241 2 dicembre 2017
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Numero
Se avessimo un Putin in Italia staremmo ancora meglio, e questo lo dico perchĂŠ ne sono convinto e non perchĂŠ qualcuno mi paga per dirlo. Matteo Salvini,
Con la cultura non si mangia Giulio Tremonti (apocrifo)
Si stava meglio quando si starĂ peggio
Maschietto Editore
NY City, 1969
La prima
immagine Sotto l’insopportabile canicola agostana di New York mi sono imbattuto in questo gruppetto di persone che stavano ascoltando le parole di un uomo seduto che parlava arringando i passanti in modo abbastanza caotico. Erano vari gli argomenti trattati da questo imbonitore di strada a cui evidentemente piaceva molto essere al centro dell’attenzione dei passantì. Se non ricordo male quest’uomo menava fendenti a destra e a manca senza far capire con chiarezza quali fossero le sue vere convinzioni personali.
dall’archivio di Maurizio Berlincioni
Numero
2 dicembre 2017
Vittorio di potta e di governo Le Sorelle Marx
Una telefonata ti salva la vita, un sms te la rovina I Cugini Engels
308
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Riunione di famiglia
In questo numero Un’idea di cultura diffusa di Simone Siliani
Poltrona da lettura ed altro di Claudio Cosma
La tensione di Petracchi di Laura Monaldi
Mappe di percezione: San Francisco di Andrea Ponsi
Il violinista afroeuropeo di Alessandro Michelucci
Ritornare a Palermo di Mariangela Arnavas
Buongiorno! Buonasera! Bottegai e artigiani di M. Cristina François
La saggezza di Jane di Gabriella Fiori
Come un quasi Leonardo diventa un feticcio di Francesca Merz
Ambroise, l’amico mercante di Picasso di Simone Zanuccoli
William Christenberry fra fotografia e scultura di Danilo Cecchi
Passaggio in Mongolia/2 di Marco Zappa e Rossella Seniori
La Cina del 1955 dall’inviato molto speciale Franco Fortini di Dino Castrovilli
Mr. Ove di Cristina Pucci
e Burchiello 2000, Matteo Rimi...
Direttore Simone Siliani
Illustrazione di Lido Contemori
Redazione Gianni Biagi, Sara Chiarello, Aldo Frangioni, Vittoria Maschietto, Michele Morrocchi, Sara Nocentini, Barbara Setti
Editore Maschietto Editore via del Rosso Fiorentino, 2/D - 50142 Firenze tel/fax +39 055 701111
Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012
Progetto Grafico Emiliano Bacci
redazione@culturacommestibile.com culturacommestibile@gmail.com www.culturacommestibile.com www.facebook.com/cultura.commestibile
di Simone Siliani Sta cambiando tutto molto velocemente nel mondo della produzione e della fruizione culturale in Italia: grandi e storiche istituzione culturali entrano in crisi che spesso non solo soltanto di tipo finanziario (dovute alla ormai verticale crisi della finanza pubblica), il turismo globale sta sfigurando il volto delle città d’arte e la produzione delle mostre d’arte, le grandi istituzioni musicali tentano di sopravvivere spostando sempre di più la loro attività dalla produzione al repertorio. Tuttavia la produzione culturale del presente trova strade nuove, informali, non istituzionali; e trova soggetti e pubblici inediti, inaspettati e certamente non inquadrabili in schemi precostituiti. Questo cambiamento investe anche l’ambito, i protagonisti e i pubblici della cultura diffusa. In Italia, e in regioni come la Toscana, questa modalità di produzione e fruizione culturali ha avuto ed ha un ruolo decisivo nel determinare l’elevato livello di qualità della vita, di coesione sociale e di crescita culturale delle comunità. Fino a tempi recenti la cultura diffusa ha potuto svilupparsi anche grazie ad una originale collaborazione fra le organizzazioni di promozione sociale, ricreative e culturali e gli enti locali del territorio. Questo rapporto aveva permesso un buon livello di autonomia ai primi e un ruolo di protagonismo senza soffocare la libera espressione culturale per i secondi. Ma oggi assistiamo ad un ritrarsi degli enti pubblici da questo settore, rinunciando ad sostenere la libera espressione culturale del territorio in parte per l’esaurirsi di risorse pubbliche e in parte per scelte politiche che portano a privilegiare istituzioni più tradizionali e prodotti culturali di maggior riscontro comunicativo. Dall’altro lato molti dei protagonisti di questo genere di produzione culturale stanno mutando pelle, cercando nuovi motivi e forme della loro attività e accanto ad essi nascono nuovi soggetti che stanno occupandola scena. La produzione musicale e quella teatrale trovano luoghi e soggetti nuovi. Le forme dell’arte contemporanea si ibridano con i contrasti sociali, rappresentano i conflitti e le contraddizioni delle periferie delle città, guardano ai grandi temi globali ma li trasferiscono sul terreno della trasformazione della comunità locale. La scrittura di oggi è prodotta da collettivi, da scrittori immersi fino al collo nelle contraddizioni del mondo odierno e si contamina con media e forme diverse, dai video alla musica, dalla fotografia all’informatica. I coworking sono i luoghi dove la
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Un’idea di cultura diffusa
produzione culturale si realizza attraverso le modalità della collaborazione, che è la cifra della produzione culturale di oggi: non più le individualità e le eccellenze isolate, bensì la cooperazione fra competenze e sensibilità diverse. Nei centri sociali trova libero sviluppo e possibilità nuove la creatività giovanile che non accetta più i riti e le rigidità della cultura ufficiale e vuole invece rappresentare le sue contraddizioni. Il nuovo clima sociale e culturale, alimentato anche dagli effetti sociali della crisi, sta portando ad una trasformazione profonda anche nel ruolo degli attori tradizionali della cultura diffu-
sa, a partire dall’Arci e dai suoi circoli che si rinnovano nella gestione e nell’offerta culturale, costruendo uno nuovo protagonismo soprattutto dei giovani e restituendo vitalità ai luoghi e a territori e comunità. Questo nuovo tempo della cultura diffusa chiede e valorizza anche spazi nuovi per la fruizione culturale. E’ una cultura che ha sempre meno bisogno degli spazi canonici (teatri, auditorium, cinema), ma che utilizza i luoghi più informali, dalle civili abitazioni (gruppi di lettura, teatro d’appartamento, ecc.) al patrimonio immobiliare dismesso e abbandonato. Sono sempre di più i luoghi
della città che vengono recuperati, riattivati e vissuti attraverso la cultura, per cui questo tipo di cultura diffusa si propone anche come una forma di rifunzionalizzazione di spazi della città che la proprietà pubblica non sa o non è in grado di riattivare per carenza di risorse, o che la proprietà privata abbandona perché non sa trarne profitto. La cultura e la partecipazione del territorio dimostrano che vi possono essere paradigmi diversi alla base dell’utilizzo degli spazi della città che non quelli del profitto economico. Essa tende a superare anche la tradizionale distinzione pubblico/privato, legale/illegale. Capannoni industriali dismessi, teatri pubblici abbandonati, patrimonio pubblico non più in uso e lasciato al degrado tornano ad essere spazi di produzione e aggregazione sociale e culturale, palcoscenici della cultura del XXI secolo, luoghi di espressione di gruppi e collettivi di artisti, le “tele” su cui writers e artisti giovani raccontano i sogni e le inquietudini del presente. Anche Firenze, sempre più rappresentata come la Disneyland del Rinascimento buona solo da vendere ad un turismo di giornata, volgare e onnivoro, riesce a produrre questo nuovo tipo di cultura diffusa e la sua marginalità di fronte alla cultura ufficiale paradossalmente la salva: l’esperienza decennale di S.Salvi, i tentativi di animare ed evitarne il banale sfruttamento commerciale di spazi come Sant’Orsola o la Manifattura Tabacchi, l’e-
sperienza di produzione di valore e bene comune di Mondeggi, alcuni centri sociali divenuti luoghi di aggregazione giovanile e di produzione culturale i circoli Arci di hanno aperto i loro spazi ad un dialogo costante e dialettico con il territorio. Questo genere di cultura diffusa si caratterizza sempre di più per la propria radicalità, tanto nei contenuti culturali e politici, quanto nelle forme attraverso cui si esprime. E’ anche questo uno degli effetti della tendenza massificatrice del “pensiero unico” del liberismo, che pretende di ridurre ogni aspetto della vita al minimo comun denominatore del profitto, del significato economico di ogni manifestazione umana, al tendenza omologatrice del pensiero mainstream. La cultura per sua natura è sempre ricerca del buco nella rete che possa liberare pensieri e capacità creativa e non può accettare la spessa coltre grigia con cui il dio mercato avvolge il pianeta. Se l’essere laterali rispetto al punto di vista del potere è da sempre la caratteristica della cultura, la globalizzazione che pretendeva di aver raggiunto la “fine della Storia” con l’affermazione del modello del capitalismo finanziario quale “unilingua” omologante del pianeta, ha accentuato lo sviluppo di linguaggi alternativi, di progetti ed esperienze culturali diversi. In questa alterità, la cultura diffusa cambia il rapporto fra produttori e utenti, rendendo sempre più labile il confine fra di loro e
chiedendo una più forte partecipazione dei cittadini. Ciò avviene fin dal coinvolgimento nel concepimento del lavoro culturale, nel finanziamento (dove si sviluppano sempre di più le forme dell’autofinanziamento e del crowdfunding, così come di un’imprenditoria sociale diversa da quella tradizionalmente sviluppatesi nel nostro paese), nella produzione (basti pensare all’esperienza del Teatro povero di Monticchiello oppure delle molte esperienze di teatro in carcere) e nella fruizione. Il pubblico non è più spettatore, colui che assiste, che sta a guardare (dal latino spectàre), che non prende parte; al contrario, al pubblico viene spesso chiesto di essere protagonista, in interpretare la propria storia, il proprio pensiero, di essere agente attivo della propria comunità, di raccontare il proprio tempo. Così trovano spazi nuovi la diaristica, gli archivi privati, l’antropologia culturale, la microstoria, il documentario e il cinema familiare, i gruppi di lettura, i collettivi di scrittura e di fotografia. Queste forme di partecipazione alla produzione culturale sono anche l’antidoto migliore al solipsismo che una malintesa idea e pratica dell’utilizzo di internet, che invece diventa in queste esperienze uno strumento essenziale di condivisione di informazioni e di costruzione di contenuti nuovi partecipati. In questa prospettiva il fenomeno della grande migrazione, con l’arrivo di migliaia di persone provenienti dai più diversi paesi e continenti del pianeta e portatori di culture “altre” è una meravigliosa opportunità di crescita culturale per il nostro paese: la pluralità di punti di vista sul mondo, di letture degli stessi fenomeni di forme di espressione artistica e non è un lievito insperato capace di ravvivare una cultura occidentale ormai da tempo ripiegata su se stessa. Anche nei contrasti e nelle frizioni fra culture diverse, la vitalità della cultura diffusa può trovare opportunità di sviluppo. E’ questa solo la manifestazione più eclatante del cambiamento dei soggetti della cultura diffusa che sta emergendo nel paese: ovunque si sviluppa una soggettività nuova, impossibile da catalogare e ingabbiare in formati standard o nelle categorie con cui gli enti pubblici hanno inscritto questi fenomeni (generi culturali, degrado/decoro, borderò, ecc.). Viene chiesto al governo pubblico del territorio la capacità di ascoltare e comprendere i bisogni sociali che danno luogo a questa cultura diffusa, i linguaggi con cui essa si esprime e di interagire in modo dialettico con questa nuova realtà della cultura italiana.
5 2 DICEMBRE 2017
Le Sorelle Marx
Vittorio di potta e di governo
Finalmente! Era dai tempi del PcdI, il Partito Comunista d’Italia, diretta filiazione dei nostri avi, che non ci recavamo alle urne, ma alle prossime elezioni saremo in prima fila al seggio perché abbiamo trovato il partito e leader che fanno per noi: Rinascimento guidato da Vittorio Sgarbi e Giulio Tremonti. Va da sé che la rivista su cui scriviamo dalla sua fondazione ne diventerà l’organo politico, potendo vantare una lunga fedeltà all’ispirazione tremontiana fin nel titolo e un affetto partcolare rivolto a Vittorione, più volte ricordato sulle sue pagine. Anche se Sgarbi ha dichiarato, in una intervista a Libero del 27 novembre, di aver sdoganato Giulio: “Giulio era inchiodato a quella frase, che nega di aver mai detto: ‘Con la cultura non si mangia’. Io l’ho convertito e non c’è nulla di meglio di un convertito per diffondere le idee”. Così
I Cugini Engels
2 DICEMBRE 2017
Brambilla con il partito animalista? Anche; lui lo definisce un colpo di genio: “I politici sono disprezzati al punto che molti preferiscono a loro gli animali”. Ma più di tutti Berlusconi a cui lo lega un antico sodalizio, dal tempo delle “serate fra amici”, che erano incontri camerateschi, da boyscout: “Io chiamavo delle ragazze, Silvio delle altre, si mangiava, si cantava, si raccontavano barzellette... io portavo le ragazze; Silvio era galante e queste subito mi mollavano per lui. Mentre le sue erano fedelissime, io ci provavo, loro mostravano di gradire ma poi restavano dov’erano. Perché non erano prostitute ma mantenute, concetto ben diverso”. Non c’è dubbio alcuno: con Sgarbi e Tremonti, vinceremo e governeremo l’Italia e, in prospettiva il mondo intero. … Compagne, avanti il gran Rinascimento, noi siamo dei mantenuti...
Una telefonata ti salva la vita, un sms te la rovina
Viviamo in un mondo smart, very easy, in cui bisogna essere sempre up-grated, rapidi e concisi. Altrimenti non si regge il ritmo dei tempi. Se ne devono essere accorti i 530 operai della Fca di Cassino, che sono stati vittime di questa telefonata. “Hello, mr Renzi, a call from CEO mr. Marchionne, Would you accept it?” “Oh, beatiful girl, non me la vorrete mica addebitare questa chiamata dagli States, vero? Because I’m from Rignano on the Arno, but not fesso!” “Ehilà, stai sereno Matteo, sono io, Sergio. Come stai? Senti, vorrei chiederti un consiglio di tipo comunicativo” “Ok my old friend, cosa vuoi? Te lo sei messo ‘i gorfino che a New York gl’è freddo?”
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Vittorio e Giulio il Convertito ci indicano la strada verso il Sol dell’avvenire: “Non punto al Parlamento ma al governo. Se vado all’opposizione, mollo e torno a fare l’assessore in Sicilia [dove ha avuto le deleghe ai Beni culturali e all’Identità siciliana, in quanto ferrarese]. Corro per vincere e fare il ministro della Cultura. Tremonti sarà alle Finanze”. Dunque, il nostro amato Vittorio, che si definisce “una star, per lanciare me basta investire un euro, per sostenere un altro ne servirebbero cento”, è lanciatissimo visto quanto è stato investito su di lui: infatti, ha dichiarato nell’intervista “Anch’io sono stato mantenuto: per due anni un imprenditore, Dino Gavina, mi ha dato 5 milioni al mese per non fare nulla e pensare”. Con chi ci alleeremo per il governo? Ma che importa?Gentiloni, un po’ di grillini, Fitto, anche il diavolo se serve, cioè Renzi! La
“Sì, ma senti me: devo licenziare 530 operai della Fca di Cassino perché qui bisogna innovare, vincere le sfide, piazzarsi sul mercato globale, installare qualche centinaio di robot e qualche bambola gonfiabile e non posso perdere tempo con quei rompicoglioni dei sindacati. Avrei buttato giù questa lettera che ti mando per WhatsApp. Che ne dici?” “Uuuuh Sergino, che palle con queste lettere! Troppo lunga! ‘Icche vuol dire, poi, signor Mario, signora Giovanna? Macché, tagliare, tagliare. Io mi son quasi appisolato alle quindicesima riga” “Ok, Matteo, ma io volevo sapere se a te andava bene. Perché sai, ti leggo quello che avevi dichiarato a novembre 2016: Sono 4300 i lavoratori dell’Alfa di Cassino e altri 1800 saranno assunti
nei prossimi 18 mesi. Facile lamentarsi, dire che va tutto male, criticare soltanto. Cassino ci dimostra una volta di più che l’Italia va avanti quando vincono quelli che provano a cambiare, non quelli che vogliono solo bloccare...” “Ah, avevo detto queste minchiate? … Mah, senti Sergio, m’importa una mazza. Tanto chi se ne ricorda più. E poi son passati i 18 mesi dal novembre 2016, no? Allora, chi se ne impippa! Guarda si fa così, per non stare tanto a rompersi le balls: gli si manda un bell’sms a questi tuoi operaiucci e non se ne parla più. Scrivi: “Per il momento il tuo contratto cessa. Ci aggiorniamo per ulteriori novità”. E bell’e fatto! God bless America e in culo ai sindacati. Addio Sergino” click
Nel migliore dei Lidi possibili
Avanzi di Avanti
disegno di Lido Contemori didascalia di Aldo Frangioni
Piccola rubrica per i distratti che raccoglie le migliori frasi di “Avanti”, il bestseller di Matteo Renzi.
Scoprite quali sono le mani di Giulio Mattietti già vice direttore dello IOR
Segnali di fumo di Remo Fattorini Dai dai anch’io sono arrivato a Roma. A piedi, dal passo della Cisa lungo la Francigena. Capisco che nell’epoca delle comodità andare a Roma a piedi può apparire una scelta anacronistica o un po’ snob. Niente di tutto questo: a me piace camminare. Incuriosito dal fatto che in più occasioni, dalla mia ex scrivania, mi sono occupato della Francigena, dal suo recupero al rilancio, senza però averci mai messo un piede. La curiosità era dunque tanta. E così, avendo un po’ di tempo libero, zaino in spalla sono partito. Ho fatto il percorso in più tappe e in stagioni diverse,
“Putin è un tattico e uno stratega. Quando mi invita come ospite d’onore al Forum economico di San Pietroburgo [...], immagina di mettermi alla prova. Accetto l’invito nonostante il parere contrario di quasi tutti i collaboratori e di molti alleati. Ci vado lo stesso, e a testa alta, a dire le cose sulle quali siamo d’accordo e quelle che ancora ci dividono”
parte in primavera e il resto in autunno. Lungo il cammino ho incontrato molte persone: più stranieri che italiani, più adulti che giovani. La sera, nei conventi, nei monasteri o negli ospitali che accolgono i pellegrini si fanno conoscenze e anche qualche amicizia. Arrivati al posto tappa il viaggio non si interrompe, prosegue non più tra sentieri, boschi e paesi ma tra le persone che, come te, hanno scelto il cammino, ognuno con le proprie motivazioni. È il momento giusto per conoscere le loro storie, per capirne le ragioni, i benefici e le difficoltà incontrate. La maggior parte dei pellegrini che ho conosciuto hanno iniziato il cammino dal Gran San Bernardo, ma c’era anche chi è partito da più lontano, chi da Compostela o dall’Olanda, altri dal Belgio, dalla Francia o dalla Svizzera. Mesi di cammino, alcuni in compagnia altri in solitaria. Personalmente ho fatto il primo tratto insieme a Mara, compagna di viaggio e di vita, e il resto, quello fino alla chiesetta del Pellegrino all’interno del Vaticano, in solitaria. Ho
scoperto che camminare da soli fa bene, aiuta a ritrovare sé stessi, a riordinare i pensieri, a fare pulizia. Camminare in solitaria stimola la curiosità, la scoperta, ti fa sentire vivo, ti fa incontrare la faccia buona della solitudine, quella che ti aiuta a dare il giusto valore alle cose, selezionando quelle veramente importanti. Una solitudine che ti fa ritrovare l’intimità con te stesso, riscoprire i risvolti positivi della tua vita, i bisogni, i desideri e le aspirazioni che la quotidianità ha sepolto. La Francigena è tutto un altro mondo, una comunità particolare, con modalità e ritmi completamente diversi da quelli che viviamo tutti i giorni. I rapporti con gli altri cambiano profondamente. Sono facili, immediati, spontanei, generosi. Le differenze evaporano e magicamente si cancellano. Lungo i sentieri della Francigena siamo tutti uguali, non c’è il professionista, l’impiegato, l’artigiano, l’insegnante o l’operaio. Siamo tutti pellegrini. Si cammina lungo lo stesso percorso, con le proprie gambe e con il proprio zaino. Buon cammino a tutti!
7 2 DICEMBRE 2017
di Laura Monaldi Nella complessità dell’Arte Contemporanea la sensibilità artistica di chi pensa e crea un’opera d’arte prevarica spesso su qualsiasi tendenza e prassi esistente, al fine di approdare a mete sempre nuove, originali ed inedite, facendo sentire l’artista partecipe di un mondo dominato dalla creatività, intesa come ricerca estetica vicina alla storia e all’umanità nella sua totalità. Per Luigi Petracchi operare in campo artistico significa superare i confini e i dualismi fra passato e presente, fra realtà e apparenza, nonché fra concretezza e mistero, per sondare l’Essere in ogni sua forma e in ogni sua età. «La tensione verso la libertà si riflette inesorabilmente nella forma che prendono le mie opere. Le mie tecniche cambiano in continuazione, sono al servizio del significato che cerco di trasmettere. Ad esempio la resina e la polvere di marmo mi hanno permesso di costruire sculture che avessero l’aspetto di cuscini soffici e leggeri. I materiali che utilizzo, dal legno al marmo, dal vetro al bronzo, si mescolano all’olio, all’acrilico … Sono eterogenei come eterogenee sono le religioni e le filosofie a cui faccio riferimento. Quello che mi interessa nell’aspetto formale è che il risultato finale sia armonico. Come il significato di quei simboli alla fine è concorde, anche l’equilibrio dei diversi materiali deve essere armonioso; come se non faticassero a stare insieme». Nell’atto stesso di sperimentare Luigi Petracchi esplora, ricerca e concretizza il senso estremo di un anello di congiunzione fra il nulla e il tutto, fra l’armonia e il caos, fra l’infinitezza assoluta e la finitezza materiale che aspira di giorno in giorno a carpire un semplice e unico brandello di perfezione. Le carte, sapientemente invecchiate con procedimenti dal sapore alchemico, nascondono segreti ancestrali legati al tempo e allo spazio, all’uomo e alla sua storia di essere vivente nel grande mistero utopico dell’Armonia universale.
La tensione di Petracchi
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2 DICEMBRE 2017
Musica
Maestro
Il violinista afroeuropeo
di Alessandro Michelucci Il jazz europeo sta vivendo una stagione particolarmente felice. Dall’Italia alla Svezia, dalla Germania alla Norvegia, ormai sono pochi i paesi che non contribuiscono a questo fermento. Nel panorama si inserisce a pieno titolo la Polonia, che vantava una tradizione jazzistica piuttosto consolidata già durante la dittatura comunista. Chi vuole saperne di più può leggere il libro di Igor Pietraszewski Jazz in Poland. Improvised Freedom (Peter Lang, 2014). Il ritorno della democrazia ha dato ai musicisti polacchi la possibilità di essere conosciuti e apprezzati come meritavano. Ma non si tratta soltanto di conoscere artisti ingiustamente dimenticati come Zbigniew Seifert (vedi n. 238), perché questo paese mitteleuropeo resta una fucina di talenti. Lo conferma Adam Bałdych, un giovane violinista polacco che si sta imponendo come uno dei jazzisti europei più interessanti. Il musicista propone una raffinata fusione di folk, classico e jazz, forte di un grande bagaglio tecnico e virtuosistico. Nato nel 1986, impara a suonare il violino a 9 anni. Pochi anni dopo nasce l’amore per il jazz. Sedicenne, quando si è già imposto come un ragazzo prodigio, comincia a suonare con importanti jazzisti in varie parti del mondo, dalla Polonia all’Indonesia. Successivamente perfeziona gli studi al celebre Berklee College di Boston. Decide di trasferirsi negli Stati Uniti, ma rimarrà sempre profondamente legato alle proprie radici europee. Storyboard (autoproduzione, 2009), registrato insieme ad alcuni jazzisti polacchi, segna il suo esordio. Nello stesso anno esce A Tribute To Zbigniew Seifert (JSR Records, 2009), attribuito al gruppo del chitarrista Jarek Smietana. Il disco riunisce nove violinisti, ognuno dei quali interpreta un brano del celebre jazzista polacco. Bałdych è presente con “Untitled Song”. Seguono altri due CD autoprodotti, Damage Control (2009) e Magical Theatre (2011). Imaginary Room (ACT, 2012), registrato insieme a jazzisti europei come Lars Danielsson e Morten Lund, lo proietta definitivamente nel circuito dei grandi festival inter-
nazionali. Poco tempo dopo arrivano i primi riconoscimenti prestigiosi, come l’ECHO Jazz Award del 2013, mai conferito prima a un musicista polacco. Dalla collaborazione col pianista israeliano Yaron Herman nasce The New Tradition (ACT, 2014). Il disco contiene una rilettura personale di “Quo Vadis”, composta da Zbigniew Seifert. Bridges (ACT, 2015) segna l’inizio della collaborazione col trio del pianista norvegese Helge Lien. Quest’opera varia e stimolante spazia dal folklore polacco di “Polesie” all’affascinante atmosfera crepuscolare di “Requiem”. Dopo Trans-Fuzja (For Tune, 2016), registrato dal vivo con tre jazzisti polacchi, è la volta del lavoro più recente, Brothers (ACT, 2017). Il violinista è ancora affiancato dal trio di Helge Lien, col sassofonista Tore Brunborg che compare in alcuni brani. Il titolo allude allo spirito di fratellanza che si è ormai consolidato fra i musicisti. Otto dei nove brani sono firmati dal giovane violinista, che
si conferma compositore attento e pregevole, mai ridondante. La “Hallelujah”, scritta da Leonard Cohen, viene proposta in una versione originale e toccante. Fino ad oggi abbiamo usato i termini jazz e musica afroamericana sono stati usati come sinonimi. Ma oggi che il jazz del Vecchio Continente ha raggiunto una vitalità così marcata, non dovremmo cominciare a parlare di musica afroeuropea?
9 2 DICEMBRE 2017
di Francesca Merz Del rapporto tra arte e denaro si parla negli ultimi anni con una costanza preoccupante, “perché con la cultura non si mangia”, “perché l’arte non ha prezzo”, “perché la bellezza non si mercifica”, e altre mille di queste argomentazioni, sulle quali credo non convenga spendere troppe analisi. La storia dell’arte è fatta da sempre, oltre che da straordinari manufatti e capolavori, di documenti d’archivio che attestano entrate ed uscite monetarie nelle botteghe, poiché, forse parrà strano al lettore, pure il grande Michelangelo faceva la spesa. I registri dei conti e i contratti, spesso accurati, per la realizzazione delle opere, consideravano con attenzione la quantità di tela, lapislazzuli, porpora e materiali vari da comprare per la loro realizzazione. Così come era ben considerato il tempo dell’artista, tutto accuratamente annotato in documenti dalla calligrafia accurata o frettolosa, ma che costituiscono spesso la base per capire la datazione, lo sviluppo dell’idea progettuale di un’opera, le eventuali complicazioni economiche o politiche che ne hanno portato ad una modifica in fase di esecuzione eccetera eccetera eccetera. Le opere d’arte sono dunque spesso pensate, ideate, commissionate con il pallottoliere alla mano, sapendo con una discreta precisione quanto costeranno al committente, e quanto all’artefice/artista. Nulla di male, nulla che togliesse lustro o grazia al genio della composizione (ove di genio si potrà parlare, poiché non tutta l’arte è geniale). Nel corso dei secoli, così come molti altri prodotti di consumo e di lusso, anche l’arte è stata sempre maggiormente risucchiata dalle logiche del mercato, un mercato le cui logiche, per l’appunto, sono ben più complesse rispetto al valore dei materiali utilizzati o all’artista che li ha eseguiti. La storia della critica d’arte, molto più che la storia dell’arte, ha influito sulle valutazioni attuali degli artisti, fino ad arrivare ad ossimori concettuali per cui un Damien Hirst vale (in termini monetari) più che un Andrea del Sarto. Ma è il mercato, sono fondi di investimento che premono perché si alzi la quotazione di un artista sul quale hanno investito, per l’appunto, sono logiche molto lontane e staccate dal valore artistico di un’opera. Quando dunque queste due logiche si intrecciano avviene che un forse Boltraffio, forse Leonardo forse no, venga battuto
10 2 DICEMBRE 2017
Come un quasi Leonardo diventa un feticcio
all’asta per 450 milioni di euro. Nulla che faccia stracciare le vesti, nulla di assurdo. Il quadro rimane, come fino al giorno prima, il capolavoro che è, forse non di Leonardo, ma sicuramente di straordinaria eleganza e pregevole fattura. Nulla di che se non fosse che le due logiche, quella del mercato, e quella della bellezza artistica, non sono più scindibili per i più, e dunque ecco che parte la corsa al feticcio, l’opera più cara diventa l’opera più bella; l’opera di cui sino al giorno prima si ignorava l’esistenza, diventa improvvisamente legittimata ad essere capolavoro del genio: irrinunciabile la sua vista, un dramma non averla a disposizione nelle collezioni pubbliche, roba da indignarsi. Ma chi si indigna? Persone che forse sono andate agli Uffizi due volte nella vita, che magari non hanno mai visto il Louvre, e la cui smodata fulminea, riscoperta, passione per Leonardo è essa stessa feticcio. Io, per mia modestissima parte, consiglio a tutti coloro che si sono sentiti sollecitati nella curiosità e nella voglia di scoperta da questa ultima roboante vendita, di iniziare dall’andare a vedere tutti i capolavori, fortunatamente pubblici e più o meno fruibili, che compongono la nostra straordinaria ricchezza cittadina, rifuggendo il più possibile dall’idea che le leggi del mercato siano, nell’arte, come nella vita, capaci sempre di premiare i più meritevoli.
di Dino Castrovilli Inesauribile Fortini. Non solo poeta, critico letterario, traduttore, saggista e soprattutto autentico intellettuale “impegnato”, qualità che hanno fatto di lui una delle personalità più importanti del ‘900, ma anche fotografo e reporter sui generis, ovvero ad alto tasso di intelligenza, capacità di “vedere” (e, come vedremo, di “prevedere”), di comprendere e di saper comunicare le sue impressioni/ riflessioni. Una prova è la mostra “Je voudrais savoir” (espressione con cui Fortini, sempre ansioso di comprendere fino in fondo, si rivolgeva ai tanti interpreti incontrati nel corso dei suoi tanti viaggi) in corso fino al 6 gennaio 2018 al Santa Maria della Scala di Siena che documenta uno straordinario viaggio fatto da Fortini e altri influenti intellettuali nel 1955 nella Repubblica popolare cinese. La Repubblica era stata costituita nel 1949 e a Fortini, Franco Antonicelli, Norberto Bobbio, Carlo Bernari, Carlo Cassola, Ernesto Treccani, Ferruccio Parri, Antonello Trombadori e Piero Calamandrei (capo delegazione) fu offerto di essere la prima delegazione in visita ufficiale nell’immenso Stato venuto fuori dalla rivoluzione maoista e dalla fine del conflitto con i nazionalisti di Chiang Kai-sheck. Del viaggio ciascuno “riferirà” poi a suo modo, pubblicando immagini e impressioni. Fortini lo fa con “Asia Maggiore. Viaggio nella Cina” (Einaudi, 1956) e con il sorprendente “reportage privato” realizzato nel corso di quella lunga visita. La mostra espone non solo le foto e riflessioni sue ma anche quelle dei suoi compagni di viaggio e, integrando foto e scritti con ambientazioni sonore, permette un avvicinamento particolare e non di maniera a quel “mondo nuovo” partorito dalla Rivoluzione. L’approccio della delegazione è naturalmente ammirato e amichevole (“recarsi in Cina era un sogno”, disse dopo Ernesto Treccani) ma essendo tutti i delegati caratterizzati da grande onestà intellettuale non mancano foto o riflessioni che evidenziano contraddizioni o “effetti indesiderati” del nuovo sistema sociale ed economico. Ma Fortini, e qui risalta ancora una volta la sua non comune intelligenza e capacità di “prevedere”, comunque annota: “I Cinesi stanno costruendo una società e una civiltà socialista che è destinata ad avere, a brevissima scadenza, una influenza decisiva sul resto del genere umano (….) I prossimi cinque anni decideranno del ritmo dello sviluppo industriale”. Ma forse è meglio lasciar parlare le foto, così perfette a livello estetico ma soprattutto a livello di
La Cina del 1955 dall’inviato molto speciale Franco Fortini “rappresentazione” – penso ad esempio a “Operai ad Hanschan” o “Il lavoro contadino” - da sembrano scattate da un consumato fotografo della Magnum o da un fotoreporter dei grandi periodici illustrati americani. La mostra, prodotta dal Santa Maria della Scala in collaborazione col Centro Franco Fortini dell’Università di Siena, si inserisce nel nutrito programma di eventi messi a punto per celebrare il centenario della nascita di questo intellettuale dalle grandi doti e dalla non comune consapevolezza del proprio essere e del proprio ruolo, ribadito an-
che in un’altra annotazione relativa a questa ormai storica “missione” in Cina: “Tutta l’agitazione di questi viaggi non pagherà mai il contributo vero che potremo dare al nostro Paese – e a tutti Paesi – facendo del nostro meglio per eseguire bene il nostro mestiere, di filosofi se siamo filosofi, di politici se politici, di poeti se poeti. E’ vero, mi dico, che una delegazione come la nostra, pur con la sua apparente insufficienza e con la sua inevitabile sfumatura turistica, adempie egualmente al suo compito, sì che, ritornati in Italia, diremo e scriveremo tutto quello che avremo veduto e di cui veramente la maggior parte dei nostri connazionali delle classi dirigenti non ha neppure la più vaga idea”.
11 2 DICEMBRE 2017
di Danilo Cecchi Esattamente un anno fa, nel novembre del 2016, moriva a Washington, all’età di ottant’anni, il fotografo, pittore e scultore americano William Christenberry (1936-2016). Laureato in Belle Arti all’Università dell’Alabama alla fine degli anni Cinquanta, inizia alla fine dei Sessanta la sua carriera come pittore e come insegnante di arte a Washington, fino a quando, casualmente, non scopre un libro con i testi di James Agee e le fotografie di Walker Evans scattate durante la grande depressione nella contea di Hale, in Alabama. Si reca quindi nello stesso luogo fotografato da Walker Evans, e comincia a scattare con la sua economica fotocamera Brownie Kodak, posseduta fino da bambino, riprendendo a distanza di quarant’anni lo stesso tipo di edifici descritti e raccontati da Evans. Incoraggiato in seguito dallo stesso Evans a prendere sul serio la fotografia, Christenberry lo accompagna nel 1973 ad Hale, dopo decenni di assenza, in quello che diventa uno dei suoi ultimi viaggi, e durante il quale il vecchio fotografo continua a scattare foto su moderno materiale Polaroid. Anche Christenberry comincia ad utilizzare delle fotocamere migliori e delle pellicole a colori, e dopo la morte di Walker Evans torna più volte negli stessi luoghi, concentrando la propria attenzione non tanto sugli abitanti della contea e sul loro modo di vivere, quanto sugli edifici, precari e fatiscenti, spesso abbandonati da anni, consumati nelle strutture di legno, invasi dalla vegetazione, ridotti talvolta a scheletri logori, talvolta ancora decorati da vecchie insegne. Raramente si tratta di vere abitazioni, più spesso di casupole decrepite, capanne agricole abbandonate, magazzini inservibili, stazioni di servizio dismesse, punti di ristoro dimenticati, piccoli edifici improbabili, chiesette deserte, rifugi temporanei ed inagibili. Come Evans si pone davanti a queste reliquie di un tempo passato in maniera il più possibilmente frontale, oggettiva, distaccata, impersonale ed asettica, fotografando i prospetti o i fianchi dei piccoli edifici, rispettando la prospettiva centrale e la simmetria della composizione. La sua ricerca puntigliosa ed ossessiva diventa quasi una catalogazione delle diverse tipologie, delle diverse varianti formali, strutturali e cromatiche, dei diversi livelli di corrosione, degrado e disfacimento. Le sue immagini vogliono essere nitide, dettagliate e descrittive, quasi acritiche, ma, come per Evans, finiscono per diventare fortemente soggettive, allusive, simboliche e coinvolgenti. Nelle immagini di Christenberry c’è anche qualcosa dello spirito di Edward Hopper, al di là della descrizione minuziosa e particolareggiata di assi, tettoie, lamiere, in-
12 2 DICEMBRE 2017
William Christenberry fra fotografia e scultura
segne, pareti, facciate, porte divelte e finestre sgangherate, c’è sempre qualcosa di non detto, di suggerito, accennato, ambiguo, inquietante, non risolto. Dietro la ripetizione analitica, sistematica, compulsiva e seriale dello stesso tema, dello stesso metodo, della stessa ambientazione, si legge la necessità di raccontare delle storie. Ogni facciata è un volto, una personalità, una vicenda vissuta e forse non ancora definitivamente conclusa, ogni casotto squinternato diventa un monumento. Ma Christenberry
non si limita a fotografare fienili e stamberghe, relitti e catapecchie. In quanto artista ed in quanto scultore, non si limita alla raffigurazione bidimensionale dei contenitori spaziali, ma ricostruisce tridimensionalmente gli stessi oggetti delle sue immagini, utilizzando materiali analoghi e colori analoghi, ricercando perfino lo stesso livello di usura dei materiali, lo stesso grado di invecchiamento e di disfacimento, trasformando le immagini e le sensazioni visive in sensazioni tattili ed in percezioni spaziali.
di Paolo Marini “Non c’è grandezza senza traccia del fango originario”. Lo ha scritto il generale Angelo Gatti, che fu anche (o soprattutto) saggista, romanziere, poeta. Non ne avevo sentito parlare, prima di qualche tempo fa, quando la lettura casuale di alcune sue frasi o aforismi (da “Le massime e i caratteri”, Milano, 1934), in primis quello citato, ha attirato la mia attenzione. E’, anzitutto, il “fango originario” inteso come quella “polvere del suolo” con cui Dio plasmò l’uomo (Genesi, 2, 7)? Non è dato sapere. Comunque pare evidente un riferimento al piano esistenziale, in cui il fango sarebbe da intendere come il limite, il peccato, la sofferenza. Tutto ciò che dovrebbe nascondersi, insomma, per lasciare spazio alla “grandezza”. Eh si, perché in ogni tempo la grandezza è (stata) oggetto di comune, grave fraintendimento. Essendo variamente confusa con il successo, con folgoranti conquiste o carriere, ed altresì oggi aumentata dalla diffusione e pervasività della comunicazione digitale, dalla sovra-esposizione di fatti e persone. In questa concezione della grandezza non v’è alcun punto di contatto con il fango. Così, si perde il contatto con la realtà, accade che ci s’innalzi illusoriamente al di sopra della stessa, talora accedendo ad un autentico delirio di onnipotenza. La domanda è: che cosa è la realtà? Stando alla legge di Sturgeon, per la quale il 95 – (o il 90, per i puntigliosi) – per cento di ogni cosa è una schifezza, la risposta non è granché rassicurante. Altra possibile risposta, in compenso, potrebbe coincidere con il verosimile pensiero del generale-scrittore: la realtà è proprio il fango; la nostra realtà o, precisamente, la realtà di noi stessi, la sostanza ultima di cui essa è impastata è fango. Altro che negarlo o nasconderlo, per una malintesa vergogna, venata di superbia. Se c’è una grandezza, per questa nostra esistenza, è il tentativo di piantare qualcosa sopra il rincorrersi dei giorni, che come tale non sappia di fuga, di smarrimento, di disperazione: un sobrio, operoso, silenzioso e consapevole coraggio di vivere, di accettare la realtà, di volgersi a ciò che effettivamente non muore. Rifuggendo parimenti dall’opposta debolezza, quella non di ‘eliminare’ bensì di vantarsi della fragilità, di portarla come una bandiera, lasciando trasparire un’untuosa, taroccata umiltà. Una moda che pure ha molti seguaci. Fors’anche più insopportabile della “grandezza” del ‘grande’ è la “grandezza” di chi esibisce il proprio ‘nulla’. Ecco perché il nostro scrittore, saggiamente, delicatamente, ha usato la parola ‘traccia’ e non,
Fango e grandezza
Il nostro amico albero di Biagio Guccione Francesco Ferrini, in questi ultimi anni, si è affermato come uno degli studiosi più autorevoli sul tema del verde urbano e ciò sia a livello nazionale che internazionale. Con questo volumetto, scritto insieme ad Alessio Fini, ha voluto sintetizzare più di 300 studi e ricerche compiuti in molte aree del mondo. Mettendoli a disposizione, tanto in ambito accademico e che in ambito più vasto, li rende patrimonio di tutti. Capacità di sintesi e afflato divulgativo sono la cifra stilistica di questo libro. Certamente, tutti sappiamo sino dalle scuole elementari il valore degli alberi, molti di noi sono scresciuti avendo ancora vivo il giorno della festa dell’albero; tuttavia trovare sintetizzati le virtù, il valore e le potenzialità dell’Amico albero in circa cento pagine è una straordinaria operazione che sa fare solo quello studioso che conosce bene la materia. Per divulgare bisogna avere chiaro in mente
per dire, ‘manifesto’! Se questo mio pensiero mattutino dovesse suonare scoraggiante o perfino triste, valgano a chiuderlo alcuni versi di uno dei più grandi libri biblici (Qoelet, 7, 3-5): “E’ preferibile la mestizia al riso, perché sotto un triste aspetto il cuore è felice. Il cuore dei saggi è in una casa in lutto e il cuore degli stolti in una casa in festa. Meglio ascoltare il rimprovero del saggio che ascoltare il canto degli stolti.”
ciò di cui si scrive, e, certo, non si prescinde che bisogna possedere la disciplina in tutti i suoi complessi aspetti; ma renderla chiara in poche parole restituendola al vasto pubblico, richiede molto acume: “forza che penetra il vero delle cose”. Il libro risulta, dunque, piacevole per tutti: esperti e profani. Segnaliamo qui la Premessa stesa da Luca Toschi. Essa dà un’interpretazione suggestiva del testo; lo stesso Ferrini lo qualifica come il terzo autore del saggio! Il saggio elenca i vantaggi degli alberi in città, si spazia: dai benefici economici indotti alla riduzione dei costi del servizio sanitario nazionale, dai benefici ambientali alla creazione dei posti di lavoro, dai benefici socio-psicologici alla riduzione dell’isola di calore. L’elenco continua. Ogni ambito è trattato con rigore, con dati scientifici e sperimentazione pratiche. Ferrini e Fini non trascurano di mettere in guardia anche sugli aspetti negativi della presenza dell’albero in città, al contempo però illustrano come ovviarvi. Citiamo, uno per tutti, la pericolosità delle improvvise cadute degli alberi che spesso provano morti e feriti; vi si dovrebbe provvedere attraverso la sostituzione programmata senza lasciarsi condizionare da “Comitati pseudo-ambientalisti” che usano la difesa degli alberi per qualche inconfessata battaglia politica.
13 2 DICEMBRE 2017
di Giacomo Aloigi E’ “qui” che torno sempre, anche senza volerlo, come se le strette e tortuose vie del centro fiorentino mi guidassero, seguendo un percorso obbligato. “Qui” è in via de’ Neri. “Qui” è Contempo. Una storia cominciata quarant’anni fa, quando Giampiero Barlotti apre un negozio di dischi che diventerà molto di più. Quarant’anni, che verranno festeggiati il 20 gennaio alla Flog con un concerto-evento ricco di ospiti e sorprese. Si è mosso per il quartiere di Santa Croce, Contempo, da Via Verdi a Via de’ Neri, poi Corso dei Tintori e infine di nuovo via de’ Neri, dove ancora oggi ci racconta di musica e di storie che vorremmo non avessero mai fine. Al tramonto degli anni Settanta il negozio diventa ben presto un punto di riferimento imprescindibile per chi a Firenze cerca “altro”, suoni e fascinazioni che non si trovano nei solchi dei vinili da top ten, ma che stanno lontano, nell’Inghilterra post-punk, nella Berlino dell’elettronica più estrema, nel melting pot che già sono i Paesi Bassi, nella New York della “no wave”. C’è un altro modo di fare musica in Europa e oltre oceano, e l’unico posto in città dove quella rivoluzione arriva è proprio Contempo. Dischi che spesso non trovano neppure una recensione sulle riviste di settore ma che Giampiero capisce siano destinati ad avere un seguito. I primi anni Ottanta gli danno ragione, Firenze diventa la capitale italiana della new wave e Contempo ne è la casa, il cuore pulsante. Non si va da Contempo solo per acquistare un disco, ci si va per incontrarsi, per riconoscersi, per scambiarsi pareri, sensazioni, emozioni. E’ così che si cominciano a fare progetti, è qui che si trovano la spinta e l’entusiasmo per dar vita alle tante band che improvvisamente si formano in città. E’ qui che nasce il movimento. Ed è inevitabile che Contempo compia l’ulteriore passo. Diventare anche un’etichetta, produrre i lavori di quegli stessi ragazzi che passano ore nel negozio, prima di tuffarsi nelle cantine a provare, a suonare fino all’alba. E’ nel 1983 che vede la luce “Altrove” dei Diaframma, il primo disco targato “Contempo Records”. Da quel momento l’avventura discografica prende il via e coinvolge i Ltfiba, i Pankow, Soul Hunter e poi si estende a gruppi di tutta la penisola, Carillon del dolore, Death in Venice, Militia. Si creano sinergie con altre etichette di tendenza, come l’inglese 4AD di Ivo Watts-Russell e si comincia a guardare anche ad altri generi
14 2 DICEMBRE 2017
Contempo compie quarant’anni come il progressive (Nuova Era) o il metal (Death SS). Un decennio abbondante di produzioni che non a caso tutt’ora vengono ristampate. E’ facile allora dire che Contempo è stata la casa del rock fiorentino, facile quanto assolutamente innegabile. Ma al netto della retorica, sempre in agguato quando si ricorda un periodo entusiasmante della propria vita, Contempo è stata ed è una casa dell’anima, un luogo amico, in certi momenti perfino un rifugio. Qui sono nate amicizie profonde e si sono consumate fratture dolorose, qui molti sogni si sono avverati e altrettanti sono evaporati, qui si sono condivisi momenti di esaltazione e trattenuto lacrime di dolore o di rabbia. Cose della vita, cose di tutti. Ma proprio per questo Contempo è casa, perché è ed è stata vita vera, forse a volte più vera del vero, perché caricata dell’eccitazione che accompagnava ognuno di noi nel sentirsi parte di una comunità, per quanto variegata e improbabile potesse apparire. Per questo alla fine torno sempre “qui”. Perché c’è un legame che attraversa il tempo
e forse anche la razionalità e che mi conduce davanti a questa vetrina, oltre la quale vedo ancora Giampiero sempre in forma smagliante e a cui mi lega un affetto particolare, che è quello dato dalla gratitudine. Perché se nel bene o nel male sono quello che sono, è anche merito (o colpa) sua. E di Contempo.
di Claudio Cosma La poltrona di questo disegno la cui alta spalliera “capitonnè” è già una promessa di protetta comodità, mi lascia immaginare di abbandonarmi a lei con un libro che ho già scelto e di lasciarla partire, come le sue frange vibranti annunciano, per un viaggio che è già sogno senza lasciare sul foglio neanche l’ombra che Leonora ha dimenticato di fargli. L’assenza di ombra della quale non ci si accorge subito non ci impedisce di collocarla in un luogo preciso dove meriterebbe stare, l’immaginazione e l’uso dei dettagli presenti ci permettono di vederla in una grande stanza, vicino ad una veranda che nel pomeriggio riceve alcune ore di sole e sulla quale è piacevole sedersi proprio in quei momenti. Il periodo è primaverile, ma ancora fresco, forse maggio, mese nel quale sono stato nella casa studio di Leonora Bisagno a guardare le sue opere e il chiarore del foglio mi fa pensare che vicino ci possa essere un caminetto acceso e un gatto appena alzato che abbia lasciato il suo candido tepore sul grande cuscino. La “bergère”, perché tale è il tipo di poltrona, è sospesa, fluttuante, appena arretrata in una illusoria prospettiva bidimensionale, da un’unica pennellata orizzontale di un tenue colore rosa, forse a rappresentare, in estrema sintesi, un leggero tendaggio, forse un tentativo di dissolvimento. Un mobile di famiglia, che emana un’aria di consuetudini, probabilmente non comprato, che fa da sempre parte della casa, da usare dove serve, come erano la gran parte degli arredi nel ‘700, sempre pronti ad apparire non per necessità , ma per puro piacere. Questa poltrona da lettura opera di un bravo tappezziere sembra aspettare un personaggio di Alberto Savinio, una signora elegante col collo e la testa di uccello, mitologicamente fusa, alla maniera dei centauri, mezzo uomini e mezzo cavalli, in parte donna, in parte poltrona, in parte anatra. Un mobile silenzioso ad uso di persone che non hanno bisogno di parlare per intendersi che potrebbe apparire in un dipinto di interni di Vuillard che rendeva gli arredi come fossero nature morte. Silenzio o al massimo una musica di Debussy, uno stile vagamente orientale, vagamente sopra la linea della realtà, un piccolo disegno che ti invita a stare bene da solo. P.S.: Il libro col quale mi siederei su questa “bergère” senza orecchie è Bellezza e bizzarria di Mario Praz, grande ammiratore di tappezzerie “capitonnè”.
Poltrona da lettura ed altro 15 2 DICEMBRE 2017
di Matteo Rimi Ci sono sfide che solo quando si è giovani, pieni di energia e un po’ sfacciati, è possibile accettare. Cercare di far arrivare vento nuovo sul già rigidamente canonizzato mondo della cultura fiorentina è sicuramente tra queste. E’ ciò che sta cercando di fare Fumofonico, un collettivo che raduna professionisti, appassionati, attori, musicisti, con il nobile intento di traghettare il dilagante fenomeno della poesia orale (“Termine che come gruppo non condividiamo in quanto ci sembra un rafforzativo lapalissiano anziché una distinzione categorica,” mi dicono) tra i sonnecchianti vicoli del centro cittadino. La spinta primigenia è sicuramente il Poetry Slam, una vera gara tra poeti che declamano i propri versi di fronte ad un pubblico acclamante e giudicante, se è vero che due tra i suoi fondatori, Nicolas Cunial e Tab Palmieri, hanno avuto l’idea proprio durante una di questi competizioni in quel di Bologna: del resto loro, slammer di prim’ordine, già viaggiavano per tutta Italia per competere tra i migliori. Così, lo slam targato Lega Italiana Poetry Slam (una delle autorità in questo campo) è approdato a Firenze, portandosi dietro tutta la freschezza, la spettacolarizzazione, che questo fenomeno reca con sé, cosa che fa storcere il naso a più di un purista (ma si parla di diatribe del tutto teoriche seppur caldissime) ma divertire e non poco i tanti spettatori che assistono a queste serate. Cosa non certo scontata quando si parla di poesia... E non è il solo tipo di evento che il Fumofonico presenta nei tre locali fiorentini che, per ora, li ospitano di buon grado, il Black Lodge, il Volume e il Cardillac: ci sono gli Open mic, eventi a microfono libero dove tutti possono interpretare poesie, prosa, canzoni, interpretazioni di ogni sorta, e la Poesia totale, un format di loro ideazione in cui, a seguito di un breve Open mic, ci si scatena con concerti di Spoken music e perfomance poetiche estasianti. Ma sarebbe riduttivo pensare che il loro operato si limiti ad inanellare eventi uno dietro l’altro con la forza e le risorse che già detengono a pochi mesi dalla fondazione del collettivo: sono già su Facebook, prossimamente su Instagram, e, sebbene ammettano di avere “in realtà ancora molto da lavorare sul versante marketing”, i progetti in ballo sono già molti. “Stiamo organizzando più perfomance di gruppo,” concludono, “
16 2 DICEMBRE 2017
una delle quali è segreta ma vi assicuriamo che sarà sbalorditiva; ci sono progetti radiofonici, concorsi di videopoesia, festival; ci stiamo anche preoccupando di definire la nostra immagine visto il mondo copertinagiudicante in cui viviamo, ma non per il nostro multiego, vogliamo solo poter arrivare a chiunque e rilanciare la poesia al massimo delle sue capacità, perché riteniamo che sia una necessità sociale, che ogni donna e ogni uomo possano comprenderne la bellezza e stringersi a essa. Per cui noi nel futuro prevediamo molto fumo, quello buono, quello
fonico.” Sarà quindi un piacere avere stasera al Nuovo Chiodo Fisso di Fiesole, durante la rassegna “Il chiodo fisso degli artisti”, proprio uno dei fondatori, Nicolas Cunial, che, circondato dalle sculture della mostra di Carlo Nannini che proprio oggi aprirà i battenti, sorprenderà il pubblico con il suo verso ritmico e sinuoso, mantra moderno per persone (non più) distratte! Ci sono sfide che solo quando si è giovani è possibile accettare. E, a volte, anche vincere.
Un fumofunico su Firenze
di M. Cristina François Siamo nel 1565. Mentre sulla facciata della Chiesa di S.Felicita ferve il lavoro per la costruzione del Corridoio Vasariano, la vita quotidiana di questo ‘popolo’ procede a pieno ritmo, fra dimore nobiliari, povere case e botteghe di gente che vive e sopravvive. Diamo un rapido sguardo alle botteghe e ai mestieri con i loro ‘servizi e punti vendita’. Per i lavori di più difficile interpretazione, daremo una breve spiegazione fra parentesi. In Piazza S.Felicita le botteghe erano tutte proprietà del Monastero [Mss.118, 126, 720], eccetto l’“Apotheca aromataria del Monastero di S. Gaggio” che si apriva sotto le case dei Rossi sul lato nord della Piazza S.Felicita; ad ovest, di fronte alla Chiesa, sotto le case dei Nerli si affacciava un forno; un altro forno, che provvedeva per tutto l’anno il pane alle Monache, era “in testa della nostra Piazza”, toponimo per l’attuale Piazzetta de’ Rossi (ASF, n.83, Ms.94, c.36v); poco distante un collarettaio (confezionava colletti e gorgere); nel lato sud, angolo con Via Guicciardini, un calzolaio e un pianellaio che fornivano alle religiose scarpe d’estate e d’inverno in pelle di vitello; seguivano sullo stesso lato, al piano terra delle “case de’ preti”, un legnaiolo, un intagliatore e un battiloro. Proseguendo per le altre strade e contrade di questo ‘popolo’ si incontravano: Vettorio di Mariano sarto; Giovanni di Giovanni Bicci pintore; Messer Lionardo Marinozzi Cameriere di Sua Eccellentia; il Franzese tavolaccio (fattorino); Tommaso di Fruosino beccaio; Giovanni di Domenico donzello (usciere, paggio pubblico); Jacopo fabbro sul Pontevecchio; Gostanza di Dono rigattiere; Girolamo di Cortaldo pannaiuolo (mercante di panni); Ceseri di Lorenzo treccone (rivendugliolo); Cassandra di Antonio torcitore (torceva i fili di seta); Gismonda di Domenico tavolaccio; Piero di Giovannj fornaio; Andrea di Lorenzo torcitore; Raffaello di Francesco calzolaio; Checca di Jacopo quoco; Caterina di Lorenzo meretrice; Nannina cieca meretrice; Soria lucchese meretrice; Dianora Pisana meretrice; Lorenzo maniscalco al Ponte vecchio; Giovannino tavolaccio; Bertino di Zanobi fornaio; Benedetto di Agnolo hoste; Lucrezia di Mattio delle macchine; Michelagnolo di Andrea tessitore; Giovanni da S. Casciano pizzicagnolo; Sandro di Francesco tessito-
Buongiorno! Buonasera! Bottegai e artigiani re; Bencio coiaio al Ponte vecchio; Batista di Mariotto battiloro; Stefano di Francesco purgatore (liberava la lana dall’olio); Lorenzo tavolaccio; Taddeo di Bastiano rivenditore; Mariotto di Francesco fornaio; Lorenzo di Piero lanino; Giovanbattista d’Andrea lanciaio; Lorenzo dalle Pozze lanino; Stefano di Francesco purgatore; Niccolò di Carlo delle tarsie; Marco di Jacopo purgatore; Piero d’Anton brigliaio; Zanobi di Bastiano battilano; Madonna Caterina di Stefano cavallaro; Jacopo di Biagio sarto; Alexandro Tucci linaiuolo; Vincentio di Cione tessitore; Giulia, di Francesco maniscalco, meretrice; Madonna Gostanza di Buono coiaio; Ginevra di Giovanni meretrice; Agniolo di Simon fabbro meretrice (vestiva da uomo); Lucia di Domenico battilano meretrice; Daria Bolognese meretrice; Anastasia di Giovan-
ni torcitore; Antonia di Stefano tavolaccio; Battista che accatta per li prigioni; Antonio di Piero legnaiolo; Fello di Bernardo beccaio; Federigo di Giovanni fornaio; Domenico di Matteo calzolaio; Bartolomeo di Lorenzo fornaio; Pietro di Jacopo ciabattino; Gostanza di Lexandro Berettaio; Rede di Guasparri purgatore; Ser Andrea Pagani notaio; Vincentio di Vieri tiraloro; Niccolò cavallaro; Sandro di Francesco mugniaio; Arcangiolo di Luca tessitore; Andrea da Balatro muratore; Alessandro di Benedetto legnaiolo; Angiolo di Tomaso calzolaio. Per i servizi non presenti nel quartiere si andava da Piazza S.Felicita nel vicino quartiere di S.Spirito. Eccoli qui di seguito [cfr. S. Meloni Trkulja a cura di, “I Fiorentini nel 1562”, 1991]: un Arrotatore, un Coltellinaio, un Forbiciaio, un Ottonaio, un Ferravecchio, uno Stagnaio, uno Stovigliaio, un Bicchieraio, un Orpellaio, un Beccaio, un Lasagnaio, un Pesciaiuolo, un Canovaio, un Pollaiuolo, un Toccatore (assaggiatore), un Barbiere, un Medico, un Bastiere, un Carrettaio, un Vetturale, un Sellaio, un Calzaiuolo, un Cappellaio, un Berrettaio, un Occhialaio, uno Zoccolaio, un Cartolaio, un Legatore (imballatore), un Merciaio, un Guancialaio, un Materassaio, un Lavatore di lana, un Cimatore, un Divettino (batteva la lana), un Filatoiaio (lavorava la seta), un Carradore, un Pagliaiuolo; e ancora, Tessitori di drappi, broccati, rasi, seta e oro, un Rammendatore, un Ricamatore, un Tintore, un Canattiere (custodiva i cani), un Pelacane (conciatore), un Galigaio (conciatore/calzolaio), uno Strozziere (vendeva falconi per la caccia), un Gabbiaio, un Cappiaio, un Funaiuolo, un Cavatore di lastre (di pietra), un Torniaio, uno Scalpellino, un Fornaciaio, un Riveditore (separava la borra dal panno), uno Spadaio, un Guainaio, un Corazzaio, un Bombardiere, un Lanciaio, un Votapozzi, un Corriere, un Zanaiuolo (facchino), un Banditore, un Pesatore. Mi commuove pensare che alla fine degli anni ’80 del XX secolo, quando cominciarono irreversibilmente a chiudere artigiani, botteghe di prima necessità, negozi specializzati, abbassò per sempre il bandone anche l’Elvira che ebbe il forno sotto quelle stesse case che furono un tempo dei Nerli. Oggi, ovunque, una serie infinita di shops uniformi, senza identità né memoria, avulsi dal contesto, il cui principale servizio consiste in punti ‘food’ innumerevoli, anonimi e globali.
17 2 DICEMBRE 2017
di Andrea Ponsi Downtown 1
Grant Avenue, prima italiana, poi cinese, passata la porta a forma di pagoda che indica il confine di Chinatown, diventa prettamente americana. Comincia il downtown. La strada è principalmente commerciale. Negozi, showrooms, ristoranti, luci ed insegne. Prima insegna: “Avant card”. Cartoline di auguri apparentemente d’avanguardia. Seconda insegna: “Wine Bar”. L’Europa gourmet è arrivata qui da anni, ma “wine bar”, malgrado i vini della California, ricorda più Roma o Parigi. Terza insegna: “Banana Republic”. Autenticamente americana. Quarta insegna: “Wester Gallery”. Picasso, Chagall, Dalì, Matisse e altri nomi. Arte vera, ma qui d’arredamento. Quinta insegna: “Public Parking”. Non sarebbe facile arrivare fino a qui senza questi convenientissimi edifici. Sesta insegna: “Prada”. Un pezzetto di Italia? Ormai nemmeno quello. Strada globalizzata. Un pezzetto di un mondo tutto uguale. Grant Avenue
Solo un isolato e Grant Avenue da italiana (italo-americana) si trasforma in via cinese (Chinatown). Come se un fiume cambiasse all’improvviso il colore delle acque. Qui le auto che sfrecciano su Columbus Avenue, le banche, i caffè, il campanile, la Madonna nel portale della chiesa. Là, oltre il semaforo, le insegne incomprensibili, l’odore di wong tong, le case rosse e verdi, i dragoni, il grande Tao. Chinatown
È sabato pomeriggio. Mi sono seduto su una panchina del parco affollato di cinesi. Il parco, un piccolo altopiano sospeso al confine tra Chinatown e downtown, è un palcoscenico il cui sfondo è costituito da una muraglia di grattacieli ora illuminati dal sole del tramonto. Centinaia di persone si accalcano tra loro in capannelli. Lo spazio centrale della piazza è vuoto, solo qualcuno lo attraversa per passare da un capannello all’altro. Dentro i capannelli si svolgono due tipi di giochi: le carte, posate su un pezzo arrangiato di cartone e una specie di dama. Due sono i contendenti ma l’intero capannello partecipa con gridi, ordini, consigli. Non ci capisco nulla. Tutte queste voci si alzano nel parco con boati im-
18 2 DICEMBRE 2017
Mappe di percezione provvisi come stormi di piccioni che volano via in gruppo. Voci straniere? Ma se vivono qui da quasi duecento anni! Parco straniero? Ma se è nel cuore della città! Volti stranieri? Ma ormai non esiste più a San Francisco un volto che si può dire tale. Chinatown è solo un quartiere, un piccolo, grande quartiere che come la Città Proibita di Pechino si definisce rispetto al resto della città con precisi confini. Non è proibito entrare, fare shopping, curiosare, ma, per tutti i non cinesi, è proibito capire cosa si dice, si scrive, si grida. Le mura di Chinatown non sono mura di pietra, ma mura di voci. Downtown 2
È ormai sera. Ai centesimi piani dei grattacieli che mi si affollano intorno come una foresta di prismi silenziosi ancora molte luci sono accese. Mescolati col nero del cielo, gli immensi solidi convergono in prospettiva in
San Francisco
un punto allo zenith su di me. Si intuisce che quei milioni di metri cubi di spazio sono vuoti; che l’intera popolazione che poco fa era lì a lavorare ora è nella metropolitana, in fila sulle freeways o a bere nei bar delle Happy Hours. Qui in basso scorrono gli ultimi fari di automobili. Anche loro si stanno diradando. Queste strade poco prima dense di rumori, venditori ambulanti, questuanti e businessmen, sono deserte. Vi si aggira soltanto qualche passante solitario o chi si avvia ad un giaciglio di cartone in un androne. Un tram passa sferragliando, poi un clacson lontano. Solo le luci dei semafori continuano a recitare la loro parte in un teatro vuoto. Sono le 6 pomeridiane e quello che poco fa’era il centro vitale ora è un luogo abbandonato. Vanno presto a dormire le downtown americane.
di Andrea Cammelli Continua il dibattito sugli strumenti urbanistici del Comune di Fiesole iniziato dall’articolo di Antonello Nuzzo (Ass. all’urbanistica di Fiesole dal 1975 al 1990), al quale hanno fatto seguito le opinioni del prof. Giovanni Maffei Cardellini (urbanistica), di Alessandro Pesci (sindaco di Fiesole dal 1993 al 2004, di Tommaso Rossi (attuale Cons. Com.le di Fiesole del Gruppo PD), oggi pubblichiamo l’opinione di Andrea Cammelli (Capogruppo del PD nel Cons. Comunale di Fiesole). Per parlare di urbanistica non bisogna necessariamente essere stati architetti, così come ci ricorda il buon giornalista sportivo Giampaolo Ormezzano “per parlare di ippica non bisogna essere stati cavalli”. Ma vivendo il territorio siamo in grado di valutare le passate strategie e immaginare ciò che il futuro debba offrire. Oggi il quadro normativo ed economico è profondamente mutato. Con un ragionamento che parte da lontano ma che non vuole dilungarsi troppo sui successivi e ben noti passaggi, possiamo notare come a scelte strategiche anche coerenti con l’andamento politico e il benessere economico dell’epoca, non sia seguito un disegno più complesso che, successivamente alla realizzazione, progettasse anche il modo di usare e di vivere quanto costruito. O meglio, seppur vi fosse stato, oggi possiamo dire che qualcosa non ha funzionato. L’idea di ridisegnare il centro di Fiesole dando un’identità compiuta ad un luogo che storicamente ne era privo (piazza Mino), di realizzare un edificio come l’auditorium, di riempire il vuoto di piazza Garibaldi e anche la riorganizzazione del campo sportivo e dell’ex area macelli, è stata l’occasione per favorire la rivisitazione di un tessuto urbano che doveva necessariamente essere adeguato ad una comunità che si sviluppava e che, se non voleva morire, doveva riorganizzarsi nel rispetto della sua vocazione e della sua storia. Eppure l’auditorium non è ancora in esercizio, piazza Garibaldi non è ultimata, le case dell’area ex macelli sono quasi praticamente invendute e la nuova zona artigianale non funziona come dovrebbe. Aggiungiamo a questa veloce analisi altri tre punti: la problematica (vera o percepita) dei parcheggi nel capoluogo, il riutilizzo di grandi contenitori (soprattutto il Sant’Antonino) per i quali il prossimo futuro non offre sviluppi incoraggianti, la carenza di aree verdi attrezzate a disposizione delle associa-
Le scelte politiche vengono prima dell’urbanistica zioni. In questo quadro mutato, ci troviamo a riscrivere gli strumenti urbanistici. Decidere davvero cosa si possa e si voglia fare, e come e quando farlo, significa anzitutto creare le condizioni per Fiesole di riflettere su sé stessa, dando a questa città un’occasione (o più di una) per farlo (così come veniva richiamato a ragione nei precedenti numeri di questa pubblicazione). I recenti incontri organizzati dall’Amministrazione e mirati alla raccolta di dati, impressioni e suggerimenti da parte della cittadinanza, per quanto abbiano offerto un’infarinatura sui passaggi da tenere di conto, non mi pare abbiano messo sul piatto grandi idee, confondendo “piccole” motivazioni personali e benessere pubblico. Sarebbe invece necessario alzare l’asticella del dibattito, lavorando prima alla formazione di un pensiero. Insomma, che prima gli urbanisti individuino le linee guida e che poi i cittadini le condividano o meno. Un pensiero che dovrà nascere da un fatto: servono politiche pubbliche integrate per urbanistica, salute, ambiente, sport e cultu-
ra. A misura di chi e di cosa pensiamo la Fiesole di domani? E poi come la realizziamo? E qui il punto imprescindibile: un reale coordinamento tra pubblica amministrazione, società civile e settore privato. Perché non sfruttare le risorse economiche private per la fornitura dei servizi? In pratica, perché non pensare ad uno strumento di programmazione che (in convenzione con l’investitore) demandi alle economie del privato la realizzazione dei servizi? Le Associazioni presenti sul territorio, attraverso il giusto coinvolgimento e una buona politica, rappresentano un’importante risorsa in questo senso. Chiamando al tavolo della pianificazione settori mirati della società, si possono di volta in volta definire strategie e interventi. Sia ben chiaro, una regia pubblica dovrà sempre mantenere il controllo sulla qualità e sulla programmazione, regolando i giusti interessi tra le parti e mantenendo massima accessibilità al servizio, per una gestione virtuosa e vantaggiosa. Per tutti. E questo, prima che all’urbanistica, spetta alla politica.
19 2 DICEMBRE 2017
di Simonetta Zanuccoli Nel centro d’arte La Malmaison, piccolo spazio sulla Croisette di Cannes dedicato a raffinate mostre monografiche del XX e XXI secolo, è in corso fino al 29 aprile 2018 Picasso. La suite Vollard. In esposizione, evento raro, la raccolta completa delle 100 incisioni fatte dall’artista tra il 1930 e il 1937 per il famosissimo mercante d’arte Ambroise Vollard (1866-1939). La mostra è anche la testimonianza di un’amicizia e collaborazione tra i due che durò quaranta anni fino alla morte di Vollard. Quando si sono incontrati, all’inizio del 1900, Ambroise era già il leggendario scopritore di avanguardie che aveva nella sua scuderia di collezionista e mercante d’arte Van Gogh, Cézanne, Gauguin, Matisse, Bonnard...e Pablo era un giovane pittore catalano che, non ancora ventenne, era arrivato a Parigi senza un soldo e che viveva e lavorava in una specie di comune-atelier, le Bateau-Lavoir, insieme ad altri artisti in attesa che qualcuno lo scoprisse. Anche gli inizi di Vollard, anni prima, erano stati duri. Primo di 10 figli di un benestante notaio francese che viveva nell’isola di Réunion, Ambroise, dopo aver studiato senza interesse legge, decide di andare a vivere a Parigi dove vive, da studente scioperato senza un soldo, in minuscole mansarde. Ma la sua passione per stampe, volumi e disegni acquistati a poco prezzo dai bouquinist dei Lungosenna e nelle polverose librerie di Saint Germain lo portano a crearsi una piccola collezione ed a aprire un negozietto. “Un personaggio goffo, sempre imbronciato, che sulla soglia della sua bottega guardava i passanti con l’aria di mandarli al diavolo” come ricorderà, anni dopo, Geltrude Stein. Ma il suo gusto, l’intuito e l’amore della trasgressione alle mode correnti piace al variegato popolo della Parigi letteraria e artistica e poi, pian piano, anche ai ricchissimi e viziatissimi collezionisti del gran mondo internazionale. E così Vollard riesce ad entrare nel ristrettissimo club dei fondatori del moderno mercato dell’arte. E’ stato lui a fare la prima mostra a Picasso, nel 1901, nella galleria in rue Lafitte, vendendo un gran numero di suoi dipinti a prezzi bassissimi. Cinque anni dopo gli compra 27 opere del periodo blu, pagandole solo 2000 franchi, e poi nel 1910 organizzerà una sua retrospettiva. In esposizione un ritratto del mercante in stile cubista poi diventato celeberrimo e oggi al museo Puskin di Mosca. Compra anche 14 lastre de Le repas frugal, incisioni con personag-
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Ambroise, l’amico mercante di Picasso gi dalle figure allungate d’impressionante realismo. Le intitola I saltimbanchi, ne fa una tiratura di 250 esemplari, spropositata per l’epoca, tutti venduti con un enorme successo. Intanto Vollard ha iniziato la sua attività di editore facendo illustrare ai suoi artisti i classici della letteratura: Verlaine da Bonnard, Gogol e la Fontaine da Ghagall, Baudelaire da Emile Bernard...Commissiona a Picasso le illustrazioni Le chef-d’ouvre inconnu. Il pittore crea una costellazione onirico surrealista di segni indecifrabili che disorienta i bibliofili. Ma Vollard crede in Picasso e insiste con L’histoire naturelle di Buffon. Picasso si scatena in un bestiario fantastico di scimmie, galli, struzzi e altri pennuti realizzati con una tecnica rivolu-
zionaria: acquatinta allo zucchero aggiunta all’acquaforte. E infine la raccolta di cento incisioni, vera esplosione creativa, intitolata Suite Vollard che diventerà la serie grafica più celebre di Picasso. L’artista, ormai divenuto famoso, si fece pagare dal mercante questa opera e i diritti di pubblicazione con due quadri, un Renoir e un Cézanne, della sua collezione privata. Lo stesso anno (1939) in cui è stata stampata il mercante muore in un tragico quanto “beffardo” incidente d’auto, colpito alla nuca da una scultura di Maioll che stava trasportando. Questa tragedia combinata all’inizio della Seconda Guerra Mondiale ritarda notevolmente l’uscita dell’opera, fino a quando un altro rinomato commerciante d’arte, Henri Petiet, acquista Suite Vollard per 10.000 franchi, guadagnandone molto di più vendendo le incisioni singolarmente e facendo diventare le pochissime raccolte lasciate complete, come quella in mostra alla Malmaison a Cannes, estremamente rare e preziose. Giochi da mercanti.
di Cristina Pucci Per cambiare un po’ i miei temi e oltre i film, belli impossibili di cui, magnificamente, parla Cusa, un film Svedese, “Mr Ove”, di Hannes Holm, non altrimenti noto, candidato all’Oscar come miglior film straniero, tratto dal romanzo di Fredrik Backam “L’uomo che metteva in ordine il mondo”. Ce ne vorrebbero!! Bisbetici e bisbetiche domati riempiono cinema e letteratura, ma questo Ove è proprio e più particolare e più scorbutico e, nel suo esserlo, più simpatico. Vive in un condominio di basse casette di legno bianche, vigila, facendo “il suo giro” ogni mattina, su ordine, pulizia e pedonalizzazione che vi devono regnare, maltratta tutti quelli che si permettono ogni minima infrazione al regolamento condominiale. Io trovo irresistibile uno che criminalizza chi getta le cicche per terra, chi percorre in macchina strade pedonali, soprattutto se è un “colletto bianco” e critica chi non differenzia perfettamente la spazzatura e, soprattutto, adoro il suo non subire in silenzio. Esilaranti i suoi attacchi e le sue asciutte e precise recriminazioni! Tutti i colpevoli sono “Idioti”. Un pò mi sono sentita in compagnia, perchè mi capita di fare altrettanto. Ove lavora da 40 anni, senza perder tempo in chiacchiere, alla Saab di cui venera e possiede, sempre ed esclusivamente, le auto. Viene pensionato anzitempo. É vedovo e solo, va al cimitero a portare delle rose alla moglie, le parla e le dice sempre “mi manchi”. I vicini con i quali è brusco e rifiutante sembrano stimarlo e volergli bene e più o meno volontariamente lo salvano anche una delle volte che prova a suicidarsi. Questi suoi tentativi, seri, non tanto per fare, così come alcuni eventi e battute, nella loro intrinseca realtà, sono surreali. Mentre aspetta la morte ripensa la sua vita costellata di lutti, tristezza e solitudine. La madre muore quando è piccolo, il padre di poche parole ed effusioni muore anche lui presto investito da un treno. La sua casa, oggetto di desiderio di speculatori edilizi, brucia. Se “la vita è un viaggio fra le risate e le lacrime”, come dice il regista, quella di Ove sarebbe trascorsa solo fra le lacrime se, per caso, su un treno, non avesse incontrato Sonja, delizioso e sempre sorridente raggio di sole, che sembra cogliere la sua disperante e muta fame d’amore ed esserne affascinata. Eh sì, gli affetti sono la cosa più importante della vita. Arriva una nuova famiglia vicino a lui, una giovane coppia, lei è iraniana ed incinta, hanno due bambine, sono socievoli e sembrano intuire il cuore sotto gli spinosi aculei, lei soprattutto non si perita a chiedere l’aiuto di Ove quando le serve e gli parla, lo critica, lo interroga. Si relaziona. Come per tutti può essere è questa relazione che riapre Ove al sor-
riso ed al riavvcinamento con il suo vecchio ed unico amico, ora afasico ed in sedia a rotelle, cui non aveva perdonato di averlo scalzato nella Direzione del Condominio e di avere sempre acquistato macchine altre dalla Saab. E’ a questa donna, che intuisce il suo possibile calore ed il suo bisogno, che racconterà come Sonja, incinta, abbia perso il bambino e l’uso delle gambe in un drammatico incidente, causato da un autista ubriaco, come sia stata una guerra provare ad ottenere dalle Istituzioni aiuto per farla accedere alle scuole, piene di barriere architettoniche,
Un esame di lingua italiana per entrare in parlamento di Burchiello 2000 “Io ho preso una scelta… per il mio futuro”; “Io non ce l’ho contro qualcuno in particolare…”. Ed ancora : “Io quando sono entrato in Parlamento non sapevo nulla e ho dovuto studiare”, “I cittadini hanno uscito il loro portafoglio per dare soldi ai partiti…”, “Sarò breve e circonciso…” (rassicurò un deputato esordendo nel suo atteso intervento), “Di che cosa è capace l’homus politicum…”, “Al sindaco Raggi la telefonerò…”, “Se ci troveressimo…”, “Mi facci finire…mi facci finire”, “La situazione che si è creata sulla conduttura economica…”. Qualcuno ne ha fatto una Galleria degli Orrori e il sito sembra piuttosto frequentato. A questo punto è di tutta evidenza come il problema non sia più quello dei “congiuntivi” o della sitassi in generale ma della grammatica e fors’anche dell’ortografia. Pleonasmi e anacoluti sono già materia da “piani alti”! Ricordiamo con nostalgia Il parlar materno/ Grammatica italiana per la scuola media
Mr Ove
per consentirle di continuare ad insegnare, e come sia stato poi proprio lui, che sa far tutto, altra cosa fantastica, a costruire le pedane di accesso. Come se il dolore non fosse mai abbastanza, un tumore l’ha uccisa. Una curiosità, lo stato Svedese sembra imporre la istituzionalizzazione degli invalidi, anche contro il desiderio della famiglia, sarà Ove a coagulare e dirigere la protesta e salvare il suo amico dalla forzata deportazione. Il film trascorre fra “le risate e le lacrime “, come la vita di ognuno e di tutti, gli interpreti superbi, che altro?
(del bravo Giorgio Abrami che, su loro invito, riguardava le “bucce” a Giovanni Papini e Piero Bargellini). E senza stare ad evocare il Pasquali, il Migliorini o il buon Devoto, si rivada al delizioso …Si dice?... di Eugenio Treves, ove, a proposito di un ‘Breve elogio della grammatica’ si dice testualmente: “A proposito della grammatica: ci sia permessa una breve parentesi per suggerire ai nostri amici di tenere sulla loro scrivania, accanto al vocabolario, una grammatica italiana e di leggerne di tratto in tratto qualche pagina. Oltre che trarne pratico giovamento, faranno una scoperta: che questo libercolo, detestato quando lo studiavamo nella scuola […] quando lo leggiamo per spontanea elezione e nell’età matura è invece impensatamente e straordinariamente appassionante, come quello che ci immette nella segreta officina del nostro pensiero…”. E allora, riandiamo al sommo poeta e alla sua nota terzina: O Tosco, che per la città del fuoco Vivo ten vai così parlando onesto, piacciati di restare in questo loco. Ecco, il “parlare onesto” dovrebbe essere un precetto, magari da stabilire per decreto, per chi si accinge alla soglia del Parlamento della Repubblica.
21 2 DICEMBRE 2017
di Marco Zappa e Rossella Seniori Lasciamo Ulan Bator e ci immergiamo nella natura. Ci dicono che alcuni anni fa l’aspetto della prateria era diverso. L’erba era più alta e il vento muoveva queste masse ondulate. Ora l’erba è molto più bassa: ci dicono che questo è stato provocato da un’invasione di cavallette (che - leggeremo dopo- ora minaccia il nord della Cina). Ogni tanto si vedono mandrie di cavalli o di yak, branchi di pecore e, più al sud, di cammelli. O di capre: qui, fra l’altro, viene prodotto il cashemere più pregiato al mondo: Loro Piana e Cucinelli comprano il prezioso filato in Mongolia. Ci dirigiamo verso la riserva naturale di Gun Guluut ove passeremo qualche giorno. In Mongolia vi sono diversi parchi e riserve naturali dove si può alloggiare presso famiglie mongole o in villaggi attrezzati con le tipiche tende gher. Vi arriviamo in auto, all’inizio su una strada asfaltata, poi su sentieri sterrati e poi direttamente sui prati (la guida identifica il luogo con le coordinate GPS). Lungo la strada, poco a sud di Ulan Bator, ci appare la grande statua di Gengis Khan – che oggi dopo l’uscita dall’orbita sovietica è proposto come elemento di identità nazionale. L’enorme (e bruttissima) statua è stata costruita nel 2008; una statua d’argento alta 40 metri. Vicino, per due dollari, i turisti possono provare l’emozione di tenere sul braccio un’aquila da caccia con apertura alare di quasi due metri. Arriviamo a Gun Guluut sotto una pioggia battente che, per fortuna, cessa dopo poche ore. Nel villaggio siamo in pochi. Siamo a 1300 metri e un freddo inaspettato ci accoglie. Per passare la notte, alla sera vengono accese delle stufe dentro le tende con poco carbone e legno; stiepidiscono l’ambiente. La tenuta della tenda è tale che non c’è da temere per l’intossicazione da ossido da carbonio. I gestori chiedono di non chiudere le porte. Alle sei del mattino rientreranno per riaccendere le stufe. Il tempo passa in lunghe passeggiate lungo il fiume o sulle colline. Vento e sole. Qualche nuvola dalla forma inusuale. I colori sono bellissimi, tutte le sfumature del grigio, del verde, dell’azzurro e del viola; l’acqua è argentea, opalescente. Come mai in posti come questo gli spazi ci sembrano tanto più grandi di quelli che possiamo vivere in Europa anche se la nostra linea dell’orizzonte è sempre la stessa? Forse lo spazio che percepiamo è funzione dell’assenza dell’uomo e del silenzio. Non è una proiezione mentale, è una sensazione fisica. A Gun Guluut il silenzio è totale. Di notte nessuna luce
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e nonostante il freddo ci fermiamo a guardare il cielo, strapieno di stelle. Fantastico! Pensavamo di trovare per lo più giovani avventurosi; invece l’età media dei pochi ospiti è abbastanza alta (noi diamo un bel contributo in tal senso!). Per un giorno ci fa compagnia
Passaggio in Mongolia
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un pullman di attempate signore inglesi. Ma il giorno dopo siamo di nuovo davvero pochi. Tre tavoli apparecchiati. Questo vuoto contribuisce a rendere il luogo ancora più speciale, affascinante, quasi surreale. Lasciamo la riserva e riprendiamo il treno per Pechino. Sulla transmongolica transitano treni russi, mongoli e cinesi. Il nostro treno mongolo è molto accogliente, curato e pulito. E’ un piacere vedere dal treno i cambiamenti del paesaggio. Andiamo verso sud; al tramonto scompaiono le praterie e comincia il deserto con i branchi di cammelli. Alla frontiera con la Cina, una sorpresa: siccome in Cina lo scartamento dei binari è diverso bisogna cambiare i carrelli dei vagoni. Il cambio avviene nella notte e dura qualche ora. Ogni vagone è portato in un’officina a qualche chilometro di distanza: qui viene sollevato con degli enormi crick. Dai finestrini vediamo molti operai e tecnici prendere parte all’operazione. A un certo punto sembra che il vagone non cali bene nel nuovo carrello: ci sono dei conciliaboli e sembra che ognuno proponga una soluzione diversa. Poi la cosa si conclude con delle gran martellate che risolvono il problema. Rimaniamo un po’ stupiti... ma ormai siamo in Cina. E dobbiamo per forza attenderci un altro mondo.
di Gabriella Fiori Sei romanzi perfetti – Su Jane Austen (Il Saggiatore, Milano 2014) è una festa dell’intelligenza. Studio serrato che non lascia tregua, in esso l’autrice Liliana Rampello,critica letteraria e saggista (Proust e V. Woolf) che ha insegnato estetica all’Università di Bologna e ora vive e lavora a Milano come consulente editoriale, ci guida con mano decisa a percepire “la qualità nuova di una scrittrice che non si lascia comprimere in nessuna definizione semplificata, né del Settecento né dell’Ottocento. Le immagini che abbiamo della cultura materiale e immateriale dei due secoli, della loro temperie culturale e morale, sono attraversate da lei con il leggero e miracoloso equilibrio di chi conosce e accetta le proprie radici senza paura dell’autenticità complessa della natura umana e degli inevitabili cambiamenti individuali e sociali.”Tale perplessità nel situarla trapela dall’elenco “sommario e del tutto arbitrario” di suoi lettori illustri: Emilio Cecchi: “figlia di un parroco, talmente subordinava le ambizioni letterarie ai bisogni domestici che spesso non ebbe neppure uno studiolo e scriveva nel salotto comune su piccole cartelle”. Mario Praz le ricorda accanto quel gigante di Johnson e aggiunge “che le sue pagine, pur non travolgenti, lasciano nel nostro animo una più profonda impressione di verità”.Vladimir Nabokov definisce Mansfield Park(1814) “l’opera di una signora e il gioco di una bambina. Ma da quel cestino di lavoro esce una squisita arte del ricamo e in quella bambina c’è una vena di genio meraviglioso. Non un capolavoro però come Madame Bovary o Anna Karenina”. Il poeta Auden: “Voi non potreste turbarla più di quanto lei turbi me:/ Joyce accanto a lei è più innocente dell’erba./M mette in imbarazzo lo scoprire/ una zitella inglese della media classe/descrivere gli effetti amorosi del ‘contante’,/ rivelare francamente e con tal sobrietà/le basi economiche della società.”Jane Austen(16.12.1775-18.7.1817)con l’ironia e lo stile indiretto libero apre fra noi e lei una distanza; la sua è una “messa in commedia crudele ma veritiera, che spolpa il sentimentalismo e mette a nudo la logica raffinata e violenta della società patriarcale e divisa in classi”. Nel cuore di tali circostanze sfavorevoli a una donna e al realizzarsi del suo sogno, un matrimonio d’amore, Jane dice “la formazione delle sue
ragazze e le trasforma da “eroine” passive in “protagoniste” consapevoli dei limiti di una situazione e insieme fedeli al loro ideale, da “parlate” nell’alveo del “monologismo maschile” a “parlanti” nel “dialogo” uomo-donna per farle uscire dalla rete del “dominio” che avviluppa famiglie inquiete di sistemar le figlie ed entrare nello “scambio” della coppia in cui l’uno impara dall’altra. “La conversazione è azione.” Tutto avviene in scena, perché Jane Austen molto ha conosciuto e amato Shakespeare anche attraverso la cultura paterna, ha il senso del ritmo e della necessità dei personaggi.Così, zitelle, zie e altre “comprimarie sono disegnate con cura perché servono da specchio rovesciato alle protagoniste”. Jane Austen “la più perfetta artista fra le donne” (Woolf) ha scritto romanzi “perfetti” per lo stile “smagliante”fecondo di luci sempre nuove in trame ripetitive; per dire persone, luoghi, situazioni sceglie
handsome=bello nel senso di armonioso e adeguato. Emma è handsome, una fortuna può essere handsome. Così una dimora patrizia o un nitido cottage. La soluzione a un progetto d’amore ricambiato può diventare handsome se ci lavori sopra specie in dialogo con te stessa.Affrontando l’eccesso di “emozione”, non per pacarla, ma per “renderla più intellegibile”. E questo avviene nello “spazio austeniano”di sentieri noti, di boschetti,spostandosi in “una manciata di miglia” fra un villaggio e l’altro a piedi o in calesse o carrozza. Vincendo la sensibility con il sense, che non è il semplice buon senso, ma “piuttosto ciò che gli antichi definivano ‘saggezza’ (Citati)”.E confidandosi con la sorella amatissima. Che ci fu davvero nella sua vita: Cassandra, di lei maggiore, che alla sua morte ( per malattia tuttora imprecisata) disse: “Era il sole della mia vita; è come se avessi perso una parte di me stessa”.
La saggezza di Jane 23
2 DICEMBRE 2017
di Mariangela Arnavas La parola contraddizione è caduta in disgrazia poco prima dell’abbattimento del muro di Berlino per il suo stretto legame con la dialettica marxiana ma parlando di Palermo, che ho ritrovato in questa fine novembre, davvero non si può fare a meno di usarla. Arriviamo, passando per il centro, con un clima da aprile inoltrato in un bilocale ben arredato, pulito, funzionale, nel pieno centro storico; il giovane dagli occhi azzurri addetto all’accoglienza si presenta puntualissimo e ci regala, oltre alle dritte per visitare i luoghi più interessanti nel breve tempo che abbiamo, una saccata di arance del suo giardino e le brioche palermitane fresche per la colazione. Mangiando sul grazioso terrazzino, possiamo vedere di fronte a noi, a poche decine di metri dalla cattedrale, palazzi ancora semidistrutti dalla seconda guerra mondiale, ovvero da più di sessant’anni; poco più avanti, nella centralissima Via Maqueda, c’è un palazzo del seicento che si sta lentamente disfacendo, accanto ai ristoranti e alle oreficerie per turisti e allo stesso modo, di fronte al Palazzo Comunale, davanti alla fontana della vergogna, si sbriciola pian piano un edificio signorile della stessa epoca. Siamo al Sud, è vero, i Comuni sono poveri, ma mi ricordo bene che la Sicilia è regione a statuto speciale, il che significa che ha avuto, proprio per questo, dagli anni ‘70 ad oggi, ovvero per quasi cinquant’anni, almeno un terzo di risorse in bilancio aggiuntive rispetto alle altre regioni e allora mi chiedo come si può giustificare questo degrado nel cuore di una città bellissima, come siano pesanti le responsabilità dei governi, anche di parti diverse, che si sono avvicendati in questi anni. Si resta affascinate dallo splendore dell’architettura bizantina e arabo normanna: la chiesa della Martorana, la cappella Palatina e non solo; dalla leggerezza giocosa del barocco dove nelle forme sontuose dei marmi policromi, come nella chiesa del Gesù in Piazza Casa Professa (1564/1663), scopri gli angioletti dei bassorilievi che giocano a toccarsi e rincorrersi, cingendo tori e capri, con una grazia ironica che solo a Palermo puoi trovare; un’eleganza e una ricchezza stilistica, una vitalità profondamente coinvolgente. E vagando per la città, le lapidi ricordano i caduti nella lotta alla mafia, da pochi giorni priva della sua ultima icona/ boss, per non dimenticare da dove ha inizio il male; così, nelle brevi parole scambiate con i cittadini di Palermo, notiamo che c’è un unico incipit: “la Sicilia è bellissima, i si-
24 2 DICEMBRE 2017
Ritornare a Palermo
ciliani sono da dimenticare”, poi aggiungono che la classe dirigente non è più in grado da tempo di governare questa magnifica terra e, vedendo i risultati architettonici degli ultimi cinquant’anni a confronto con i monumenti dall’epoca bizantina all’ottocento, non si riesce a dar loro torto; ci sono sfumature e coloriture diverse, ma una comune, sconfinata amarezza che attesta la rilevante astensione alle ultime elezioni regionali. Passeggiando nel quartiere della Kalza, quello dove è stato ucciso Paolo Borsellino, si incontra una chiesa, detta dello Spasimo; è un edificio a cielo aperto perché, per tortuose vicende e anche per difficoltà economiche, il tetto non è mai stato costruito e quindi è stata nel corso dei secoli prima teatro e poi lazzeretto e oggi luogo di cultura e spettacolo; è slanciata e bellissima, simbolo di apertura e libertà spirituale ma ci sono intorno parti in degrado e prive di restauro, anche qui piccole macerie. Infine, andando verso il mare, cerchiamo il Palazzo Abatellis, sede della Pinacoteca Nazionale, ma non troviamo cartelli o meglio la segnaletica c’è ma indica solo il Museo della Marionetta; ci aiutiamo con internet e chiedendo ai passanti e scoprendo poi all’interno del palazzo, uno dei dipinti più significativi del ‘400: l’”Annunciata” di Antonello da Messina. Un piccolo quadro dove la madonna è raffigurata di fronte e con lo sguardo rivolto verso il basso mentre lo spettatore si trova al posto dell’arcangelo Gabriele; la perfezione del dipinto, la sua apparente semplicità e l’ intensità espressiva spiazzano qualunque visitatore; la solitudine della giovane donna di cui si vede solo il volto circondato da un velo azzurro, l’accenno con la mano di un gesto di difesa , mentre con l’altra si stringe il mantello al petto, nell’assenza di altri elementi simbolici religiosi e soprattutto lo sguardo rivolto verso l’interno, alla miracolosa trasformazione già in atto dentro si se’, ne fanno la semplice e bellissima rappresentazione universale del momento in cui qualunque donna diventa consapevole della propria maternità, quel misto di accettazione e rifiuto, di commozione e terrore che sigla l’inizio di ogni percorso di gravidanza. Nella tarda serata di sabato, incrociamo in Via Vittorio Emanuele II la manifestazione delle donne nella giornata contro la violenza di genere; sono tante, intense e sembrano determinate; la Piazza e la fontana della Vergogna sono state lasciate al buio e il Palazzo Comunale è illuminato di una luce rossastra, sanguigna; sembra ci siano forze molto vive nella città. Bisogna tornare a Palermo.
Il Diverso Femminile
Negli anni ’70 il mondo femminile scese nelle piazze per reclamare il desiderio di cambiamento. In quella occasione realizzai questo lavoro fotografico per dare un significato a questi eventi per rafforzare l’evoluzione della donna.
di Carlo Cantini
25 2 DICEMBRE 2017