e il moderno. E qui il dialogo c’è tutto, compreso il gusto della citazione che fa ancora più contemporaneo. C’è l’uso del cemento armato di Savioli, proprio nell’anno in cui ricorre il centenario dell’architetto di Sorgane, con le sue forme nette e con la materia a vista, che si inserisce perfettamente in uno spazio

L’archi tetto del popolo rinascimentale. I pieni e i vuoti dei due parallelepipedi, proprio come in Savioli, sono il richiamo dell’ordine, della regolarità di Brunelleschi. Quindi modernità (e si tratta di modernità perché all’Università, come in ogni altra scuola, oltre agli anni ’60 non andiamo) e Rinascimento che si parlano e dialogano con una ciliegina citazionistica: il vaso di fiori, un po’ selvaggio, che rimanda al bosco verticale proprio di Boeri, il tocco d’autore che fa di quest’opera una perfetta rappresentante della conteporaneità.

Nel migliore dei Lidi possibili disegno di Lido Contemori didascalia di Aldo Frangioni

Era un ragazzo come tutti gli altri nessuno avrebbe pensato che...

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di Laura Monaldi Nell’Arte Contemporanea il gesto artistico è espressione della possibilità di un intervento comunicativo ed espressivo sulle coscienze collettive, in relazione alla complessità che avvolge e condiziona gli aspetti più intimi della cultura vigente. Nel corso del tempo – in particolar modo dalla seconda metà del Novecento a oggi – la sperimentazione è diventata una vera e propria meditazione sulla creazione estetica. Non a caso le relazioni che si instaurano fra fruitore e opera d’arte sono diventate sempre più complesse e aperte a ogni sorta d’interpretazione. In questa prospettiva l’espressività dell’opera estetica si è fatta sempre più intenzionale, radicando nella dimensione intellettuale e concettuale l’atto formativo che dà vita alla creatività e all’azione artistica. Allo stesso modo la funzionalità estetica e la finalità dell’opera d’arte si sono trovate su uno stesso piano di azione, in cui forme, colori e gesti emergono con vitalità nella risposta affettiva ed emotiva del fruitore. Nell’opera di Sabrina Muzi si avverte una vera e propria sfida alla complessità del mondo e dell’Io, in quanto continua rimessa in discussione delle questioni identitarie e delle vitalità insita nell’atto estetico. Quella dell’artista è una poetica tesa al dialogo, nel dualismo fra l’esserci e l’immaginarsi: una specularità inedita in cui le immagini divengono categorie ambigue, a metà strada fra il concetto e l’astratto, fra la rappresentazione sensibile e il concetto rappresentato che, di conseguenza, si carica di simbologie, in quanto proiezione affettiva dell’oggetto-soggetto e intima valutazione della pluralità e della rappresentazione contemporanea, considerata all’interno di quella complessa cultura difficile da descrivere e discernere. La realtà multiforme, percepita e analizzata dall’artista, subisce un processo semiotico: dal dato sensibile giunge alla creazione di una forma totale, che si caratterizza come presenza concreta e attiva, in grado di rendere possibili le esperienze condivise di ricezione. Attraverso video, installazioni e performances l’artista è in grado di porre l’accento sul concetto di differenza, reinventando il fare artistico con linguaggi estetici ed elementi sempre diversi, in continua evoluzione e sperimentazione, con l’obiettivo di andare sempre oltre l’apparenza del reale e del visibile, cercando di cogliere le peculiarità più impercettibili e velate di quei particolari che il contemporaneo cela agli sguardi ignari e poco attenti dell’uomo. Sabrina Muzi opera una vera e propria sintesi culturale fra l’immagine e l’azione, fra l’Io e il mondo, attraverso una poetica artistica fatta di tensioni, precarietà, sentimenti, passioni e

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variazioni, consapevoli che l’Arte può e deve essere uno spazio d’espressività, in cui l’artista realizza il suo ruolo antropologico di essere mediatore-rivelatore di possibili modi di sentire, percepire e interpretare il mondo. In tal senso immagine e corpo si uniscono in un’epo-

La sfida di Sabrina

pea narrativa, che si esplica attraverso i quattro campi concettuali d’azione di vita, di forma, di conoscenza e di evento, con i quali Sabrina Muzi opera, indaga, scopre, annulla e si riappropria dello spazio comunicativo globale, con un linguaggio originale e contemporaneo.


Musica

Maestro

Anima alpina

di Alessandro Michelucci La parola alma, che significa “anima” in spagnolo, compare un innumerevole mumero di volte nei lavori di artisti iberici e latino-americani. Dalla Colombia (Fonseca, Alma de hierro, 2008) al Brasile (Egberto Gismonti, Alma, ECM, 1986), dalla Spagna (Luis Paniagua, Medicina del alma, Pneuma, 2012) al Venezuela (Irene Farrera, Alma latina, Redwood, 1995). Tutti, in un modo o nell’altro, rivendicano un’anima latina fatta di gioia, passione, ritmo. Ma la musica, come abbiamo già visto più volte, non ha passaporto né targa. Quindi, se esiste un’anima latina, perché non può esisterne anche una alpina? È proprio quello che ci dimostra Alma, un quintetto composto da musicisti dell’area austriaca e sudtirolese: Matteo Haitzmann (violino), Julia Lacherstorfer (violino), sua sorella Marlene (basso doppio, harmonium), Evelyn Mair (violino) e Marie-Theres Stickler (fisarmonica diatonica, shruti box). Le parti vocali sono curate da tutti. Nato nel 2011, il gruppo ha già realizzato tre dischi: Nativa (2013), Transalpin (2015) e il recente Oeo (2017), tutti pubblicati dalla prestigiosa etichetta Col legno. I brani, tutti originali tranne due tradizionali, sono composti in prevalenza da Julia Lacherstorfer. Si tratta di pezzi molto vari, sia in termini stilistici che culturali. Ecco quindi il valzer (“Möderndorfer Sommervalsen”); lo yodel (“Kiahmelcher und Landler”, “Oeo”); “Bruckner Rewind”, una rilettura del classico liturgico “Tota pulchra es Maria”, già ripreso a suo tempo da Anton Bruckner; “Lima lama”, ispirato da un viaggio in Perù; il tradizionale “Questa mattina”, già noto nella versione del Canzoniere Grecanico Salentino. Ricco di carica ma mai sguaiato, dotato di un virtuosismo fresco e accattivante, il gruppo è la punta di un iceberg austriaco ancora largamente ignoto in Italia, ma che merita di essere esplorato con cura. Profondamente alpina, come si diceva, questa musica non deve essere confusa con quella che capita di sentire nei rifugi

sudtirolesi o austriaci. Accessibile senza essere leggera, ha anche accenti classici piuttosto evidenti che affondano le radici nel solido bagaglio tecnico dei musicisti. Non a caso l’ha pubblicato un’etichetta nota ai più raffinati cultori della musica classica

e contemporanea. Un fenomeno tutt’altro che nuovo: la Deutsche Grammophon, per esempio, aveva già edito fra l’altro dischi di Elvis Costello (North, 2003), Sting (If on a Winter’s Night, 2009) e Tori Amos (Night of Hunters, 2011).

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Robakowski Ossessione e normalità di Gianni Biagi

Josef Robakowski è un artista polacco che ha svolto un ruolo di sperimentatore nel settore dei video come forma di espressione artistica diversa dalla filmografia classica. L’artista, che ha percorso gran parte della propria carriera nella Polonia comunista, usa la macchina da presa per produrre video e piccoli cortometraggi avendo la sua persona come attore di azioni sceniche che raccontano talvolta la normalità e talvolta l’ossessione. Al Museo Pecci di Prato si è aperta il 14 ottobre la sua prima mostra in Italia, quasi una retrospettiva. La mostra consente di gettare uno sguardo sull’arte contemporanea che si è sviluppata dagli anni 60 in poi oltre la “cortina di ferro”. Uno sguardo su un fervore culturale poco noto e ancora da scoprire come ha detto Fabio Cavallucci, direttore artistico del Pecci, alla presentazione della mostra alla presenza dell’artista. Opere video si alternano a opere nelle quali la pellicola è usata non come mezzo di riproduzione di scena riprese dal vero ma come materiale da usare per produrre opere d’arte, incidendoci sopra non immagini ma segni che poi scorrono sullo schermo, o sono esposti in sequenza, o su appositi schermi. La pellicola non come supporto per immagini del reale ma essa stessa opera d’arte. La mostra rimarrà aperta fino al 28 gennaio dal martedi alla domenica orario 11-23.

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I mostri di Mendini di Mariangela Arnavas Questo libro somiglia a quelle pozioni magiche che nei libri di fiabe il personaggio magico somministrava al protagonista che doveva compiere imprese gigantesche e spaventevoli. Sono 36 tavole, in bianco e nero e a colori, disegnate da Alessandro Mendini, architetto, artista e designer, ispirate ai disegni di Pietro, un bambino dislessico caro a entrambi gli autori, da cui “prendono origine” altrettanti racconti di Erri De Luca. Sono disegni di mostri, minuziosi disegni di mostri perché “metterli in una forma li riduce d’immensità, d’intensità e di angoscia”. Lo stesso fa la scrittura di Erri De Luca a tratti davvero potente e comunque sempre intensa con le sue / nostre paure: i terremoti, “le stanze diventano celle di un alveare preso a zampate da un orso, al posto del miele, le vite”; le persecuzioni e i campi di sterminio, la malattia con il sangue che “ nel percorso incontra grumi, trombi, placche, agguati sotto forma di stenosi nelle gole strette del sistema vascolare”; la vecchiaia come caduta “il primo passo di caduta è forte come quello di due che si lasciano al binario... le mille miglia successive squarciano meno”; la disintegrazione e la follia “il bisogno struggente di non essere confuso con nessuno”; i fantasmi delle persone che abbiamo amato che “intorno alla mia tavola tornano a brillare per effetto del buio e del fuoco acceso nel camino”; la guerra “i campi intorno erano seminati di mine antiuomo, che erano anche antibambino. I più leggeri ci andavano scalzi per raggiungere i ciliegi carichi di frutto”; l’obbedienza “ne esistono di mostruose” e ancora l’ombra, il sesso, il volo, gli altri “ mi sono serviti gli incontri e gli urti con uomini sballati, canaglie da mio punto di vista. Ognuno di loro mi ha lasciato una pezza che ho rivoltato e cucito a toppa di vestito “ ; la libertà “l’idea che mi sono fatto della libertà è sul tavolo dopo il lancio dei trentuno bastoncini dello Shangai”; infine il terrorismo “chi lotta in nome degli oppressi deve escludere il rischio di colpire gli inermi”. Percorre la narrazione la sofferenza dei migranti per i quali il blu oltremare è “il blu navigato a mosca cieca, senza provviste e acqua, senza dove e quando “e il rifiuto dell’indifferenza, della posizione di semplice spettatore “oggi condivido il servizio del contadino francese Cedric Herrou, in-

criminato per l’aiuto offerto ai fuggitivi incontrati sul bordo della strada, nella sua vallata a ridosso del confine”. Il tutto con l’obbiettivo di “togliere alla morte l’ultima parola “ perché “le parole scritte si mettono in un viaggio lontano e indipendente dall’autore”, come i fogli nella bottiglia di Itzhak Katzenelson, ucciso a Birkenau. O almeno questo è ciò che sperano tutti gli appassionati di letteratura.

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di Danilo Cecchi La vicenda secolare delle pescatrici di perle è talmente nota da essere stata raffigurata magistralmente da famosi pittori ed incisori giapponesi come Utamaro (1753-1806) ed Hokusai (1760-1849), mentre in epoca moderna è stata raffigurata fotograficamente da personaggi non meno importanti, come Yoshiyuki Iwase (1904-2001) e Fosco Maraini (1912-2004). Le Ama (donne del mare) sono le mogli e le figlie dei pescatori che vivono lungo le coste delle isole giapponesi, e che da almeno duemila anni si dedicano alla raccolta, sul fondo del mare, di alghe, crostacei, molluschi e frutti di mare, tuffandosi da piccole imbarcazioni, senza alcuna attrezzatura, utilizzando solo in epoca più moderna la maschera e le pinne. Capaci di resistere in apnea per oltre due minuti nell’acqua gelida, raggiungono la profondità di dieci metri e lavorano per quattro ore al giorno, compiendo ogni giorno decine di immersioni. In una sola stagione guadagnano più dei mariti in un’intera annata. Questo tipo di lavoro viene riservato alle donne, data la loro presunta migliore capacità di resistenza al freddo. La raccolta occasionale e casuale delle perle, ha creato intorno a queste donne un’aureola di leggenda, e le ha portate, in epoca moderna, a lavorare presso le coltivazioni di perle. Per svolgere il loro lavoro le Ama si tuffano in mare prive di abiti, ed in epoca moderna la loro nudità ha destato non poca curiosità presso i turisti, tanto da obbligare le poche Ama che ancora si dedicano a questa attività, ad indossare una sorta di ingombranti camicioni di cotone. Iwase e Maraini si dedicano, in periodi diversi, e con spirito diverso, alla descrizione fotografica della vita e dell’attività di queste donne leggendarie. Iwase, nativo di Onjuku, nella penisola di Chiba, dalla parte opposta della baia di Tokyo, inizia a fotografare le Ama del proprio villaggio natale all’inizio degli anni Trenta, e continua a farlo fino a metà degli anni Sessanta, immortalando i momenti del lavoro, dalla messa in mare delle barche fino alla cernita del pescato, ed indugiando in maniera decisamente ammirata sui corpi nudi delle pescatrici. Da parte sua Maraini, che ha trascorso in Giappone, dapprima come ricercatore, a Sapporo, poi come prigioniero, a Nagoya, ed infine come interprete per la VIII Armata Americana, gli anni fra il 1939 ed il 1946, vi ritorna nel 1953 (dopo la parentesi tibetana) come etnografo, ed è in questa veste che realizza nel 1954 il suo reportage sulle Ama delle isole di Hékura e Mikurìa, pubblicato nel 1969 nel libro “L’isola delle pescatrici”. I due lavori, quello del romantico fotografo giapponese e quello dell’etnografo italiano, nella loro

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Ama, fra Iwase e Maraini

diversità concettuale e di approccio al tema, presentano tutta una serie di analogie formali, almeno nelle immagini delle figure femminili, fermo restando che, mentre il fotografo giapponese si limita a fotografare i personaggi al di fuori dell’acqua, l’etnografo italiano si spinge più a fondo, seguendo le pescatrici anche in immersione, con la fotocamera scafandrata, realizzando perfino dei filmati. Se l’etnologo, per quanto affascinato dalle forme femminili, ed una volta esaurito il tema, abbandona le Ama per dedicarsi ad altri argomenti, il fotografo continua nella frequentazione delle Ama per

lunghi anni, fino ad idealizzarle, trasformandole in divinità marine, spogliandole della loro quotidianità e sostituendole, a poco a poco, con delle modelle, realizzando delicate e poetiche immagini di nudo, ambientato sulle rocce e sulle spiagge di quelle stesse isole che, a poco a poco, vengono abbandonate dalle Ama che, da pescatrici di molluschi si sono trasformate in pescatrici di perle coltivate. La leggenda delle Ama viene in qualche modo rinnovata e perpetuata nelle immagini di nudo di Iwase, ambientate fra quelle stesse onde che sono state il teatro di una tradizione secolare.


Lucia mi telefonò quella mattina dicendomi che aveva un invito per l’inaugurazione della nuova ala del museo della città e chiedendomi se potevo accompagnarla perché non le andava di andarci da sola. Lucia era una bella ragazza bruna con gli occhi verdi che sembravano più verdi di quello che erano in realtà, e apparteneva a quel tipo di donne che se sei un uomo con normali appetiti sessuali ti fa pensare che tutto il tempo passato prima di infilarsi insieme nel primo letto a disposizione era tempo maledettamente sprecato. Insomma, Lucia aveva del fascino ma ne era del tutto inconsapevole, era una ragazza seria, tutta casa e chiesa, faceva l’Università, studiava farmacia ma si interessava anche di storia dell’arte, andava alle mostre, frequentava le gallerie di pittura e conosceva diversi pittori. Era una ragazza veramente a posto, ed aveva un sedere spettacoloso, anche se non era la prima cosa che si notava in lei, ma se la si guardava bene, non si poteva non rendersene conto. Io e Lucia ci eravamo incontrati ad un vernissage di un pittore mio amico di Livorno qualche tempo prima ed avevamo preso a frequentarci. Così quella mattina Lucia mi aveva telefonato e mi aveva chiesto di farmi la barba e di pettinarmi, e da ultimo mi disse di mettermi il vestito blu che mi stava così bene e che non capiva perché non me lo mettessi più spesso invece di vestirmi sempre come un giovane sbandato. Ci vedemmo all’angolo tra via dei Pecori e Piazza San Giovanni dove c’era quella pasticceria che faceva i budini di riso più buoni di Firenze e che poi è fallita. Faceva freddo e dalle colline a Nord della città scendeva un vento ghiaccio che sembrava entrarmi nelle ossa. Mi ero messo il vestito blu che era troppo leggero e mi dissi che avrei fatto meglio a mettermi anche il cappotto. Lei arrivò in ritardo come al solito, con la solita serie di scuse su misura, un paio delle quali anche abbastanza convincenti. Mi dette un bacio casto sulla guancia e ci avviammo sottobraccio verso il museo. Prendemmo posto in quarta fila, subito dietro le tre file di poltroncine rosse riservate ai sederi di lusso. Accanto a noi c’era un ometto con i capelli grigi pettinati all’indietro e l’aria da perfetto idiota. Sedeva tutto impettito per darsi importanza e si guardava intorno cercando di catturare l’attenzione di chi passava, abbozzando sorrisi a questo e quello senza essere corrisposto da nessuno. Io gli feci un cenno col capo e gli sorrisi per farlo contento. Era ancora presto ma nella sala c’era già diversa gente. Sulla porta c’era uno schieramento di carabinieri e di addetti ai lavori che controllavano gli inviti. Entrava gente di continuo, entrò un generale e tutti i carabinieri si misero sugli attenti, poi entrò una coppia anziana dall’aria distinta, poi entrò una turista giapponese con lo zaino sulle spalle e ci fu un po’ di trambusto perché evidentemente non aveva l’invito e dopo un po’ un addetto la accompagnò fuori, poi entrò il ministro della cultura con un bel vestito doppio petto grigio. Era un socialista moderato ed era entrato da poco nel governo, dicevano che fosse una persona onesta. Il

Il racconto di Stefano Giovannelli

L’inaugurazione suo ingresso attirò l’attenzione dei presenti e fu subito circondato da un folto gruppo di persone. Dall’altra parte della sala c’era anche il Cardinale ed anche lui era attorniato da un gruppo di persone. Lucia ed io seguivamo divertiti il movimento della gente attorno al Ministro ed al Cardinale e scommettemmo su chi attirava più persone, Lucia scommise sul Cardinale ed io sul Ministro. Dapprima contammo otto persone intorno al Cardinale e dieci intorno al Ministro, ma poi ne contammo undici intorno al cardinale e solo sette intorno al Ministro ma poi smettemmo di contare perché i gruppi erano molto turbolenti e la loro composizione cambiava di continuo e c’era qualcuno che passava da un gruppo all’altro. Arrivò anche un africano, un diplomatico forse, uno di quei negri con la bocca enorme ed i denti scintillanti e si avvicinò al Cardinale per salutarlo. Si inchinò due o tre volte e sembrava che invece di baciarla, volesse mangiargli la mano, ma il cardinale fu sempre più svelto di lui. Alla fine arrivò anche il Presidente del Consiglio, tutti si misero seduti e cominciarono i discorsi. Per primo parlò il Sindaco e parlò del Museo, dell’importanza della cultura e di tante altre cose che con il Museo c’entravano poco o nulla, poi parlò il Presidente della Regione e disse le stesse cose che aveva detto il Sindaco, poi parlò il Ministro della Cultura e disse le stesse cose che aveva detto il Presidente della Regione e prima di lui il Sindaco, poi parlò il Presidente del Consiglio e disse le stesse cose che avevano detto gli altri, ma sembrò più prolisso, poi, quando nessuno ne poteva più ed era quasi l’ora di pranzo, si alzò un tizio che nessuno conosceva e che tutti pensavano fosse un assistente del Presidente del Consiglio, tirò fuori dalla borsa che aveva fino allora tenuto sulle ginocchia un pacchettino di fogli dattiloscritti e cominciò a leggere. Era uno studioso americano, un professore di Harvard, e parlava con molta competenza anche se il suo italiano era abbastanza approssimativo. La gente cominciò a dare segni di nervosismo e di impazienza ma lo studioso sembrò non accorgersene e tirò diritto fino all’ultimo foglio. C’era molta gente nella sala, c’era gente vestita di nero e gente vestita di blu, e anche gente vestita di marrone, anche se questi erano molto pochi, tutti avevano indossato il vestito buono, si erano messi la faccia della festa ed erano venuti per vedere e farsi vedere. Fuori da quella sala il mondo poteva andare anche a catafascio, c’erano guerre ed attentati, le fabbriche chiudevano e la gente non aveva lavoro, le solite cose, ma la gente che aveva la pelliccia ed il vestito buono se l’era messo ed era venuta per vedere e farsi vedere ed in fondo pensavano che se al mondo non tutto andava per il verso giusto non era nemmeno colpa loro.

Io tenevo una mano di Lucia tra le mie e pensavo che mi sarebbe piaciuto chiederle di andarsene via, io e lei, lasciare tutti quei discorsi e andare a casa mia o a casa sua e fare l’amore e dimenticare tutto e che forse fare l’amore era anche la cosa migliore che avremmo potuto fare. Sapevo però che Lucia era una ragazza molto seria e non avrebbe capito, anzi si sarebbe scandalizzata parecchio, sicchè non le dissi niente e rimasi accanto a lei nel mio vestito blu ad ascoltare lo studioso americano. Parlò dei musei, dell’eredità del passato, dell’illuminismo e del risorgimento, parlò anche dell’America e fece citazioni in inglese ed in latino ed alla fine, dopo una ventina di interminabili minuti raccolsi i suoi fogli, si inchinò leggermente e lasciò il palco. Ci fu un grande applauso, un applauso liberatorio ed il Sindaco invitò tutti i presenti a seguirlo nella visita della nuova ala. Tutti si alzarono e ci fu una gran ressa, io mi trovai accanto al perfetto idiota. Bellissimo intervento – disse lui Già – gli risposi senza molta convinzione. In realtà mi era sembrato un discorso troppo professorale e difficile da seguire, e tutto sommato anche abbastanza inadeguato all’occasione. Davvero molto interessante la prospettiva storica che ha tracciato – proseguì lui con enfasi, il viso pigiato contro le spalle di chi lo precedeva. Io non seppi resistere Forse un po’ stringato – scherzai Lui mi guardò perplesso ed io insistetti mentre Lucia mi tirava per la mano Forse alcuni argomenti meritavano di essere approfonditi, non trova ? Certo, ha ragione – abboccò lui – anch’io ho trovato che avrebbe potuto approfondire alcuni temi, per esempio … – È stata una trattazione abbastanza superficiale – lo interruppi – questi americani si danno arie di grandi studiosi, amano darci delle lezioni ma in realtà sono dei superficiali, la loro cultura è appena una patina, appena si scava si smarriscono. Il professore non ha toccato alcuni temi molto rilevanti ed ha concluso il suo intervento proprio quando il discorso si faceva interessante, quando si stava arrivando, come dire, al nocciolo – Il perfetto idiota annuì sorridendo e mi dette ragione, lamentando la brevità dell’intervento dell’americano. Per me era abbastanza, rallentai il passo nella folla, persi di vista Lucia e il Presidente del Consiglio, lo zuccottino rosso del Cardinale ed anche il perfetto idiota. Quando fui in fondo alla fila, mi girai e me ne andai. Lucia ci rimase male e da allora non ci vedemmo più tanto spesso. Mi dispiacque perché era una brava ragazza e ce ne sono davvero poche come lei a questo mondo ed anche perché aveva un sedere spettacoloso, uno dei migliori che abbia mai visto. Anche adesso che sono passati diversi anni e ci siamo persi completamente di vista non posso non dargliene atto.

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di Ornella Casazza Frequentiamo e apprezziamo le ceramiche di Paola Staccioli, allo stesso tempo colte e popolari, capaci di affascinare con grazia e con sapienza dall’ormai lontano 2010 quando le presentammo al Museo delle Porcellane in Palazzo Pitti. A stretto contatto con le prestigiose collezioni medicee, come si disse, portarono una ventata di fresca e aggraziata inventiva integrandosi perfettamente con l’equilibrato assetto del Museo. Assaporiamo ancora e siamo conquistati dal senso fantastico che trasfigura il quotidiano in un mondo di lustri, di segni e di colori, animati da un uso incantato dell’argilla, ritrovato oggi in questa esposizione che raccoglie le ultime originali forme che celebrano la bellezza e l’armonia del creato. Ogni manufatto diviene portatore del valore assoluto della materia, nel recupero della dignità del mestiere del ceramista che si fa creatore originale di pezzi unici e artigiano-artista. Il piccolo formato trattiene ugualmente tutti i problemi e gli impegni della poetica di Paola, capace di elaborazioni di grande fascino che sperimentano nuovi accostamenti di colore, materiali e tecniche, esprimendo un concetto di preziosità e distinguendosi per originalità e per innovazione con gli echi delle nuove esigenze e tendenze. L’arte ceramica si eleva ad arte nobile e non più arte minore; Paola riesce a conferire al suo vasellame uno status di espressione dalle alte potenzialità: un’espressione unica e irripetibile per esprimere una continua ricerca del segreto della bellezza e della sensibilità della forma. E’ una ceramica che traguarda alla porcellana, come ha ben detto Cristina Acidini (2010), “come aspirando alla sua sottigliezza traslucida: da qui la sua invenzione di una ceramica dagli spessori fini, “alleggeriti” con l’inclusione di pasta cartacea. E’ del resto a quest’arte del fuoco che si addice lo sperimentalismo , secondo ricette e metodi che sono stati a lungo patrimonio delle botteghe dei figuli nei diversi centri d’Italia”. La storia artistica di Paola inizia nel 1999, quando, dopo la laurea in Lingue e Letterature Straniere, si appassiona al mondo dell’arte, lasciandosi guidare dal padre nei primi passi del difficile e complicato lavoro della ceramica. Nei vari laboratori degli Staccioli, una vera e propria bottega d’arte, Paola si è fermata ad ascoltare i sentimenti, a ritrovare uno spazio assolutamente privato dove curare la memoria, dove coltivare e ritrovare ricordi e

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Foto di Elisabetta Antonelli

nel silenzio recuperare pace e tranquillità. Qui sperimenta e si dedica a quello che per lei conta veramente: la bellezza e la serenità. Scopre nella concretezza del fare il suo sentimento e una attraente e variegata realtà piena di fascino e di poesia, in bilico tra la contemplazione del Vero e la trasfigurazione del Vero medesimo. Sogno e realtà si incontrano e talvolta si fondono per esprimere l’impossibile e il fantastico e animare forme con sensazioni di movimento. Lastre sottili e ben sagomate si saldano a formare improbabili Teiere che si inarcano, ondeggiano, reggendosi su corte gambe, o sfoggiano forme bizzarre, vestendosi di decorazioni prossime ad abiti femminili.

Il quotidiano trasfigurato di Paola Staccioli

Talvolta assumono forme sferiche, ricche di aculei, che ricordano animali fantastici che si accendono di riflessi metallici con il calore del fuoco. Dalla grande pittura della Natura Paola è capace di cogliere ed evocare e infuocare di rosso tramonto i suoi splendidi vasi , le sue ciotole, che raccontano di semplici fiori di campo, di erbe, di foglie e di piccole creature che prendono vita divenendo lucenti e brillanti. Dall’incanto della Natura ama sconfinare nell’immaginario fiabesco, avvalendosi delle risorse del rilievo che aspira alla pienezza del tutto tondo: esce dal piano con rami di foglie lucenti e fiori a rilievo che scivolano sul vasellame e sulle sue figure scultoree, lucenti e rosse come il rame. Racconta e celebra il suo appassionato lavoro creando instabili e sensazionali equilibri impilando teiere, tazzine, piatti e piattini, vasi e altre forme che raggiungono vere e proprie originali composizioni di gruppi scultorei che esprimono la sua propensione all’umorismo del “nonsenso”, pur nell’armonia del realismo e del suo equilibrio interiore. Come sempre l’eleganza del segno rapido e sicuro, compiuto con apparente spontaneità, crea insolite e penetranti immagini e ben si combina con il fascino irresistibile e suggestivo del gioco di riflessi iridescenti del lustro metallico che caratterizza la sua abbondante produzione che spiritualizza la tecnica, avvertendo talvolta il bisogno di richiamarsi all’identità della tradizione e di affermare con sicurezza la sua visione spirituale e il suo stile, nel segno dell’armonia e della bellezza che per secoli hanno identificato la nostra civiltà nel rapporto costante tra memoria e modernità. Testo tratto dal catalogo della mostra di Paolo e Paola Staccioli a Scandicci, edito da Gli Ori, Paola e Paolo Staccioli. Passaggi, a cura di Marco Tonelli, Pistoia, Gli Ori, 2017

Foto di Riccadrdo Verdiani e Francesco Mauro del Gruppo fotografico Il Prisma


di Claudio Cosma Un’altra “moda” degli Anni 60’ : quella di prendere a schiaffoni le donne. Nel condannare nel modo più assoluto la mai del tutto interrotta e barbara pratica, nel lavoro di Massimo Nannucci, qui riprodotto, noto, se non altro, come modesta consolazione che lo schiaffeggiatore in questione è nientemeno che Alain Delon, che certo aiuta. Anche io, se proprio lo dovessi prendere questo schiaffone preferirei, ad esempio, che a darlo fosse Gregory Peck, che rimane sempre meglio di quello che ti può rifilare, sempre per esempio, un qualsiasi sconosciuto per un posteggio conteso.

Massimo Nannucci si è sempre interessato alla raffigurazione di quanto di falso c’è nel vero e viceversa, in questo caso si appropria dell’immagine di un film trasformando l’azione in un gesto sulla cui valenza sociale e veridicità si interroga. Mi viene in mente un commento del regista

Giuseppe Patroni Griffi a proposito dell’uso di un cuore vero (di un povero maiale) in una scena di un suo film. Diceva che no, non bisognava usarlo in quanto non sembrava vero e quindi ne ha fatto realizzare uno in cartapesta per dare credibilità ad una finzione. Per farlo sembrare vero, in scena, si doveva usare un artificio. Il gesto dell’attore nel fermo immagine scelto dal Nannucci è molto teatrale, realistico all’interno della scena, pertanto il messaggio

Beccati

questo

è la violenza e la sopraffazione del più forte fisicamente, la famosa legge della giungla. Non si vede il volto della donna (io penso sia Claudia Cardinale), per l’artista non è importante una donna riconoscibile, ma l’essenza di questa, si vuole colpire la debolezza e la femminilità. Stranamente profetica, al di fuori del messaggio che vuole far passare l’artista, non del film, ma della foto, rappresenta una icona negativa e un portato culturale retrogrado. Oggi, per motivi diversi, l’umanità è testimone ed anche protagonista di una diffusa violenza, che si esplica in modo evidente, ma anche con modalità nascoste, praticate con l’omertà del ricatto, di cui ne fanno le spese i deboli, siano donne, animali o la na-

tura stessa. Naturalmente lo schiaffo non è stato realmente dato, a meno che non ci sia stata una controfigura disposta a prenderlo, Claudia Cardinale o l’attrice della scena chiunque fosse, difficilmente lo avrebbe accettato senza far cadere il mondo.

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di Andrea Caneschi Quello che agli albori dell’era moderna sarebbe diventato il più grande cantiere navale del mondo, meraviglia di efficienza militare e preindustriale, viene fondato tra l’XI e il XII secolo, quando la Repubblica Veneziana realizza la necessità di disporre di una Marina di Stato e costruisce a questo scopo la prima darsena, la Darsena Vecchia, dietro la Basilica di San Marco, dove centralizza le attività di costruzione e manutenzione delle sue armate di mare, prima diffuse nei cantieri disseminati in città. Le fasi storiche che ho in precedenza accennato, costituiscono altrettanti momenti di evoluzione dei cantieri dell’Arsenale, che nei secoli si è ingrandito e si è modificato adattandosi alle funzioni che le esigenze commerciali e di guerra richiedevano. Due enormi spazi coperti sono oggi a disposizione delle squadre in gara e questo ci dà modo di ammirare dall’interno le strutture, in parte modificate e modernizzate per rispondere ad esigenze recenti, ma ancora capaci di emozionare appena lo sguardo si ferma ad ammirare le basse e possenti colonne di pietra bianca su cui poggiano gli antichi archi di mattoni rossi che mettevano in comunicazione gli ambienti tra loro. Ci troviamo all’interno dei cantieri di San Cristoforo, sostanzialmente mutati dalla loro originale conformazione, quando, tra il XV e il XVI, secolo furono costruiti per ampliare l’arsenale con la Darsena Novissima. Questi cantieri erano chiamati allora “squeri d’acqua”, pensati cioè per allestire e rifinire il naviglio già in grado di galleggiare, che veniva predisposto nei cantieri adiacenti: i cantieri erano allagati e comunicavano con lo spazio d’acqua antistante, in modo che si potesse agevolmente e con maggior rapidità seguire le lavorazioni a stadi diversi dei battelli, con l’uso di linee di montaggio e di componenti standard, in modo di potenziare notevolmente la capacità produttiva delle maestranze. Agli inizi del secolo scorso la trasformazione in officine meccaniche specializzate dei cantieri, già da tempo degradati a magazzini o abbandonati all’incuria, aveva richiesto l’interramento degli stessi e un accorciamento della parte antistante le acque, per rendere possibile la costruzione delle banchine che oggi stiamo calpestando. Sotto gli ampi tetti, ribassati all’inizio del secolo, possiamo immaginare un lago d’acqua, e gli arsenalotti al lavoro intorno agli scafi galleggianti da allestire o da riparare, nelle stesse acque in cui oggi gareggeremo. Su un lato della Darsena Grande, originata a fine ‘800 dalla fusione delle darsene Nova e Novissima, ancora ammiriamo i due squeri delle Gaggiandre, attribuiti a Jacopo Sansovino (1573), che hanno

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Venezia L’Arsenale/2

mantenuto la loro struttura originaria: eleganti colonne di pietra bianca sorreggono ampie arcate in mattoni sormontate da un tetto spiovente. L’acqua circola al di sotto delle arcate e intorno alle colonne che appoggiano su strette banchine perimetrali, così che alla fine il tetto copre un piccolo lago interno nel quale gli scafi soggiornavano per il tempo necessario al loro completamento. Di fronte a noi, dall’altra parte del bacino, un’altra fila di strutture, più piccole, alcune risalenti alla costruzione della Darsena Nuova nel ‘300, utilizzate a suo tempo come magazzini per la pece, il sartiame e tutti i mate-

riali necessari. Il rosso dei vecchi mattoni, illuminati dalla luce calda del sole al tramonto, si esalta, e la luce stessa si distribuisce con una tonalità rosata che sfuma i contorni e tiene tutto insieme, come una cosa sola, i fabbricati, le banchine, le torri di guardia ai lati del canale di ingresso; in mezzo a tutto, l’azzurro delle antiche acque. Da un lato, oltre l’orizzonte chiuso dai fabbricati dell’Arsenale, si elevano i campanili di Venezia, che ci ricordano la ricchezza che intorno a queste fabbriche si è distribuita e ha fatto della città, sospesa tra terra e acqua, quella esperienza magica che ogni volta ci prende.


di Franco Manescalchi Le vacanze estive in una stazione balneare prevedono bagni, abbronzature, rilassamento e svaghi per tornare poi a casa ritemprati e pronti a riprendere la vita quotidiana e San Vincenzo, per tutto questo, è una cittadina di eccellenza amata e frequentata dagli italiani e dagli stranieri. Per chi voglia anche muoversi in un contesto storico turistico, basta dire che qui, nell’area di Campiglia, numerosi sono i siti archeologici da visitare dove sembra che gli Etruschi vivano ancora. Si aggiunga poi la bellezza originaria, non inquinata, della natura che permette ad esempio il recupero come oggetti di hobbyes di pietre e legni spiaggiati. Infatti un artista lombardo ha realizzato un suo museo/bestiario con piccole pietre lavorate dal mare, raccolte durante le passeggiate sulle rive di San Vincenzo.. Discorso a parte, purtroppo, l’enorme quantità di pietrame della banchina frantumata, riversata in mare durante la costruzione del nuovo porto, che avrebbe dovuto essere tritumata e trasformata in sabbia e che, insieme ad altri errori nel costruire i muri paraonda, ha determinato una sorta di dissesto ecologico a cui è ora difficile fare riparo. Chi poi – oltre a quanto offre la stazione balneare - voglia convivere col mare, come habitat vitale unito alla terra e il cielo, per ristorare insieme al corpo anche lo spirito, deve proprio fermarsi a San Vincenzo. Questo ho appreso negli ultimi anni, nei quali ho soggiornato in tre residences contigui al mare, che offrivano prospettive diverse e complementari. Già qui ero stato negli anni giovani, alle Piane, dove la natura era selvatica come al tempo degli Etruschi che lì avevano un insediamento, alto sul mare, per controllare il loro porto commerciale collegato a Populonia. Ma ora ho preferito stare proprio sul mare, per sentirne il respiro, e così ho imparato ad amarlo interiormente. Nel 2015 soggiornavo in una suite al piano terra, con annesso un terrazzino attiguo alla spiaggia. Il panorama era circoscritto e così, del mare potevo percepire i sottili umori. A volte era sornione, non comunicava, pure si sentiva che era impaziente, che lo traversava qualche vibrazione rimasta sotto al pelo dell’acqua eppure percettibile, specialmente a sera, prima del tramonto. Altre volte era piatto come una tavola, una pista da pattinaggio, assente, lontano, non c’era verso di coglierne il respiro. Altre volte si gonfiava come dire: “Occhio, sono il mare”. È stato quello il primo anno che ho preso dimestichezza col mare, e ho cominciato a dargli del tu, ma con una certa circospezione, non si sa mai, perché Lui era di là, imprevedibile ed io… di qua, ad ascoltarlo.

Star sul mar per sentirne il respiro

Memorie di vacanze estive Il secondo anno, nel 2016, sono andato a soggiornare in un altro residence, ad un quarto piano. Disponevo di una terrazzo larghissimo, con uno sguardo a 180 gradi da San Vincenzo quasi fino a Piombino, e, proprio sotto di me, la distesa delle acque. Un mare così ampio non l’avevo visto mai. Era come una grande pagina aperta e imparavo dal suo silenzio a sviluppare il respiro: vasto, come il suo. Ora non avevo più titubanze. “Sono uomo di terra e di cielo, mi mancavi,” avrei voluto dirgli, ma già l’intesa raggiunta riguardava la comune percezione dell’infinito sia nei momenti di bonaccia che di improvvisa bufera. Così me ne stavo lunghi periodi sul terrazzo col”mio” mare di fronte, sfogliando un’antologia dei poeti che lo avevano cantato, compreso, come Jack Kerouac, a cui “Il mare non parlava per frasi ma per versi”. Quest’anno infine sono stato in un terzo residence; ormai il mare non era più disgiunto dalla terra e dal cielo, se ne stava di fronte a me come un amico quotidiano, grande quanto basta per essere accogliente, col suo sempre diverso palpitare, come se le mie emozioni gli appartenessero. Un bambino sulla spiaggia ha detto a suo padre:”Babbo, com’è lungo il mare”. Un altro bambino, che ha notato sul fondale delle pietruzze ovoidali, piatte, rese iridescenti dall’acqua, ha detto a suo nonno: “Che sassi belli, nonno, c’è nel mare / li piglio per ricordo?” Al che il nonno ha risposto saggiamente: ”

‘ Un li pigliare”. Perché l’iridescenza all’asciutto sarebbe scomparsa. Io, poi, ne ho dipinto un acquerello, cercando di salvarne la policroma iridescenza che è qui posto all’inizio. In fatto di legni e di pietre, anche i gestori del residence ne hanno collocata un’installazione, a cordonato, sia nel cortile residenziale che prima della spiaggia. In questo contesto, al tramonto il cielo infiammato di tutti i colori possibili, a larghe striatura, forma un diorama panico con la terra e col mare che lo riflette. Poi, al calare del buio, i gestori del residence accendono ritualmente le lanterne come fossimo su un peschereccio, in mezzo al mare. In conclusione, San Vincenzo è un luogo di eccellenza per trascorrere le vacanze secondo i canoni consueti, ma vi si può anche prendere col mare intima confidenza e dimestichezza, come gli Etruschi – nostri remoti avi - che qui abitavano ab antiquo. Mareggiate Costa degli Etruschi /Il mare oggi fa la voce grossa /e a me che sto lasciando le sue sponde/ pare una voce ruvida e commossa / che al mio saluto trepida risponde. / Anche se in alto la bandiera rossa /avverte la minaccia delle onde/ in noi si fonde una sorgiva mossa / che il mare e l’uomo per un po’ confonde/ perché sui suoi marosi alti e corruschi/ giunsero in tempi lontani, remoti le navi profilate degli Etruschi/ ed anche noi, lontani pronipoti, /oltre la ridda che imperversa, bruschi, /volgiam lo sguardo ad orizzonti ignoti..

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di M. Cristina François “Questa Chiesa ha dato il nome al Colle, su cui è posta, il quale si legge Podium Sancti Georgii (Giuseppe Richa, “Notizie istoriche delle Chiese fiorentine”, ed.1762, p.242). Il luogo di culto sorse lungo un importante percorso sacro segnato da acque lustrali provenienti dalle numerose fonti sorgive del poggio. Fu appunto nelle adiacenze di uno di questi siti bagnato da acque taumaturgiche che venne eretta una Chiesa già prima del Mille e fu dedicata, non a caso, ai Santi Giorgio e Mamiliano [d’ora in poi: SG e SM]: “Tra il 994 e il 1004 si trova nominata questa Chiesa” perché il Vescovo fiorentino concesse alcune terre poste sulla riva dell’Arno e di proprietà di SG e SM ad un livellario di nome Giovanni di Aliperto” (Richa, p.242). Entrambi i Santi martiri combatterono il male e lo sconfissero sotto forma

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Il complesso di S.Giorgio: di drago alato trafiggendolo a morte e facendo sgorgare una sorgente sul luogo di questa uccisione purificatrice. Per secoli, malati nel corpo e nello spirito si recarono a questa “acqua, che secondo un antico e pio costume, era presa dagli infermi ed era detta volgarmente ‘Acqua del pozzo di San Miliano’ [o Mamiliano]” (Richa, p.241). La Parrocchia di SG e SM fu da sempre definita Prioria, ovvero sede di un “Prete Cardinale”, il che stava ad indicare fin dal X secolo che questa Chiesa era retta da un sacerdote “con grado di maggior dignità e reverenza” che esercitava il ministero di Parroco insieme ad altri preti. Si trattò sempre di Chiesa considerata di riguardo rispetto alle altre Parrocchie che furono più comunemente dette “Popoli”.

Nel 1250, in tutta la città e suo contado, le Priorie che godettero di tale titolo furono soltanto 14 ed ebbero l’alto onore di partecipare il Sabato Santo alla “benedizione degli olj sacri intorno all’Arcivescovo”: SG e SM fu nel novero di queste (Vincenzo Borghini, “Discorsi”, 1584-1585, pp.237239). L’importanza di questa Prioria giustificherebbe la presenza, al suo interno, di un’opera giovanile del grande Giotto: la “Madonna in trono col Bambino e Angeli” (1295 ca.), oggi non più in situ, ma con l’auspicio che vi faccia ritorno. Nel 1234 SG e SM fu unita alla Canonica claustrale di Musciano (Borghini, p.412) e nel 1435 ricevette da Papa Eugenio IV la dignità di essere retta dai Domenicani; a partire da questo momento alla Chiesa fu-


non solo ex-caserma

rono annessi ambienti conventuali. Seguì un biennio in cui i Padri Silvestrini ne presero possesso: era il 1437 quando i Domenicani - dietro invito di Cosimo il Vecchio - si trasferirono in San Marco il cui convento era stato fino ad allora in possesso dei Silvestrini. Questi ultimi, sotto la guida di Gioachimo monaco, subentrarono nel Convento di San Giorgio dal 1436. Sappiamo dal Vasari che vi dimorarono fino al gennaio 1438 perché un loro frate, Placido Catanzio, avendo dilapidato i beni di San Giorgio, fu trasferito con i confratelli al Convento di San Salvi. Nel 1448 il Convento di SG e SM fu associato al Monastero di San Salvi dove i Silvestrini avevano trovato finalmente la loro sede definitiva dopo avere ceduto SG e SM alle Monache benedettine dello Spirito Santo che, come i Silvestrini, appartenevano a un ramo dell’Ordine Vallombrosano. Le religiose subentrarono in SG e SM il 16 settembre 1520 per ordine di Leone X che sempre le protesse. G. Richa ci narra che l’Arcivescovo Giulio de’ Medici “cavò undici Monache dal Monastero di S. Verdiana, per dar principio a questo dello Spirito Santo, che già si diceva San Giorgio. Questo Monastero fu uno dei quattro Conventi che Leone X, in esecuzione di un suo particolar voto, volle fondare in Firenze, sua Patria; e che ne ordinò l’esecuzione al Cardinale Giulio de’ Medici. Per alimento delle nostre Suore, il medesimo Pontefice assegnò loro parte de’ beni della Badia di San Salvi, e di Monte Scalari. L’Abate Don Giovanni Maria Canigiani ebbe gran parte nella fondazione di questo Convento, per raccomandazione di Leone X”. È degno di nota che il Monastero di SG e SM, quando divenne Monastero Vallombrosano, accolse nella propria clausura solo fanciulle nobili o provenienti da famiglie distintesi per alto grado nel governo cittadino. Da questo momento, il complesso ecclesiale-monastico fu intitolato a San Giorgio allo Spirito Santo essendo le Monache dette “dello Spirito Santo”. Sotto la protezione di un Papa Medici - come scrive sempre il Richa - “fu poi per maggior comodità delle Religiose riabbellita l’abitazione con nuovi Chiostri, Dormen-

torj, ed Officine”. Intorno al 1572 il celeberrimo organaro Onofrio Zeffirini dotò la Chiesa di un organo mesotonico ad uso delle religiose: su questo organo suonò la figlia monaca di Galileo Galilei, Suor Maria Celeste, al secolo Virginia. Oggi questo mirabile strumento è stato restaurato e portato, in custodia, nella chiesa di S. Felicita. In seguito, grazie alla protezione di Lucrezia de’ Medici e a cospicui lasciti che ne testimoniano importanza e considerazione, “sul terminare del secolo passato [XVII sec.] si ridusse tutto il Convento a tale bellezza, che non è punto da stimarsi a niuno di Firenze inferiore” e - continua il Richa - fu valorizzato dalle “preziose Reliquie, che quivi si conservano”, tra le quali il corpo di S.Valentina Martire offerto alle religiose nel 1646 dalla Marchesa Francesca Calderini, corpo che fu collocato “in ricca e luminosa urna sotto l’Altar Maggiore”. Nel 1593 Papa Clemente VIII concesse Indulgenza perpetua alle Monache se ogni giorno, dopo Compieta, si recavano in processione a visitare l’immagine miracolosa di una Madonna venerata in una cappellina del loro Monastero, il che contribuì a valorizzare spiritualmente e materialmente questo luogo. Oltre questa cappellina dedicata alla Vergine (forse la Madonna di Giotto?), ricordiamo nel complesso monacale si erano formati da subito tre luoghi di culto: la Chiesa vera e propria già Prioria, intitolata da sempre a SG e SM; l’Oratorio di S.Sigismondo e l’Oratorio di S,Mamiliano “pertinente all’Università ed Arte de’ Maestri di Pietra e Legname i quali avevano devozione a detta Chiesa, per averci una Cappella con le figure dei Quattro Santi Martiri Coronati, loro Protettori, e l’Arme nel cardine della porta” (Richa, pp. 241-242), con attiguo il famoso pozzo dalle acque taumaturgiche che qualcuno volle riferire, invece che a S.Mamiliano, a S.Umiliana de’ Cerchi. Nel 1705, grazie ad una ricca donazione del Marchese Simone Zati, la Chiesa di SG e SM fu rinnovata dalle fondamenta per opera dell’architetto Giovan Battista Foggini: “[fu] tolto tutto l’antico, o sia di pitture, o di Altari, o di lapide, col nobile concetto di farla vaga e magnifica. Onde

dopo alcuni anni, passati nella nuova fabbrica, nel 1705 a dì 28 di Ottobre, si aprì nuovamente al pubblico la nuova Chiesa, coll’intervento de’ Sovrani di Toscana, e di tutta la Nobiltà di Firenze, corsa ad ammirare la vaghezza del disegno, la varietà de’ preziosi marmi, la vaghezza degli stucchi dorati, e la bellezza delle tavole” (G. Richa, p.240). L’edificio ecclesiale fu consacrato dall’Arcivescovo Tommaso de’ Conti Della Gherardesca, mentre governava il Granduca Cosimo III e al soglio pontificio era salito Clemente XI. Il 7 luglio 1866 la Legge n.3036 soppresse il Monastero Benedettino Vallombrosano lasciando in funzione solo la Chiesa parrocchiale, come al presente. Dal 1928 al 1998 i locali dell’ex-monastero passarono alla Caserma della Scuola di Sanità militare che continua a possedere l’immobile d’angolo col Vicolo della Cava abitato fino al 1866 dai fattori delle Monache. La bellezza architettonica e lo splendore degli interni della Chiesa di S.Giorgio restano un’impressionante testimonianza di un eccezionale stile Barocco raro a Firenze. Le scenografie di impronta berniniana e borrominiana sono sorprendenti per la loro “ridondanza decorativa […]. Non fosse per la presenza di immagini devozionali e simboli cristiani […], l’aula ecclesiale sembrerebbe un salone delle feste, forse il più fastoso fra quelli fiorentini del periodo, ornato fittamente di specchiature di stucco, di fregi e volute. Qui, come nella Cappella Feroni, il Foggini mostrava di ricordare il motivo berniniano della scenografica raggiera indorata, calante dall’alto sul sottostante altare. L’effetto del controluce, con angeli turbinanti nella campitura trasparente di una finestra ricordano, invece, il soffitto della biblioteca di Palazzo Medici Riccardi” (Carlo Cresti, “L’architettura del Seicento a Firenze”, 1990, p.258). La descrizione di tutte le opere che in S.Giorgio costituiscono l’unicum di un tesoro patrimoniale e religioso da custodire, restaurare e conservare sarà oggetto di un mio articolo che apparirà nel prossimo numero, sulla base di una ricerca iconografica svolta presso l’Archivio fotografico della Sovrintendenza.

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di Gabriella Fiori Quella febbre sotto le parole: librino agile intenso della collana I Leggendari, una delle cinque tutte sfiziose connesse a Leggendaria, bimestrale femminista che diretto da Anna Maria Crispino, ha doppiato il capo dei 20 anni”. La febbre è quella che “si attacca al lettore” chino su questa antologia di 12 autrici che con franchezza generosa dicono il loro bisogno e desiderio di scrivere, sorgenti di una vocazione naturale. Qui radunate a cura di Maria Rosa Cutrufelli messinese poliedrica, autrice anche lei (v.Il giudice delle donne, 2016,Ricordi d’Africa 2009-radiodrammi per la RaiTv italiana…) che qui mi preme far notare come ideatrice della Ia fiera del libro a firma femminile (Roma 1984), fondatrice e direttrice per 12 anni di Tuttestorie, rivista di “racconti,letture,trame di donne” e docente di “Teoria e pratica della scrittura creativa”alla Sapienza-Università di Roma. Il dialogo iniziale Crispino-Cutrufelli dichiara lo scopo della raccolta: “introdurre nella cultura il ‘punto di vista’ delle donne, producendo un cambiamento”; per questo, fare una “indagine comparata sul ‘laboratorio’ che ciascuna deve allestire per sé in modo da potersi dedicare alla scrittura”. Oltre le questioni che riguardano “la sostanza stessa della scrittura” , di ‘specifico’ c’è “la fatica che devi fare, se sei donna, per essere riconosciuta da un mondo letterario in cui la critica non ha ancora strumenti adeguati per leggere le opere di donne”. E, dal 2001 in cui Tuttestorie ha chiuso i battenti, a Maria Rosa Cutrufelli non sembra proprio che “il punto di vista delle donne, il loro racconto del mondo abbia piena cittadinanza nei libri di testo, nelle antologie scolastiche, nei dibattiti pubblici e nelle rassegne dei festival, insomma nella nostra società”. Non resta allora che abbandonarsi ma con cosciente riflessione a una lettura aperta ad empatica per “un riconoscersi reciproco fra lettrici e scrittrici”. Schede esaurienti nella loro brevità danno voglia di leggere oltre. Con il rammarico di non poter dare voce a ognuna come vorrei, mi limito a parlare di 4 autrici che ho conosciuto di persona o tramite la loro opera. Luce d’Eramo alias Lucette Mangione (Reims17.06.1925-Roma 06.03.2001) o dell’accettare tutto dalla vita che per lei è stata drammatica: Lager a Dachau, poi evasa in peregrinazioni ospedaliere (febbraio 1944- dicembre 1945)lei dai 19 anni in carrozzina perché travolta dal crollo di un muro ( colpisce il suo forte e insieme lieve romanzo autobiografico Deviazione

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Quella febbre sotto le parole

1979)la porta a sentire la“scrittura come via di comprensione dell’altro da sé, che è poi stato un cardine della mia narrativa”. Elena Gianini Belotti (Roma 02.12.1929) o della decisione, docente alla scuola montessoriana per assistenti all’infanzia e fondatrice(1960) del primo Centro Nascita Montessori;la conobbi per le mie ricerche Montessori e poi lessi il suo “saggio seminale” Dalla parte delle bambine(60 edizioni,tradotto in 15 lingue)sa bene che “è la scrittura a tenere ben fermo il timone dell’esistenza, perché se non scrive le sembra di andare alla deriva”. Per me ha contato molto il suo Prima della quiete. Storia d’Italia Donati 2003 che fa scoprire il dramma femminile di una maestra nel primo ‘900. Gina Lagorio (Bra, 18.06.1922,Milano 17.07.2005) o della giovinezza ha cominciato piccola figlia unica a raccontare favole a un uditorio immaginario per “farsi compagnia”, dice che l’esercizio dello scrivere è così radicato in lei “da somigliare a un vizio o a un tic”; mi colpì il suo

Approssimato per difetto1971 dedicato al primo marito Emilio Lagorio scomparso nel 1964. Oltre alle opere sue, ha lavorato con dedito gusto(le presentai il progetto della mia biografia Weil, 1981 e 2006 4a)per la Garzanti dicui aveva sposato in seconde nozze l’editore Livio. V. la collana “I Grandi Libri ”.Grazia Livi (Firenze 19.03.1930, Milano 18.01.2015) o della ricerca dell’armonia; la nostra amicizia fin dall’adolescenza è stata come un giardino ben coltivato a quattro mani, e ancora dura al di là del tempo. Per lei, “la scrittura non è un altro”, ma “tutta permeata dei miei pensieri, delle mie emozioni” così che “più capisco, più lei capisce, più divento profonda più lei diventa profonda, più accolgo più lei accoglie, più sono morbida più lei si articola in una morbidezza”. Per questo la chiama “scrittura di crescita”. Fra i suoi molti libri, indispensabile per la costruzione di sé attraverso la scrittura, “Le lettere del mio nome” 1991 e 2015 (Premio Viareggio 1992)


di Valentino Moradei Gabbrielli Quando osserviamo un paesaggio naturale, ci domandiamo quanto tempo ha impiegato la natura a raggiungere quella che noi consideriamo perfezione. Una “perfezione”, comunque non definitiva né permanente. Un lentissimo divenire che si è temporaneamente formato per una serie infinita di accadimenti realizzatisi con un effetto domino interminabile e che rispondono esclusivamente a logiche naturali chimico-fisiche. Quando osserviamo un paesaggio di campagna, dove le azioni umane si sommano alle logiche naturali, non pensiamo a quanti siano stati gli interventi, le correzioni, le aggiunte, i ripensamenti, gli aggiustamenti intervenuti, che hanno contribuito a raggiungere e definire se pur momentaneamente le condizioni che noi vediamo. Pensiamo che tutto sia sempre stato così. Che l’albero non sia mai cresciuto, ma nato già adulto e l’edificio mai corretto né spostato, la coltivazione sempre presente. Percorrendo la Via Volterrana, osservavo Villa dei Collazzi in

Progetto infinito Riflessioni sul paesaggio località Giogoli, e trovavo piacere in quella serie d’immagini equilibrate di architettura e terreni coltivati tra cipressi lecci ed elementi architettonici che mi scorrevano davanti agli occhi. Un paesaggio articolato composto di natura e artificio che è andato trasformandosi nel tempo per secoli grazie ad un progetto indefinito ma comune a un susseguirsi di generazioni che hanno coltivato la terra, costruito mura e piantato alberi. Un progetto ambizioso quanto misterioso alimentato da individui o talvolta comunità che si affidava, si affida, continua ad affidarsi a chi succederà loro. Un atto di fiducia incondizionata e amore totale sostenuto dalla generosa consapevolezza di una grande responsabilità, quella di costruire il futuro. La coscienza di partecipare qualcosa che appartiene e apparterrà a tutti. E così facendo correggere o

meglio aggiornare un ambiente che cresce con la comunità, lo accompagna nella sua ricerca di perfezione che corrisponde al costruire una miglior vita. La Villa, iniziata alla fine del Cinquecento dalla famiglia Dini su progetto di Santi di Tito pittore e architetto, è rimasta incompiuta per circa la metà dell’edificio fino ai primi del ‘900 quando i nuovi proprietari terminano il progetto. Parallelamente, si sono sviluppate le coltivazioni di olivi e viti e piantato lecci e cipressi in filari e ragnaie. Negli anni trenta del ‘900 è stata realizzata una piscina nel prato prospiciente la villa a cura dell’architetto paesaggista Pietro Porcinai. Un “progetto ardito”, per il contesto in cui viene ad inserirsi. Tuttora, si piantano alberi in sostituzione di quelli seccati e si migliora la coltura delle vigne con criteri aggiornati.

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Verso il centro del proprio sognare di Angela Rosi Viaggiare è un bel verbo, ci ricorda che possiamo allargare il nostro territorio, le nostre conoscenze e le nostre amicizie. Viaggiare ci allarga la mente e ci fa comprendere situazioni e persone che altrimenti non comprenderemmo. Viaggiare ci fa sentire “cittadini del mondo” e ci aiuta a rispettare il diverso da noi semplicemente perché viaggiando ci immergiamo in quel luogo altro da noi. Il viaggio, come di solito lo intendiamo, è fisico. Ci spostiamo, prendiamo l’auto, l’aereo, il treno, la bicicletta o semplicemente a piedi usando mezzi di fortuna, ma il viaggio in assoluto più entusiasmante è quello dentro di noi per scoprire la nostra anima. Non è un viaggio facile perché il territorio che attraverseremo è spesso sconosciuto anche e soprattutto a noi stessi. Il viaggio per conoscere la nostra anima è come il viaggio fisico su un territorio, ci sono intoppi, ritardi, situazioni belle e brutte o ambigue, incontri non sempre perfetti perché gli individui che incontriamo non sempre ci piacciono. Ci muoviamo dentro di noi inizialmente con curiosità, spesso l’inizio del viaggio coincide con un dolore, un disagio, con la voglia di cambiare qualcosa della nostra vita e di noi stessi poi il viaggio ci prende per mano e continuiamo a camminare. Una volta iniziato è impossibile tornare indietro a come eravamo, c’è un’unica possibilità, viaggiare e cambiare. Lentamente scopriamo che siamo composti di tante facce, siamo sfaccettati come diamanti e a seconda del momento risalta l’uno o l’altro nostro volto, alla fine capiamo che è meraviglioso perché ci permette di essere diversi da noi stessi sempre, flessibili e non rigidi sulle nostre posizioni e pregiudizi. Ciò ci rende aperti non solo verso noi stessi ma anche verso il mondo esterno favorendo la comprensione dell’altro solo perché dentro di noi c’è già l’altro anzi gli altri. Proprio in questa poetica si inseriscono le opere di Luca De Silva della mostra Verso il centro del proprio sognare con la quale, giovedì 12 ottobre, la Galleria d’arte La Cour Carrée di Firenze ha inaugurato la sua stagione artistica. L’artista nei lunghi anni di lavoro ha ri-costruito la mappa della sua anima popolata da molteplici forme artistiche, performance, pitture, sculture, stampe, scritti e racconti. Luca De Silva si è sempre

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raccontato con la sua anima di sognatore, la sua è un’arte pura che sgorga e fluisce senza intoppi dall’interno all’esterno e in questo viaggio interno - esterno si trasforma, con tanta ironia, in opere tra il fantastico e il reale. Seguire Luca De Silva nel suo viag-

gio significa conoscere la sua anima che è unica e irripetibile ma che si esprime con il linguaggio universale dell’arte perciò la possiamo comprendere e ri-conoscere e poi, magari, metterci in cammino Verso il centro del proprio sognare.


Le eterne Gualchiere di Remole di Annamaria M.Piccinini Era una bella giornata di ottobre e la benemerita associazione “Itala Nostra”, povera ma piena di passione civile, organizza una gita alle Gualchiere di Remole. Alcuni bambini, appena intraviste le merlature gridano: Ma è un castello! In effetti ne ha il profilo anche se la funzione è stata, in un certo senso, ancora più nobile e interessante. Il problema che stupisce gli astanti è che sia ridotta così e continui ad esserlo. Chi ne sa qualcosa cerca di spiegare l’inspiegabile, cioè che da oltre duecento anni questo edificio sia in abbandono pur nella vaga consapevolezza che sia qualcosa d’importante da salvare .Molti hanno avuto questo sentore, dalle istituzioni pubbliche (appartiene al comune di Firenze pur essendo nel comune di Bagno a Ripoli) fino a colti ed appassionati professionisti. Ma sono passati secoli, non anni!.Un cenno storico, perciò, può non guastare . Le Gualchiere furono costruite ex novo nel 1326 dalla potente famiglia degli Albizi per la gualcatura della lana (operazione complessa per dare ai ‘panni’ compattezza, impermeabilità, resistenza), e si svilupparono sempre di più dopo l’alluvione del 1333 che distrusse gli opifici vicino alla città. La presenza della cinta muraria con due porte di accesso aveva lo scopo di proteggere le macchine idrauliche dagli assalti di predatori, poiché i panni di lana erano, all’epoca , materiale prezioso e non difficile da esportare. Intorno alle Gualchiere e alla loro attività erano sorti alloggi (un borgo ancora oggi esistente, pur semiabbandonato) ed altre infrastrutture fra cui un traghetto, detto la “Nave ai Martelli”, che congiungeva all’altra sponda dell’Arno, fra Le Falle e le Sieci; e, per questa via ,si collegava alla città di Firenze, emporio centrale dell’Arte della Lana. Fu infatti questa potente corporazione che nel 1541 acquistò le Gualchiere e le gestì fino al 1770, quando il Granduca Pietro Leopoldo le sfruttò come mulini, consegnandole alla Camera di Commercio di Firenze e quindi in proprietà del Comune di Firenze che le mantenne finché furono utili per macinare, dopodiché se ne disinteressò. Passarono eventi come la II guerra mondiale e l’alluvione del 1966, ma la potente struttura architettonica degli edifici delle Gualchiere resistette. Intanto però l’interesse per l’archeologia medievale e industriale si sviluppò grazie ad archeologi del calibro di Riccardo Francovich. L’università affidò tesi di laurea sulle Gualchie-

re, finché la questione del loro recupero entrò nella variante al piano regolatore di Bagno a Ripoli (1979). Fu a questo punto che intervenne l’urbanista Giorgio Pizziolo, che, con la sua équipe, dette la linea per il recupero delle Gualchiere, prefigurando la realizzazione di un parco fluviale della valle dell’Arno. Il progetto di fattibilità fu presentato in provincia e Regione nel 1983, con la previsione che, entro un quinquennio, il Comune predisponesse piani particolareggiati per l’attuazione del parco in quell’area, fermando l’attività di escavazione e reimpiantando attività agricole e artigianali congrue. Il progetto Pizziolo suscitò l’interesse anche del Comune di Firenze, che, a sua volta, dette incarico all’arch. Bottai di redigere un

piano di recupero. Siamo agli anni ’80: nelle Istituzioni tutti sono d’accordo sull’Importanza delle Gualchiere e della necessità del loro recupero indirizzato a vari scopi: dal turismo giovanile, alla realizzazione di un “museo attivo”, ecc.. Senonché , inspiegabilmente, per un decennio i contatti fra le istituzioni s’interruppero mentre le condizioni delle Gualchiere si deteriorano ulteriormente. Si organizzarono comunque incontri, ma l’anomalia di un bene del Comune di Firenze nel Comune di Bagno ha bloccato, in pratica, un percorso lineare. E mentre le proposte si sprecano.-.fra cessione a privati a reiterati interventi delle istituzioni coinvolte.-.l’acqua e i fenomeni atmosferici continuano ad erodere le secolari strutture.

Le figure di Serena Nono alla Galleria Isolotto La Galleria Isolotto - aperta in piazza dei Tigli in occasione del progetto Nuovi Cantieri Culturali Isolotto - prosegue la sua rinnovata attività accogliendo progetti espositivi e incontri rivolti all’arte, alla natura, al paesaggio, per creare un intreccio di esperienze tra artisti, studiosi e cittadini. Con Figure. Solo Exhibition di Serena Nono si apre un nuovo ciclo di riflessioni sull’uomo e il suo abitare il mondo.

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Il Diverso Femminile di Carlo Cantini

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Negli anni ’70 il mondo femminile scese nelle piazze per reclamare il desiderio di cambiamento. In quella occasione realizzai questo lavoro fotografico per dare un significato a questi eventi per rafforzare l’evoluzione della donna.


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