Cultura commestibile 237

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Numero

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Con la cultura non si mangia Giulio Tremonti (apocrifo)

Demand è lecito Answer è cortesia Maschietto Editore


NY City, 1969

La prima

immagine Questa era una zona residenziale periferica, abitata da una classe media mista. Mi ricordo che si incontravano sia famiglie bianche che famiglie di afroamericani e latinos. Si trattava evidentemente di famiglie che avevano raggiunto un grado di inserimento piÚ che soddisfacente nelle gerarchie in cui da sempre si divide la società statunitense. Notai subito con piacere che il clima era decisamente rilassato e che i giovani interagivano senza manifestare alcun segnio di disagio per questa coabitazione. Sono stati momenti piacevoli anche per me. Sembrava di essere in un’oasi di pace e di relax in mezzo ad una megalopoli molto frenetica e sempre di corsa!

dall’archivio di Maurizio Berlincioni


Numero

4 novembre 2017

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Riunione di famiglia Grazie a Dio Le Sorelle Marx

Menestrina riscaldata Lo Zio di Trotzky

Sempre più in alto I Cugini Engels

In questo numero Lettere da un architetto a un sacerdote a cura di Cristina Donati

Non è il cielo a essere azzurro, è l’azzurro a essere cielo di Claudio Cosma

Parole aeree a cura di Archivio Carlo Palli

Mappe di percezione: San Francisco di Andrea Ponsi

Sete di libertà di Alessandro Michelucci

Una mostra, tre Annunciazioni di Roberto Barzanti

Per S.Giorgio! Da Giotto a Foggini di M. Cristina François

Ernaux, la memoria attrezzista di scena di Elisa Zuri

Un certo sguardo su Firenze di Susanna Cressati

Leggere sull’acqua di Simone Zanuccoli

Attraverso il finestrino di Danilo Cecchi

Superare la linea gialla di Giacomo Aloigi

La verità sulla Catalogna di Olimpio Musso

La guerra raccontata con verità e poesia di Paolo Marini

e Valentino Moradei Gabbrielli, Mariangela Arnavas, Gianni Pozzi...

Direttore Simone Siliani

Illustrazioni di Massimo Cavezzali, Lido Contemori

Redazione Gianni Biagi, Sara Chiarello, Aldo Frangioni, Vittoria Maschietto, Michele Morrocchi, Sara Nocentini, Barbara Setti

Editore Maschietto Editore via del Rosso Fiorentino, 2/D - 50142 Firenze tel/fax +39 055 701111

Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012

Progetto Grafico Emiliano Bacci

redazione@culturacommestibile.com culturacommestibile@gmail.com www.culturacommestibile.com www.facebook.com/cultura.commestibile


Lettere da un architetto

a cura di Cristina Donati

“Spero proprio di venire un giorno coi ragazzi a vedere con lei la chiesa dell’Autostrada”: così, Don Milani conclude una sua lettera a Giovanni Michelucci in segno di stima per la sua architettura e di interesse verso la sua declinazione ecclesiale. Nel breve epistolario tra il sacerdote e l’architetto si toccano temi ancora oggi al centro del dibattito culturale che spaziano dalla didattica, al significato di collaborazione disciplinare. Siamo nel novembre del 1967, Giovanni Michelucci visita Barbiana invitato da Don Milani per parlare ai suoi ‘figlioli’ del mondo dell’architettura, dell’urbanistica, dell’arte. Una lezione aperta, un dialogo tra un professionista ed un ecclesiastico per interrogarsi sulla teoria e sull’etica delle discipline. Non possiamo conoscere le domande che Don Milani rivolse all’architetto ma possiamo desumere gli argomenti dall’epistolario intercorso nei giorni che seguono l’incontro-dibattito. L’impegno, la partecipazione, l’insegnamento, l’utilità del proprio lavoro sono al centro dell’interesse dei due uomini che da angolazioni diverse condividono i propri pensieri ed esplorano la propria anima. Temi eterni, cari a Michelucci, che in più occasioni, ha ribadito quanto il valore di un’opera fosse da rintracciare nella sua ‘umana e poetica verità’, ma anche nell’efficacia del suo rapporto con la società. Rileggiamo quindi oggi questo epistolario inedito per continuare a riflettere sul valore della teoria ed, ancor di più, sull’etica su cui fondare le Arti, espressione massima della società che vogliamo costruire per le generazioni future. Nota: Si ringrazia quindi il Prof. Giancarlo Paba, presidente della Fondazione, per avere concesso la pubblicazione di queste lettere ed il Prof. Francesco Gurrieri per il suo interesse a proporne la pubblicazione. Caro Don Milani, mi scusi la familiarità con la quale inizio questa lettera, ma non saprei come cominciarla diversamente, perché la visita che ho

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Foto di Carlo Chiari

fatto a Barbiana, ha lasciato in me un ricordo veramente caro. Dirò di più: quell’incontro mi è stato, mi è e mi sarà “utile”. Di fronte ai suoi “figlioli” lei mi pose alcune domane alle quali risposi senza dire nulla di interessante; perché l’architettura, l’urbanistica e l’arte stessa in generale mi interessano ormai ben poco, legate come sono a speculazioni di ogni genere: teoriche, cattedratiche, politiche. Ma questo è un argomento che richiederebbe molto tempo per essere messo a fuoco, ed io non voglio annoiarLa con una lettera troppo lunga. Ora voglio soltanto ringraziarLa per la cordiale accoglienza fattami domenica, e dirLe che ho letto e riletto la Sua lettera ai Giudici (che è di una chiarezza e di un impegno esemplari) e poi che ho riflettuto molto sulla Sua attività di maestro la quale se è fondamentale per la formazione dei ragazzi che Le sono vicini, può tuttavia essere utilissima anche per chi, come me, è già

tanto in là con l’età, da guardare in faccia la morte da tre passi di distanza. Ecco perché le ho parlato in principio di “utilità” all’incontro; ed anche per questo La ringrazio. Le invio i miei saluti migliori, suo Michelucci 7 Novembre 1965 PS: Leggo di quel tale Morrison che davanti al Pentagono si è dato fuoco, ed è morto, per protestare contro la guerra nel Vietnam. Ecco un altro uomo che ha pagato di persona – a suo modo – per il bene di Tutti. ****** Caro Architetto, Siamo stati sommersi dalla posta e dalle visite. E’ una gioia per me e per i ragazzi scoprire tanto mondo sconosciuto che legge gli articoli di giornale e subito prende la penna per scrivere che è d’accordo, che


a un sacerdote

è vicino, che ci vuol bene di lontano. Però questa volta son stati troppi e la nostra organizzazione non ha retto all’urto. Siamo già indietro di diversi giorni anche della sola lettura della posta e di quella letta ce n’è un monte di cui non ricordiamo più se appartiene alle evase o alle non evase. Così ci è successo di non sapere se le abbiamo già detto quanto piacere ci ha fatto la sua visita e il suo modo di lasciarsi confessare davanti ai ragazzi adattandosi alla mia necessità di maestro di far conoscere ai ragazzi più gente possibile e più da dentro possibile. Spero proprio di venire un giorno coi ragazzi a vedere con lei la chiesa dell’Autostrada e se non me la sentissi di muovermi perché non sto bene, spero proprio che lei spiegherà la sua opera ai ragazzi anche se io non ci sono. Un saluto affettuoso da me e dai ragazzi, suo Lorenzo Milani 25 Novembre 1965

****** Caro Don Lorenzo, quando ricevei il biglietto col quale mi invitava a Barbiana per leggere la “lettera ad un a professoressa” (che ho letto poi a Firenze) mi rallegrai perché potevo così venire di nuovo a trovarLa ed avere direttamente Sue notizie; ma in pari tempo entrai - come si dice - in agitazione al solo pensiero di dovere esprimere un parere su di una opera della “scuola di Barbiana” e cioè, Sua. Quanto ad un mio intervento diretto nel contesto dell’opera stessa mi pareva, come mi sembra tuttora, inammissibile, considerata la mia impreparazione in materia e la mia insufficienza culturale. Anzi, ora, dopo la lettura delle “lettere” quella inammissibilità mi appare ancor più evidente perché non conosco affatto la scuola d’obbligo, che ai miei tempi non era nemmeno nella mente degli Dei, e tanto meno conosco la magistrale. Lei mi ha accennato, se ben ricordo, alla eventualità di trattare l’argomento “colla-

borazione”; ma la collaborazione che io cerco è molto diversa da quella che realizza la scuola di Barbiana, che è fra persone che si preparano ad insegnare. La mia è collaborazione con la popolazione, con gli operai nel cantiere, con le persone più sprovvedute, con gli ‘ignoranti’, dai quali attingo suggerimenti, proposte, critiche per poi tradurre il tutto in un disegno o in una costruzione. Non è quindi la collaborazione intesa nel senso di “équipe” professionale. Io non so quindi cosa potrei dire in proposito. Sebbene, come ho già detto, io non conosca la scuola d’obbligo e la magistrale, penso che quel che è detto nella “lettera ad una professoressa” sia esatto, tanto più che ho saputo recentemente di un Preside che ha rimproverato duramente un insegnante di aver bocciato un ragazzo che “non capiva”. Ha detto il Preside: “la colpa è sua e non del ragazzo; è lei che non capisce!” La “lettera” tocca quindi un argomento importante e già discusso nella scuola; come ne tocca altri, relativi alla conoscenza di quel che avviene giornalmente nel mondo, alla politica, al doposcuola ecc; vi sono pagine molto belle (bellissime quelle dei ragazzi dall’estero), e vi è qualcosa su cui non concordo e voglio dirlo a Lei con tutta libertà perché la stimo un grande maestro cui io stesso, così in là con gli anni, debbo molto: non concordo sulle offese dirette alla professoressa e ad altre persone perché, seguendo la logica della lettera, se bisogna dedicare ogni cura al ragazzo che ha difficoltà a capire, non mi rendo conto perché la stessa cura non si debba dedicare alle persone mature di anni che non capiscono, cercando di persuaderle, di “educarle”, sia pure con un linguaggio duro, ma non offensivo. Mi sembra inoltre che con le offese si stabiliscano nell’opera due ‘piani qualitativi’ di linguaggio che possono coinvolgere il lettore. Le stupende pagine di ‘esperienze pastorali’ e quelle della “lettera ai giudici” sono efficacissime per la loro critica incisiva e dura verso gli uomini e la società bacata, e sono di una serenità esemplare. Ed insegnano tante cose importanti ad ogni uomo che sia degno di questo nome. Pubblicata originariamente su Toscana Oggi

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Le Sorelle Marx

Dio è grande

Ma vi ricordate il nostro sindachino Dario Nardella quando si mise a fare lo scherzetto al suo collega di Venezia, Luigi Brugnarno, urlandogli “Allah akbar”? Uuuuh, quante polemiche! E lui ha subito gettato acqua sul fuoco, dicendo che non intendeva offendere. E certo, noi non avevamo dubbio alcuno. Ma il problema è che Nardella non aveva la benché minima idea di ciò che stava dicendo. Ma a spiegarglielo ci avrebbe pensato Wajahat Ali, editorialista del New York Times che sull’autorevole quotidiano ha scritto un articolo dal titolo “Rivoglio indietro Allahu Akbar”. Wajahat spiega al nostro sindachino che Allahu akbar in arabo significa “Dio è il più grande” e che i musulmani, “una eccentrica tribù di oltre un miliardo di membri” la pronunciano 5 volte al giorno nelle loro preghiere e anche per esprimere gratitudine in ogni situazione (come lui stesso ha confessato di aver fatto in un gabinetto “dopo aver perso una battaglia, ma infine aver vinto la guerra contro un tremendo virus intestinale”). E tuttavia “il mondo continua a girare e nessuno viene colto da aneurisma” e nessuno

SCavez zacollo

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di questo miliardo di individui fino a qualche anno fa avrebbe mai esclamato “Allahu akbar” prima di aver commesso una strage. Purtroppo ultimamente un piccolo numero dei componenti di questa tribù compie omicidi terribili gridando questa frase, a New York, a Charlottesville, a Barcellona. Così, una comune benigna frase usata quotidianamente da milioni di musulmani durante le loro preghiere, oggi è compresa come un codice per dire “è terrorismo”. E’ noto che il linguaggio spesso è sequestrato e usato come un proiettile da violenti estremisti. Alcune persone, scrive Wajahat, urlano “Allahu akbar” e altri intonano “identità”, “cultura”, “orgoglio bianco”. Come ha twittato Trump dopo l’attacco terrorista, “chi vuole combattere il terrorismo studi quello che il generale Pershing fece ai terroristi arrestati: li ha sparati con pallottole inzuppate nel sangue di maiale. Dopo di che non ci fu più il terrore radicale islamico per 35 anni!”. Wajahat chiede di avere indietro il significato vero di quel “Allahu akbar”, “Dio è il più grande”. Lo stesso Dio in cui crede il nostro sindaco. Anche se lui, forse, non lo sa.

I Cugini Engels

Sempre più in alto

disegno di Massimo Cavezzali L’ora delle decisioni irrevocabili si sta avvicinando: elezioni politiche a primavera e, dunque, le grandi manovre stanno iniziando anche in Toscana. E in questi frangenti, non c’è Nardella che tenga: il campione indiscusso di ogni elezione è uno solo e inimitabile, Eugenio Giani. Il Presidente del Consiglio Regionale ha consegnato la dichiarazione di guerra agli ambasciatori di Saccardi e Nardella ed è salito sul suo Ansaldo S.V.A per dare una dimostrazione di forza ai nemici del popolo. E così sulla sua pagina Facebook ha tuonato: In volo sulle #Apuane. La #Toscana dall’alto, non ha segreti! Eugenio è dappertutto e vi controlla, ovunque voi siate. Combattenti di terra, di mare e dell’aria, un’ora segnata dal destino batte nel cielo della nostra patria, disse la buonanima e con forme rinnovate, ribadisce oggi il buon Eugenio. Sempre più in alto!


Lo Zio di Trotzky

Menestrina riscaldata Si dice, errando e alquanto ingenerosamente, che la finanza sia diventato il campo privilegiato dell’inganno, della prevalenza degli interessi privati e particolari su quelli pubblici e generali, il terreno di conflitto fra gli interessi. Niente di più ingiusto. Prendiamo il caso della Banca Popolare di Vicenza, già nota in Toscana per essersi mangiata insieme alla Cassa di Risparmio di Prato, anche la meravigliosa collezione di opere d’arte del Rinascimento pratese che il patron

Zonin si volle portar via insieme al pallone, in quanto entrambi suoi! Ecco, la Banca era così corretta nel suo agire che dopo aver ospitato come ispettore di controllo un funzionario della Banca d’Italia nel 2001, lo ha impalmato direttore finanziario nel 2004. Il funzionario Luca (nome proprio) Menestrina (cognome sempre proprio) si era trovato così bene durante l’ ispezione che ha deciso di rimanerci. Quando si dice una Menestrina riscaldata!

Nel migliore didascalia di Aldo Frangioni dei Lidi possibili

disegno di Lido Contemori

L’autosecessione di Carles Puigdemont i Casamajó

Avanzi di Avanti Piccola rubrica per i distratti che raccoglie le migliori frasi di “Avanti”, il bestseller di Matteo Renzi.

Già come spesso mi accade quando fisso un bel calendario di inaugurazioni(esattamente come avevo fatto a Firenze da sindaco nel 2014), c’è un piccolo contrattempo: il referendum è andato come è andato, e io mi sono dimesso

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a cura di Archivio Carlo Palli Tra le avanguardie storiche il futurismo manifestò una volontà di rottura più radicale nei confronti delle tradizioni linguistiche, stilistiche e tematiche precedenti, muovendosi con strategie d’urto estremamente provocatorie. Non a caso al centro dell’ispirazione futurista vi fu il nuovo ruolo che la macchina esercitava nella società capitalistico-industriale all’inizio del suo decollo mondiale di inizio Novecento, analizzata a partire dal piano della percezione visiva e linguistica e dai meccanismi mentali che ne derivavano. Se la macchina fa vivere in modo diverso allora fa vedere e anche sentire in modo diverso e il mondo, di conseguenza, non può sottrarsi né al progresso né alla modernità, ma è destinata ad analizzarla con linguaggi e metodologie che superano il canone. L’esaltazione della velocità e della macchina si legarono indissolubilmente al mito del volo, in una fascinazione estetica ed espressiva che coinvolse in primis il linguaggio. Nel 1908 Filippo Tommaso Marinetti pubblicò la sua prima esaltazione lirica in versi dedicata al volo dal titolo “L’Aeroplano del Papa” e nel 1919 cominciò a collezionare vocaboli aviatori pubblicandoli sulla rivista futurista «La testa di ferro», mettendo in evidenza sia la visione del volo nella sua forma individuale ed eroica – basti pensare alle gloriose crociere atlantiche di Italo Balbo – sia il dinamismo, la velocità dell’aeroplano, il sentimento spaziale e la possibilità di mettere in gioco la propria vita. Successivamente le scelte lessicali vennero ampliate e poste al giudizio dell’artista-aviatore Fedele Azari. Nel 1929 l’editore milanese Morreale pubblicò il “Primo dizionario aereo italiano (futurista)”: un lavoro a quattro mani mai più ristampato che univa l’abilità estetica e comunicativa di Marinetti con le conoscenze tecniche dell’aviazione di Azari; un lavoro a quattro mani che venne apprezzato non solo per lo sforzo analitico e “italico” ma anche per la completezza semantica delle definizioni. Il “Primo dizionario aereo italiano (futurista)” è uno dei volumi più importanti a livello storico-linguistico che il Futurismo ha tramandato ed è anche quello più sconosciuto e difficilmente reperibile. La particolarità – apprezzabile già dalla soluzione grafica della copertina – e la rarità del volume sono state riesumate da Apice Libri che ha offerto al pubblico la prima ristampa anastatica, dopo più di cinquant’anni di oblio, con un eccellente ed esaustivo saggio introduttivo di Stefania Stefanelli che ha curato sapientemente anche l’intero volume, rivalutando l’aspetto più colto e analitico del Futurismo marinettiano. La ristampa anasta-

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Parole aeree

tica sarà presentata mercoledì 8 novembre al Camec di La Spezia con gli interventi critici di Stefania Stefanelli, Laura Monaldi e Alessio. Inoltre verrà proiettato il video realizzato da Fulvio Wetzl “Futurista sul Golfo” nel quale, nel magnifico Palazzo delle Poste e dei Telegrafi della Spezia, di Angiolo Mazzoni, all’interno della torre, tutta rivestita degli splendidi mosaici ceramici “Le comunicazioni”, di Fillìa (Luigi Colombo) ed Enrico Prampolini, capolavoro dell’arte futurista, l’attore Roberto Alinghieri interpreta “L’aeropoema del Golfo della Spezia” di Filippo Tommaso Marinetti, che trova in questo contesto l’ambientazione ideale per esprimere tutte le qualità poetiche e musicali del testo. I mosaici, che circondano la performance, con le loro migliaia di tessere colorate, riecheggiano i rutilanti versi futuristi e creano il giusto controcanto visivo, venendo a loro volta valorizzati per affinità o per contrasto, e accompagnati dalle ispirate musiche “aerospaziali” di Francesco Balilla Pratella.


Musica

Maestro

Sete di libertà

di Alessandro Michelucci Il 13 settembre 2015, alla celebre Queen Elizabeth Hall di Londra, ha debuttato la Chineke! Orchestra, composta da 62 elementi di 31 nazionalità. Fin qui (quasi) nulla di strano. Ma quella sul palco era la prima filarmonica interamente composta da musicisti di origine non europea, in prevalenza neri. Sul podio c’era Wayne Marshall, inglese di origini africane, direttore di prestigiose filarmoniche e autore di vari dischi come pianista e organista. La Chineke! Orchestra è stata fondata da Chi-chi Nwanoku (in fondo a destra nella foto), contrabbassista nata a Londra da padre nigeriano e madre irlandese. Attiva in campo musicale da molti anni, insegna alla Royal Academy of Music e ha al suo attivo CD con brani di autori come Boccherini, Rossini e Schubert. Nel 2015 ha curato per la BBC la trasmissione radiofonica In Search of the Black Mozart, dedicata a Joseph Boulogne Chevalier de Saint-George (1739–1799), violinista di origine africana vissuto fra Parigi e Londra. Il progetto di mettere insieme un’orchestra composta da discendenti di immigrati extraeuropei era quindi del tutto coerente con le sue origini e con la sua sensibilità culturale. L’obiettivo era quello di incrinare un eurocentrismo ancora ben radicato: “Sono molti i motivi per i quali le persone come me, le persone di colore, non riescono a sfondare e sono rappresentate così scarsamente nelle discipline artistiche. E so per certo che questo non è dovuto alla mancanza di talento” ha detto la musicista afroeuropea. Recentemente la Chineke! Orchestra ha pubblicato il primo CD (Signum Records, 2017), che contiene due celebri sinfonie europee, entrambe dirette da Kevin John Edusei. Una è Finlandia, scritta da Jan Sibelius nel 1899 per celebrare l’indipendenza del Granducato di Finlandia dalla Russia zarista. Molti non sanno che sulle sue note fu costruito Land of the Rising Sun, l’inno del Biafra, protagonista della lunga guerra civile che insanguinò la Nigeria dal 1967 al 1970. Il testo dell’inno

fu scritto da Nnamdi Azikiwe, primo presidente della Nigeria. Emeka Ojukwu, fondatore della repubblica biafrana, aveva studiato a Oxford e amava profondamente la musica classica europea. Fu infatti lui a scegliere la sinfonia di Sibelius: la sua simpatia per la Finlandia derivava anche da un altro episodio storico, la guerra russo-finlandese (1939-1940) che era finita con la vittoria del paese scandinavo. Insomma, la resistenza della Finlandia contro l’URSS somigliava a quella del piccolo Biafra, che combatteva contro la Nigeria e la potente coalizione internazionale guidata da Gran Bretagna e URSS. La scelta di Finlandia non è stata casuale: il padre di Chi-Chi Nwanoku, morto nel 2004, era un igbo emigrato a Londra, originario della Nigeria meridionale. La stessa regione che poi sarebbe diventata famosa col nome di Biafra. Il nome dell’orchestra, Chineke, indica la massima divinità della religione igbo, tuttora viva sebbene i missionari abbiano cercato di soffocarla per imporre il cristianesimo.

L’altra composizione inclusa nel CD è la Sinfonia n. 9 in mi minore Z nového světa, meglio nota come Dal nuovo mondo, che Antonín Dvořák compose a New York nel 1893, quando era direttore del New York National Conservatory of Music. Diretta da Kevin John Edusei, tedesco di origini camerunesi, l’orchestra si dimostra tecnicamente valida e affiatata, sebbene i suoi membri suonino insieme da poco tempo. Non si tratta comunque di esordienti, ma di strumentisti già affermati. La violinista Melissa White, fondatrice dello Harlem Quartet, ha suonato con varie orchestre statunitensi; Eric Lamb, primo flauto, ha inciso per le etichette più prestigiose; l’oboista Khemi Shabazz è capace di spaziare dal classico all’elettronica; Juan-Miguel Hernandez, violista, ha collaborato con Misha Dichter e Kim Kashkashian, ma anche con jazzisti come Gary Burton e Chick Corea. Completano questo bel disco le note esaurienti e precise di Fin Conway.

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Un certo sguardo su Firenze di Susanna Cressati “Alla fine la miglior cosa è fare come il melo, che non discute certo con altri la propria specie di mele, e continua a generarla come meglio può”. Sta forse in questa riflessione, riportata dal nipote Folco Terzani nel bel filmato disponibile sul sito a lui dedicato, che Hans-Joachim Staude rivela la ragione del riserbo silenzioso che caratterizzò tutta la sua vita di uomo e di artista. Al pittore di origine tedesca (ma nato ad Haiti nel 1904) che soggiornò e lavorò a Firenze per gran parte della sua vita il Gabinetto Vieusseux ha dedicato un interessante incontro (complice la presentazione del volume “Hans Joachim Staude (1904-1973) Un pittore europeo in Italia”, a cura di Francesco Poli, Elena Pontiggia, Jacopo Staude, Centro Di) che ha contribuito non poco a far uscire l’artista dal cono d’ombra a cui sembra destinato. Dopo la mostra retrospettiva del 2015 alla Fondazione Giorgio Cini di Venezia, dopo il convegno a cui parteciparono specialisti tedeschi e italiani (e alle cui relazioni fanno riferimento gli scritti del libro), e dopo la precedente esposizione a Palazzo Pitti (1996) il Gabinetto Vieusseux ha dunque rilanciato il tema della pittura italiana tra le due guerre da una angolatura poco frequentata, ma non per questo di secondo piano. Ha narrato il figlio Jacopo: “Mio padre mi raccontò di cosa accadde un giorno, mentre stava dipingendo in strada una veduta di via dei Serragli. Sentì che, mentre lavorava, una persona si era fermata alle sue spalle, in silenzio. Si obbligò a continuare il lavoro. Dopo qualche minuto la donna riprese a camminare, con in mano le borse della spesa, e disse ad alta voce superandolo: “Eh, saper vedere il mondo così...!”. Commento di cui Staude si rallegrò molto. Questo aneddoto può costituire una chiave per capire, insieme al suo amore per una “certa” Firenze, uno dei cardini della poetica che cercò di spiegare in una lettera del 1967: “Il soggetto, dunque – scriveva il pittore - è un pretesto e come tale non è essenziale. Storie di santi, cesti di cavoli, vedute di periferie industriali, di monti, di bottiglie, scene di fucilazioni: tutto quello che si vede (e quello che si immagina) può diventare per il pittore pretesto di un quadro….basta che il visto diventi ‘visione’, che succeda insomma il miracolo della trasfigurazione da ‘mondo’ (visto o immaginato) in ‘pittura’.” “In pittura – ribadiva - quel che c’è di

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più bello è il guardare, che il guardare ci conduce in più grande profondità dell’escogitare”. Questo sforzo Staude lo dedica alla città che aveva esercitato su di lui un richiamo irresistibile, una Firenze – ha detto Carlo Sisi al Vieusseux - “definita nei suoi colori come un affresco ed ora trasformata in sinopia, una città fatta per altri”. E’ molto immerso nella vita cittadina, quindi, quella popolare di alcuni suoi modelli ma anche quella colta che frequenta assiduamente, il circolo di Adol von Hildebrand, Egisto Paolo Fabbri e Charles Alexander Loeser, famosi collezionisti di Paul Cézanne, a Villa I Tatti Bernard Berenson e Micky Mariano. Felice Carena all’Accademia di Belle Arti. Fuori dagli “ismi”, dai movimenti, dalle avanguardie, Staude lavora, discreto “come il melo”, alla sua poetica della forma e del colore, coltivando i suoi talenti nella pittura e nella musica (fu ottimo pianista), diventa maestro di tanti giovani. Uno di questi, Lorenzo Milani (arrivato nel suo studio per interessamento di Giorgio Pasquali) gli imputerà perfino la responsabilità della scelta dirompente di farsi prete: «È tutta colpa tua – gli disse un giorno il giovane Milani –. Perché tu mi hai parlato della necessità di cercare sempre l’essenziale, di eliminare i dettagli e di semplificare, di vedere le cose come un’unità dove ogni parte dipende dall’altra. A me non bastava fare tutto questo su un pezzo di carta. Non mi bastava cercare questi rapporti tra i colori. Ho voluto cercarli tra la mia vita e le persone del mondo. E ho preso un’altra strada». In una Firenze contraddittoria, come ha ricordato Susanna Ragionieri, “aperta all’Europa eppure gelosamente provinciale” Staude pittore si propone di “non lasciarsi andare, di non cedere all’effetto e al sentimento. Resta a Firenze, anche se molto isolato, perché impara un certo modo di vedere il mondo. Un modo impassibile e a-sentimentale, di una impassibilità sublime che si rifà a Piero della Francesca. Questa era, per lui, la modernità: misurare, osservare senza prevaricazione ciò che ci sta intorno. Questa è la sua sfida”. Staude torna alla figura umana – ha spiegato Elena Pontiggia – quella figura che era stata spezzata, divisa, ridotta a manichino dalle avanguardie, metafisica, dadaismo, espressionismo. Usa il colore come un tubetto di dinamite, con sicurezza e cautela, non dopo averlo ribassato in toni malinconici, ombrosi, vellutati. Fu pittore italiano e nello stesso tempo europeo. “Ma l’Italia – si è lamentata Pontiggia – è matrigna nei confronti dei suoi artisti, che qui non hanno alle spalle le gioiose macchine da guerra che sostengono i loro colleghi in Francia, in Germania, negli Stati Uniti”.


L’eratoterapia di Mosi di Mariangela Arnavas In questa stagione così dolce e mite, questa piccola raccolta di poesie di Roberto Mosi può essere una perfetta compagna di viaggio. Si tratta di un percorso breve ma intenso e molto vario; la leggerezza del tono oscilla tra il gioco e la solennità, con una fiamma limpida e sempre accesa. Il titolo, Eratoterapia, si ispira al nome della Musa della poesia amorosa e la chiave di lettura di tutta la raccolta sono a mio avviso proprio i versi di “Terapia”: “Nella notte mi sveglio il sonno sparisce vola via lontano. La poesia prende il posto dei sogni,compongo in versi suoni e silenzi”. Grazie alla sua buona Musa, che pure richiede “un conto da saldare “, Mosi si libera dalle angosce dell’insonnia notturna attraverso la luce dei versi e dentro questa luce appare, a più riprese, Firenze, con varie modalità: talora in contrappunto con Neruda “E quando in Palazzo Vecchio, bello come un’agave di pietra, salii i gradini consunti usci’ a ricevermi un operaio capo della città . Ieri, sessanta anni fa, il sindaco della città.”; talora con il canto patriottico, come nella poesia intitolata “Il sentiero Garibaldi”: “Va fuori d’Italia, va fuori che è l’ora,

va fuori straniero . Il brigante Buriga osserva la scena dal profondo del bosco.” Oppure Firenze si mostra nella conta affannata di una bambina: “Conta le persone in fila in Piazza Duomo, corre avanti e indietro. La musica del violino la insegue”. O ancora sono le nuove presenze nella città che entrano nella poesia: “Amin, in fila dietro di me, compila un modulo, in mano trenta euro da spedire. Questa sera mia moglie, al villaggio, accenderà il fuoco”. Anche l’ironia percorre sottile la raccolta di Mosi, a cominciare dalla prima poesia, dove la nipote dice che il nonno fa il lavoro di poeta: “Avrà pazienza, la poesia, se la credono presente in un centro per anziani” e anche in Messaggi d’amore: “La rete mi vuole bene mi abbraccia di messaggi si preoccupa della salute, del mio futuro.” Incontriamo poi, sempre espresso con limpida semplicità, il dolore della solitudine politica di tutta una generazione: “ Avanzo nel buio del labirinto, inciampo batto la testa nelle pareti. Brucia l’angoscia

della solitudine.” e il richiamo alla storia dell’uomo, che coincide con quella purtroppo ininterrotta, della schiavitu’, così nella poesia Populonia: “Un sepolcro emerso dalla sabbia, mostra lo scheletro di uno schiavo, una catena al piede. Dalle ombre emerge la storia dell’uomo.” Sono tempi in cui la poesia non ha molti lettori ma la raccolta di Mosi, con la sua leggerezza e il suo armonioso equilibrio potrebbe essere un buon inizio di percorso anche per altre, future esplorazioni.

40 manifesti di Andrea Rauch alla Montanina Graphic designer, Andrea Rauch sabato 4 novembre espone le sue opere al Circolo La Montanina, Via di Montebeni, 5 (Fiesole) . Rauch ha disegnato e progettato immagini, tra gli altri, per movimenti politici e d’opinione quali Greenpeace, Unicef, Mouvement pour la paix, Amnesty International. Sua la progettazione dei simboli dei movimenti politici ‘L’Ulivo’ e la ‘Margherita’.Manifesti di Andrea Rauch fanno parte delle collezioni del Museum of Modern Art di New York e del Musée de la Publicité del Louvre di Parigi. Nel 1993 la rivista giapponese ‘Idea’ lo ha inserito tra i ‘100 World Top Graphic Designers’.

Presente nell’edizione 1994 del “Who’s who in graphic design”. Tra il 1994 e il 2001 ha insegnato ‘Graphic Design’ presso il Corso di laurea in Scienze della Comunicazione dell’Università di Siena. Ha tenuto corsi di grafica e conferenze a Milano, Venezia, Dublino, Parigi, Madrid, Barcellona, Rio de Janeiro, San Paolo, Guadalajara, Tokio. Nel 1998 e 2003 ha pubblicato “Design & Identity” e “Dis-continuo” (Nuages), due vaste ricognizioni del suo lavoro di grafico. Una sua raccolta di manifesti politici, dal titolo “Il sonno della ragione…” è stata presentata, tra il 2002 e il 2003, a Siena, Firenze e Barcellona.

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di Danilo Cecchi L’americana Candace Plummer Gaudiani (nata nel 1945 a Boston) sceglie di esprimersi con la fotografia, ma piuttosto che “fotografa”, preferisce definirsi “artista visiva” o “artista visuale”. Sia i fotografi che gli artisti visivi (o visuali) utilizzano la fotocamera, ma fra le due attività esistono delle differenze sostanziali, differenze che non è sempre facile definire. Nel caso dei fotografi, ad esempio, la loro produzione è costituita da immagini, o serie di immagini, che sono il risultato di processi complessi che, partendo da un tema, da un’idea, da un’intuizione, o da una disposizione d’animo, attraverso una serie di operazioni tecniche e/o culturali e di scelte (punto di vista, formato, lunghezza focale, angolo di ripresa, chiusura del diaframma, sensibilità, momento dello scatto, etc.) ed una successiva elaborazione in fase di stampa, portano ad un risultato che è di per sé compiuto e significante. Le immagini dei fotografi, se riuscite, hanno un valore visivo che diventa autonomo perfino rispetto alle intenzioni ed al processo di realizzazione. Gli artisti visivi invece, pur partendo anch’essi da un’idea, più o meno buona, più o meno originale, la trasformano attraverso la fotografia in una serie di immagini le quali, di per sé, hanno un valore visivo scarso o nullo, se non vengono messe in relazione all’idea di partenza. In fotografia quello che conta è il valore dell’immagine realizzata, nell’arte visiva quello che conta è invece solo il valore dell’idea di base, che trascende la fase della realizzazione, per concretizzarsi molto spesso nella ripetitività e nella serialità. Nel caso di Candace Gaudiani, che all’età di dodici anni aveva già attraversato in treno o in auto i quarantotto stati degli USA, rimanendo profondamente colpita da questa esperienza, e che ripete nel corso di tre anni gli stessi percorsi, questa volta fotografando il mondo che passa attraverso la cornice verticale del finestrino, il valore dell’opera va cercato nell’idea stessa del viaggio. Allo stesso modo in cui Franco Vaccari registra nel 1972 il viaggio di 700km da Modena a Graz fotografando in maniera seriale ed automatica il retro dei numerosi camion incontrati e sorpassati in autostrada, Candace Gaudiani fotografa, in maniera altrettanto seriale ed automatica, i diversi paesaggi che scorrono dietro al vetro del finestrino, registrando le tracce, spesso mosse e confuse, di campi ed edifici, fiumi e villaggi, deserti e montagne, laghi e ponti, alberi e tralicci metallici. La serie delle immagini in bianco e nero viene poi raccolta nel 2007 nell’opera “Forty Eight States”, esposta in numerose gallerie. Le singole immagini non raccontano in realtà niente dei viaggi, non parlano delle persone incontrate, non descrivono i luoghi

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Attraverso il finestrino

attraversati, e spesso non ne permettono neppure il riconoscimento. Sono solo tracce vaghe ed idealizzate di un passaggio troppo rapido, di un’esperienza convulsa e frenetica, che qualcuno ha voluto paragonare al Kerouac di “On the Road”. L’opera non consiste infatti nelle numerose immagini, ripetitive nel taglio e nell’esecuzione, ma consiste nell’idea e nell’esperienza del viaggio stesso, di cui le immagini rimangono come unica testimonianza, tangibile quanto ambigua. La fortuna critica dell’opera di Candace Gaudiani la convince a ripetere l’operazione con una nuova serie di viaggi, registrati con le stesse identiche modalità e con lo stesso

identico tipo di inquadratura, ma con l’impiego questa volta della pellicola a colori, ed alternando il treno all’aereo. Nel 2009 viene presentata la sintesi di questa nuova performance artistica, “Forty Eight States II”, a cui seguono altre iniziative del genere, come “Frontier States”, ancora in bianco e nero, ed infine “West”, dove i finestrini sono più larghi, le riprese sono effettuate a colori ed in orizzontale, e dove i paesaggi raffigurati sono decisamente più nitidi e leggibili. Simbolo del rinnovarsi delle idee nella continuità dell’ispirazione originale, ma anche di un nuovo e più comodo modo di viaggiare, e forse, di fotografare.


di Olimpio Musso Il ventisei gennaio 1939 le truppe di Franco occupano Barcellona. Il giorno seguente Eliseo Alvarez Arenas, Generale di Brigata dell’Esercito Spagnolo, Sottosegretario all’Ordine Pubblico del Governo Nazionale, Capo dei Servizi di Occupazione di Barcellona, pubblica un bando col quale rende noto ai barcellonesi: “Il trionfo delle armi del Caudillo Franco ha appena concesso l’immenso beneficio della liberazione e l’altissimo onore agli uomini e alle terre di questa regione laboriosa e feconda di incorporarsi in modo pieno, definitivo e irrevocabile alla grandezza della Patria”. Dopo aver assicurato che non verrà esercitato alcun diritto di conquista e che saranno puniti solo “i colpevoli della grande tragedia spagnola e i criminali responsabili di delitti comuni”, proclama che il nuovo regime si inaugura con il grande giubilo della madre che recupera i suoi figli perduti”. E prosegue: “State sicuri, catalani, che il vostro linguaggio nell’uso privato e famigliare non verrà perseguitato”. Il catalano, la lingua millenaria di Raimondo Lullo, veniva ridotto a dialetto. Don Eliseo Alvarez Arenas spera in nome della Spagna tutta “ che la Catalogna, nella grande opera di ricostruzione nazionale, apporterà unitamente al suo sforzo e alla sua ricchezza al pari del suo senso economico, il suo patriottismo rinverdito e fecondato dal sangue versato in questa Crociata”. La guerra san-

La verità sulla Catalogna ta dei franchisti fu definita durante il periodo bellico “Grande Crociata salvatrice della Spagna” e i suoi capi erano “gloriosi eroi”. L’occupazione della Catalogna viene completata il dieci febbraio 1939. Il 28 dello stesso mese Manuel Azafia si dimette da Presidente della Repubblica. La lingua catalana venne relegata. All’uso ufficiale venne riammessa solo nel 1983, otto anni dopo la morte del Caudillo. L’indipendenza dello stato catalano era stata persa l’11 settembre 1714 con la caduta di Barcellona, dopo un assedio di quattordici mesi, durante la guerra di Successione Spagnola. La festa nazionale (Diada) cade l’11 settembre, giorno della perdita dell’autonomia, caso unico di commemorazione da parte degli sconfitti. La patria catalana risorgerà. Quindi il popolo catalano non deve perdere la speranza nel suo risorgimento e deve lottare con tutti i mezzi, che sono soprattutto il culto della sua storia , dei suoi valori e l’uso della sua antica lingua.

Gli uomini d’acqua

“Uomini d’acqua” è un progetto fotografico che ha come soggetto la Sardegna e il suo rapporto con l’acqua; Una relazione che ha certamente una dimensione “naturale” – data dall’azione dell’acqua (come di altri fattori ambientali) sul territorio, che in modi e misure differenti ne viene “plasmato” – ma che rivela sempre una valenza antropica, poiché è il lavoro dell’uomo che attribuisce senso al territorio: lavoro che non è necessariamente solo materiale, ma senza dubbio è sempre simbolico. E’ proprio per questa ragione che - come è stato acutamente osservato - il territorio “è simultaneamente principio di senso per coloro che l’abitano e principio di intelligibilità per colui che l’osserva” . Le opere sono esposte all’’ex-Convento del Carmelo in Viale Umberto 11 – Sassari fino al 19 novembre.

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di Roberto Barzanti La mostra dedicata a Ambrogio Lorenzetti che s’è aperta in Siena al Santa Maria della Scala, visitabile fino al 21 gennaio dell’anno prossimo, è una di quelle, ormai rare, destinate a fare epoca. È il culmine di un lavoro avviato nel 2015 con l’iniziativa Dentro il restauro e finalizzato ad una più approfondita conoscenza dell’attività dell’artista e ad una più adeguata conservazione delle sue opere. Dopo questa esposizione – una cinquantina di pezzi al Santa Maria, ma altri capolavori da scoprire in situ, principalmente nella basilica di San Francesco, e a Sant’Agostino – Ambrogio, fratello minore di Pietro, come lui falciato dalla peste del 1348, non sarà più soltanto, stando alla vulgata, l’autore del ciclo sul Buono e Cattivo Governo in Palazzo Pubblico, ma un artista davvero innovatore, dotato di un coraggio sperimentale capace di stupefacenti invenzioni. Già Lorenzo Ghiberti aveva colto la sua febbrile vena descrittiva e la tendenza a rappresentare naturalisticamente fenomeni e paesaggi come nessun altro contemporaneo. Purtroppo gran parte della sua produzione si è deteriorata o è andata dispersa o sopravvive in frammenti da ricomporre come in un puzzle dai consistenti vuoti. E questa tensione di ricerca, ben percepibile, è una delle ragioni del fascino di una mostra necessaria, come spiegano e nel ponderoso catalogo i curatori Roberto Bartalini, Alessandro Bagnoli e Max Seidel. In sequenza si sgrana, grazie ai prestiti ottenuti, pressoché l’intera opera su tavola di Ambrogio. Mancano testi per i quali è stato giudicato impraticabile un pur temporaneo trasferimento: l’assenza più notevole è la Purificazione della Vergine, restata prigioniera degli Uffizi. Mi soffermo di sfuggita su un capitolo tra i più intriganti dell’itinerario costruito: quello degli affreschi e dei relativi disegni in forma di sinopia della cappella di San Galgano a Montesiepi, mirabilmente affrancati dai canoni della consolidata iconografia. Grazie alla stacco operato degli affreschi e allo studio delle fasi preparatorie si riesce a seguire il processo che si concluse con un’Annunciazione che aveva generato non pochi problemi. L’Arcangelo e Maria sono separati da una monofora fortemente strombata. La grandi ali del bel Gabriele calato d’improvviso a movimentare la quiete domestica si dispiegano come quelle di una gigantesca farfalla. Dalla finestra entra un fascio di luce che innesta nella pittura un elemento naturale, collegando immaginario figurativo e mutevole realtà atmosferica. La giovane è tramortita da un’apparizione abbagliante e da un messaggio indecifrabile. Il disegno-sinopia,

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ora evidente nella sua convulsa drammaticità, è in sintonia con una diffusa narrazione popolare, registrata, ad esempio, nel diario di viaggio vergato a metà Trecento da fra’ Niccolò di Poggibonsi, che riferisce di aver sostato con devozione di pellegrino davanti alla «colonna che abbracciò santa Maria per la paura». Una tale scena dispiacque probabilmente alla committenza e la forma definitivamente scelta è

ben diversa. Ma resta il fatto di questa potente idea iniziale, trasmessa da un «ductus energico e insistito», che comprova alla sorgente la passione per il disegno di Ambrogio e la sua spregiudicata vena creativa. A proposito di committenza: i lavori hanno portato in superficie anche la sagoma fantomatica del finanziatore del ciclo, Ristoro da Selvatella, “procuratore” dell’abbazia di San Galgano. Che se ne stava in ginocchio, orante e compito, dietro il fulgente Arcangelo. Insomma l’affresco diventa una storia e la critica d’arte assomiglia a quella critica degli scartafacci che fu scioccamente schernita in una memorabile polemica nell’ambito della filologia letteraria. Scrutando a lungo i dettagli di questa Annunciazione vien da riflettere sulla fortuna del soggetto, davvero un topos alto del sacro cristiano. Di ritorno dalla visita della mostra parigina dedicata a David Hockney, anche lui innovatore straordinario, mi vien fatto di comparare il travaglio dell’Annunciata di Montesiepi con la stupenda reinterpretazione che Hockney dà della famosissima versione offerta dal beato Angelico. L’artista inglese se ne innamorò – ha confessato – a undici anni, imbattendosi in una riproduzione affissa su un muro di Bradford. E ora l’ha proposta a “prospettiva rovesciata”, secondo le teorie di Pavel Aleksandrovič Florenski, in un’impaginazione che la ribalta: «Vede – fa osservare – che ho tagliato gli angoli? L’ho fatto proprio per allargare la prospettiva, per farla diventare assoluta e universale, più moderna. E non limitata, per quanto perfetta, alla maniera di Brunelleschi e di Leon Battista Alberti». In un bozzetto per una vetrata, custodito a Milano nel museo di San Fedele, Mario Sironi aveva abbozzato (1950) una prima idea accostando astrattamente (à la Rothko) due grumi di colore: la massa candida dell’Arcangelo e il manto blu notte della giovinetta palestinese ignara della tempesta che la stava investendo. Anche per lui l’obiettivo da perseguire era sottrarre un evento infinitamente misterioso, e drammatico, ai moduli di una rappresentazione che lo sistemasse nell’ordine di un fatto comprensibile.

Una mostra, tre Annunciazioni


Non è il cielo a essere azzurro, Questo lavoro è una edizione d’arte realizzata in trenta esemplari numerati e firmati da uno a trenta. Sono dunque trenta fotografie uguali come sono uguali le tirature stampate da un unico negativo. Ad onor del vero lo studio fotografico al quale si era rivolta l’artista, dopo aver rice-

colloca la contemporaneità e il voluto mimetismo dell’opera d’arte. Una grande parte dell’umanità ha difficoltà ha considerare arte moltissimi manufatti realizzati a partire dalle avanguardie storiche ed è questa rassegnazione al non voler capire il perché di questa impasse che segna l’impenetrabile accesso alla setta dell’arte contemporanea L’osservatore di un’opera è sempre solo dinanzi a questa e la deve capire sempre da

le moderne tecnologie, realizzando video e installazioni. Proprio da un video è derivata la serie di immutabili immagini di un cielo terso ed immobile. Del video è protagonista un coniglio dalle lunghissime orecchie turchesi, interpretato da una performer, le cui orecchie realizzate da strisce di stoffa, solcano il cielo, confondendosi con questo, seguendo l’andamento del vento.

vuto le indicazioni su come procedere, ha telefonato all’artista dicendogli che doveva esserci un errore in quanto nel negativo ricevuto non c’era nessuna immagine, ma solo un colore. Inutile commentare sul modo di vedere ed intendere delle maestranze preposte alla realizzazione meccanica di un lavoro d’arte contemporanea, ma vale sempre la pena di riflettere su quel limite ambiguo nel quale si

solo. Se procedessi ad installare le trenta fotografie in uno spazio d’arte, in una progressione lineare, otterrei circa nove metri di immagini. Un linea d’orizzonte monocromatica a dividere la parete come un nastro di cielo o di mare, con una sensazione d’infinito. L’artista si chiama Erique LaCorbeille ed è una giovane piemontese che lavora con

Le foto imprigionano il cielo che per sua natura non esiste essendo solo parte dell’atmosfera. La frase che serve da titolo a questa descrizione l’ho presa da un recente libro di uno scrittore traduttore che si chiama Marco Rossari, che per altro racconta la vita di un artista. Nel libro la frase è usata in tono ironico nel confronti dell’arte e allo stesso modo anche io la uso.

di Claudio Cosma

è l’azzurro a essere cielo

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di Gianni Pozzi Fiori privati allo spazio Sensus è una bella mostra di Andrea Papi, una ventina di dipinti dal 2007 a questo nostro 2017, tante tele di piccole dimensioni, tutte rigorosamente quadrate, appoggiate su mensole e esposte ora frontalmente ( com’è ovvio ), ora a mostrare il retro ( meno ovvio ), dipinto anch’esso o spartito tramite collage in forme geometriche. Su un tavolo, appoggiati e consultabili ( con guanti bianchi ) ci sono i blocchi da disegno con su una serie che pare infinita di rappresentazioni di fiori, quasi un diario, una catalogazione maniacale di quel che capita sotto lo sguardo; in due vani attigui due video con quegli stessi disegni. Nel mezzo dello spazio, infine, una piccola foresta di piante, vere stavolta, che costringe a un percorso ma che soprattutto costringe a rapportare questo vero floreale con i suoi riferimenti: pittorici appunto, grafici o video. Sensus, che è lo spazio di un collezionista, Claudio Cosma, aperto fin dal 2012 e offerto a tante proposte, si riconferma anche stavolta uno dei pochi se non pochissimi luoghi privati per l’arte contemporanea in una città che per decenni ha avuto solo questi a rappresentarla. Ancora negli anni ’80 erano infatti le sole gallerie – tante - a garantire una qualche circolazione di idee e in molti lamentavamo l’assenza di un qualche intervento pubblico. Poi tutto cambiò, le gallerie sparirono l’una dopo l’altra e ora i richiami delle varie strutture, dal Museo ‘900 al Museo Marino Marini, dalle Murate a Palazzo Strozzi al Pecci, sono talmente tanti che chi era abituato a quel poco di altri anni si smarrisce persino. Andrea Papi viene da questa storia, già nell’87, poco più che trentenne, presentava, sempre in uno spazio di Cosma, EAS, una mostra, allora di Nudi. Già, perché lui si è sempre mosso ma indagando situazioni che poi diventavano cicli pittorici. Per molto tempo queste situazioni sono state quelle legate all’identità, dai Ritratti agli Studi sul maschile, connessi sempre agli spazi, a quelli abitati, a quelli storici vuoi della Cappella dei Combattenti a Pelago nel 1990, o di Palazzo Caccini a Firenze, casa, studio e luogo espositivo insieme. Fino – e siamo a noi, ai luoghi naturali del parco delle foreste Casentinesi e di San Godenzo e agli itinerari artistico/ ambientali. Questi fiori, Fiori privati come specifica il titolo, sono un altro filone di ricerca, ai margini ma non certo marginale. Una serie nata un po’ per caso ( un vaso di roselline regalo di un altro artista, Roberto Cerbai ) ma soprattutto per l’attenzione verso un genere pittorico costantemente presente, anche in autori il cui lavoro potrebbe

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I fiori privati di Papi sembrare lontano, primo fra tutti Robert Mapplethorpe. Ecco, questo di Papi pare svolgersi tutto fra due polarità: la forma recuperata e raggelata di Mapplethorpe e lo spazio della tela indagato da Paolini con le diagonali lì tracciate. Il lavoro di Papi è un lavoro maniacale e ossessivo. Così come in tutti gli altri suoi motivi, anche in questi fiori sembra ripartire da un ipotetico grado zero della pittura. Li cataloga dipingendoli o disegnandoli - ortensie, ciclamini, gerani, lillà, giaggioli - con l’occhio di chi li osserva per la prima volta; se ne percepisce lo stupore, reso in una pittura che è rappresentazione piana e sorprendente al tempo stesso, quotidiana

e semplice ma deflagrante al tempo stesso. Si indaga la forma di questi fiori riscoperti, il modo di disporsi, di rapportarsi con vaso o con l’ambiente, così come si indaga lo spazio della tela che appunto sul retro accoglie altre forme astratte, collages o altro, in rapporto con quella forma che sta sul davanti e con l’oggetto tela che contiene entrambi e che è il medium della pittura. E’ un lavoro di estrema gradevolezza, immediato e accattivante: costruito però non su una qualche immediatezza impressionista ma sulle stesse fondamenta concettuali e concettuose di tutto suo lavoro: analitico, catalogatorio, immersivo.


di Giacomo Aloigi Ce lo aveva anticipato qualche mese fa ed è stato di parola. Antonio Aiazzi è uscito con il suo primo disco solista, “Linea gialla”, per la Contempo Records. E ci aveva pure avvertito che si sarebbe trattato di un’opera molto particolare, qualcosa di assolutamente nuovo. Anche in questo caso Antonio non esagerava. “Linea gialla” è un lavoro ambizioso e per questo rischioso (e sono sempre meno i musicisti che rischiano), perché oltrepassa un confine delicato, lanciando un’autentica sfida all’ascoltatore. Nelle otto tracce dell’album si sovverte la dinamica autore-fruitore, perché si chiede al secondo di passare dal classico ascolto passivo a cui è abituato, a un ascolto attivo. A un approccio distratto questo potrebbe risultare un disco di ambient-music. Ma non è così. Dalla musica “d’ambiente” si trasmigra alla musica “dell’ambiente”, una dimensione nella quale vi è quasi la necessità d’interagire con l’ascolto, di compenetrarlo e in un certo senso di confondersi con esso, in una specie di tridimensionalità che fin ora è stata “istituzionalmente” preclusa all’ascolto musicale. Fin ora c’era l’artista da una parte con il suo ruolo e dall’altra l’ascoltatore con il suo. Con “Linea gialla” chi si limitasse alla tradizionale situazione del mero recepimento delle sonorità si perderebbe forse addirittura il senso del disco. Per realizzare il quale Aiazzi si è mosso per la sua città, per le strade e le piazze di Firenze e ha registrato con lo smartphone i suoni, i dialoghi, i rumori, i jingle. Ha registrato la vita quotidiana, in poche parole. E da lì è partito per il suo viaggio compositivo, mescolando il suono reale e il suono virtuale e mediando tra musica e urbanità, tra melodia e percezione dell’intorno. Nei crediti dell’album sono scrupolosamente riportate le fonti e le specificità dei frame catturati, dalla tramvia (che dà il tiolo anche a uno dei brani) alle conversazioni dei turisti, dal dissuasore antipiccioni di Santa Maria Novella ai tamburi dei Musici del calcio storico fiorentino. E’ una sfida difficile quella che ha scelto Antonio, una sfida che contempla un discorso culturale oltre che semplicemente sonoro. Mi riferisco a una diversa cultura dell’ascolto, che necessita di una disponibilità e duttilità mentale tutt’altro che banale. Il disco è stato presentato alla stampa nella storica cantina di via De’Bardi, dove Aiazzi creò con gli altri compagni il mito dei Litfiba. Ma quanto lontananza, non solo temporale, si sente in “Linea Gialla” da quei giorni. Antonio

Superare la linea gialla è andato molto più in là, molto più avanti, in questo ripercorrendo un po’ il percorso fatto da Gianni Maroccolo, seppure naturalmente lungo traiettorie molto diverse. Sabato 28 ottobre al Teatro Alfieri, Aiazzi ha regalato un assaggio (tre brani) del disco, aprendo il concerto di Andrea Chimenti, altro vecchio amico, che si esibiva nel repertorio di cover di David Bowie (bravissimo e

soprattutto credibilissimo, detto per inciso). Ad applaudirlo c’erano naturalmente anche Ghigo, Piero e Gianni. All’inizio del 2018 “Linea Gialla” dovrebbe diventare uno spettacolo multimediale da proporre dal vivo. Siamo certi che ancora una volta Antonio saprà sorprendere e chi ha voglia di pretendere qualcosa di più dalla musica contemporanea, non potrà mancare.

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di M. Cristina François Alla Chiesa di ‘S.Giorgio alla Costa e allo Spirito Santo’ manca una guida aggiornata che le si riferisca. A tal fine ho tentato una ricostruzione del posizionamento delle opere pittoriche e scultoree all’interno di questo edificio sacro servendomi delle schede conservate presso l’Archivio Fotografico degli Uffizi [schedario n.1368, a.1990] di cui riporto qui le informazioni essenziali (soggetto dipinto, autore e data). Anticipo, però, quanto alle sculture genericamente definite nelle schede come “Virtù”, che a mio parere esse rientrano in un programma iconografico coerente, riferibile allo Spirito Santo: in ognuna di queste sculture si può infatti individuare uno dei “sette doni dello Spirito di Dio”. Prima di iniziare a descrivere l’interno settecentesco di G.B. Foggini, vorrei precisare che della Chiesa precedente restano poche tracce e solo all’esterno. Delle tre Chiese che sorgevano prossime l’una all’altra in questo punto della Costa (S.Giorgio, S.Mamiliano e S.Sigismondo), la più importante era quella di S.Giorgio. Ne intravediamo il portale tamponato dall’attuale “porta di fianco” che si apre sulla strada. La dedicazione allo Spirito Santo fu aggiunta al Monastero di S.Giorgio già esistente, nel 1520, sotto Papa Leone X. L’edificio romanico risulta Parrocchia almeno fin dal 1270. Il suo interno era una piccola aula che fu allungata in direzione EST-OVEST per arrivare alla forma della Chiesa settecentesca (Busignani e Bencini, “Le Chiese di Firenze”, I vol. 1974, p.192). Niente di questo primitivo passato affiora oggi all’interno della Chiesa. Seguiamo ora la piantina qui pubblicata. ACCESSO: A Porta principale. 1 Compasso affrescato al centro del piccolo soffitto sottostante il corpo del Coro, raffigura l’“Apoteosi di S. Giorgio”, di A. Gherardini (1705-1708 ca.). 2 Soffitto a stucchi (1705 ca.). PARETE SUD: 4a T. Redi, “San Benedetto resuscita un fanciullo” (1705). 4b Altare sottostante in marmi policromi (1705 ca.). 5a Puttino con filattere nel quale si legge “infunde Amor cordibus”, stucco e gesso (1705 ca.). Il puttino è sospeso nel sott’arco di destra. 5b Al di sopra: “Noli me tangere”, olio su tela, XVI sec., di ignoto. B Ancora al di sopra: Coretto per l’Organo - costruito dall’organaro

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Per S.Giorgio! Da Giotto a Foggini O. Zeffirini (ante 1572) - oggi conservato nel Coretto delle Monache in S. Felicita. 6 Al di sopra della colonna: “Il Dono dell’Intelletto”, stucco e gesso (1705 ca.). 7 Segue: “S. Cecilia suona con gli Angeli”, olio su tela, XVIII sec. di ignoto. 8a Sotto: D. Cresti/Crespi detto il Passignano, “San Giovanni Gualberto”, olio su tela, XVI-XVII sec. 8b Altare sottostante in marmi policromi (1705 ca.). 9 Sopra la colonna: “Il Dono della Fortezza”, stucco e gesso (1705 ca.). C Coretto per la Badessa. 10 Accesso alla Sagrestia (all’interno bancone parietale e arredi lignei). 11 Sopra la porta di Sagrestia: “Cristo e la Samaritana”, olio su tela, XVI sec., di ignoto. PARETE EST: D Accesso per Cappellina del SS.mo Sacramento, Clausura e Capitolo. 12a Altare maggiore in marmi policromi (1705 ca.). 12b G.B. Foggini, Ciborio in alabastro (1705). 13 Giotto, “Madonna in trono col Bambino e due Angeli” (tavola centinata, 1290 ca.). L’opera non è in situ (cfr. “Cultura commestibile” 238). 14 Al di sopra: “David e Golia” olio su tela di ignoto (XVIII sec.). 15 Al di sopra della colonna, a sinistra di chi guarda “David e Golia”: “Il Dono del Consiglio o della Prudenza”, stucco e gesso (1705 ca.). 16a A. D. Gabbiani, “La discesa dello Spirito Santo”, olio su tela ovata per l’altar maggiore (1702-

1710). 16b Intorno al dipinto del Gabbiani: nuvolari e angeli in stucco bianco e dorato (1705 ca.). 17 A sinistra, guardando l’altare, sulla colonna: “Il Dono della Pietà” (?), stucco e gesso (1705 ca.). 18 A sinistra della colonna, in alto: “Giuditta”, olio su tela di ignoto (XVIII sec.). 19 Al di sotto della “Giuditta”: “Cristo crucifero”, tela centinata di ignoto (XVI sec.). E Porta di accesso in altri ambienti, che esce sulla Costa. PARETE NORD: 20 In alto: “Ritorno del figliol prodigo”, olio su tela di ignoto (XVI sec.). F Accesso a uno stanzino per deposito arredi sacri. G In alto: finestrone che guarda sulla Costa. 21 Sopra la colonna: “Il Dono del Timor di Dio”, stucco e gesso (1705 ca.). 22a A. Gherardini, “Deposizione dalla Croce” (1705 ca.). 22b Altare sottostante in marmi policromi (1705 ca.). 23 Al di sopra della colonna: “Il Dono della Sapienza”, stucco e gesso (1705 ca.). H In alto: finestrone che guarda sulla Costa. I Porta d’accesso laterale che immette sulla Costa. 24: In alto, dopo il finestrone: “Cristo cammina sulle acque”, olio su tela di ignoto (XVI sec.). 25a Al di sopra dell’altare: J. Vignali, “Madonna con S. Caterina e S. Domenico”, olio su tela (XVII sec.). 25b Altare in marmi policromi (1705 ca.). NAVATA: 26 Balaustra in marmi policromi che divide il presbiterio dall’aula (1705 ca.). SOFFITTO DELLA NAVATA: 29 Soffitto ligneo intarsiato a lacunari dorati (1705 ca.). CORO DI FONDO DELLE MONACHE: 30 Parete est: affresco raffigurante il “Golgota con il Drago di S. Giorgio”; la Croce lignea è oggi assente. 27 Sotto l’affaccio del Coro di fondo: “La Misericordia Divina dispensa i Doni dello Spirito Santo”, stucco e gesso (1705 ca.). 28 Al di sotto di questa scultura, un cartiglio in gesso datato 1705. Per quanto riguarda le opere d’arte presenti ancora nell’ex-Monastero di S.Giorgio (cfr “Cultura commestibile” 236), non mi sarà possibile realizzare una ricerca parallela a questa in quanto le schede fotografiche del Monastero non sono reperibili. Segnaliamo, però, che gli Uffici preposti alla Tutela dovrebbero essere in possesso di un Inventario, come pure delle schede di Conservazione.


di Andrea Ponsi In continuità con i racconti su Firenze apparsi su alcuni recenti numeri di Cultura Commestibile, iniziamo la pubblicazione di una nuova serie di brevi narrazioni di Andrea Ponsi che vedono come protagonista San Francisco, la città che per bellezza, tradizione letteraria e spirito innovativo è entrata a far parte dell’immaginario collettivo di varie generazioni. Andrea Ponsi ha vissuto a San Francisco per dieci anni durante gli anni ’80. Vi torna regolarmente per lavorare a progetti di architettura o come docente in università californiane. Durante uno dei suoi ultimi viaggi ha prodotto queste annotazioni di tipo diaristico in cui architetture, luoghi urbani e la vita che vi si conduce sono descritti ricorrendo a memorie personali e introspezioni di tipo percettivo. Come il precedente libro su Firenze , anche questi racconti sono stati pubblicati negli Stati Uniti dalla University of Virginia Press con il titolo San Francisco – a Map of Perception (2015). Cultura Commestibile si propone di ripubblicare a puntate in versione italiana l’intera raccolta affiancando ai testi alcuni acquarelli dell’autore. Arrivare

Arrivare a San Francisco da nord attraverso il Golden Gate Bridge, i primi indiani. da sud, lungo la costa o la baia, sulle freeways, i missionari e i campesinos dell’America Latina. da est attraverso il Bay Bridge, i bianchi dall’Europa e dall’America. da ovest, per mare o cielo , dalla Cina e dal Giappone. Nebbia

Quanti tipi di nebbia ci sono a San Francisco? Quella rarefatta, quasi trasparente che lascia vedere l’azzurro del cielo. O quella che, come una grande coperta, si adagia sulle isole e i rilievi trasformandoli in bianchi tumuli segreti. C’è quella che, una volta passato il setaccio del grande ponte, si sfilaccia sulla baia per andare a sfiorare Alcatraz e Angel Island, ancora sotto il sole. E quella intensa e fredda che ci avvolge nelle calme strade del Sunset o di Richmond, verso Ocean Beach. Lì anche il giorno è una notte bianca, umida e grigia. Ci sono altre nebbie, decine di altri tipi, a

Mappe di percezione seconda del quartiere, delle ore del giorno, della diversa posizione del sole: nebbia tagliata da spade di luce, nebbia che si srotola in vaporosi sbuffi, nebbia che sbianca i colori delle navi sulla baia o che si aggrappa alle antenne di Twin Peaks come un cespuglio a un cactus nel deserto. San Francisco, città della nebbia: mutevole, capricciosa, possente, dalle mille sfaccettature, dalle molteplici personalità. Metà

Adagiata sull’estremità di una penisola, San Francisco è divisa in due parti: una aperta sull’oceano , l’altra rivolta alla baia. La linea di confine non è netta, ma cambia leggermente con la stagione, con la direzione del vento o con l’ora del giorno. E’ una divisione puramente metereologica dovuta alla presenza o meno della nebbia. Ciò fa’ si che molte delle scelte quotidiane o permanenti di vita siano dettate da tale divisione: mettersi o no un giaccone per uscire? Dove andare a fare un pic–nic la domenica? In quale quartiere affittare o comparare casa ? Metà città vive nella nebbia dell’oceano, metà brilla nel sole della baia. Metà è grigia, scura come il verde cupo dei suoi alberi, metà è bianca di luce, azzurra come il mare. Metà è umida, fredda, silenziosa, metà è aperta, calda, luminosa.

San Francisco

Metà è la città invisibile, introversa e misteriosa. metà è la città visibile, ampia e serena. Il monumento

Alcune grandi città si identificano in un monumento che sorpassa tutti gli altri per superiorità fisica o come immagine simbolica. Roma ha San Pietro, Parigi la Tour Eiffel, New York l’Empire State Building. San Francisco ha il Golden Gate Bridge. Niente altro a San Francisco minaccia questo dominio. Il Golden Gate Bridge è San Francisco stessa, la sua porta sull’oceano, la sua corona, la sua cattedrale rossa d’acciaio, la sua perfetta immagine. Anch’essa, San Francisco, è una città ponte, porta, cattedrale che si scorge in lontananza, punto di arrivo, faro di orientamento di coloro che cercarono, cercano e forse cercheranno. Profilo

Una città sul mare la cui bianchezza risplende al massimo nella luce del pomeriggio. Poi diventa d’oro quando l’edificio più alto e massiccio, scanalato come un diamante, riverbera la luce del tramonto. Poi argentea, come il cielo del crepuscolo che, verso l’oceano, è di un rosso acceso come l’orizzonte di una stampa giapponese. Quando scende la notte la città si accende di milioni di lanterne e downtown si trasforma in un transatlantico dalle mille luci. Gabbiani

Guardo i gabbiani che volano sulla baia. Qualcuno si andrà a posare accanto ai tavoli di Sam’s Cafè, a Tiburon, sperando di strappare qualche pezzetto di un granchio già bollito. Altri sfrecciano radenti l’acqua per andare ad incontrare i compagni ad Alcatraz; altri ancora volano alti verso i monti del Presidio o di Twin Peaks. C’è anche chi sta fermo, solitario, a contemplare il mondo su un palo conficcato dentro l’acqua o chi svolazza in gruppo sulla scia di una nave verso Oakland. Come i piccioni in una piazza urbana, così i gabbiani fanno della baia la loro piazza: un vasto spazio aperto, ricco di cibo e di occasioni.

19 4 NOVEMBRE 2017


di Elisa Zuri Quando si scopre un’affinità profonda, si crede che sia unica, solo per noi. A meno che non si tratti di una scrittrice straordinaria. Annie Ernaux, autrice francese pubblicata da Gallimard e in Italia nelle raffinatissime edizioni de L’Orma Editore, nel 2016 ha vinto il Premio Strega Europeo con Gli Anni, nel 2017 ha raggiunto il successo internazionale con Memoria di ragazza, ma è l’intera sua opera, autobiografica, a raggiungere le viscere del lettore, prima ancora del suo giudizio. Protagonista dei suoi libri è la memoria. La memoria dà una forma a chi siamo e non si ferma mai, attraversa le generazioni, stabilisce un contatto tra i vivi e i morti, tra passato e presente attraverso un racconto. Ma il modo in cui raccontiamo i fatti li cambia, è inevitabile. Gli uomini da sempre usano la narrazione per esorcizzare il dolore e la paura o per celebrare le gioie. Le storie però fissano i fatti in una visione parziale, spesso viziata da un vissuto doloroso o da un bisogno. “La memoria fa resistenza”, dice la Ernaux, “la memoria è una maniacale attrezzista di scena”, contamina i fatti. Il lavoro che la scrittrice fa sulla memoria è un’azione continua di pulizia, un esercizio di attenzione lenta e di sospensione del vissuto per recuperare i soli fatti. La sua scrittura è asciutta, rigorosa, non indulge agli abbellimenti letterari. “Scrivere per disseppellire cose, magari anche una soltanto, irriducibile a ogni sorta di spiegazione, che provenga dal dispiegamento delle increspature della narrazione, che possa aiutare a comprendere – a sopportare – ciò che facciamo” (Memoria di ragazza). Lo stesso accade a chi legge i suoi libri. Si inizia per seguire una storia e ci si trova inchiodati a noi stessi, a guardare sotto le parole della nostra vita, alle forme con cui abbiamo contenuto e arginato i sentimenti. Come se quello che viviamo fosse in gran parte questione di parole, quelle che si dicono o che si fraintendono. I suoi libri intrecciano esperienza individuale e storia collettiva. E’ facile riconoscersi perché raccontano la quotidianità di una donna contemporanea, il rapporto con i genitori e la loro emancipazione dal mondo contadino ed operaio, la formazione nella Francia del dopoguerra, la sessualità e la complessità delle relazioni, il rapporto con la scrittura. La nota che non ci fa muovere dall’ascolto è l’onestà, la verità del racconto. “Per riferire di una vita sottomessa alla necessità non ho il diritto di prendere il partito

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ché nella crepa di quella separazione si nasconde il dolore come la possibilità di amare, la negazione di cosa non ci corrisponde ed il seme di una rinascita. “E’ la mancanza di senso di ciò che si vive nel momento in cui lo si vive che moltiplica le possibilità di scrittura”. Comprendere le cose nella loro autenticità serve a liberare i ricordi, a renderli radici, non più ombre. A distinguere ciò che si è sentito da quello che ci siamo raccontati. Una citazione cara alla Ernaux appartiene

Ernaux, la memoria attrezzista di scena

dell’arte” (Il posto). Non c’è una vocazione artistica che conduce romanticamente alla scrittura nella Ernaux. Ci sono i segni di un’infanzia dolorosa, l’esperienza del disagio, la frustrazione, che diventano occasioni per indagare, per portare alla luce, per aprire alle possibilità di senso. La separazione da sé stessi è una molla potente di scoperta, per-

a Alexandre Dumas figlio: “L’unica felicità reale è quella di cui ti accorgi mentre la vivi”. Da non perdere nella stagione 2017/2018 del Teatro Cantiere Florida di Firenze il nuovo lavoro dell’attrice Daria Deflorian, Memoria di ragazza, che porta in scena il libro omonimo di Annie Ernaux.


di Simonetta Zanuccoli Un recente studio scientifico ha evidenziato che sei minuti di lettura possono risultare decisivi per rallentare il battito cardiaco, rilassare la tensione muscolare e migliorare l’umore. Anche l’acqua, come è noto, con i suoi riflessi e la musica del suo fluire, viene impiegata da sempre in pratiche di rilassamento corporeo. A Parigi l’unione di queste due esperienze sensoriali hanno prodotto un fenomeno culturale: una barca-libreria ormeggiata al Quai de l’Oise, ai margini del canale dell’Ourcq, poco lontano dalla splendida Citè de la Musique. Una libreria galleggiante che, in un universo insolito per la frenetica Ville Lumière, fatto di corde e sartie e il solo rumore dello sciabordio della Senna, sembra pronta a affrontare in un viaggio senza tempo con avventure di mare descritte nei tanti libri, nuovi e usati, contenuti nella sua stiva. L’iniziativa nasce nel 2010 da un’ insegnante e traduttrice e il marito ex marinaio. I due acquistano una delle tante péniche, le barche abitazioni, che sono ancorate agli argini della Senna con l’obbiettivo di farne una libreria aperta al

Leggere sull’acqua pubblico. Dopo mille peripezie la libreria apre il suo scrigno tutto incentrato sul mondo marino, e così oggi, tra affascinanti mobili in legno, navi in bottiglia, vecchie strumentazioni e mappe, in una luce filtrata dai classici oblò è possibile trovare testi di famosi esploratori, romanzi di avventura, storie di viaggi, manuali di navigazione......Sono legati al mondo dell’acqua anche gli incontri, gli workshop, le mostre e gli eventi che animano l’interno e i ponti di questo barcone verniciato in bianco e nero. Il luogo suggestivo a un nome altrettanto suggestivo L’eau et les reves (l’acqua e i sogni), lo stesso del titolo del libro pubblicato nel 1942 del filosofo francese Gaston Bachelard sulla psicanalisi delle acque. Secondo quanto afferma Bachelard, le immagini che scaturiscono dall’osservazione dell’acqua sono prive di concretezza e provocano emozioni lievi per la loro natura sfuggente. Ma la loro incisività è maggiore di altre esperienze sensoriali perché, tra riflessi e ombre, in una

specie di vapore intellettuale, attivano sentimenti profondi che sfiorano il nostro essere più intimo. Il libro si “tuffa” nelle profondità del suo argomento fino a toccare il fondo degli archetipi simbolici dell’acqua: da quella chiara e brillante dove nascono immagini fuggitive a quella profonda e scura dove si trovano miti e fantasie. La libreria Eau et les réves si trova al 3 Quai de l’Oise (metro Crimea) ed è aperta da martedì a domenica dalle ore 13 alle 19.

Simonpietro Salini, appassionato raccoglitore d’arte di Valentino Moradei Gabbrielli E’ senz’altro da considerarsi fuori luogo, parlare di una mostra quando la stessa è terminata e non più visitabile. Non è però mai tardi, parlare di una collezione d’arte come la “Collezione Salini”, esposta parzialmente nel Palazzo Pubblico di Siena durante la scorsa estate, perché la stessa collezione ha una sede permanente. Non è fuori luogo parlare del suo proprietario, l’architetto Simonpietro Salini, generoso collezionista che con grande disponibilità ha voluto aprirla se pur temporaneamente al pubblico. Una rara occasione potremmo dire, quella della mostra: “Siena dal ‘200 al ‘400 – La Collezione Salini”, per vedere una serie di opere strepitose esposte temporaneamente fuori dalla loro sede abituale. Potremmo anche dire un’eccezionale occasione per partecipare il piacere, la passione,

l’intelligenza di un uomo che è anche un collezionista d’arte illuminato. La “Collezione Salini”, che ha sede permanente nel Castello di Gallico, è stata presentata per una fortunata coincidenza, nei Magazzini del Sale della Repubblica Senese, ed è grazie alla sensibilità e capacità professionali dell’architetto Salini, che i visitatori hanno potuto fruire e godere interamente delle suggestioni emotive e della magnificenza delle opere esposte, perché lo stesso proprietario, ha saputo ricreare attraverso un attento e minuzioso quanto personale allestimento, quell’atmosfera di simbiosi con l’architettura che la Collezione vive normalmente nel Castello di Gallico. Nel corso della visita, prendiamo sempre più coscienza del fatto che non stiamo visitando un museo e neppure un’esposizione temporanea, tanto meno una collezione come recita il titolo della mostra, ma condividendo un ambiente accogliente potremmo pensare di familiare quotidianità, dove lo spazio architettonico è arredato naturalmente in ragione delle esigenze e del gusto del proprietario. Dove ogni opera d’arte e oggetto di artigianato artistico si sposa con l’architettura. Senza rispondere a quelle logiche espositive comunemente adottate secondo criteri scientifici che organizzano e presentano cronologicamente, per soggetto, materiali, o luoghi geografici gli oggetti, ma seguono potremmo dire la bizzarria del proprietario o meglio la sua sensi-

bilità. Non si è voluto ufficializzare una musealizzazione delle opere presentate, ma si è voluto offrire ai visitatori un’esperienza di sapore familiare come quella che offre la propria casa con gli oggetti che lo arredano. Non un luogo da visitare, ma da vivere. Unico criterio adottato quello naturale della spontaneità di chi dispone le proprie cose all’interno della propria abitazione. Salini, ha partecipato in prima persona tutto l’iter che ha portato alla realizzazione dell’evento come si segue una persona o meglio una comunità alla quale ci sentiamo indissolubilmente legati. Dalla scelta della sede per la mostra, uno spazio molto difficile per le importanti problematiche espositive che presenta, al messaggio affidato al biglietto d’ingresso gratuito: “Biglietto Ricordo”. E’ proprio questa condizione inequivocabile di disponibilità che ci accoglie e fa vivere la visita come qualcosa di normale, di quotidiano, quasi familiare, perché l’arte non deve essere esposta, ma semplicemente presentata. Tutto questo, per dire che non siamo di fronte ad un collezionista inteso come appassionato raccoglitore di materiali che rincorre il possesso della figurina per completare la pagina dell’album, ma di una persona che conosce la vera ragione dell’arte, che è quella di condividere e accompagnare la vita di ognuno nella propria quotidianità migliorandone la qualità.

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di Antonello Nuzzo Nel sito web del Comune di Fiesole, “In primo piano”, compaiono, nel mese di ottobre, due bandi di gara con scadenza a novembre: il primo per la redazione del Piano Operativo Comunale e la revisione del Piano Strutturale vigente; il secondo per la “valorizzazione” dell’Auditorium, in piazza del Mercato, a Fiesole, “per attività culturali e di spettacolo”. I due bandi riguardano dunque questioni di estrema rilevanza, anche se con differente incidenza e caratterizzazione, per la loro funzionalità riferita all’intero territorio comunale ed al capoluogo: si tratta dell’adeguamento dell’attuale assetto territoriale e paesaggistico alle intervenute disposizioni in materia del piano regionale; delle previsioni urbanistiche comunali attuabili nel quinquennio; dell’effettiva utilizzabilità e gestione dell’Auditorium quale essenziale struttura culturale, nella costruzione collaudata nel 2013 e mai finora reso operativa. A fronte della formulazione dei due bandi e delle procedure di gara con essi attivate c’è da chiedersi se il contenuto e la forma di quanto pubblicizzato corrisponda e rappresenti adeguatamente la effettiva rilevanza delle problematiche fiesolane nella situazione attuale ed in prospettiva e rappresenti gli obiettivi che si intendono effettivamente perseguire nel tempo. Questo soprattutto nel riferimento alla collocazione di Fiesole nel contesto in divenire dell’area metropolitana con particolare riguardo alla storia comunale passata e recente ed in particolare alle risultanze della pluriennale gestione territoriale paesaggistica ed ambientale; alla caratterizzazione turistica fiesolana tramite una affermata e qualificata offerta ben distinta da quella fiorentina; alla presenza di istituzioni culturali molte delle quali di rilevanza internazionale, quali l’Istituto Universitario Europeo, la Scuola di Musica, l’Estate Fiesolana, le varie Fondazioni ed Università americane ecc. Se è legittimo attendersi dall’esito delle due gare risposte pertinenti alle questioni da affrontare, c’è sopratutto da chiedersi se effettivamente la sola formulazione dei bandi, essenzialmente tecnica e burocratica, basti a costituire orientamento esplicito, preciso e vincolante verso risposte adeguate; se iniziative contestuali, di precisazione ed approfondimento, siano state predisposte per il necessario indirizzo su contenuti ed obiettivi da perseguire o potranno successivamente intervenire, tramite occasioni di adeguata pubblicizzazione, consultazione e dibattito, nel corso del perfezionamento delle procedure ed al momento delle elaborazioni finali.

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In gara per Fiesole

La pennellata divina di Nomellini di Nadia Marchioni Dopo quasi venti anni dall’ultima esposizione monografica dedicata a Plinio Nomellini (Livorno, Museo Civico Giovanni Fattori - Firenze, Galleria d’arte moderna di Palazzo Pitti, 1998), la scelta di proporre una nuova selezione dei suoi dipinti è stata accompagnata dal desiderio di contestualizzare in questa mostra, per la prima volta, l’opera dell’artista nel quadro del suo tempo. Il dialogo con i maestri del pittore (primo fra tutti Fattori, poi Lega e Signorini) e con gli artisti che ne hanno accompagnato il percorso formativo e la prima maturità intende offrire nuovi stimoli alla comprensione dell’opera di Nomellini, dietro alla quale si cela ancora un universo ricco di nuovi spunti di ricerca. L’esposizione (fino al 5 novembre, catalogo Maschietto editore) si apre con una sala dedicata al confronto con il maestro Giovanni Fattori, con il quale Nomellini avviò nel 1885 un alunnato che sfocerà in una franca amicizia, testimoniata dalle molteplici lettere, affettuose e sferzanti, come quella celebre del 12 marzo 1891, che sancirà la definitiva emancipazione degli allievi dal maestro, il quale ammoniva il pittore ed i suoi giovani compagni: “la Storia dell’Arte vi registrerà come servi umilissimi di Pisarò [sic.], Manet, ecc. e in ultimo del sig. Müller. Questa è storia e qui cesso con dirmi vostro amico sempre, maestro mai più! perché io sono coi vecchi e non saprei più cosa insegnarvi”. Nomellini ed il gruppo dei giovani allievi di Fattori, in formazione a Firenze fra la metà degli anni Ottanta ed i primi anni Novanta dell’Otto-

cento, erano soliti frequentare, sotto quella che Raffaele Monti indicò come “la copertura ideologica di Lega”, la Trattoria del Volturno, ragionando di una loro “rivoluzione impressionista”. In mostra due ritratti di ciociara eseguiti, rispettivamente, da Pellizza e Nomellini nel 1888 in una stessa seduta di posa, confermano il desiderio di confrontarsi dei due artisti, mentre una sala è specificamente dedicata alla comunione artistica avviata da Nomellini, Kienerk e Torchi ad Albaro nell’estate del 1891, quando l’artista livornese si abbandonò con sicurezza alla pennellata divisa. Il percorso espositivo prosegue seguendo cronologicamente l’opera dell’artista, evidenziando l’importanza della tematica sociale, l’approdo ad una percezione simbolista del paesaggio, il rapporto speciale instaurato con Pascoli, lo straordinario momento creativo vissuto in Versilia nel primo e secondo decennio del Novecento, concludendosi in una sala che raccoglie alcuni degli episodi più significativi della pittura di Nomellini negli ultimi venti anni di attività.


La guerra raccontata con verità e poesia di Paolo Marini “The Saturardy Review” ha sentenziato che “Napoli ‘44”, di Norman Lewis, è “uno dei dieci libri da salvare sulla seconda guerra mondiale”. Io, per me, posso soltanto affermarne alcune (rimarchevoli) qualità. La prima appartiene alla narrazione: asciutta, disincantata - a tratti cruda - e al contempo schietta, vivace, capace di restituire l’indignazione, l’ironia e perfino la poesia dell’Autore. Lewis, ufficiale britannico assegnato alla “Field Security Section”, aggregata alla Quinta Armata americana del generale Clark, all’indomani dell’8 settembre 1943 prendeva parte allo sbarco alleato a Paestum. Qui ha inizio il racconto e qui è subito un passaggio di pregio: “Al nostro sguardo si è offerta una scena di incanto soprannaturale. A qualche centinaio di metri si ergevano in fila, perfetti, i tre templi di Paestum, superbi e splendenti di luce rosata negli ultimi raggi del sole. E’ stata come un’illuminazione, una delle grandi esperienze della vita”. Che instaura una efficacissima contrapposizione tra ciò che è effimero, transeunte (la stessa guerra, con il suo baccano e le distruzioni) e ciò che perdura: un simbolo potente. La seconda qualità è tutta dell’uomo, la narrazione raccoglie i frutti della sua levatura intellettuale e morale, nessun ossequio alla bandiera servita in quanto tale: la coscienza, agile e libera, supera quelli che per i più sarebbero steccati non valicabili, per aderire alla legge superiore della ragione e della pietas. Si evince da non poche pagine, qui bastano alcuni esempi: quando Lewis spiega che molti pazienti ricoverati all’ospedale americano di Paestum riferiscono che alle unità combattenti gli ufficiali hanno ordinato di uccidere i tedeschi che tentino di arrendersi, senonché “questi uomini sembrano molto ingenui e infantili, ma cominciano a mettere in dubbio che un ordine del genere sia morale. Uno di loro, che si è arreso all’equipaggio di un carro tedesco, è stato semplicemente disarmato, poi lasciato andare non potendo essere preso a bordo (...)”; poi c’è l’umana simpatia per il panzergrenadier diciottenne, l’unico ferito tedesco della corsia, che qualcuno vorrebbe strangolare e che “malgrado una brutta ferita è allegro e contento, e sa quel poco d’inglese sufficiente a esibire un inalterato senso dell’umorismo, si sta facendo amici un po’ tutti e consolida rapidamente la sua posizione”; eppoi una autentica ‘bomba’: “A Battipaglia (...) ho avuto occasione

di studiare da vicino gli effetti del bombardamento a tappeto voluto dal generale Clark. Il Generale è diventato l’angelo sterminatore dell’Italia del Sud, incline (...) a reazioni violente e vendicative come quella che ha portato al sacrificio di Altavilla, cancellata dalla faccia della terra perché forse nascondeva dei tedeschi. Qui a Battipaglia abbiamo avuto una Guernica italiana, una città trasformata in pochi secondi in un cumulo di macerie”. E’ come se “Napoli ‘44”, non dall’alto di una cattedra ma dal basso di una guerra vissuta in prima persona, ammonisse il lettore dell’inevitabile contro-canto dei fatti, che contraddice gli esiti sottesi all’usuale maneggio della storia. Nella quale responsabilità e colpe dovrebbero

accertarsi come in un processo e dove gli uomini - i singoli, non già intere nazioni -, meritano o demeritano per ciò che omettono o commettono, più che per le divise che indossano. Terza qualità, in fine: un mirabile ritratto di Napoli e della sua società, “il più grande paese del mondo”, divisa a sua volta in molti paesi più piccoli, i rioni, che sono, in realtà, altrettante enormi famiglie; con il suo onnipresente ‘teatro’, in cui prospera il mercato nero e la legge sopravvive “come un cadavere ambulante”; un teatro che pullula di presunte spie, di personaggi squallidi e ambigui, di consumati mestieranti (tra cui gli ‘zii di Roma’ e le immancabili ‘prefiche’) su uno sfondo di fame, di miseria e di tantissime macerie. “Napoli ‘44” mantiene, posso dire, più di quel che promette: lo si compra per leggere un diario di guerra e vi si incontra inavvertitamente qualcosa di più prezioso: uno scrittore di talento e un uomo intellettualmente onesto.

I maestri di paesaggistica di Francesco Gurrieri E’ sempre un’operazione temeraria, soprattutto in àmbito accademico, individuare i “maestri” di una disciplina. Ma Biagio Guccione, che ho voluto come collaboratore nella redazione di uno dei “piani strutturali” più delicati della Toscana, “temerario” nell’affermare le sue convinzioni – anche contro consolidate opinioni – lo è sempre stato. Così, col contributo del MIUR e con i tipi di Edifir, è appena uscito questo utile volume che “scheda” venti paesaggisti, che ricordiamo subito: Jordi Bellmunt, Paolo Bürgi, Fernando Caruncho, Gilles Clément, Michel Corajoud, Michel Desvigne, Michael Lancaster, João Ferreira Nunes, René Pechère, Michael Van Gessel, Gilberto Oneto, Ippolito Pizzetti, Marco Pozzoli; ed “interviste” a Guido Ferrara, Annalisa Maniglio Calcagno, Paolo Pejrone, Andreas O. Kipar, Paolo Villa, Franco Zagari, Mariella Zoppi. Nell’Introduzione al volume, Guccione ricorda che “fra le discipline poco praticate la Paesaggistica è fra quelle emergenti nel pano-

Lisbona-Parque Tejo e Trancão (J. Nunes)

rama professionale del nostro Paese e di tutta Europa”. Ed ancora che occorre “ripensare alle città partendo dagli spazi aperti per ‘ricucire’ le periferie...”. L’autore non manca di ricordare, dandone per scontata la conoscenza, i maestri del secolo scorso, padri fondatori della disciplina, quali Pietro Porcinai, Roberto Burle Marx, Geoffrey Jellicoe e Sylvia Crowe. Riassuntivamente, si tratta di un interessante e sistematizzante contributo, in un’area disciplinare borderline, confinante con la cultura dei giardini e dei parchi, nonché col restauro degli stessi. Ma ciò rende ancor più attuale questo studio di Guccione che va a collocarsi nell’àmbito della letteratura del “verde”, meritoriamente accesa diversi decenni or sono da Vittoria Calzolari (Verde per la città, 1961), ripresa da Luigi Zangheri con i suoi numerosi libri sui giardini storici e il mio Guasto e Restauro

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Il Diverso Femminile di Carlo Cantini

24 4 NOVEMBRE 2017

Negli anni ’70 il mondo femminile scese nelle piazze per reclamare il desiderio di cambiamento. In quella occasione realizzai questo lavoro fotografico per dare un significato a questi eventi per rafforzare l’evoluzione della donna.


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