Cultura commestibile 240

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Io ero estremamente contrario alle Olimpiadi, ma non ero sicuro che i romani la pensassero come me. [...] Decisi di telefonare a Massimo, il mio meccanico, e gli chiesi di radunare un po’ di amici perché, gli dissi scherzando (ma neppure troppo), ‘dovevamo prendere una decisione politica’. Lui radunò una decina di persone: l’edicolante, il fruttivendolo del quartiere, un paio di parenti, un pensionato. Chiesi a Massimo se si trattava di persone di fiducia. Te poi fida’ disse lui. Così, quasi in modo solenne, domandai cosa ne pensassero delle Olimpiadi a Roma. Le loro risposte furono molto aspre, e non posso riportare le parole esatte per evitare querele. A ogni modo uscii dall’officina, dal mio ‘soviet’ personale tra bulloni, pezzi di ricambio e olio, e mandai un messaggio a Virginia: ‘Sulle Olimpiadi nessuna esitazione, linea durissima. La stragrande maggioranza dei romani sta dalla nostra parte’. Alessandro Di Battista,

Con la cultura non si mangia Giulio Tremonti (apocrifo)

Il soviet de’ noartri

Maschietto Editore


NY City, 1969

La prima

immagine Ecco una bellissima maternità nera! Uscendo di corsa da un negozio ho quasi urtato questa giovane madre con il suo splendidi bambino. Per fortuna allora i tempi erano diversi e nessuno pensava, neppure da lontano, a tutte le questioni di privacy che ai giorni nostri sono diventate virali e, senza alcun discernimento ragionevole, rendono praticamente quasi impossibile registrare situazioni come questa, che una volta erano considerate belle e degne di attenzione. E quindi, come si dice ormai sempre più spesso, “si stava davvero molto meglio quando si stava peggio”!

dall’archivio di Maurizio Berlincioni


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Riunione di famiglia L’invito di Rosa Maria Le Sorelle Marx

Abbastanza incensurato Lo Zio di Trotzky

L’invito di Rosa Maria I Cugini Engels

In questo numero La variabile idea di bellezza di Francesco Gurrieri

Paesaggio rotante di Claudio Cosma

L’editore che regala i libri di Simone Siliani

Mappe di percezione: San Francisco di Andrea Ponsi

Bonsai atlantico di Alessandro Michelucci

La ragazza nella nebbia di Mariangela Arnavas

La badessa, il conte, il pittore di M. Cristina François

La realtà messa in posa resta reale? di Elisa Zuri

Il Tempio dell’Incerto di Angela Rosi

Nei cieli bigi guardo fumar dai mille comignoli di Simone Zanuccoli

Guido Rey, alpinista e pittorialista di Danilo Cecchi

Passaggio in Mongolia/1 di Marco Zappa e Rossella Seniori

Il movimento radicale non è mai esistito di John Stammer

The square di Francesco Cusa

e Cristina Pucci, Valentino Moradei Gabbrielli, Anna Lanzetta, Paola Grifoni... Illustrazioni di Lido Contemori, Massimo Cavezzali

Direttore Simone Siliani

Redazione Gianni Biagi, Sara Chiarello, Aldo Frangioni, Vittoria Maschietto, Michele Morrocchi, Sara Nocentini, Barbara Setti

Editore Maschietto Editore via del Rosso Fiorentino, 2/D - 50142 Firenze tel/fax +39 055 701111

Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012

Progetto Grafico Emiliano Bacci

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di Francesco Gurrieri Troppi luoghi comuni, tanti aforismi, non poche ambiguità: è ciò che accompagna oggi l’idea di bellezza, sempre più inseguita, sempre più polisemica, troppe volte solo motore di marketing. Più che l’abusata citazione dostoevskijana ricordiamone quella data da Thomas Mann, secondo cui “la bellezza ci può trafiggere come un dolore”. Sull’idea e la creazione della bellezza – ricordiamolo – Vasari ci dà un primo saggio nel Proemio alle “Vite”: “...di queste tre arti eccellentissime Architettura, Scultura e Pittura...comincerommi dunque dall’Architettura, come della più universale e più necessaria e utile agli uomini, ed ora al servizio e ornamento della quale sono l’altre due”. Ciò viene da fonte insospettabile, da chi, come Vasari, fu Architetto, Pittore e Scultore. Ma qui non vogliamo riaprire la disputa sulla primazia delle arti, anche se una verifica ad oggi potrebbe essere particolarmente divertente. Ma certo, dovremmo mettere nel conto almeno il cinema, la moda, i modi della multimedialità e altro ancora. Nella complessità e nell’entropia dei nostri giorni, qualche decennio fa, un brillante studioso di origine svizzera, allievo di Wöefflin e amico di Le Corbusier, Sigfried Giedion, avvertiva un problema che è forse ancor oggi di grande attualità: diceva che “il problema odierno è di superare il nefasto abisso che si determina tra un pensiero molto progredito e una sensibilità arretrata, quale quella del committente di qualunque categoria. Se si riesce a superare questo dislivello potrà svilupparsi naturalmente la ricerca di creatori più capaci...”. La verità è che il dibattito sulla bellezza è stato congelato per molto tempo. Sentite la perentorietà colpevole di questo passaggio nella Storia della critica d’arte del nostro Lionello Venturi: “Un altro concetto che ha per molto tempo fuorviato l’estetica del suo compito di essere una filosofia dell’arte, è stato quello di bellezza. Ed è uno dei principali meriti dell’estetica di Benedetto Croce di aver escluso il concetto di bello...”. Come si vede una vera e propria teorizzazione per espungere dal lessico la “bellezza”. Un modo per tentare di avvicinarsi al tema, può esser quello di partire da un’affermazione “elastica” della bellezza, che non deve scandalizzare: la bellezza è un concetto che muta nel tempo e nello spazio. Il nostro è un concetto proprio della cultura occidentale, che ha radici nella classicità, che ha riferi-

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La variabile idea di bellezza

menti con la filosofia e con l’estetica in particolare: quell’estetica di cui ci si riempie la bocca, che si crede di conoscere, ma che in realtà è solo un diffuso luogo comune. E dovremmo parlare anche di “cànone”, anch’esso variabile fra oriente e occidente; perché in genere, troppo sommariamente, il giudizio si esprime in termini di “bello” o “brutto”. Il cànone è importante perché è il metro di paragone; è una chiave di lettura (estetica, appunto) che ci avvicina e ci accomuna nella lettura di un’opera d’arte. Comunemente, lo vediamo applicato alla figura umana e in quella femminile in particolare: non a caso – ed è quasi ovvio - è supercitata la “Primavera” botticelliana come paradigma della bellezza. Ma anche l’estetica è una disciplina che muta, oscilla e si eclissa nel tempo. Oggi

non è più studiata; così che desta meraviglia un testo come quello di Sergio Givone intitolato L’estetica del nulla. Uno studio e una riflessione che hanno forse anticipato ciò che oggi stiamo vivendo in ordine alla liquidità e alla confusione del giudizio estetico: non c’è più un cànone e, di conseguenza, va bene tutto e il contrario di tutto. Allora, cerchiamo di riflettere, per grandissime linee, alcuni momenti salienti dell’idea di bellezza nella nostra cultura occidentale. Partendo dall’Atene di Pericle, dall’architettura del Partenone e dalla scultura di Fidia. Infatti, come potremmo prescindere dalle mètope del Partenone o dalle meravigliose fanciulle-cariatidi dell’Eretteo? Radici queste che, assai più tarde e pur mediate dalla classicità romana, ritroveremo in quel


clima artistico dell’Umanesimo proprio qui in Toscana, segnatamente in quel rapporto scultura-architettura che fu proprio della “bottega” di Donatello e Michelozzo, di cui il Pergamo dell’angolata del Duomo di Prato resta forse l’esempio più significativo. Del resto, parlando di cànoni, si può prescindere da trattatisti come Vitruvio o Leon Battista Alberti, figure primarie nella fissazione dei canoni (soprattutto gli “ordini”) in architettura? Ma veniamo ad un punto cruciale nella storia dell’estetica: a quel momento magico dell’umanesimo, all’acme, che con Lorenzo il Magnifico vedeva compresenti il Ficino, Pico della Mirandola e il Poliziano. Ma che di lì a poco, con l’incendio spirituale e piagnone del Savonarola, muterà improvvisamente colpendo lo stesso Botticelli. Peraltro, appena più tardi, ecco arrivare Michelangelo col suo David, con l’introduzione di un cànone maschile che ha traversato i secoli. Ma pensiamo poi alle figure femminili di Rubens che sconvolgono antiteticamente le antropometrie botticelliane. Quando arriviamo a Winckelmann e a Canova ( e siamo nel XVIII secolo) le cose cambiano ancora: il primo guarderà esclusivamente alla figura maschile, parametrizzandola (e facendone un cànone), il secondo spostando di nuovo l’attenzione sulla figura femminile; il paradosso è che al Canova succederà un Lorenzo Bartolini che, provocatoriamente, vuol silenziare l’idea di cànone, portando a modello, in Accademia, un gobbo! Una trasgressione programmatica

per non condizionare i giovani allievi. E così potremmo continuare fino ai nostri giorni, passando anche attraverso la stagione del Futurismo, che ribaltò l’idea di bellezza, abbandonando la figura umana e cercandola piuttosto in quella della “velocità”. Le figure di Carrà, di Balla e di Boccioni hanno, indubbiamente altro e diverso cànone, come, personalissimo, se l’era costruito Amedeo Modigliani. Il “cubismo” fece il resto. Poi, faticosamente, attraverso numerose e differenziate strade espressive siamo ai nostri giorni, ove si è riaffacciato prepotente l’esercizio della figura, dalla lirica silenziosa di Hopper al brutale realismo di Freud. A

dimostrare come si stia vivendo quella che è stata definita la “confusione degli opposti”, digerendo tutto e il suo contrario, colpevolmente accettando una progressiva ideologia dell’ignoranza, che rende tutti più uguali. Come si vede, si torna alle “oscillazioni del gusto” (di dorlesiana memoria); si torna al “perimetro culturale” a cui si fa riferimento, ci si riconduce al “cànone”, entrambi variabili nel tempo e nello spazio. Del resto, cosa direste se chiamati a giudicare fra l’Angelo che sorride della Cattedrale di Reims e la Venere di Samotracia del Louvre? Questo testo è in parte apparso sulla rivista “Testimonianze” , 510/2016

O della confusione degli opposti 5 27 NOVEMBRE 2017


a cura della redazione Abbiamo chiesto un commento sull’intervista di Eike Schmidt, direttore delle Gallerie degli Uffizi (pubblicata nello scorso numero di Cultura Commestibile), ad Antonio Natali, secondo il suo costume, non ha voluto commentare; ma ci ha suggerito di riguardare il film interpretato magistralmente da Peter Sellers, “Oltre il giardino” del 1970. Noi, per rinfrescare la memoria, ne diamo qui di seguito la sinossi. “Alla morte del padrone, Chance, un giardiniere sempliciotto e non più giovane, che non è mai uscito dalla casa nella quale ha lavorato per tutta la vita, si ritrova in mezzo alla strada, con una valigia di vecchi abiti di lusso e un disarmante candore. L’unico collegamento col mondo esterno è stata nel corso di tutti questi anni la sola televisione. Vagando disorientato e senza meta per le strade di una Washington sporca e maleducata, ben diversa dal mondo che lui vedeva rappresentato attraverso la TV, Chance viene investito dall’auto della moglie di un influentissimo personaggio. La donna, Eve Rand, si preoccupa di soccorrere il malcapitato e lo porta nella sua villa per farlo curare. Durante il tragitto in automobile Eve chiede all’uomo come si chiami, e la sua risposta, resa poco chiara da un colpo di tosse, viene compresa nella versione originale come Chauncey Gardiner, mentre nelle intenzioni voleva essere “Chance il giardiniere” (Chance the gardener). Chance si rimette presto dal piccolo incidente ma poi si trattiene come ospite, visto che il vecchio e malato Ben, marito di Eve, uomo d’affari e amico del Presidente degli Stati Uniti, colpito dalla sua riservatezza, lo tiene in grande considerazione, e sua moglie addirittura se ne innamora. Tutto ciò avviene all’insaputa di Chance e in maniera del tutto fortuita, dato che quei pochi concetti che lui esprime riguardano il giardinaggio (unico argomento da lui conosciuto) e l’unica cosa che gli interessa è guardare la televisione. Ma in un mondo che è portato a vedere ciò che vuole più che ciò che è, Chance viene scambiato per un saggio, sensibile e arguto osservatore. Solo il medico di famiglia nutre dei sospetti sempre più concreti circa la sua reale natura. Quando qualcuno cerca di parlargli con una metafora, una forma allegorica, oppure un doppio senso, Chance interpreta alla lettera, rispondendo quindi in modo bizzarro. Le risposte vengono interpretate come frutto del suo senso dell’umorismo.

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Il giardiniere Chance e la guida degli Uffizi L’equivoco non è destinato a sciogliersi, anzi: in qualunque contesto lui si trovi, dall’intimità di un dialogo a due con Ben al confronto con il Presidente degli Stati Uniti, passando per la partecipazione ad un talk-show televisivo, le risposte di Chance, sempre molto semplici e invariabilmente riferite al mondo del giardinaggio, vengono sempre scambiate per profonde metafore, proprie di una persona dalla grande saggezza e illuminante filosofia. Alla morte di Ben, eminenza grigia del potere espresso dal presidente, quest’ultimo pronuncia un discorso di commemorazione, mentre chi muove le fila del potere e presenzia il funerale, all’ombra di un famedio piramidale recante un occhio al suo vertice, già si chiede nelle mani di chi mettere il potere, in vista della scadenza del mandato. L’attenzione dei grandi industriali finisce per indirizzarsi verso Chance, il quale, in un finale surreale, si allontana dalla cerimonia, teneramente distratto dalla natura intorno, e si avvia verso un laghetto, che percorre a piedi come fosse solido, una metafora forse della sua ingenua leggerezza mentale che gli permette di “camminare sulle acque”; nel frattempo si ascoltano ancora in sottofondo parole di Ben citate nel discorso funebre, che si concludono con la frase: “La vita è uno stato mentale”.

Il commento di Antonio Natali all’intervista a Eike Schmidt


di Simone Siliani Un editore, il nostro Maschietto Editore, affronta il problema comune a tutte queste aziende, cioè la gestione dei magazzini (costosi e ingombranti), in forme nuove ma con cuore antico; di chi non solo “produce merci” (libri, in questo caso), ma “ama” il suo prodotto. Invece di mandare al macero quintali di libri, ha deciso di regalarli a chi vuole passare dalla sede e ritirarli. Ma sta avvenendo un piccolo fenomeno peculiare. Ascoltiamolo raccontato dalla voce del titolare, Federico Maschietto. Cosa succede? L’editore per sue esigenze interne, diventa un distributore di libri, svuota magazzini e si genera un fenomeno culturale? Succede qualcosa che valorizza la memoria e la storia di questa azienda. Non c’è un metro certo per misurare il successo di un libro, ma noi stiamo toccando con mano questo dato attraverso l’afflusso di persone, le quali vengono e sfogliano e scelgono questi libri che regaliamo. Sono libri tornati in casa editrice e che doniamo a istituzioni culturali, studiosi, semplici lettori. Libri che si accumulano e che creano una pesante zavorra dal punto di vista del consumo di spazio e di costi di gestione. Restano in casa editrice alcuni titoli più recenti o che hanno una consolidata presenza in libreria, e una parte di archivio intoccabile. Tutto il resto, cioè 25 anni di lavoro con questo marchio, è a disposizione. Abbiamo registrato un grande interesse per questo patrimonio. Partiamo sempre dall’argomento artistico, perché da lì è iniziata la nostra esperienza professionale. Abbiamo iniziato questo “gioco” con il passa parola ed è cresciuto a dismisura. Occorrono, ovviamente, delle regole perché il libro è un prodotto tracciato e quindi non si possono regalare o buttare libri senza lasciarne un riscontro formale, per cui chiediamo a chi viene a prendere i libri gratuitamente di firmare una semplice ricevuta per avvenuta donazione. Di quanti volumi stiamo parlando? Siamo fra i 400 e i 500 titoli pubblicati in 25 anni. Che comporta un magazzino pesante: questa reductio ad unum serve un po’ anche a razionalizzare e a riprendere il cammino. Abbiamo rinnovato il nostro contratto di distribuzione dei nostri libri con Messaggerie, che è la più grande azienda italiana nel settore. Quindi abbiamo ora un sistema di “magazzino funzionale” che muove i libri che vengono ordinati dalle librerie e rimanda indietro le fantasmagoriche rese. Il libraio è un mercante apparentemente libero che di fronte al rappresentante si pensa abbia piena ha libertà di scelta, ma non con le major con cui ha una

L’editore che regala i libri sorta di obbligo a comprare le quantità enormi che di solito si vedono nella prima stanza delle grandi librerie di catena sistemate in grandi pile di “novità”, che hanno una obsolescenza di qualche settimana e poi vengono direttamente mandate al macero. Questo sottrae spazio invece ad una editoria di qualità? Sì, perché la piccola editoria non può permettersi simili tirature. Questa specificità di Maschietto editore sulle immagini d’arte, fa giustizia del modo un po’ semplicistico con cui si è celebrato il funerale del libro di carta, perché l’immagine resta un punto di forza dell’edizione cartacea? Io credo che questi riti siano piuttosto dei ballon d’essai per stupire, indurre domanda di altri prodotti. Certo, ci sarà sempre di più una produzione digitale che consente anche certi usi d’occasione come ai viaggi in cui diventa difficile portarsi dei libri di carta, mentre con un ebook reader è molto più facile. Ma io non conosco persone che non abbiano libri in casa. E’ un oggetto formidabile, affinatosi tecnologicamente nel corso del tempo, che ha delle notevoli funzioni fascinatorie. Ricordo che al primo anno di Università nella facoltà di giurisprudenza, durante la prima lezione di diritto romano, il professore - che era un luminare dall’aspetto molto severo - disse al pubblico: “Il libro funziona sul principio del cardine”, con l’intenzione di spiegarlo ad un pubblico che riteneva, a torto o a ragione, poco esperto dell’oggetto. Tornando a questa esperienza di rete di donazione di libri, come la volete definire? Francamente non saprei. Abbiamo iniziato invitando amici e conoscenti, presentandola come una cosa gioiosa, che all’inizio è stata presa anche con una certa diffidenza (“dove

sarà il trucco?”); ma poi è stata accolta con entusiasmo. Perché noi lo sappiamo bene, l’editore si affeziona ai propri libri, come se vi avesse un rapporto parentale, e non di semplice produttore. Per cui li conserva, li trattiene, aspetta occasioni che poi non arrivano, per diffonderli e questo porta ad un accumulo. A chi rivolgete l’invito a venire a prendere i vostri libri? Alle scuole, certamente, anche se è difficile proprio per la quantità di passaggi burocratici che donazioni verso queste istituzioni richiedono. Ma noi siamo riusciti, attraverso la collaborazione di alcuni insegnanti, a risolvere questi problemi per allestire una piccola biblioteca circolante. Ma, ci rivolgiamo a chiunque, liberi e singoli cittadini, associazioni, ecc. Questo alleggerimento del magazzino ci aiuterà anche a concentrarci maggiormente sul lavoro di promozione e valorizzazione anche in senso commerciale dei libri che abbiamo e che ci restano. Guardando a questo enorme magazzino, è chiaro che senti il peso di un problema, ma ti dà anche la dimensione di un lavoro fatto di una certa qualità. Vorrei che di questa esperienza si parlasse anche in forma letteraria, immaginativa e credo che “Cultura Commestibile” potrebbe essere il veicolo giusto per farlo: in questi movimenti attorno ai libri c’è sempre qualcosa di letterario e, dunque, perché non favorire una raccolta di storie. Anche con una rubrica, “Notizie dal magazzino”. Il libro è sempre in crisi: fino a qualche anno fa l’intero settore rimetteva 500 milioni l’anno, poi negli ultimi anni c’è stata un’inversione di tendenza. Pensiamo al proliferare dei saloni e le fiere del libro: io credo che l’obiettivo finale sia quello di arrivare a fare 12 grandi fiere del libro l’anno perché il prodotto, come si dice, tira.

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Le Sorelle Marx

L’invito di Rosa Maria

Anche quest’anno, puntuale come il Natale ma anche come la morte, si celebra l’ennesima Leopolda renziana nella nostra sfinita – anche da queste cerimonie – cittadina. Essendo delle autorità in materia, abbiamo ricevuto dall’amica (lei ci chiama così, anche se non ci abbiamo mai fatto un pasto insieme, ma tant’è) senatrice Maria Rosa Di Giorgi, l’invito a partecipare al tavolo leopoldino dedicato al Cinema e allo Spettacolo. Occasione imperdibile, soprattutto per l’incipit dell’invito della senatrice (e non certo perché questi tavoli servano ad alcunché, come del resto quelli dei “100 luoghi” di renziana memoria a Firenze). Infatti la Rosa Maria ci notifica che il Parlamento “ha varato due leggi, di

I Cugini Engels

Votami o faccio un casino

In una emorragia di voti ormai piuttosto generalizzata il segretario del PD Matteo Renzi si è convinto che il successo del suo partito alle prossime elezioni si giocherà nel confronto verso le giovani generazioni. Ecco quindi che Renzi si è circondato sul suo treno di una serie di Millennials il cui unico criterio di scelta pare essere la data di nascita e si è messo a citare e affrontare temi da supergiovane, il tutto sempre a favore di social. Lo troviamo quindi su instagram a cantare Coez (immaginiamo cambiando il verso del ritornello del suo maggior successo da “amami o faccio un casino” in “votami o faccio un casino”) oppure a immaginare come logo/slogan della nuova Leopolda “L8” giocando sull’ottava edizione (in un rimando tarantiniano forse involontario visto che i protagonisti dell’ottavo film di Tarantino fanno quasi tutti una brutta fine) e sul fatto che, letto, lo slogan suona come “lotto”. Avesse la nostra tradizione il buon Renzi potrebbe abbinare anche una colonna sonora al suo slogan, quel “battan l’otto” canto socialista

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cui sono stata relatrice, attese da tantissimi anni: la Legge che disciplina il Cinema e l’audiovisivo e la Legge Spettacolo”. E fin qui va bene, ma poi la senatrice esagera: “Queste importanti riforme riconoscono, una volta per tutte, i valori sociali, economici e culturali di questi due settori strategici per lo sviluppo del nostro Paese”. Ora, vorremmo suggerire all’amica Rosa Maria di spararle anche meno grosse. Intanto perché non è che prima di queste leggi il settore non fosse regolamentato da norme statali. Ma si sa, è lo stile renziano: “prima di me il nulla, dopo di me il diluvio”. Ma soprattutto vorremmo dire alla carissima Rosa Maria che niente è per sempre, neppure i diamanti; figuriamoci Renzi!

di inizi novecento in cui si canta: “Verrà qui’ giorno della rivoluzione,/verrà qui’ giorno che la dovrai pagare/ma verrà qui’ giorno della rossa bandiera/infame società, dovrai pagare”. Certo, direte, un canto del genere non pare adatto al giovanilismo del lupetto di Rignano; ma solo perché non avete ascoltato la versione elettronica di les anarchistes.

Lo Zio di Trotzky Abbastanza incesurato Buon sangue non mente, mai. Ed è il caso di Luigi Genovese, figlio d’arte, cioè di Francantonio Genovese, un vero artista della truffa. Il padre, da poco condannato a 11 anni di carcere per avere guidato un’associazione criminale che faceva la cresta a fondi regionali per la formazione professionale, può ben dirsi orgoglioso del pargolo che, alla tenera età di 21 anni, dopo una trionfale marcia elettorale in Sicilia a suon di 18 mila preferenze, si è trovato indagato per riciclaggio ed evasione fiscale. D’accordo, son reatucci, quasi da cavalierato del lavoro in Italia, ma come cantava Francesco De Gregori, Il ragazzo si farà, anche se ha le spalle strette. Insomma,non è ancora molto, ma è abbastanza. Concetto con il quale il giovane Luigi ha una certa affinità, visto che in una intervista a Repubblica del 27 settembre scorso ebbe a pronunciare la storica frase: “Sono anche abbastanza incensurato”. Ma che vuol dire? E’ come dire,”come stai?”, “eh non c’è male, sono abbastanza incinta”. Poi nella stessa intervista il ragazzo ha perfezionato il concetto: “questo mondo i giovani li ha finora messi da parte o utilizzati solo quando fa comodo. La mia candidatura nasce anche per cambiare rotta. L’unica verità è che si fa sempre grande retorica attorno ai giovani. … Chiediamo solo la possibilità di costruirci il futuro... io ho avuto un’opportunità di scommettere su me stesso. E ho sentito il dovere di farlo. E’ già un messaggio, o no? Non candidarmi sarebbe stato irrispettoso nei confronti della mia generazione, non della mia famiglia». Per carità, non sia mai che ci perdiamo un genio come questo. Lui ha scommesso e la fortuna lo ha baciato in fronte. A parte il piccolo dettaglio dell’inchiesta che, forse, lo renderà abbastanza meno incensurato.


Nel migliore dei Lidi possibili disegno di Lido Contemori didascalia di Aldo Frangioni

Al povero non donare un pesce educalo, invece, a pescare le lische

SCavez zacollo

disegno di Massimo Cavezzali

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di Angela Rosi Archi-tè, venerdì10 novembre inaugurazione de“Il Tempio dell’Incerto”, operazione artistica del Collettivo Superazione. L’inaugurazione del Tempio è preceduta da“Non so chi”performance di Santiago Bruni e Tommaso Verde. A torso nudo e dotati di frusta fatta con fili di cellulari e di auricolari e in testa una corona di spini, spine elettriche, attraversano l’ingresso della biblioteca di Architettura fino al Tempio dell’Incerto, davanti ad esso distribuiscono pagine di enigmistica con un richiamo fortemente religioso. Hanno camminato fustigandosi ed enunciando a voce alta i loro dubbi e le loro incertezze. Il dubbio è umano, l’incertezza è nel nostro DNA. Tutti i nostri dubbi e paure ci possono paralizzare ma altrimenti possono essere la speranza che ci apre a innumerevoli spiragli di possibilità. I giovani artisti attraverso la loro performance ci hanno insinuato il dubbio sull’essere digitale. Il Tempio dell’Incerto ha pavimento in mattoni traballanti, camminandoci ci sentiamo incerti, esitanti, qui il corpo e la mente vivono nel timore sperimentando la totale incertezza ma, restiamo in piedi e procediamo verso l’altare. Un ologramma del DNA è racchiuso in una raggiera simile all’Ostensorio, è un richiamo a Cristo e al ciclo continuo di nascita, morte e resurrezione. Cristo è colui che dubita ma ha fede e segue il suo destino. Cristo ha ed è passione, Credo quindi dubito, dubito perché Credo. Il dubbio viene mosso dall’interesse e dalla passione nella ricerca della verità la nostra personale e profonda verità, la nostra essenza. L’incerto è dentro di noi in ogni attimo della nostra vita e ci accompagna nelle scelte, decidiamo nell’incertezza e sempre dobbiamo dubitare solo così evitiamo i preconcetti, le frasi fatte e soprattutto l’omologazione. Solo il dubbio e l’incertezza ci permettono di cercare per avere risposte creative, per trovare dentro di noi quella forza che ci permette di vivere e non di sopravvivere. Solo così l’incertezza su cui poggiamo i piedi diventa una grande forza, l’energia di coloro che non si fermano alla prima risposta. E’ la forza di chi non crede e non vive per l’apparenza ma per qualcosa di più profondo, la nostra verità iscritta anch’essa nel DNA, perché ciascuno di noi ha la sua unica verità. “La palla che lanciai giocando nel parco non è ancora scesa al suolo” ci introduce al Tempio, questa frase di Dylan Thomas racchiude tutta la ricerca di una vita, il continuo cammino dall’infan-

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zia in poi affinché la palla/percorso continui il volo/pensiero e per fare ciò dobbiamo poggiare i piedi sull’Incerto. Nella sala della biblioteca il video documento “Risposte nascoste” perché, alle volte, le rispose sono

nascoste nei posti più impensabili. Arch-tè Incontri Trasversali Biblioteca Scienze Tecnologiche – Architettura Palazzo San Clemente Via Micheli 2 Firenze fino al 24 novembre.

Il Tempio dell’Incerto


Musica

Maestro

Bonsai atlantico

di Alessandro Michelucci Stavolta non parliamo di musica. O per meglio dire, lo facciamo indirettamente, perché ci addentriamo in una regione europea in modo da creare un terreno, una conoscenza di base che in futuro ci permetterà di parlare meglio della sua musica. La regione di cui vogliamo parlare è la Galizia. Questa scelta non è causale, ma è legata all’attualità. Nelle ultime settimane la cronaca ha dato ampio spazio alla Catalogna e ai suoi contrasti politici con il potere centrale spagnolo. Il rilievo mediatico del separatismo catalano ha stimolato un’associazione d’idee con quello basco, fenomeno comunque diverso perché segnato dalla violenza terroristica. È rimasta in ombra, al contrario, la terza regione autonoma spagnola (nacionalidad historica) abitata da una minoranza linguistica: la Galizia. Una minoranza consistente (circa 3.000.000 di persone), ma molto meno turbolenta di quelle suddette. Questa regione nordoccidentale della Spagna, grande come il Belgio, confina con il Portogallo, al quale è legata da una stretta affinità linguistica, dato che il galego è quasi uguale al portoghese. Si tratta di un rapporto simile a quello che esiste fra olandese e fiammingo. Il capoluogo, Santiago di Compostela, è la meta del celebre pellegrinaggio: secondo la tradizione cristiana, la città custodisce le spoglie dell’apostolo Giacomo il maggiore. In questa regione sono nati scrittori e artisti noti anche in Italia. Pensiamo alla cantante Agustina del Carmen Otero Iglesia, meglio nota come la Bella Otero; all’attore Fernando Rey, interprete di molti film italiani e americani; agli scrittori Alfredo Conde (Il grifone, Editori Riuniti, 1989), Camilo José Cela (Undici racconti sul calcio, Feltrinelli, 1990) e Manuel Rivas (I libri bruciano male, Feltrinelli, 2009). Quest’ultimo sottolinea che la Galizia non è una regione mediterranea, ma atlantica: El bonsai atlantico, come l’ha definita nel suo libro omomimo (1989). Il galego e lo spagnolo sono lingue neolatine, ma questa terra conserva tracce importanti

di un passato celtico: esiste una squadra di calcio che si chiama Celta Vigo, mentre in vari luoghi si trovano toponimi celtici. Lo stesso nome Galizia richiama termini come Galli e Galles. Il paesaggio, ricco di verde, ricorda spesso quello scozzese e irlandese. A queste caratteristiche geografiche si affiancano quelle culturali: basta leggere la bella antologia Cruceiros. Racconti dalla Galizia magica (Edizioni Estemporanee, 2007) per ritrovare l’inconfondibile immaginario celtico, ricco di atmosfere magiche e misteriose.

In campo musicale, accanto a cantanti come Carmen Penim e Uxía, spiccano numerosi musicisti legati all’eredità celtica. Anzitutto, il gruppo Milladoiro (nella foto), attivo dagli anni Settanta. Ma anche Carlos Núñez, Cristina Pato e Susana Seivane, che suonano la gaita, la tipica cornamusa galega. La comune eredità celtica è confermata dai Chieftains, alfieri del folk irlandese, che hanno reso omaggio alla Galizia con un intero CD (Santiago, 1996), mentre il Festival interceltico di Lorient le ha dedicato l’edizione del 2009.

L’Opera e il suo doppio di Valentino Moradei Gabbrielli La cura con la quale il pannello esplicativo, poneva l’accento sulla verosimiglianza della stampa fotografica all’opera pittorica, era tale che l’osservatore finiva per essere preoccupato del prossimo rientro della pala originale: “L’adorazione dei Magi” di Paolo Veronese conservata a Vicenza nella Chiesa di Santa Corona. L’opera è momentaneamente esposta alla National Gallery di Londra, per una importante mostra. L’esaltazione della tecnologia come autrice della riproduzione non lasciava tanto immaginare il livello qualitativo raggiunto a garanzia di un risarcimento congruo e opportuno per chi si trovava a visitare l’edificio monumentale, privato se pur momentaneamente di un suo gioiello, ma lasciava trasparire un tale compiacimento che presagiva un diminuito interesse nei confronti dell’opera e del suo autore che si lasciava intendere anche sostituibile con eguale effetto emo-

zionale ed estetico dei visitatori. L’insistere sulla matericità del colore e del supporto, reso dall’immagine fotografica, non faceva assolutamente rimpiangere l’assenza dell’originale, ma quasi ne esaltava la sua asetticità, lasciando immaginare una maggior resistenza al tempo. A mio avviso un intendere e un procedere in linea con l’odierna filosofia conservativa delle opere d’arte e dei monumenti, che troppo spesso sono negati alla collettività in ordine ad una volontà di protezione e tutela, sostenuta e supportata dalla tecnologia. Non più considerata e considerabile un valentissimo strumento d’indagine studio e conservazione, ma come potenziale concorrente e sostituto dell’originale, vedi i tantissimi esempi di disegni e stampe esposti in facsimile e non sempre dichiarati come tali in mostre temporanee, collezioni permanenti e musei.

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di John Stammer Nella metà degli anni ‘60 dal ribollente calderone della facoltà di Architettura di Firenze escono giovani architetti che iniziano un percorso di profondo ripensamento, quasi una rifondazione, del modo di essere architetto, della maniera di fare architettura e dello stesso concetto di progetto e di progettazione. Non un movimento culturale e neppure una scuola. Anzi una serie di piccoli e piccolissimi gruppi di architetti che, spesso in modo isolato, sperimentano nuove idee e nuovi territori, introducendo il pop (il popolare) nella progettazione, ma che non sedimentano queste esperienze in una corrente o in un filone di pensiero uniforme e univoco. Come scrive Pino Brugellis in uno dei saggi introduttivi al catalogo della mostra Utopie Radicali: “Il Movimento Radicale non è mai esistito. Sono esistiti piuttosto gli Archizoom, i Superstudio, i 9999, gli Ufo, gli Zziggurat e i solisti Remo Buti e Gianni Pettena.” Anzi alcuni di loro rifiutano anche l’etichetta di “radicali”, inventata da Germano Celant. Scrive Cristiano Toraldo di Francia:” i radicals è una definizione del 1973 che non ci piace per niente, tanto che quando uscì il numero di Casabella con tale definizione decidemmo la fine di Superstudio”. Una galassia di architetti, e di gruppi di architetti, che non si definiscono mai come un insieme ma come elementi separati. Ma che tutti insieme in modo disordinato, certe volte contraddditorio e spesso in competizione l’uno contro l’altro, esprimono un’energia di rinnovamento che è figlia sia del periodo storico sia della ribellione verso la consolidata “nomenclatura” architettonica allora dominante. Un agire in apparente contrasto anche con i professori della facoltà di Architettura di Firenze che annoverava fra gli altri Leonardo Ricci, Leonardo Savioli, Leonardo Benevolo, Umberto Eco, Giovanni Klaus Koenig, Gillo Dorfles e Ludovico Quaroni. Un contrasto apparente perchè alcuni di essi hanno lasciato tracce importanti nell’immaginazione creativa dei giovani laureati. La mostra esprime bene questo senso di confusione, di invenzione, di caos creativo e provocatorio già dalla prima sala dove sono esposte, al centro su un piccolo basamento, le opere colorate e fantastiche degli Archizoom e di Lapo Binazzi e del Superstudio. Questa sensazione continua poi anche nelle altre sale e in particolare nella sala dedicata agli Istogrammi di

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Il movimento radicale non è mai esistito

Architettura del Superstudio e nella sala dedicata al lavoro di Remo Buti con l’esposizione della collezione Piatti di Architettura. Una mostra che tenta con successo di costruire un filo conduttore per il visitatore, con una suddivisione per argomenti e per soggetti, e che restituisce alla fine una piacevole sensazione di non avere capito ancora tutto quello c’è da capire. Una sorta di necessità di rivedere, ripassare, ripensare una parte della storia dell’archi-

tettura di quegli anni che in Italia, dopo le esplosioni dei primi anni ‘70 con la partecipazione alle Biennali di Venezia e la mostra al MoMA di New York “ The new Italian Landscape” del 1972, era tornata nell’oblio. Non così fuori dall’Italia dove le opere, i disegni e gli scritti dei gruppi del movimento radicale hanno trovato larga eco e ospitalità in musei e centri studi sull’architettura. A Firenze solo nel 2008, grazie alla collaborazione con l’Assessora-


to all’Urbanistica, si svolge la prima mostra sugli Archizoom nei sotterranei dell’Istituto degli Innocenti. Una mostra in gran parte costruita all’estero, ed in particolare dal EPFL (Ecole Polytechnique Federale Lausanne), in collaborazione con l’Università di Parma, in cui, per la prima volta, furono esposti tutti i più importanti disegni di quella No-Stop City che è diventata uno dei capisaldi del dibattito architettonico contemporaneo. Oggi con questa mostra nei locali della Strozzina aperta fino al 21 gennaio 2018 (ancora una volta in un sotterraneo di un palazzo storico di Firenze) si completa un ciclo di iniziative ( il Maxxi ha dedicato una grande mostra nel 2016 al Superstudio) che riportano all’attenzione nazionale il lavoro di architetti che hanno contributo a cambiare il modo di pensare e di fare architettura e hanno anche rinnovato il design italiano. Dalle opere esposte nella mostra si può comprendere bene come dalle suggestioni di quel periodo siano poi nate opere di architettura contemporanea realizzate o progettate. Come Brunelleschi inventa la ritmica perfetta del loggiato degli Innocenti avendo bene in mente gli archi a tutto tondo disegnati nel paramento esterno del Battistero o nella facciata di San Miniato a Monte, allo stesso modo come non riconoscere nelle nuove porte del Museo degli Innocenti progettate da Carlo Terpolilli reminescenze della discoteca Mach 2 del Superstudio? E come non mettere in relazione la progettata ( e mai realizzata) nuova stazione dell’Alta Velocità di Zevi/ Breschi (il cosidetto squalo) con il fotomontaggio Urban Belvedere degli Archizoom? E infine come non vedere nelle strutture di edilizia residenziale pubblica costruite a Pistoia le idee espresse dagli Zziggurat nella città lineare per Santa Croce. Idee e suggestione determinate anche dalla assoluta variabilità della scala del disegno dove il micro e il macro si intersecano e si contaminano. Una mostra che segna un punto di non ritorno nella costruzione della narrazione storica su quello che non si può chiamare “movimento radicale italiano/fiorentino”. Perchè come dice Lapo Binazzi “quello che, all’interno della mostra, meglio riesce a rappresentare questo periodo è il video nella prima sala dove le opere di tutti noi sono cosi mischiate e interconnesse che quasi non si distinguono le une dalle altre e così nessuno di noi potrà mai dire che la sua è migliore delle altre”.

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di Danilo Cecchi Quella stagione della fotografia che attraversa tutta la seconda metà dell’Ottocento ed i primi del Novecento, definita come “pictorialism”, e liquidata forse troppo in fretta come il disperato tentativo di elevare la fotografia e di farla accettare come forma d’arte, semplicemente imitando i generi artistici come il disegno e la pittura, coinvolge tardivamente anche l’Italia. Il “pittorialismo” italiano conta numerosi esponenti di primo piano, come Luigi Cavadini, Ludovico Pachò, Cesare Schiaparelli, Emilio Sommariva ed altri, fino a Domenico Riccardo Peretti-Griva, e trova la sua consacrazione nella rivista “La fotografia artistica”, pubblicata a Torino da Annibale Cominetti fra il 1904 ed il 1917. Fra i “pittorialisti” italiani un posto di rilievo viene occupato dal torinese Guido Rey (1861-1935), un personaggio eclettico che ha lasciato il segno del suo impegno come fotografo dilettante di grande successo e notorietà. Erede di una agiata famiglia di commercianti, imparentato con il ministro Quintino Sella, marito di sua zia Clotilde e fondatore del Club Alpino Italiano, Guido Rey comincia a seguire lo zio nelle sue ascensioni, appassionandosi a questa attività, nonostante la tragica morte di uno dei suoi fratelli durante una scalata, fino ad abbandonare l’attività familiare per dedicarsi alla montagna, con una predilezione speciale per il Cervino. E per la fotografia, affiliandosi alla neonata Società Fotografica Subalpina. Diversamente dal suo contemporaneo Vittorio Sella (1859-1943), altro nipote di Quintino, che si dedica esclusivamente e con ottimi risultati alla fotografia di montagna, Guido Rey sceglie un genere fotografico del tutto opposto, riservando alla montagna il suo estro di scalatore, letterato e narratore. Il tipo di fotografia praticato da Guido Rey consiste nella più classica fra le applicazione del “pittorialismo”, la ricostruzione e la riproduzione di scene in costume ispirate alla pittura tradizionale ed alle ambientazioni storiche. Ricostruite in maniera accurata e con grande attenzione ai dettagli, in interni oppure all’aperto, le scene fotografate da Guido Rey non rappresentano in maniera ampollosa ed esaltata i momenti particolari o determinanti della storia, ma raccontano in maniera discreta scenette, più o meno attendibili, della vita quotidiana relativa all’epoca prescelta. Con le sue opere Guido Rey si distingue in quelli che all’epoca erano i grandi appuntamenti dei fotografi italiani, l’Esposizione Mondiale di Milano del 1894, la Prima Esposizione Nazionale di Torino del 1898, la Seconda di Firenze del 1899, fino all’Esposizione Internazionale delle Arti Decorative di Torino del 1902, all’interno della quale viene allestito il padiglione dell’E-

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Guido Rey, alpinista e pittorialista

sposizione Internazionale di Fotografia Artistica. I riconoscimenti che raccoglie in queste manifestazioni lo pongono in una dimensione sovranazionale, tanto che Guido Rey risulta l’unico fotografo italiano presente in ambedue gli Annuari “L’Epreuve Photographique” del 1904 e del 1905. Se le sue scenette in costume secentesco ispirate alla pittura olandese e quelle in costume settecentesco, realizzate con grande attenzione alla illuminazione morbida ed alla resa tonale, possono far sorridere e possono essere facilmente accusate di disimpegno nei confronti della realtà sociale e di strizzare l’occhio al cattivo gusto imperante, bisogna

riconoscere che all’interno della produzione dell’epoca rappresentano forse il massimo risultato raggiungibile. Facendo un passo ancora più indietro nel tempo, Guido Rey si diletta di realizzare scene di ambiente greco o romano, ambientando ed abbigliando i suoi modelli e le sue modelle ispirandosi agli affreschi, ai mosaici ed alla statuaria dell’epoca. Rimanendo sempre in una dimensione leggermente poetica ed irreale, senza scivolare nella descrizione diretta ed esplicita delle nudità, come i suoi contemporanei Von Gloeden e Von Pluschow, che del mondo greco e romano apprezzavano tutt’altri valori estetici


a cura di Aldo Frangioni Per il progetto Out of the box. Arte - impresa – territorio è stata presentata a Villa Pacchiani a Santa Croce sull’Arno “Stille”, una mostra di Ornaghi & Prestinari a cura di Ilaria Mariotti. L’esposizione nasce da un percorso di relazione tra gli artisti e il Consorzio Depuratore di Santa Croce sull’Arno, nell’ambito di un progetto più ampio, iniziato nel 2013, fortemente sostenuto dal Comune di Santa Croce sull’Arno e da Galleria Continua e Associazione Arte Continua. Per la quarta volta il progetto è stato premiato dal Bando regionale Toscanaincontemporanea. Tra i più interessanti rappresentanti della giovane generazione di artisti italiani, Valentina Ornaghi (1986) e Claudio Prestinari (1984). La mostra presenta un gruppo di opere inedite realizzate appositamente per il progetto e in relazione al percorso di incontro e scambio con il Consorzio Depuratore. Il tema dell’acqua, della sua depurazione e re-immissione in un circolo vitale, la sostenibilità delle azioni nel mondo contemporaneo, l’idea di trasformazione, la vita degli oggetti e dei materiali, l’identità dei nostri territori e la riflessione sui processi di trasformazione in atto e ultimo ma non meno importante, l’incontro con tecnologie avanzate di depurazione sono le tematiche sulle quali Ornaghi & Prestinari riflettono in “Stille” riflette su concetti associati all’idea di economia circolare in relazione all’ecologia, sul processo circolare come l’utopia della macchina a moto perpetuo. Dall’acqua e dalla sua bonifica vengono estratti materiali che assumono la conformazione di polveri e grani scuri. Il trattamento delle acque reflue si configura, per gli artisti, come un costante movimento di raffinazione all’interno di condotti e acquai circolari. Un sistema che tiene conto sia del benessere economico del territorio che di quello fisico dei cittadini e dell’ambiente. “Le opere realizzate per la mostra a Villa Pacchiani sono da intendere come un insieme di suggestioni legate a movimento, circolarità, aspetti estetici e caratteristiche fisiche, materiali incontrati durante il percorso”, chiosa Ilaria Mariotti. Sculture che si configurano come vasi e bacini: è il caso di Paolina, dove la celebre opera di Antonio Canova (Paolina Bonaparte come Venere vincitrice), viene rielaborata e realizzata in ceramica per diventare una vasca per piante acquatiche. Materiali fragili e domestici, come la ceramica vengono messi a colloquio con il metallo (ferro, acciaio), propri di una produzione industriale ma egualmente figli di processi di lavorazione dove il fuoco, la terra sono indispensabili. A questi materiali si associano i “prodotti” del

L’arte e l’economia circolare di Ornaghi & Prestinari ciclo di lavorazione del Depuratore e degli altri impianti industriali ad esso collegati e che chiudono il ciclo di bonifica e inertizzazione dei fanghi e dei materiali di risulta che vengono poi reintrodotti nel sistema come materiali per l’edilizia o si rinnovano nel circuito del trattamento del pellame: l’acqua bonificata utilizzata per la realizzazione degli acquerelli che riproducono schemi di comportamento dell’acqua quando incontra un ostacolo e flussi. Oppure gli inerti che, scarti di un

processo di lavorazione, acquisiscono nuova vita e si riconfigurano esteticamente nelle sculture che incrociano motivi geometrici a motivi floreali. Il movimento circolare e continuo, l’operosità delle macchine e degli uomini sembra risuonare anche in quel “mocio” fatto di ritagli di pelle appoggiato alla parete, accanto al secchio, così come, utopicamente, un’altra scultura fatta di tubi presente in mostra, garantisce il ricircolo continuo del getto d’acqua.

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di Francesco Cusa Film importante, opera monumentale che affronta il tema del disagio della contemporaneità in una chiave che oseremmo definire “sinfonica”. Si comincia con una dichiarazione di intenti: il direttore del museo (protagonista assoluto di questa Odissea) pone un quesito alla sua intervistatrice: “la sua borsetta, se la esponessimo al museo, sarebbe considerata opera d’arte?”. Con ciò Christian mette in chiaro la sua visione estetica dell’arte “come insieme di pratiche d’uso”, rievocando il famoso “giochetto” dello scolabottiglie di Duchamp. Si prosegue col maldestro tentativo di rimozione di una statua equestre che finisce con lo spezzarsi in più parti. Eccola l’arte contemporanea che non parla più ai cuori pulsanti delle vite, che vive nel paradosso settario degli specialisti, nella desolazione degli spazi vuoti in cui lo sventurato visitatore non può neanche fare una fotografia, e che muore nelle prigioni delle conferenze autocelebrative, ove i colpi di tosse, i cellulari che squillano, e le urla dei pazienti affetti dalla sindrome di Tourette, rappresentano l’unico genuino segno di “verità espressiva”. Eccola l’arte per collezionisti, secondo la devastante critica alla critica, vera e propria cancrena del nostro tempo, sostituto imbarazzante di ogni fenomenologia d’artista. Il tema dell’arte contemporanea è in realtà la rampa di lancio dei missili che Östlund sgancia per colpire l’opulenza delle élite di potere, e il regista opera proprio a partire dalla scissione in cui versa la contemporaneità dell’arte per estendere tale nevrosi alle storture della nostra società occidentale, sempre più in mano alle élite sterili, alle paradossali (in)competenze. In questo senso è emblematico l’epilogo della scena di sesso tra Richard e la sua intervistatrice, in cui Il preservativo, il serbatoio della deiezione, del contenuto occulto, del rimosso, diventa tragicomico e grottesco oggetto del contendere, trofeo occulto bramato della Donna-Pattumiera (Anne tiene in grembo il cestino), portato osceno della plastificazione, dell’eros industriale. Questo è un vero e proprio atto di interiorizzazione dell’economia libidica. “The Square” è un film denso di simbologie, di infiniti rimandi, in cui echeggiano i fantasmi di Bunuel, Sokurov, Kubrik, Vinterberg, è la mostra-manifesto di un’epoca: tutto ciò che sta al di fuori di “The Squa-

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The square re”, ovvero al quadrato di fiducia e amore entro il quale tutto abbiamo gli stessi diritti e doveri, è territorio dell’Altro, del barbaro, dell’irrazionale. In questo senso, forse, “The Square” è Schengen, è la cinta muraria e virtuale di valori ed egemonie condivise. Ma per fortuna, i mucchi di ghiaia dell’opera dell’artista concettuale, vengono distrattamente rimossi da un inserviente, e qui è lo stesso Richard (evidentemente sulla strada di una progressiva “redenzione”) a porre rimedio con un espediente (come non ripensare allo straordinario Sordi di “Le Vacanze Intelligenti”?). Dunque è nei “tic” che Ostlund individua un percorso di catarsi, in tutto ciò che “The Square” non comprende e ingloba. Il discorso attorno al sesso e all’eccitazione del potere, il video della bambina mendicante che esplode e la conseguente viralità, il segno che il Media è in mano ai pubblicitari, alle marchette del marketing dei cosiddetti “creativi”, sono peculiarità da esorcizzare tramite gesti piccoli e grandi di “volontà di potenza”, in un mondo dove i fi-

gli, le bambine non vogliono più dipingere, mentre le scimmie di casa sembrano avere una vera passione per il disegno. Oleg, la scimmia brutale, l’attore che irrompe nel Reale prekantiano della cena di gala, è follia privata di ogni umanità; dunque occorre che egli stupri affinché possa scatenarsi il delirio dell’Orda borghese, il sacrificio del Capro Espiatorio. Così Richard, in questo suo viaggio iniziatico, è costretto a ricercare la via del perdono nella spazzatura, a sperimentare nella conferenza riparatoria con la stampa l’impossibilità di una dialettica tra diritto alla libertà di espressione e senso del limite, della censura. Al museo, il sottofondo costante di rumori di scavi, il rombo sonoro, in casa, i lamenti del bambino che pretende delle sacrosante scuse, sono segni dell’Osceno Vibrante, “lamella” di Lacan, organo parziale di Freud, insistenza cieca e indistruttibile della “pulsione di morte”, dell’arcano organo privo di corpo, della “Cosa”. Il mondo irrazionale pressa e preme tutto intorno alla cornice di “The Square”, fagocita i valori e le icone del nostro mondo rigido, la Natura pressa da ogni dove ed ha il volto dell’Altro. Il gesto di Richard-padre, la volontà di chiedere perdono non può essere relegato alla comodità di un video inviato dal telefonino. Occorre agire, tentare, adoprarsi, e non importa se poi alla fine ogni cosa sarà vana; sarà laforza della generosità e della capacità di chiedere perdono la maiuetica per le future generazioni. Lo sguardo delle bambine nel sedile posteriore dell’auto rivela l’infinito, incommensurabile patrimonio dell’essere, la perla più preziosa che sfugge ad ogni mercificazione, il senso distaccato del futuro.


di Claudio Cosma Mi è stato regalato questo curioso disco dipinto, l’artista si chiama Gordon Faggetter ed è stato, nel periodo d’oro del Piper, batterista di Patty Pravo, quindi stupisce la classicità dello stile là dove ci si aspetterebbe qualcosa di psichedelico. Penso si tratti, come per i militari, che appesa la sciabola al chiodo, si dedicano alle rose del giardino, di un desiderio di pace sopraggiunto col tempo. Gordon, nella sua carriera precedente, quella di musicista, quindi sempre un artista, rappresentava un modo di vivere assolutamente e invidiabilmente libero, siamo alla fine degli anni ‘60. Io in quegli anni frequentavo la Versilia ed al Piper di Viareggio prima e poi alla Bussola e da Oliviero Patty era di casa e faceva le sue serate entusiasmanti con l’aria di una principessa più francese che italiana, bella come Brigitte Bardot e tutti noi ragazzini eravamo innamorati di lei e della sua voce. Mi ricordo da Oliviero, locale che non esiste più da tempo, un’estate, per tutta l’estate era lì tutte le sere, per la stagione immagino si dica, e mi era presa la fissa e tutte le sere sono andato a sentirla, c’era anche Gordon Faggetter che in quel periodo oltre che batterista era anche suo marito; alcune sere in mezzo alla settimana c’era pochissima gente e lei mi aveva notato e mi sorrideva e qualche volta si sedeva con me e rimaneva esterrefatta che bevessi frullati di pesca. Aveva una infinità di bracciali d’argento che le lasciavano degli anelli neri sulla pelle, cosa che mi sembrava straordinaria. Non divaghiamo. Quando ricevetti quel disco era ospite in una casa vicino Firenze, in campagna e teneva una lezione di pittura, per scherzo, ad una altra invitata, disponeva di una tavolozza ricchissima e di una quantità infinita di tubetti e bottigline, aveva una tecnica antica, usava le velature e stava per l’appunto dipingendo un cielo, all’inglese come quello del vinile. Aveva regalato una pila di dischi al nostro ospite, che visto il mio interesse, mi disse di sceglierne uno che è poi quello dell’immagine. Una pittura atmosferica e di paesaggio che sopra ho definito inglese, ma ripensandoci ricorda quella francese di Claude Lorrain e Nicolas Poussin, naturalmente senza esagerare. Rimane il fatto che l’accostamento di una pittura di paesaggio e di un disco a 33 giri è “bello come l’incontro fortuito su di un tavolo anatomico di una macchina da cucire con un ombrello”, come ebbe a dire per altre questioni Isadore Lucien Ducasse, in odore di surrealismo.

Paesaggio rotante

Gordon Faggetter Patty Pravo Nicolas Poussin 17 27 NOVEMBRE 2017


di Elisa Zuri Questa domanda, che cattura l’attenzione di chiunque nel tempo di Instagram e del selfie selvaggio, è stata al centro del dibattito che ha portato gli organizzatori del più importante premio internazionale di fotogiornalismo, il World Press Photo, alla stesura di un nuovo codice etico di partecipazione al concorso. Il World Press Photo ogni anno porta le fotografie vincitrici dalla sede di Amsterdam in mostra in 40 paesi, all’attenzione di oltre un milione di visitatori. Negli ultimi anni la giuria si è interrogata sull’etica delle immagini proposte e sulle linee guida necessarie per una riproduzione autentica della realtà. Una fotografia necessariamente ne mostra solo una visione parziale, che può essere modificata con aggiunte, tagli o enfatizzazioni, se non in alcuni casi addirittura riprodotta per uno scatto ad effetto. E’ il caso del reportage vincitore dell’edizione del 2015, per il quale il fotografo Giovanni Troilo, con l’obiettivo di mostrare il lato oscuro della cittadina di Charleroi in Belgio, ha ricreato delle scene da fotografare, una coppia di amanti in macchina, dei giochi erotici di gruppo, una donna nuda in gabbia. Pena l’ira del sindaco ed il ritiro del premio. Il codice etico stilato nel 2016 dalla giuria del concorso è ora chiaro: le foto non possono essere modificate e la realtà non può essere messa in posa. Eppure, guardando le foto straordinarie dell’edizione 2017, ospitate in questi giorni a Lucca, sembra incredibile che i fotografi siano riusciti a cogliere degli attimi tanto significativi in situazioni estreme di conflitto o nei passaggi più determinanti della storia dell’ultimo anno: dai cortei per la morte di Fidel Castro, all’assassinio dell’ambasciatore russo in una galleria d’arte ad Ankara per mano di un poliziotto turco fuori servizio; dagli istanti di tensione dei campioni olimpici durante le gare a meravigliosi capolavori naturali; dagli esodi per mare dei profughi siriani alle immagini strazianti dell’assedio iracheno di Mosul, baluardo dell’Isis. E’ difficile immaginare la presenza del fotografo davanti a ciò a cui si assiste. Viene da chiedersi come si possa restare lucidi di fronte all’orrore e all’emozione, se a rendere possibile la straordinarietà di questi scatti è l’ambizione estrema per il risultato, la necessità della testimonianza o l’adrenalina per il prender parte a momenti di vita pulsante. Certo è che in queste foto di vita ce n’è tantissima. C’è la miseria della realtà, ci sono le atrocità della guerra e ci sono i racconti dei civili che vivono e muoiono per decisioni prese altrove. C’è la gioia del gioco, la forza della condivisio-

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La realtà messa in posa resta reale?

ne, la dignità di chi esegue un compito come può, la tenerezza di chi cerca di proteggere chi ama, la normalità che assume forme di sopravvivenza e l’eccezionalità del disagio che rivela tratti di bellezza disarmante. C’è il bisogno di essere onesti per raccontare delle storie. Ed è un bisogno benedetto, per-

ché quelle storie, all’uscita dalla mostra, si portano a casa e non si è più come prima. Penso che questa sia la grandezza del World Press Photo: strappare alla realtà dei momenti di vita più veri di molte delle percezioni distratte quotidiane, che ci insegnino a riconoscere la verità e a sentirla più forte.


di M. Cristina François Negli anni venti del ‘500 com’era la Chiesa di S.Felicita? Quale era la sua gestione religioso-amministrativa? Quale il contesto in cui Pontormo dipinse per il suo committente, il Conte Capponi, la decorazione della sua Cappella familiare? Delle tre personalità citate nel titolo, quella che per prima orientò la conduzione dei lavori del pittore in S.Felicita fu la Madre Badessa il cui ruolo decisionale era assoluto: “Era tale dignità a vita fino dalla primitiva sua istituzione” [Ms.728 p.105]. Dall’anno 1124 “Era di pertinenza della Badessa la Parrocchia, e Cura delle Anime” sia di S.Felicita che della “Chiesa manuale” di S. M. Maddalena, l’elezione dei Sacerdoti e Cappellani, nonché la loro istituzione e conferma [p.106]. Inoltre tutti “gli atti riguardanti la giurisdizione parrocchiale venivano eseguiti in nome della Badessa” [p.108]. Dal 1480 competeva a lei l’elezione del “Priore e Governatore del Monastero […] come pure la conferma ed istituzione dei Sacerdoti nominati dai rispettivi Patroni delle Cappelle [il Conte Capponi, in questo caso]” [p.111]. Fino al 1573 spettò a lei anche la vestizione delle nobili fanciulle che, in seguito, passerà al Priore. Aveva pure “la cura degli Oblati” dei quali gestiva le donazioni ricevute. Fra i suoi doveri “fu l’amministrazione e conservazione dei Beni del Monastero” [p.113], ma non risulta che rendesse conto della propria amministrazione [p.115]. La Chiesa le apparteneva tanto quanto il Monastero. Dal suo volere dipendevano i lavori sia architettonici che artistici: era in suo potere accettare o respingere un’opera d’arte. Ci chiediamo, a questo punto, se la sua onnipotenza si estendesse all’iconografia, come era avvenuto in S.Marco tra S.Antonino e l’Angelico. La Badessa era la sola religiosa autorizzata a lasciare la clausura per entrare in contatto con uomini: il Padre confessore, il Predicatore, i Granduchi, i nobili Patroni, il cerusico, la manovalanza della Monastero (fattori e lavoratori in genere) e della Chiesa (artisti, operai, sacristi, ostiari). Pontormo ebbe a che fare con due Madri Badesse: Suor Costanza di Piero Gualterotti, eletta il 22 giugno 1521 e morta il 20 gennaio del 1527, e Suor Maria di Antonio De’ Gondi che morì nel 1539 [pp.137-138]. Non citiamo i nomi dei Priori perché dipende-

La badessa, il conte, il pittore vano interamente dalla Badessa. Lo stesso avveniva per il Conte Capponi il quale, nonostante la sua funzione di Patrono della propria Cappella e di committente, dipendeva anch’egli dalla potentissima Madre che concedeva oppure negava le autorizzazioni. Nelle Carte Gondi (Fondo Mannelli-Galilei-Riccardi nell’ASF, e nel Fondo della Penns University - USA) sono ancora tutti da indagare i documenti su Suor Maria, la quale sembra fosse donna colta e studiosa delle Sacre Scritture. Se prendiamo l’esempio di variazione iconografica della “nube” dipinta da Pontormo in alto a sinistra della “Pietà di S.Felicita” - al posto della progettata scala per deporre Cristo dalla Croce per quanto detto finora l’artista dové concordare questo ripensamento con la Madre Badessa [cfr. “Cultura Commestibile” 223 e 224]. Nel Nuovo Testamento (pericope di Matteo 17, 5) la “nube” è presenza di Dio Padre: “una nuvola luminosa li avvolse con la sua ombra. Ed ecco una voce che diceva: Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto. Ascoltatelo”. Nel Vangelo di Luca (1,35) l’“ombra” di Dio fa dire

all’Arcangelo Gabriele rivolto a Maria: “Lo Spirito Santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra la potenza dell’Altissimo”. Nel Vecchio Testamento la nube raffigura la Dimora di Dio (la Shekinah) in seno al suo popolo. Tornando al Pittore, al Conte e alla Badessa, il contratto stipulato, mai reperito, dovette sicuramente in origine trovarsi nell’Archivio del Monastero, custodito in una cassa murata del quartiere della Madre Superiora, dove si conservavano tutte le carte. Il contesto in cui lavorò l’artista fu una S.Felicita molto diversa dall’attuale: la semplice facciata a capanna (come appare nella Pianta del Buonsignori, 1584), preceduta da un piccolo cimitero, immetteva in un’aula assai più stretta di quella odierna, ma egualmente profonda; la scansione degli altari laterali era irregolare, si affollavano altarini ed immagini sacre anche sui pilastri; sparse emergenze gotiche e rinascimentali si alternavano a monumenti funerari ingombranti come quello dei Gabbrielli che in alto, nella misura di tre braccia, adombrava la Cappella Capponi; ovunque e accanto all’altare di famiglia erano murati stemmi nobiliari ed epigrafi; intere campiture ad affresco (v. la Cappella Nerli accanto alla Capponi); nel fianco sud della Chiesa cinque cappelle erano scandite da colonne binate (v. Ms. 720), fronteggiate da sei cappelle sul lato opposto ritmate dai pilastroni gotici poggiati alla parete; in controfacciata - sopra le Cappelle Capponi e Canigiani - stava il ‘Coro di fondo’ delle Monache; nel transetto destro il Coro gotico o “Coro antico” dove, non viste, le Corali cantavano dietro grate “di legno, schife brutte [ch]e minacciavano ruina” [Ms.720, c.176v.]. Gli alti e stretti finestroni gotici del presbiterio (ancor oggi visibili dall’“Orto di dietro”), e quelli della parete della Chiesa a settentrione, non offrivano luce bastante; lumini, candele e lampane oscillavano nella penombra. Dai chiusini marmorei del pavimento filtravano odori di morte, miasmi che cesseranno solo con l’abolizione lorenese delle sepolture in Chiesa. Qui, come per un impossibile miracolo, Pontormo, creò ai lati della nuova finestra l’Annunciazione, opera luminosa e travolgente di sacra poesia, dove lo Spirito Santo prende corpo come ‘Vento di Dio’ (la Ruah) tra le vesti rigonfie di luce dell’Arcangelo e l’“Ombra” leggera disegnata dal corpo della Vergine.

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di Andrea Ponsi Beatnik Museum

“The Russian may have their Sputnik, but we have our beatniks here in North Beach”. Herb Caen, il giornalista del San Francisco Chronicle, dopo avere parlato con Bob Kaufmann che aveva appena finito di recitare le sue poesie beat, accompagnandosi al suono del bongo, su Adler alley, proprio accanto a Citylight Bookstore.” Questo è quanto si afferma, per spiegare l’origine della parola, su un’ insegna all’entrata del Beatnik Museum, uno strano connubio tra negozio, libreria e street museum, aperto alcuni anni fa lungo Broadway, a North Beach. Ero entrato con circospezione vedendo tutte quelle T-shirt appese sul muro o i gadgets sul bancone. Mi son detto: entro ed esco, dopo un minuto, certamente con l’amaro in bocca. Sono entrato. Dopo essermi aggirato tra foto e locandine storiche, copie di manoscritti, cimeli e memorie, mi son messo a guardare un film su Kerouac. Nel video Allen Ginsberg recitava i “Vagabondi del Dharma” (Dharma Bums). Sono stato li’, come ipnotizzato, forse un’ora, forse due, forse dieci ore, ascoltando quella voce sublime leggere uno dei testi più poetici mai scritti. Citylights Bookshop &Publishers 1. Mi avvicino al tempio (della letteratura): City

Lights Booksellers &Publishers. Sono ancora oltre la strada. Il tempio è là, una casa orizzontale, con una lunga vetrina nera e gialla, in discesa su Columbus Avenue . Occorre attraversare questo incrocio plurimo stando molto attenti : “NO U-turn”, “freeway”, “Broadway”, “Stop”, luci verdi, gialle, rosse. Mi trovo proprio sul crinale di una collinetta, un sottile spartiacque tra North Beach e Chinatown. E’ verde, passo. Entro o guardo prima la vetrina? Penso: sarà ancora lì, al piano di sopra, nel suo ufficio, Ferlinghetti? I libri oltre il vetro dicono di Zen, Ginsberg, Samuel Johnson, Jack Hirshman, Zapata, Duke Ellington. Cento copertine disposte su un piano di legno verticale creano un vetrina-scudo, un vero muro di difesa contro la volgarità che assedia dal di fuori. 2. Ho varcato la sacra soglia. La prima cosa che ho notato, l’ho sentita. Una musichetta dolce, un jazz che da’ sul blues. Mi sono subito seduto su una sedia solitaria proprio in mezzo agli scaffali, sostituiti con altri più nuovi, da quando ci venivo nei lontani anni 80. Appeso alla parete c’è il segnale con il nome in italiano di una strada: “via (sic) Ferlinghetti”. Non so se c’è la strada ma il cartello è lì già pronto. Proprio accanto a Citylight c’è “Kerouac alley”, questo davvero.

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Mappe di percezione

San Francisco

Che fare? Guardare i libri o solo passeggiare per le stanze e respirare l’ aria di queste carte umane? Respirare. Salgo al piano di sopra. Un cartello con una freccia indica “Poetry-Beat generation”. Un altro dice: “San Francisco Left Coast”; un altro ancora “ Books not bombs”. Mi siedo e penso. Se i libri fossero mattoni si potrebbe creare un’architettura di bellezza, di libertà, idee, poesia. Ma i libri sono mattoni! Che ognuno usa per costruire la propria identità, per erigere le stanze della propria esistenza, per creare ponti, porte, finestre. Certo non tutti i mattoni sono buoni o resistenti, ma questa è un’altra storia. Salgo nell’eremo. Mi sono seduto sulla “poltrona del poeta”, così recita il cartello lì vicino. E’ una sedia a dondolo, proprio accanto a una finestra (ma dove è Ferlinghetti?). Sulla sinistra ci sono gli scaffali con i libri; qui accanto, alla mia destra, la finestra. Oltre i vetri, su un muro di mattoni, vedo una scala antincendio arrugginita, poi la skyline del downtown di San Francisco a non più di mezzo miglio. Arrivano i rumori della strada: sibili dell’autobus, voci cinesi. Mi dondolo sulla “sedia del poeta”. Se venisse Ferlinghetti, che farei? Un saluto? Una domanda? O me ne starei lì, in silenzio, a leggere qualcosa? E’ un bel posto questa “sedia del poeta”, con accanto la finestra, le voci della strada, i libri qui vicino. 3. Lo scrittore Ferlinghetti ha creato Citylights, il santuario della letteratura. L’architetto William Stout ha creato un santuario analogo: una libreria dedicata all’architettura. I due luoghi sono vicini, pochi isolati uno dall’altro. Sono vicine le menti, le aspirazioni dei due artisti-librai. Sono vicine le espressioni, le immagini, i ritmi nascosti dentro i rispettivi libri delle due librerie. Come in uno specchio l’ architettura e la letteratura si guardano a vicenda riconoscendosi per quanto differiscono e per quanto sono ana-

loghe. Sanno che per ambedue è importante l’emozione, la struttura, la memoria del passato, il coraggio del presente, la visione. Sanno che ognuna cerca qualcosa che appartiene principalmente all’altra: l’architettura del racconto, il racconto dell’architettura. 4. Seduto sulla “sedia (a dondolo) del poeta” a ogni oscillazione il corpo si ricarica di poesia, come un piccolo orologio, un pupazzetto a molla, le boccate d’ossigeno per un sommozzatore. Una città può darci un’emozione, ispirare un senso di poesia. Ma anche una semplice sedia sembra poterlo fare. Provare per credere. Venite a San Francisco, entrate a Citylights Bookstore, salite al piano sopra, sedetevi sulla “sedia del poeta”. Cosa sentite? Cosa vi viene indispensabile di dire? Cosa non dire? Provate, basta solo dondolarsi, senza dir niente, senza scrivere. 5. Mi sono riproposto di descrivere la città usando solo le parole. Niente disegni o fotografie. Ma cosa è la città? Sono i suoi spazi, infimi e infiniti, unici e ripetuti mille volte. E’ il suo tempo, quello che dura un secondo e quello di cui non si può dire la fine. E’ la sua memoria e la memoria di chi la vive. Il passato e il momento presente. La città sono i suoi odori, suoni, rumori, i suoi divieti, i suoi peccati, i doveri, le opportunità. Essendo tutto questo e ancora di più, ho cercato di selezionare alcuni punti di vista da cui focalizzare lo sguardo: i confini restano vaghi, ma alcune parole possono aiutare a definirli: materia, sensazioni, spazio, architettura, percorsi, memoria, relazioni, immaginazione. 6. Quando Ferlinghetti morirà sarà la fine della Beat Generation. Dalla “sedia del poeta” vedo una fotografia con la faccia sfacciata di Corso, un’altra con Kerouac e Neal Cassidy. Penso a Allen Ginsberg, a Gary Snyder, a Bob Kaufmann. Quando Lawrence Ferlinghetti morirà San Francisco sarà un’altra città; basterà solo un secondo, il secondo dell’ultimo respiro.


di Tommaso Rossi In un arguto libriccino dal titolo ‘Contro l’Urbanistica’, l’antropologo della cultura Franco La Cecla, così definisce la condizione attuale della disciplina urbanistica, ‘C’è in questa caduta di strumenti, in questa povertà intellettuale, la fine di una disciplina che si è arroccata dietro a un tecnicismo miope che non ha mai voluto diventare una scienza umana.’ Pur non aderendo al tono quasi liquidatorio di La Cecla, è facilmente riscontrabile come oggi la sola scienza dell’urbanistica, non sia più in grado di promuovere pianificazioni generali, legate alle spesso contraddittorie trasformazioni spaziali delle città. Cosi come sembra mostrare tutta la propria parzialità, quel processo introduttivo di registrazione di idee e proposte, come evidenziato anche dall’ultima esperienza fiesolana, che spesso va trasformandosi in una sorta di inadeguato quaderno di piccole e grandi doglianze, che poco hanno a che fare con una consapevole governance di copianificazione e ambientalizzazione di istanze e interessi. Quindi in questo percorso di definizione del nuovo Poc di Fiesole e della revisione del suo Piano Strutturale, che ha visto la pubblicazione di un bando per l’individuazione di specifiche figure professionali, l’illustre fantasma, il Godot di turno, pare assumere proprio le sembianze dell’attuale Amministrazione di Fiesole. Un silenzio assordante, che manifesta l’assenza di una puntuale comprensione e reinterpretazione creativa dell’attuale realtà storica della nostra Città, delegando questo lavoro di esegesi critica e risemantizzazione degli spazi pubblici e privati, al solo momento burocratico della

Giggino in America di Sergio Favilli -“Confermo supremazia States” stop “ Loro hanno 50 stelle e noi solo 5” stop “Almeno 20 stelle obbiettivo prossima legislatura” stop “Anche Cina ha 5 stelle” stop “Preparare protesta ufficiale da inviare ad ambasciatore cinese” stop” . Con questo sintetico telegramma il nostro Giggino De Meio ha avvisato il direttivo grillonzo che era arrivato a Washington, rapida doccia, fredda, in topaia a 2 stelle, elargizione del risparmio ottenuto ad agente CIA travestito da clochard, rapida corsa verso la Casa Bianca. Appena sceso dal taxi, meravigliato dell’assenza di una adeguata accoglienza, il nostro Giggino si faceva quattro passi alla ricerca del citofono e, non avendolo individuato, con

Fiesole aspetta Godot prescrittività urbanistica e al rinnovo degli adeguamenti attuativi. Affiora così una voragine progettuale rispetto ai molti temi irrisolti del nostro territorio, penso all’area dell’ex ospedale Sant’Antonino, alle previsioni non attuate e alla riallocazione delle quantità di superficie previste, alla quasi forzosa conurbazione dei territori limitrofi a Firenze, e dei relativi servizi da ripensare alla luce di questo, pare, inarrestabile processo, la cura del paesaggio che passa anche dalla riattivazione delle molte convenzioni stipulate con i privati, per la manutenzione delle aree di loro pertinenza. Però quando si smarrisce la dimensione epistemologica dell’indagine che si conduce, il rischio è quello di procedere con una pianificazione separata, che tenga solo conto delle possibili trasformazioni, più o meno leggere, affidate alla contrattazione caso per caso, venendo meno a quella coessenzialità che permette di connettere le singole modificazioni o conversioni, con il governo delle funzioni e dei servizi nei singoli settori coinvolti. E questa sfasatura concettuale sembra coinvolgere anche il bando pubblicato per ‘la valorizzazione’ dell’Auditorium, peraltro quantomeno

un utile sondaggio per verificare il potenziale interesse di soggetti privati, rischiando di trasformarsi da strumento ricognitivo, in informe contenuto per la gestione futura della struttura, con un fraintendimento di fondo rispetto alle politiche culturali da perseguire. Perché purtroppo anche questo passaggio, che evidenzia anche notevoli storture nella compilazione dello stesso bando, basti pensare alla durata della possibile concessione o alla mancanza di una cifra minima riferibile alla locazione, non è stato calato all’interno di un’analisi più ampia e approfondita su cosa oggi rappresenti Fiesole nel panorama dell’offerta culturale regionale e nazionale. Perché se il bando dovesse andare deserto, oltre a riproporsi cogentemente il tema della conclusione dei lavori, (come ricordava anche nell’ultimo numero di Cultura Commestibile l’ex Sindaco Pesci), potrebbero aprirsi nuovi scenari gestionali, prevedendo assetti organizzativi alternativi, promuovendo per esempio una gestione mista tra soggetti pubblici e partner privati, ma per avviare una nuova fase occorrono relazioni, strumenti amministrativi e previsioni in grado di andare oltre l’immanente.

un inglese alla “totò”, chiedeva lumi ad un police man : - Noio search voulissimon luccare u’ tricck e tracck for hauses blak end white???- Il marcantonio in divisa, preoccupato di avere a che fare con uno squilibrato potenzialmente pericoloso, dati i tempi, fa intervenire gli addetti ai lavori che immediatamente trasferiscono a forza il malcapitato Giggino allo Psychiatric Hospital di Washington. Per fortuna un tempestivo intervento del nostro ambasciatore riesce a chiarire l’equivoco dopodiché il buon De Meio, data la sua carica, viene ospitato direttamente presso l’Ambasciata Italiana. Da ottimo diplomatico e per non lasciar deluso un probabile futuro Presidente del Consiglio, il nostro ambasciatore, per organizzare uno straccio di contatto formale, telefona a Mr.Conrad Tribble, suo amico di antica data e procura un appuntamento al nostro Giggino, non è il

massimo ma si dovrà accontentare.!! L’incontro, durato più o meno una dozzina di minuti, in gergo diplomatico è stato catalogato come “franco e cordiale” il che vuol dire che il diplomatico americano non ha ben compreso con chi avesse avuto l’onore di parlare. Con un po’ di delusione e tanto amaro in bocca, Giggino de Meio si è portato ai giardinetti pubblici per meglio meditare sull’accaduto. Mentre era assorto fra i suoi pensieri, si è avvicinato un baldo ragazzone di colore che, con un hamburger fra le mani, ha così apostrofato il Giggino nazionale : - Ciao, te sei De Meio, ti ho riconosciuto, tieni, ti offro questo hamburger , è molto buono!! Sai io sei mesi fa sono sbarcato in Italia con una di quelle navi che tu hai chiamato Taxi del mare e che volevi fermare, adesso sono qui , lavoro e mando soldi alla mia famiglia, salutami i tuoi amici!! - . Averne di Alter Ego così!!!!!

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di Simonetta Zanuccoli Per Baudelaire, quando piove, si confondono con il cielo. Hanno molte forme, bombati o spioventi, armature brillanti o semplici coperti opachi, e infinite sfumature che sono variazioni intorno a un solo colore: il grigio. Da quello chiaro dello zinco a quello più scuro dell’ardesia e al grigio verdastro del rame della Madeleine e dell’Opera. Disseminati dai tanti comignoli, lucernari e piccole finestre, sono stati ispirazione per poeti, pittori, fotografi e registi. Sono il 70% dei tetti di Parigi, hanno la tonalità dello stile di vita dei suoi abitanti: freddo, distaccato ma avvolgente. Durante la trasformazione della capitale francese, Haussmann scelse, per ricoprire i tetti dei nuovi edifici che presero il suo nome, piastre di zinco, materiale economico, facile da tagliare e installare che dava un cromatismo nuovo alla città. Il materiale leggero poteva inoltre essere montato su una struttura meno spessa di quella tradizionale, permettendo così di recuperare un maggiore spazio interno per creare, proprio sotto i tetti, le chambre de bonne, le stanze della servitù, oggi ambitissimi monolocali dalla vista mozzafiato e dall’atmosfera unica. Nell’arte, Les toits de Paris è un quadro di Paul Cézanne dipinto nel 1881 nel suo atelier al quinto piano di un immobile di Montparnasse, nel cinema, Sous les toits de Paris è il titolo di un film di Renè Clair del 1930 e sui tetti di Parigi la Duchessa negli Aristogatti portava a spasso i suoi cuccioli, nell’opera, Puccini ambienta la Boheme sotto uno di questi tetti nei cieli bigi guardo fumar dai mille comignoli... e nella letteratura, Ferdinand Céline in Morte a credito scrive...il bel merletto delle ardesie, tutti i riflessi che prende, i colori che si confondono l’un l’altro... i fumacchi che giravoltano sui grandi baratri d’ombra... Ma, forse, l’omaggio più bello a questa languida caratteristica di Parigi è quello di Balzac: Seduto accanto alla finestra a respirar l’aria e lasciando scorrere lo sguardo su un paesaggio di tetti bruni e grigiastri...da prima quella vista mi apparve monotona ma vi scoprii ben presto bellezze singolari; talvolta la sera strisce di luce sfuggenti a imposte mal chiuse sfumavano e animavano le nere profondità di quell’ originale paesaggio. Talvolta i pallidi riflessi dei lampadari proiettavano dal basso bagliori giallastri attraverso la nebbia, ripetendo debolmente nelle strade le ondulazioni dei tetti raccostati, oceano di onde irrigidite. Per proteggere la monumentale bellezza

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Nei cieli bigi guardo fumar dai mille comignoli di questo formicaio di forme in una distesa di grigi disordinati che paiono così vicini a quel cielo che ha il loro stesso colore, Parigi ha chiesto nel 2014 all’UNESCO l’ammissione al Patrimonio dell’Umanità.

Intanto sul web si trovano siti che danno informazioni su scale e passaggi segreti attraverso i quali è possibile accedere a una passeggiata sui tetti alla ricerca di scorci inediti e angoli sconosciuti di Parigi vista dall’alto.


di Cristina Pucci E con gli oggetti di oggi Rossano vince l’Oscar per la Bislaccheria! Grande cartellina cartonata tutta rivestita, sulle copertine e nelle facce interne, di brevi inserzioni pubblicitarie, attribuirle una data non è facile, in una vignetta che sembra invitarci “Al Fago unito. Caffè squisito”, accanto al nome del disegnatore “Toris”, si legge 1933. Può essere direi. Leggere le tante iscrizioni evidenzia come i vari negozi, ristoranti ed attività, tutti assolutamente in Firenze, siano per lo più scomparsi, resistono il Teatro Verdi, la Buca San Giovanni, davanti al Battistero, allora ristorante con Orchestra e Dancing e “prezzi moderati”, oggi squallido fast food con teglioni di pizze in mostra e l’Arrotino di via della Vigna, unico che mantiene una interessante esposizione di lame, coltelli ed affini. Colpiscono però ancora di più il linguaggio e il tipo di prestazioni che vi si propagandano, ad esempio un Istituto di Radiologia e Terapia Fisica elenca: Radioattività, Prodotti e Acqua e Fanghi Radioattivi, Bagni di luce e Acque Originali di Salsomaggiore per le malattie del Naso, della Gola e dei Bronchi. Questi ultimi valida alternativa all’inflazionato uso odierno di antibiotici che ne ha fiaccato l’efficacia e rinforzato batteri killer. Un negozio, “primo premio per modelli igienici”, offre “Busti-Reggiseni-Pancere. Apparire era importante anche allora quindi, in assenza di rassodanti infiltrazioni di silicone e chirurgiche asportazioni di antiestetici cuscinetti ed adipe diffusa, ci si arrabattava a stringer vita e pancia e tirar su le poppe. All’Istituto Del Perugia vendono e riparano “Strumenti musicali ed accessori di ogni genere, Macchine Parlanti ed Apparecchi Radio”. Il Signor Del Rigo, in piena Piazza Santa Maria Novella, fabbrica ghiacciaie...”Esclusione dello zinco che si ossida. Rivestimento interno in pietra artificiale refrattaria lavabile”. In alto, nella copertina, compare la pubblicità a “Il Brivido estetico-sintetico-simpatico” .Trattasi di un famoso giornaletto satirico fiorentino, fondato da Alberto Manetti nel 1925 e chiuso nel 1952. A pag. 47 del Brivido del 19 nov. del 1939 esordì, appena sedicenne, Benito Jacovitti, la sua prima striscia aveva un lungo titolo in rima, “in ogni stanza di ogni casamento/ la radio è il gran discorso del momento”. La EIAR, RAI dell’epoca, aveva indetto un concorso, premio in quattrini sonanti, dedicato a chi era in regola con l’abbonamento. In un palazzone spaccato, come una casa di bambola, si vedono gli inquilini che discutono intorno a questo tema. Jac, detto “lisca di pesce” per la stazza lunga e sottile, divenne poi molto noto, chi non ricor-

Bizzarria degli

oggetti

Dalla collezione di Rossano

Il Brivido ne attitudine alla critica dei nostri concittadini “ ci piace parecchio criticare e siccome nella mia amata città c’è sempre qualcosa da dire è parecchio difficile tener la lingua a posto...” e giù a infamare il restauro del Battistero, “.. cornici di marmo nuovo verde ponsò ...”( in realtà una tonalità di rosso) e “mestolate di cemento a tappare i buchi”. Nella pagina dedicata al “Giornale Tranviario Fiorentino” c’è il delizioso racconto di una nevicata, il tram, per permettere ai viaggiatori di goderne lo splendore, si è bloccato! Nella vignetta annessa lo si mostra munito di un bel paio di sci!!!!

da i suoi fumetti strapieni di gente nasuta e i salami che spuntano qua e là? o il DiarioVitt, o CoccoBill, cowboy bevitore compulsivo di Camomilla? Una romantica curiosità, dopo appena sei ore dalla sua morte morì anche la moglie, conosciuta alla scuola d’Arte di Firenze 48 anni prima... Rossanino ha scovato due rari Brividi, uno del ‘40 e uno del ‘43, alcune vignette non sono comprensibili, altre, in quello del ‘43, alludono alla mancanza di cibo, sapone o legna tipiche del tempo. Un fondo a cura di tal Fiorenzino ci illumina sulla peren-

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di Marco Zappa e Rossella Seniori Avevamo deciso di completare una delle rotte della Transiberiana, la ferrovia che collega Mosca a Vladivostok (o a Pechino con la variante “transmongolica”). L’anno scorso, partendo da Mosca, eravamo arrivati a Irkustk e al lago Baikal. Quest’anno abbiamo preso il treno a Irkutsk per raggiungere Pechino attraverso la Mongolia. Un viaggio è sempre un incontro fra cose immaginate (lette o raccontate da altri) e cose viste direttamente. Sulla Mongolia, le cose immaginate non erano molte. Poche immagini, pochi racconti. Ci aspettavamo un paese grande e selvaggio, isolato dal mondo e dalla storia. La Mongolia è un paese immenso (grande 6 volte l’Italia) e pochissimo popolato: solo 3 milioni di abitanti. Quasi la metà abitano a Ulan Bator, la capitale, nel nord del paese. La più bassa concentrazione di persone al mondo -recita Wikipedia. Un paese vuoto si potrebbe dire, almeno di umani. Dal treno ci appare come un’immensa prateria ondulata solcata ogni tanto da fiumi e qualche rilievo roccioso. La presenza dell’uomo è rara; si vedono le loro tende mobili (le gher). In queste immagini che potrebbero avere centinaia di anni ogni tanto il progresso fa capolino: gli uomini guidano le mandrie a cavallo di una moto, oppure si vede un pannello foto voltaico vicino alla tenda: serve a far funzionare la televisione o a riscaldare l’acqua. Arriviamo a Ulan Bator. Ci si accorge di avvicinarsi alla città perché il terreno incomincia a essere rinchiuso da grandi cancellate. Con all’interno niente, o magari una tenda. Poi iniziano costruzioni senza uno stile preciso. Case apparentemente finite insieme a case in costruzione e case in degrado. Qualche villa “neoclassica”. Non avevamo nessuna idea di questa città e nessuna particolare aspettativa. Un po’ la temevamo: la guida la descrive come la seconda città più inquinata al mondo. Non per le fabbriche (non moltissime) o il traffico urbano, sicuramente caotico. La causa è il riscaldamento e la povertà. L’inverno è rigido, molti gradi sotto zero e il riscaldamento si basa sul carbone bruciato in stufe familiari primitive. Fortunatamente questo vale per l’inverno non per fine agosto quando siamo passati noi, che, invece, abbiamo trovato un clima gradevole e un’aria respirabile. Nel centro della città edifici ultramoderni e rare vestigia del passato. Muoversi dentro Ulan Bator è un po’complicato. Le cartine con alfabeto occidentale (e non in cirillico-mongolo) in genere non vengono capite anche perché i nomi delle strade sono in

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parte cambiati dopo l’uscita dal dominio sovietico e il nuovo nome non sempre è conosciuto. La grande piazza principale che oggi la cartina riporta come piazza Gengis Khan, è in realtà conosciuta come Sukhbaatar (eroe mongolo dei tempi della rivoluzione bolscevica). Ci muoviamo in taxi. Quelli ufficiali sono pochi. Generalmente il portiere dell’albergo va per strada e chiede agli automobilisti se qualcuno è disposto a portarti dove vuoi andare. Velocemente si trova qualcuno che incrementa così i propri guadagni. Una sorta di Uber popolare ma senza organizzazione e controllo. Questo modo di spostarsi, sconsigliato dalle guide turistiche, può generare qualche avventura. Come una sera quando, dopo aver mangiato

in un ristorante lontano dal centro, abbiamo utilizzato questo mezzo per tornare all’albergo. L’autista non si orientava per nulla sulla carta che mostravamo, né il nome di Gengis Khan lo aiutava. Incominciammo a girare a vuoto e finimmo in un vicolo dove quasi non si riusciva a passare. Ma viaggiare significa un po’ anche affidarsi… Alla fine arrivammo alla piazza e l’autista improvvisato era così dispiaciuto che non avrebbe voluto essere pagato. Pensavamo un paese chiuso, un ambiente ostile. Invece i mongoli ci appaiono gentili e ospitali. La persone che parlano o cercano di parlare inglese sono più numerose di quelle che avevamo incontrato in Siberia. Si ha l’impressione di un paese che vuole aprirsi.

Passaggio in Mongolia

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di Annamaria M.Piccinini Situata dove oggi sorge Torre Annunziata, a circa 1 km. e mezzo da Pompei, Oplontis appare in mezzo a uno spazio piuttosto sassoso, con un imponente colonnato che, a prima vista, sembrerebbe l’ingresso principale della villa. Invece si tratta del dietro dell’edificio che dava sul viridarium, ossia sul giardino, mentre l’ingresso principale s’affacciava sul lato mare, come nelle altre ville della zona di epoca imperiale. Sembra appartenuta a Poppea, seconda moglie di Nerone, come ormai convengono quasi tutti gli studiosi; o comunque alla sua famiglia che aveva beni nel territorio. Fu seppellita, come Pompei, dall’eruzione del Vesuvio e riscoperta, casualmente, durante alcune canalizzazioni ordinate dai Borboni, e poi scavata a cominciare dal 1839 sotto la direzione di Michele Rusca. Ma gli scavi, condotti con criteri moderni, furono ripresi solo nel 1964. Secondo la testimonianza di Plinio il Giovane, Oplontis fu seppellita da una pioggia di cenere, lapilli e fango per uno spessore di almeno 7 metri. Ci sono ancora altri edifici da scavare, ma quello che importa è che gli scavi già completati hanno portato alla luce stupefacenti pitture murali e strutture architettoniche che rappresentano l’esempio più grandioso di villa suburbana in area vesuviana. Le ville erano anche fattorie, oltre che residenze padronali, con abitazioni per gli schiavi, o liberti, agricoltori. Ma al momento dell’eruzione la villa era disabitata, forse in attesa di

Addio al Sordo di Severino Saccardi Sono definitivamente abbassate le saracinesche della «Trattoria di’Sordo» in via Gioberti. Una trattoria popolare aperta da decenni nel locale che gestori e lavoratori hanno dovuto abbandonare a causa dello sfratto esecutivo che è stato messo in atto. E’ una vicenda che non è passata sotto silenzio. Ne hanno parlato i giornali cittadini e le radio. Lunedì, nella serata di chiusura, il locale era pieno. I clienti volevano manifestare affetto e vicinanza. Non c’era tristezza. E risaltava la dignità di chi svolgeva il suo compito, cucinava e serviva ai tavoli come se quello fosse un giorno come un altro. Non è stato un addio. C’è voglia di ricominciare, da parte dei lavoratori della Trattoria. Che vorrebbero riaprire presto, in un locale diverso, possibilmente nella stessa zona in cui in cui si sono guadagnati una meritata considerazione (con i loro piatti semplici e buoni, sempre quelli: una garanzia) .

La villa sommersa di Poppea ristrutturazione, come sembrerebbe dai materiali edili ritrovati. Comunque, tutta la villa è decoratissima. Nell’atrio, intorno al gran bassin per la raccolta dell’acqua piovana, secondo la tradizione delle case romane, le pareti sono illustrate con finte porte o finte finestre che si affacciano su giardini, veri o dipinti, con scenografie complesse. Nella sontuosa dimora di Oplontis ,tutte le decorazioni sono del secondo o terzo stile pompeiano, per un periodo che oscilla da l’80 a. C. al 65 circa d. C. . L’elemento predominante del secondo stile pompeiano, perché è da Pompei che si sono classificati gli stili, è caratterizzato dalla riproduzione di strutture architettoniche illusionistiche, dove lo spazio sembra scandito da colonnati aldilà dei quali si intravedono altri colonnati e paesaggi ideali. Il terzo stile, che si afferma a cavallo dell’era cristiana, è caratterizzato da una grande profusione di colori, con l’introduzione, nelle eleganti architetture, di medaglioni, ghirlande e scene

di vita quotidiana, molto simili a quelle della Villa dei Misteri di Pompei e di Boscoreale, tanto da ipotizzare, secondo alcuni studiosi, un’unica scuola di pittura. Nella villa erano distinti i vari locali secondo le funzioni; e dalla qualità delle decorazioni sono evidenti quelli padronali, che si allargano a destra e sinistra dell’atrium, da quelli servili, come la cucina; o di comodo, come le latrine, ecc. . Una parte evidentemente importante riguarda la zona destinata alle terme, decorate con soggetti mitologici. Uscendo dalle terme ci s’immette in una zona destinata a giardino, con fontana al centro e decorazioni a soggetto floreale. Assai sofisticate sono le tecniche idrauliche nella cucina, come nelle latrine, che permettevano la separazione di acque e rifiuti. In tutti gli ambienti il richiamo alla musica ,con strumenti dipinti, o al teatro, con maschere decorative, nonché alle delizie della natura, non erano certo inferiori ad una villa ‘schifanoia’ di epoca rinascimentale.

Quella della «Trattoria di’ Sordo» non era una realtà in crisi. E’ un aspetto che i gestori hanno teso a sottolineare: la chiusura si è resa ineluttabile non per scarso rendimento, ma (come ha titolato efficacemente «La Nazione») a causa degli affitti indigesti. Accanto al “Sordo”, da mesi, per la stessa ragione, ha chiuso il vinaio “Gottino”. Quest’angolo di via Gioberti dà il senso della corrosione del tessuto della città, che, mutando, si impoverisce. «Da 2200 €, che pagavamo prima, a scadenza contratto, qualche anno fa, i proprietari sono passati a chiedercene 8000. Una cifra per noi insostenibile », dice Paolo Nepi, uno dei gestori. Poi le cose si sono logorate e, al di là della ricostruzione degli aspetti legali della questione, alla chiusura dei battenti si è inevitabilmente dovuti arrivare. Ma l’esito della vicenda, che certamente ha provocato grande amarezza (perché chiude uno storico riferimento del quartiere e perché cinque persone restano senza lavoro), non è stato vissuto con rassegnazione. I lavoratori del “Sordo”, come dicevamo, cercano un nuovo lo-

cale, in zona, per non sradicarsi dal quartiere. Chi può, tenda le orecchie e passi voce per dar loro una mano. E’ un «caso» specifico, quella del «Sordo», ma anche fortemente emblematico. A due passi da lì, in piazza Beccaria, ha chiuso l’edicola, ha chiuso il Cinema «Astra», ha chiuso il frequentatissimo «Goal Bar». La Piazza è popolata adesso solo da banche che più sono impopolari più si diffondono come funghi. Firenze si va privando delle sue realtà artigianali più tipiche e popolari e si va riempiendo di attività uguali a quelle di ogni altra città del mondo, che continuamente aprono e velocemente chiudono. Non è un discorso solo di carattere commerciale, ma anche di tipo culturale e umano. Forse c’è qualcosa di profondo da ripensare. Sarebbe importante poterne discutere con gli amministratori e con il sindaco della nostra città. E sarebbe bello (posso osare un invito e formulare un auspicio?) parlarne presto in una rinata «Trattoria di’ Sordo» davanti a un piatto di pici e ad un buon bicchiere di Chianti «gallo nero».

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di Mariangela Arnavas “La ragazza nella nebbia” è un film di Donato Carrisi, presentato al festival del cinema di Roma 2017, tratto da un romanzo noir dello stesso Donato Carrisi che nasce come sceneggiatura e che contiene tra le linee d’orizzonte fondamentali una critica spietata al ruolo giudicante dei media nelle vicende di cronaca criminale, il che già costituisce un indizio su alcune contraddizioni tra linguaggi diversi e tra linguaggio e metalinguaggio che hanno un peso non indifferente nella struttura della narrazione. Il cast di notevole rilievo, con Toni Servillo e Alessio Boni eccellenti coprotagonisti e un Jean Renau, perfettamente calato in un ruolo apparentemente quieto e marginale, oltre alla felice ambientazione in un isolato paese di montagna, che ricorda non a caso nei diorama esibiti i plastici di Cogne delle trasmissioni di Vespa, contribuiscono ad una prima parte del film caratterizzata da un buon ritmo ed un interessante approccio alla vicenda. Il film si apre sul colloquio dell’agente speciale Vogel, Toni Servillo, reduce da un incidente d’auto e con la camicia macchiata di sangue non suo e lo psichiatra Flores; una magistrata attende l’esito del colloquio per poter procedere all’arresto dello stesso poliziotto Vogel. Una serie di flashback che in parte si sovrappongono rivelano che la vicenda parte dalla sparizione di una ragazzina di sedici anni, ancora apparentemente una bambina, con i capelli rossi e le lentiggini che vive in una comunità chiusa e dominata da una confraternita religiosa cattolica di cui i genitori e lei stessa fanno parte; della vicenda si è occupato appunto l’agente speciale Vogel, più che investigatore uomo di potere e soprattutto di spettacolo, interessato prevalentemente a manovrare i media per la propria carriera. La prima parte del film, fino all’apparire del secondo protagonista e presunto colpevole, il professor Martini, Alessio Boni, ha un buon ritmo e riesce a tenere ben desta l’attenzione del pubblico, ottime le sovrapposizioni d’immagine dei paesaggi montani e dei relativi diorama, calzante la descrizione filmica della comunità chiusa e asfissiante attraversata da una religiosità ossessiva e dove il denaro ha stabilito , con la scoperta di un giacimento di fluorite, nuove gerarchie che hanno sconvolto la stratificazione sociale precedente fondata sulla vocazione montanara e turistica della zona. Diverse le chiavi di lettura: “il peccato più sciocco del diavolo è la vanità “ e poi “ognuno di noi ha una crepa dentro”, “sono i cattivi che fanno la storia” e , infine, “la prima regola di ogni romanzo è copiare”; sicuramente riuscita è la rappresentazione mefistofelica

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dei media, pronti a divorare qualunque preda venga loro offerta in pasto e anche il senso di oppressione della comunità chiusa ,controllata da una confraternita religiosa che, fuori dal controllo delle gerarchie ecclesiastiche, sfiora i tratti ossessivi della setta. Però la seconda parte del film si perde davvero nella nebbia, nel senso che la narrazione filmica, a differenza di quella scritta (il libro, pubblicato nel 2015, ha venduto 3 milioni di copie nel mondo), è così confusa che lascia incerti sullo scioglimento finale la grande maggioranza degli spettatori, come si vede anche dalle loro recensioni. E non bastano per farne un film di tensione e

d’atmosfera le notevoli interpretazioni degli attori protagonisti, perché i personaggi non sono solo ambigui e giustamente combattuti tra il bene e il male, mancano proprio di identità e di definizione il che nel libro ha un peso minore perché l’ingranaggio del giallo, a differenza che nel film, risulta chiaro e perfettamente diabolico. Siamo lontani anni luce da maestri come Patricia Highsmith e Albert Hitchcock. Tutto sommato, meglio come romanzo che come sceneggiatura, o forse è vero che il peccato più sciocco è la vanità e bisognerebbe non pretendere di dominare diversi tipi di linguaggio per non incorrere nell’improvvisazione.

La ragazza nella nebbia Cinque gallerie d’arte celebrano Giuseppe Chiari Nell’ambito delle iniziative promosse in occasione del decennale della scomparsa di Giuseppe Chiari, sabato 2 dicembre 2017, dalle ore 11 alle 20 (con concerto conclusivo dalle h 21 presso Frittelli Arte contemporanea), a Firenze e Prato, avrà luogo la mostra “PentaChiari - cinque gallerie d’arte celebrano simultaneamente l’opera di Giuseppe Chiari -”, a cura di Bruno Corà. Le Galleria promotrici dell’evento sono: Galleria Santo Ficara, Firenze; Frittelli Arte contemporanea, Firenze; Galleria Armanda Gori Arte, Prato; Galleria Il Ponte, Firenze; Galleria Tornabuoni Arte, Firenze.


di Paola Grifoni La presentazione, lunedì 20 novembre, del volume “Architettura Contemporanea e Ambiente Storico” a cura di Francesco Guerrieri, è stata occasione di alcune riflessioni. Dopo la presentazione di Cristina Donati ed alcuni perdibili interventi, Gurrieri ha riportato su più stimolanti e corretti binari una illustrazione che avremmo voluto invitasse a una più ampia discussione, ma purtroppo non era né il luogo né il momento, anche se molti tra i presenti ne sentivano l’esigenza. Da tempo infatti a Firenze non si sente parlare di architettura, né storica né contemporanea, ancora meno si sente parlare di restauro, inteso come elaborazione progettuale e non come semplice conservazione dei materiali, disciplina questa ormai lasciata in mano a restauratori che, seppur eccellenti operatori, hanno il limite di considerare la materia avulsa dal contesto architettonico cui appartiene. Sempre più lo studio, la ricerca, il dibattito culturale sono considerati da molti perdita di tempo. Le soluzioni sono ritenute valide solamente se immediate. Durante la presentazione Alessandro Gioli ha evocato architetti di fama cui affidare interventi in contesti storicizzati; Gurrieri da parte sua ha invece ricordato positivamente il “riempimento delle lacune” causate dalle mine tedesche in via Por Santa Maria, via Guicciardini e le vie vicine: i progettisti ebbero la capacità di ricompattare il tessuto urbano e l’immagine storicizzata del contesto, evitando inserimenti fuori scala o l’uso di materiali diversi da quelli locali. In tanti anni di esperienza al MiBACT mi sono spesso trovata di fronte a proposte progettuali avanzate da notissimi architetti sia italiani che stranieri e nessuno di loro è stato in grado di capire la realtà storica con la quale si trovava ad interagire. Un architetto, solo perché di fama, non è esperto nelle diverse discipline e sovente non possiede la capacità di valutare i suoi limiti e la consapevolezza della diversità tra tipologie progettuali, in particolare l’approfondimento necessario per avvicinarsi al restauro architettonico o, ancora più impegnativo, ad un intervento di progettazione in un ambito storicizzato. Non si deve, ogni volta che si pensa a qualche intervento contemporaneo per Firenze, fare il paragone con quello che viene realizzato in altre città europee con altre storie, altre tradizioni, altre dimensioni, altre real-

Il silenzio dell’architetto

tà, altra cultura. Firenze in questo momento ha bisogno di altro, subisce un uso dissennato del suo ambiente, provocato dal turismo di massa, ma anche da alcune discutibili scelte politico-amministrative estranee a qualsiasi indirizzo culturale quale il non porre un limite alla distribuzione alimentare nel centro storico, esempi significativi sono via de’ Neri, Borgo Albizi e sulla stessa strada si stanno orientando velocemente anche Borgo San Frediano e via di S. Agostino; non avremmo voluto che il negletto Oltrarno, assurgesse ai titoli della cronaca per omologarsi al resto delle vie del fast food. Altra scelta forse non sufficientemente meditata visti i risultati è stata quella di riempire di biciclette un ambiente che dovrebbe essere goduto con lentezza per avere la percezione dello spazio storico circostante. Solo alcuni anni fa un problema di Firenze erano le bancarelle degli ambulanti, ormai acquisite all’immagine urbana, non se ne parla quasi più; anni fa un problema era sulla legittimità dell’autorizzare la giostra in piazza della Repubblica una questione che oggi, ma sinceramente anche allora, fa sorridere. Sconcerta l’Aventino culturale su cui si è arroccata la città e i suoi più alti rappresentanti, si sente la necessità di un dibattito culturale sul destino di Firenze che coinvol-

ga anche l’organo cittadino territorialmente preposto alla tutela e al turismo, ovvero quella Soprintendenza che in anni in cui non veniva considerata esclusivamente come ostacolo ha contribuito e collaborato per competenza alle scelte cittadine a volte difficili, prima tra tutte la realizzazione della tramvia. I problemi di Firenze sono gli stessi di altre città turistiche, ogni decisione anche in apparenza la più semplice va meditata e analizzata nei possibili risultati, non si poteva non essere consapevoli del punto in cui si sarebbe arrivati aprendo dissennatamente le strade ai dehors prima e al fast food in generale poi, nel chiudere al traffico e pedonalizzare alcuni luoghi: Oltrarno ne ha subito pesantemente le conseguenze, la fuga degli artigiani, l’apertura dei ristoranti, la chiusura dei negozi di quartiere provocando il completo stravolgimento della realtà locale. Firenze ha quasi completamente perso la sua identità, l’aumento del turismo, l’impossibilità del cittadino di vivere la sua città sta portando all’abbandono del centro storico per lasciare spazio ad un turismo più volte definito “mordi e fuggi” che identifica la città con panini, bancarelle, borse taroccate e i suoi feticci: Uffizi, Ponte Vecchio, il David di Michelangelo. È una deriva preoccupante dalla quale difficilmente si potrà tornare indietro.

27 27 NOVEMBRE 2017


La violenza non è solo una ferita da coltello di Anna Lanzetta Rosa aveva sognato tutta la vita l’abito bianco. Aveva trent’anni e non era fidanzata. A quei tempi, a quell’età si era già zitella. Sposarsi voleva dire uscire di casa e diventare indipendenti (anche se spesso non era così). Voleva dire uscire dalle quattro mura domestiche. Mentre china sull’orlo accarezzava l’abito bianco che stava confezionando per la sorella, sorrideva tra sé. Lieve la mano scivolava tra le pieghe e gli occhi lucidi, denunciavano il desiderio mal represso di voler cucire anche per sé un abito nuziale. In casa non poteva dedicarsi molto tempo. La famiglia era numerosa e lei doveva badare ai fratelli. A volte diceva che era come se già si fosse sposata perché dopotutto una famiglia l’aveva cresciuta (quattro fratelli era un nucleo numeroso). Man mano poi la casa cominciò a svuotarsi, ognuno cercava altrove la propria strada e si allontanava per lavoro. E passava anche il tempo della sua vita. Un giorno Rosa si recò a far visita a uno dei fratelli. Sul treno incontrò un uomo che intrecciò subito un discorso. Era timorosa per la poca esperienza di vita ma quell’incontro fu per lei come l’aprirsi di un orizzonte. L’uomo l’affascinò e un giorno si presentò a casa sua con la promessa del matrimonio. Rosa, dapprima timida e impacciata, cambiò. Gli occhi le si illuminarono. Sentì dentro di sé una grande gioia. Si sentì donna. Era felice! E già pensava ai preparativi. Avrebbe confezionato anche per sè l’abito da sposa a lungo sognato. L’uomo le

fece mille promesse…che l’avrebbe portata lontano!. Si fece comprare abiti con questa chimera. Ma alla sera del terzo giorno tutto cambiò. Non più amore ma freddezza e fastidio annullarono ogni speranza. La mattina, l’uomo ripartì in treno portandosi via gli abiti nuovi per una destinazione sconosciuta, segnando la fine di ogni promessa. Rosa lo seguì sulla soglia ma nel commiato ebbe solo una stretta di mano e non seppe più nulla di lui. La violenza era stata troppo forte. Per la prima volta Rosa aveva provato un sentimento, ma era stata violentata in modo atroce con l’annientamento di ogni speranza. Fu allora che cominciò a morire. Piano, lentamente, senza un lamento, senza che trasparisse la sua angoscia. Riprese a lavorare ma i lunghi silenzi erano eloquenti. La casa si era svuotata e lei era sola col suo ricordo. Incominciò a non mangiare più sufficientemente. Il male si stava già impadronendo di lei. Era ormai diventata l’ombra di sé stessa. La spina nel cuore la lacerava più di una lama o di un colpo di arma letale e gli occhi si spegnevano lentamente. Ogni cura fu inutile. La violenza subita l’aveva lacerata dentro e ormai non si accorgeva nemmeno più di avere un cuore. Il male diagnosticato fu inesorabile come l’uomo che l’aveva illusa e abbandonata per sempre. Morì in un giorno caldo di giugno mentre il giardino profumava di rose. Andò via col suo candore, la sua innocenza e una parvenza d’amore, adornata di rose profumate come il suo nome.

Storia di Rosa 28 27 NOVEMBRE 2017


Il Diverso Femminile

Negli anni ’70 il mondo femminile scese nelle piazze per reclamare il desiderio di cambiamento. In quella occasione realizzai questo lavoro fotografico per dare un significato a questi eventi per rafforzare l’evoluzione della donna.

di Carlo Cantini

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