Cultura commestibile 242

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Numero

9 dicembre 2017

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Con la cultura non si mangia Giulio Tremonti (apocrifo)

Giochi senza frontiere

“Io credo fermamente nell’uguaglianza e penso che le persone LGBT nell’Irlanda del Nord debbano godere degli stessi diritti di tutto il Regno Unito”. Theresa May

Maschietto Editore


NY City, 1969

La prima

immagine Siamo nel centro della Grande Mela nelle ore del fatidico “lunch breack” che spetta a tutti coloro che lavorano negli uffici del centro. Come al solito il caldo umido la fa da padrone. Questi tre uomini in giacca e cravatta sono quasi certamente dei professionisti impiegati presso una banca, una società di assicurazioni, o agenti di borsa. Sono da poco usciti dai rispettivi uffici per consumare frettolosamente il loro “quick lunch” da ulcera gastrica precoce. Vanno di fretta per poter tornare nei loro rispettivi uffici al più presto possibile. Business is business e non si può assolutamente sprecare il tempo! Camminano a passo veloce e non si accorgono della presenza di questa povera “homeless” che avrebbe avuto certamente un gran bisogno che qualcuno si occupasse di lei. Ai giorni nostri purtroppo anche in Italia le persone vanno sempre più di corsa e quasi sempre fanno finta di non vedere queste scene volgendo altrove il loro sguardo.

dall’archivio di Maurizio Berlincioni


Numero

9 dicembre 2017

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Riunione di famiglia Le orme di Gramsci Le Sorelle Marx

Est o ovest, purché si magna Lo Zio di Trotzky

Sesso e amore I Cugini Engels

In questo numero Il Primo Dio che non si dovrebbe scordare di Dino Castrovilli

Chiara Camoni, in melanconica attesa di Claudio Cosma

La città dei pulpiti di Gianni Biagi

Mappe di percezione: San Francisco di Andrea Ponsi

Fegato alla catalana di Alessandro Michelucci

La bellezza delle api di Mariangela Arnavas

Buongiorno! Buonasera! Strade, case e palazzi di M. Cristina François

Le donne degli Allori di Susanna Cressati

Accorrete,accorrete, il mondo sta impazzendo! di Francesca Merz

Parigi, dove nacquero i ristoranti di Simone Zanuccoli

Paul Nougé Sovversione delle immagini di Danilo Cecchi

The Hirst Show in Venice. di Valentino Moradei Gabbrielli

A Palais de Chaillot ritorna l’opera sperimentale di Francesco Gurrieri

Bossons, l’iperrealismo in ceramica di Cristina Pucci

e Paolo Marini, Sergio Favilli, Michele Morrocchi...

Direttore Simone Siliani

Illustrazione di Lido Contemori, Massimo Cavezzali

Redazione Gianni Biagi, Sara Chiarello, Aldo Frangioni, Vittoria Maschietto, Michele Morrocchi, Sara Nocentini, Barbara Setti

Editore Maschietto Editore via del Rosso Fiorentino, 2/D - 50142 Firenze tel/fax +39 055 701111

Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012

Progetto Grafico Emiliano Bacci

redazione@culturacommestibile.com culturacommestibile@gmail.com www.culturacommestibile.com www.facebook.com/cultura.commestibile


di Dino Castrovilli In rotta con la famiglia, la fuga da Genova verso l’America, un solo libro pubblicato in vita, una vita di eccessi e di stenti, di (auto) esaltazioni e oblìo, la tensione continua verso l’identificazione poesia-vita, i testi “limati” da mani altrui, la malattia e il ricovero in ospedali e cliniche per malattie nervose, la morte per un banale accadimento: potrebbe essere l’identikit di Dino Campana e invece è quello di Emanuel Carnevali, scrittore italiano – ma di lingua inglese – passato anche lui come una meteora anomala nella letteratura del ‘900, italiana e americana. Approfitto della ricorrenza delle date di inizio e fine della sua avventurosa parabola biografica e letteraria – Carnevali era nato a Firenze il 4 dicembre 1897, in via Montebello 11 (chissà se anche allora si accedeva da quella porticina mimetizzata nel muro che ho fotografato l’altra mattina oppure, visto che il padre Tullio era un funzionario di prefettura, dal più vistoso portone che reca il n. 13) ed è morto a Bologna l’11 gennaio 1942, strozzato da un boccone di pane – per invogliare chi ancora non ne avesse sentito parlare o non lo avesse letto a conoscerlo, a riconoscere il suo indiscutibile valore letterario – apprezzato e sostenuto da autori come Ezra Pound, Williams Carlos Williams, Sherwood Anderson -, la novità rappresentata dalla sua lingua (un inglese imparato leggendo le insegne dei negozi americani e “arricchito” da espressioni e termini “importati” dall’italiano) e dal suo linguaggio letterario, il suo rigoroso acume critico, l’influenza decisiva esercitata sui poeti della cosiddetta “svolta modernista” americana, accusati, dopo un memorabile party in casa di un esponente della prestigiosa rivista “Others”, di essere “vecchi. La verità è diventato difficile conoscerla e voi chiamate tecnica, e chissà che altro, il vostro barcollare vanesio, le vostre incespicanti bestemmie, il vostro scalare-strisciare-cadere, il vostro pigro ondeggiare, il vostro esile ed elusivo contorcervi dietro alla verità” (l’”attacco”, come lo chiama Carnevali, colpisce così tanto Williams Carlos Williams, allora direttore della rivista, da fargli decidere di chiuderla, dopo aver dedicato l’ultimo numero proprio a Emanuel Carnevali, il “black poet”, com’era stato definito). Nato da genitori già separati, rimasto orfano di madre all’età di dieci anni, ripudiato dal padre, Carnevali nel 1914, poco più che quindicenne, si imbarca da solo per l’Ame-

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Emanuel Carnevali Il Primo Dio che non si dovrebbe scordare


rica. Una volta arrivato è costretto a lottare per la sopravvivenza - lavori umili e malpagati, relazioni con prostitute e gente di strada, malattie varie – e per l’affermazione dell’autenticità e del valore letterario di cui si sente depositario “L’America è orribile, ma rimarrò in America a scrivere, questo è il mio paese” scriverà a Giovanni Papini). Riesce a farsi pubblicare su alcune riviste, scrive poesie, racconti e saggi (memorabile, oltre a quello contro il gruppo di “Others”, il saggio su Arthur Rimbaud, il poeta più amato) pubblicati nel 1925 a Parigi in “A hurried man” (Racconti di un uomo che ha fretta), quando Carnevali era già rientrato in Italia (1922) colpito inesorabilmente dall’encefalite letargica, entra in corrispondenza con diversi scrittori italiani, tra cui Giovanni Papini (il cui “Un uomo finito” lo ha molto impressionato) che vuole tradurre e pubblicare (la corrispondenza con Croce, Papini e Carlo Linati sarà poi raccolta da Gabriel Cacho Millet in “Voglio disturbare l’America”: che emozione consultare alla Fondazione Primo Conti di Fiesole, che ci ha gentilmente concesso una delle più belle foto di Emanuel Carnevali, le lettere autografe dello scrittore inviate a Papi-

ni). La vita(lità) di Carnevali – “straniero” tanto in America quanto in Italia - è davvero all’insegna della fretta - vissuta con la sensazione-consapevolezza di avere poco tempo a disposizione (ancora a Papini: “E dico, che la mia miserabile vita è fatta di pochi mesi”), dell’incontro-scontro con tutti (Papini e Croce compresi), della purezza (“Quanto a me, se il mondo corre verso il nulla , ebbene io sarò uno che gli si opporrà, uno che ama troppo la vita per vederla così infamata, violentata, disonorata… Se il mondo imputridisce, io mi rifiuterò di riconoscere il suo imputridimento”) – e della follia. Nel 1920 ha una crisi più violenta delle altre e in un delirio raccontato poi magistralmente si sente “il primo Dio”, come intitolerà il romanzo autobiografico scritto tra mille difficoltà fisiche (le mani che gli tremavano per l’encefalite letargica) dopo il rientro in Italia e pubblicato da Adelphi nel 1978 (“Carnevali è una bomba che esplode entro la nostra cultura d’oggi”, scriverà Maria Corti). Una esplosione durata poco, un oblìo riscattato da alcuni omaggi musicali (Massimo Volume, Bobo Rondelli…), un personaggio da vertigine, come vertiginosa è spesso la sua scrittura, che tra alti e bassi (“Tra autoesibizione e orfismo” è acutamente intitolato il saggio di Luigi Ballerini posto da Adelphi a chiusura del volume) deve riacquistare il posto che merita, e che troppo spesso ancora gli viene negato, nella letteratura americana e italiana del Novecento. Depongono per lui tre libri imperdibili - i già citati “Il primo Dio” (che contiene anche diversi saggi, racconti e poesie) e “Voglio disturbare l’America” (curato a suo tempo da G. C. Millet per Fazi e ora reperibile tramite Amazon presso El Doctor Sax di Valencia) e “Racconti di un uomo che ha fretta” (Fazi 2005, ora introvabile perché forse di prossima riedizione: poco prima di morire, lo scorso Natale, Gabriel Cacho Millet mi aveva detto che stava lavorando ad un grande volume unico per riunire gli scritti di Carnevali). La casa editrice pistoiese Via del Vento (Pistoia è una delle città in cui Carnevali ha dovuto soggiornare con parte della sua famiglia) ha lodevolmente pubblicato alcuni scritti di Carnevali, raccolti ne “Il bianco inizio” e in “Ai poeti”. Anche se non è stato né Dio né il “primo” Dio, il “poeta nero” Carnevali è stato un poeta vero, modernissimo, che per risplendere (prendo a prestito una bellissima frase di John Giorno) ha dovuto bruciarsi. Che la sua fiamma splenda e illumini sempre.

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Le Sorelle Marx

Le orme di Gramsci

L’enigma dello orme di Gramsci in piazza della Signoria è stato chiarito, grazie a Sherlock Bettini Holmes, assessore all’ambiente, igiene pubblica e decoro urbano del Comune di Firenze. Dei pericolosi hacker del degrado urbano avevano deturpato con delle orme, sedicenti di tale Gramsci Antonio, un tratto della culla del Rinascimento decoroso fra Uffizi, Biblioteca Nazionale e Camera del Lavoro. Nessuno riusciva a fare chiarezza su questo mistero: chi era stato? Perché? Quale oscuro messaggio segreto agli alieni nascondeva quelle orme? A Palazzo Vecchio si brancolava nel buio. Ma, ad un certo punto, è intervenuta la chiarissima assessore Alessia Bettini che, su segnalazione di alcuni cittadini fra i quali il famoso ufologo Franco Chendi (quello che pretende di dimostrare che la terra è piatta), ha visionato le telecamere dei vigili e ha prontamente fatto intervenire una squadra di artificieri dell’azienda di igiene urbana

che ha provveduto a pulire le orme gramsciane. Figurarsi che gli autori, appartenenti ad una setta sediziosa, pretendevano di aver fatto le orme per celebrare gli 80 anni della morte di detto Gramsci Antonio. Ma la Bettini non si è fatta fregare e, vispa come una volpe, ha chiarito l’oscuro dilemma: «C’è stata non chiarezza di comunicazione, quell’iniziativa culturale chiaramente la sapevano alcuni. A me lo avevano fatto presente anche alcuni cittadini e poi le orme le ho viste anche io quando sono uscita da Palazzo Vecchio e quindi sembrava, siccome non c’era scritto Gramsci né niente, una sorta di provocazione. Poi guardando le telecamere non era chiaro chi le aveva fatte, erano persone col volto coperto e lì la preoccupazione era: ma andrà via la vernice? Non è che poi non va via? Quindi ho chiamato subito. Non sapendo bene di che cosa si trattava sono state fatte rimuovere. Alla fine la cosa si è chiarita, è venuto fuori

I Cugini Engels

Lo Zio di Trotzky

Sesso e amore

“Iniziamo dal dire che il sesso senza amore è brutto e non si fa”, così Emanuele Fiano ha cominciato il suo intervento a Tagadà, rispondendo ad una domanda sul tema della riapertura delle case chiuse. L’onorevole Fiano, democratico di fede renziana, già sul tema dei simboli fascisti da vietare aveva dato prova di una certa poca dimestichezza coi temi libertari. Immaginiamo che l’intento fosse quello di non turbare la famosa casalinga di Voghera che seguiva da casa il programma anche perché l’alternativa è che Fiano sia l’unico ad aver creduto ad Antonello Venditti quando cantava “e non c’è sesso senza amore, nessun inganno nessun dolore”.

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che c’era un progetto culturale. Abbiamo avuto forse un eccesso di zelo che da una parte è anche positivo e bello perché subito c’è un’attenzione. Vuol dire che il controllo sociale c’è.». Chiaro, no?

Est o ovest, purché si magna

In Medioriente sulle carte geografiche si sono combattute e si combattono molte guerre. Con confini tracciati in maniera arbitraria dai colonizzatori, l’attenzione su il nome di una città o sul tracciato di una strada è d’obbligo per non scatenare conflitti. Non lo sapeva il povero stagista della Gazzetta dello Sport che preparando il materiale per il prossimo Giro d’Italia che partirà da Israele si è lasciato sfuggire un Gerusalemme Ovest come città di partenza della prima tappa. E guerra è stata: subito i ministri dello sport e del turismo israeliani hanno tuonato “come c’è un solo Dio, c’è una sola Gerusalemme, la nostra”. E siccome pagano, la Rosea è dovuta correre ai ripari con un comunicato: “RCS Sport tiene

a precisare che la partenza del Giro d’Italia avverrà dalla città di Gerusalemme. Nel presentare il percorso di gara è stato utilizzato materiale tecnico contenente la dicitura ‘Gerusalemme Ovest’, imputabile al fatto che la corsa si svilupperà logisticamente in quell’area della città. Si sottolinea che tale dicitura, priva di alcuna valenza politica, è stata comunque subito rimossa da ogni materiale legato al Giro d’Italia”. E pensare che la partenza in Terra Santa era stata voluta per celebrare Gino Bartali, Giusto tra le nazioni per aver salvato quasi mille ebrei, fatto scoperto molti anni dopo la fine della guerra, perché, come diceva Ginettaccio “il bene si fa, ma non si dice”. E i soldi non puzzano.


Nel migliore dei Lidi possibili

Avanzi di Avanti

disegno di Lido Contemori didascalia di Aldo Frangioni

Piccola rubrica per i distratti che raccoglie le migliori frasi di “Avanti”, il bestseller di Matteo Renzi.

Toponia first!!

Segnali di fumo di Remo Fattorini La ripresa c’è, ma i benefici non vengono redistribuiti, l’ascensore sociale si è bloccato, crescono povertà e disuguaglianze. È questo l’impietoso ritratto disegnato, solo qualche giorno fa, da Censis, Caritas e Istat. Tutti concordi nel dire che la crescita del reddito disponibile ha prodotto benefici solo per i pochi noti, alimentando così le diseguaglianze, tanto che 18 milioni di italiani (il 30% delle persone) vivono a rischio povertà. Quasi 9 italiani su 10 ritengono che sia difficile e alquanto improbabile salire la scala sociale e pensano, al contrario, che sia invece molto facile scivolare

“Non accetto che l’Italia sia trattata come una studentessa indisciplinata da rimettere in riga. E’ un atteggiamento che fa male all’Europa [...]. E il mio paese non lo merita”

verso il basso. Fatto sta che la paura è il nuovo fantasma sociale che si aggira per l’Italia. Paura che, progressivamente, si sta trasformando in realtà. Già oggi 1,6 milioni di famiglie italiane vivono in condizioni di “povertà assoluta”. Si tratta di 4,7 milioni di persone. Tendenza in costante crescita: dal 2007 (anno precedente la crisi) ad oggi la povertà è aumentata del 165%. Wikipedia ce la racconta così: “La povertà assoluta è la più dura condizione di povertà, nella quale non si dispone delle primarie risorse per il sostentamento, come l’acqua, il cibo, il vestiario e l’abitazione”. Prima o poi qualcuno dovrà pure prendere atto che l’Italia non è il “migliore dei mondi possibili”. La qual cosa ci tocca da vicino, poiché l’incremento maggiore della povertà si registra proprio nelle regioni del Centro Italia. In Toscana, nel corso degli ultimi 8 anni le famiglie in povertà assoluta sono passate da 31mila a 53mila, con una crescita del 67%; mentre le persone colpite da questo dramma sono aumentate dell’82%, passando da 65mila a

119mila. E ben 49.300 persone vivono con meno di 3mila euro all’anno. Insomma povertà e ricchezza convivono in un faccia a faccia sempre più ravvicinato. Evidenti le conseguenze. Un solo esempio: le famiglie toscane spendono sempre meno per la propria salute. Da 4 anni l’attività del nostro sistema sanitario è in costante calo, con una riduzione del 13% delle prestazioni per visite ed esami. È così che l’Italia - ci dice il Censis - è diventato il paese del rancore. Siamo incavolati e delusi, mortificati e appunto sempre più rancorosi sia verso l’alto, governo e istituzioni, che verso il basso, immigrati e rifugiati. Insomma stufi di vivere in un paese dove “meno hai più sei colpito”. Censis, Istat e Caritas ci riportano dunque alla cruda realtà. Una realtà di cui si parla troppo poco e di cui ci si interessa ancora meno. Basti vedere le poche, superficiali e generiche reazioni a questi rapporti. Da parte della politica prima di tutto. E pensare che così facendo non si fa altro che alimentare ulteriormente la sfiducia e portare acqua ai cosiddetti populismi.

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di Gianni Biagi La presentazione di un libro è solitamente un evento sobrio, dai toni pacati e svolto in contesti deputati quali librerie, biblioteche o sale di incontri. Quello che si è svolto nella chiesa di San Bartolomeo a Pistoia, in occasione della presentazione del bel volume di fotografie di Nicolò Begliomoni “Pistoia città dei Pulpiti” -con testi a cura della sezione Giovani Pistoia del Fondo Ambiente Italia- dedicato ai pulpiti delle chiese della città, ha dimostrato che invece la presentazione di un libro può essere un fatto di massa e di forti passioni. Alle 16,45 la grande chiesa è già gremita da una folla di persone. Almeno 800 persone letteralmente addossate le une alle altre, che occupavano ogni recondito luogo della chiesa (persino i confessionali), alcune a sedere (pochi fortunati e previdenti) e molte in piedi, rendevano la chiesa un luogo quasi surreale. I pistoiesi avevano evidentemente preso alla lettera lo slogan “Avvicinatevi alla Bellezza” che la Giorgio Tesi Editrice aveva voluto dare ad una serie di volumi che illustrano le bellezze di Pistoia, fra i quali il libro che parla dei quattro pulpiti e di un pergamo che rappresentano bene l’arte pistoiese fra il 1043 (data alla quale fa riferimento il Pergamo della chiesa di San Zeno ora ricomposto nella cripta del Duomo) e il 1301 (data nella quale fu eseguito da Giovanni Pisano il Pulpito della chiesa di Sant’Andrea). Gli altri pulpiti sono quello della chiesa di Groppoli attribuito a Beduino del 1193, quello della chiesa di San Bartolomeo riferito a Guido Bigarelli da Como del 1250 e quello della chiesa di San Giovanni Fuorcivitas del domenicano Fra Gugliemo del 1270. Un patrimonio prezioso della città e della re-

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gione, opportunamente “riscoperto” in questo anno di Pistoia città della Cultura, che consente di esplorare le evoluzioni del linguaggio artistico in un periodo di particolare fermento culturale, nel quale Pistoia è ancora comune autonomo, fra la fine del XII secolo e l’inizio del XIV secolo. “La scultura lapidea medievale- dichiara Philippe Daverio (vera star del pomeriggio tanto che coloro che hanno parlato appena prima hanno dovuto subire qualche significativo mugulio dell’ampia platea)- è la testimonianza più vivace e diretta di quegli anni. Un periodo del medioevo dove in Italia

si scopre- continua Daverio- il potere della parola con Francesco d’Assisi e dove i pulpiti erano il racconto parlante per il popolo dei credenti”. Una serata non paludata e vivace, interrotta all’inizio anche da un black out elettrico che ha lasciato la chiesa completamente al buio per alcuni minuti, facendo emergere nell’oscurità le centinaia di “torce” dei cellulari, in un momento che ha avuto aspetti anche suggestivi nelle grandi navate dell’architettura romanica della chiesa, e che ha fatto emergere un giustificato orgoglio cittadino ben presente nelle frasi che si potevano captare nella folla.

La città dei pulpiti


di Alessandro Michelucci Sono ormai molti anni che la cronaca ha ideato dei suffissi e li ha inseriti nel nostro linguaggio quotidiano. Ai tempi di Nixon c’era lo scandalo Watergate, oggi il Russiagate di Trump; in Italia, Tangentopoli e Calciopoli; dopo l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea (la cosiddetta Brexit) il suffisso exit viene applicato ai paesi che in un modo o nell’altro esprimono la volontà di seguire il suo esempio. In certi casi, però, non è sempre l’UE la casa comune che si vorrebbe lasciare: talvolta può essere l’Italia. Lo dimostra Venexit, un libro uscito da poco per esporre le tesi del separatismo veneto (Editoriale Programma, Treviso 2017, pp. 127, € 5,90). Pubblicata pochi mesi prima del referendum sull’autonomia che si è tenuto in Lombardia e in Veneto il 22 ottobre, l’opera raccoglie vari contributi di esponenti politici e intellettuali, in prevalenza leghisti veneti. I curatori sono Giuliano Zunin e Matteo Mion, rispettivamente vicedirettore e collaboratore del quotidiano Libero. La prima cosa che colpisce è la commutabilità con la quale vengono utilizzati concetti molto diversi: autonomia, federalismo, indipendenza… In quarta di copertina Vittorio Feltri, che introduce il libro, viene definito “indipendentista”, ma nel suo intervento il noto giornalista tesse l’elogio della regioni a statuto speciale. Sembra di tornare ai tempi di Bossi, quando il fondatore della Lega Nord utilizzava gli stessi termini con analoga disinvoltura. L’attuale Lega di Matteo Salvini, al contrario, ha accantonato questo linguaggio e soprattutto gli obiettivi che esprimeva, primo fra tutti la secessione della cosiddetta Padania. Sempre in quarta di copertina si legge che “Venexit è un neologismo di Libertà, un desiderio di Autodeterminazione, una richiesta di democrazia da parte del Veneto al pari della Brexit per il popolo inglese”. Il paragone è fuori luogo, data la diversità degli attori e del contesto geopolitico. Altra cosa discutibile è la volontà di spacciare l’idea di un ambiente politico molto ristretto – seppur degno del massimo rispetto, sia chiaro – per volontà dell’intera popolazione regionale (“da parte del Veneto”). Su questo dovrebbero riflettere i giornalisti che periodicamente propongono panorami del separatismo europeo mettendo insieme regioni e popoli eterogenei: dalla Catalogna alla Corsica, dalla Sardegna alla Transilvania

Fegato alla catalana (quest’ultima, peraltro, regione inesistente in termini amministrativi). Parlare di un fenomeno politico come il separatismo ha un senso soltanto se questo viene espresso da un movimento politico al potere o comunque forte. Altrimenti si potrebbe dire che si manifesta più o meno ovunque, come tante altre tendenze politiche, ma quando hanno un rilievo marginale non ha senso parlarne. Pensiamo a regioni come la Baviera, la Savoia o la Sicilia. Ettore Beggiato, leghista storico, include il Veneto fra le nazioni senza stato, al pari della Catalogna e della Corsica. Tesi contestabile, dato che i Veneti non compaiono nella vasta letteratura sulle minoranze europee, così come sono assenti dalle iniziative politiche e culturali che queste organizzano regolarmente. Chiariamo una cosa, comunque: chi scrive ha il massimo rispetto del Veneto, della sua storia e della sua cultura: pensiamo a Luigi Nono e Donella Del Monaco, Tiziano e Hugo Pratt, Carlo Goldoni e Andrea Zanzotto, giusto per

fare qualche nome. Al tempo stesso, però, siamo convinti che questo rispetto non presupponga l’adesione al separatismo. Un fenomeno che comunque va analizzato con attenzione, rifuggendo dall’entusiasmo acritico come dalle scomuniche lapidarie di tipo centralista. Analogamente a Beggiato, Giuliano Zunin accenna a fenomeni recenti come l’affermazione dei nazionalisti corsi e il referendum scozzese. Si tratta però di realtà molto diverse dal Veneto e anche fra loro: la Corsica (300.000 abitanti) è una regione povera che aspira all’autonomia, mentre la ricca Scozia (5.500.000) gode di autonomia e punta all’indipendenza. Cosa che fa in modo sereno e in pieno accordo con Londra, diversamente dalla Catalogna. Per finire, una considerazione politica fra il serio e il faceto. Venexit, come abbiamo visto, è nato in un ambiente politico che fa riferimento al centrodestra. Lo stesso centrodestra che include Fratelli d’Italia, erede di Alleanza Nazionale e del MSI-DN. Negli anni Settanta, quando il partito della Fiamma era guidato da Giorgio Almirante, uno dei suoi obiettivi era la cancellazione dell’autonomia sudtirolese… Però, come cambiano i tempi.

La confusa chiarezza della Laura di Sergio Favilli Finalmente un po’ di chiarezza!! Questa settimana dalla Gruber a Otto e Mezzo, insieme al Prof. Cottarelli, c’e stata una autorevole parlamentare grillina Laura Castelli a disquisire di economia e di politica. Invito tutti i lettori ad andare a rivedersi questa trasmissione . La parlamentare, dietro l’incalzare di Cottarelli non ha saputo o non ha voluto rispondere alla seguenti domanda : quale è il livello del debito che intendete raggiungere durante il vostro governo???? Risposta non pervenuta ed a una riproposizione della domanda, a denti stretti ammette che il livello massimo del 3 % sarà sicuramente superato. Passando al problema dell’euro, dopo la precisazione di Cottarelli che se uno vuole fare il referendum è ovviamente favorevole all’uscita, alla precisa richiesta di dire

come voterebbe la stessa parlamentare, la risposta è stata forte e netta : non lo so!!! GANZA!!! All’ultima domanda sulle pensioni e sull’età pensionabile ipotizzata da un suo prossimo governo , la parlamentare ha risposto che ancora il movimento non aveva deciso per colpa dei mancati conteggi che dovrebbe fare l’INPS!!!! Insomma, in definitiva, questi signori stellati non sanno un emerito tubo, non danno risposte neanche sotto tortura e, naturalmente, la colpa di tutto questo è sempre e comunque degli altri. Finalino : loro vogliono indire un referendum sull’euro, referendum palesemente anticostituzionale e quindi impossibile da tenere e, ultima chicca, lasceranno agli italiani i famosi 80 euro renziani che fino ad oggi hanno sempre combattuto, in sintesi: la Laura ci sembrata all’altezza della confusa chiarezza pentastellata.

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di Francesca Merz E’ questo il primo grido che verrebbe da pronunciare al sentire la notizia della petizione, che ha raccolto più di 9000 firme, per ritirare l’opera Thérèse Dreaming dell’artista Balthus dall’esposizione permanente del Metropolitan Museum. Il dipinto, del 38, non è assolutamente un unicum a tema erotico nella produzione dell’artista, ma questa è la motivazione della petizione: “Considerando il clima attuale relativo agli scandali sessuali e alle nuove accuse che emergono ogni giorno, il Met, mettendo in mostra quest’opera, sta cercando di far passare il dipinto come un’immagine romantica, quando in realtà mostra l’oggettivazione dei bambini”. Il dipinto dunque fa percepire il bambino come oggetto, anzi, di più, come oggetto sessuale. Il mondo sta impazzendo, verrebbe proprio da dire così, in realtà questa apparente follia si colloca perfettamente in una battaglia iconoclastica a cui l’umanità è affezionata da secoli, direi quasi da millenni. “Occhio non vede cuore non duole” sembra un detto romantico, ma ci racconta del nostro modo di essere e della nostra capacità cognitiva molto più di quanto appaia. La vista, le immagini, rimangono nella nostra testa impresse in fotogrammi, più saldamente, più velocemente riescono a sollecitare la nostra attenzione rispetto ad altri sensi: olfatto, udito, tatto, nulla possono a confronto della chiarezza esplicativa di un’immagine, e questo lo sa bene la politica, da sempre, la religione, da sempre, e la comunicazione che ne scaturisce dalla notte dei tempi è essenzialmente fatta di immagini. Cosa sarebbe la storia dell’arte se non una raccolta di cose da dire, fortemente, brutalmente, costantemente da dire. E la lotta iconoclastica non è altro che la consapevolezza di questo: percepire la forza di un’immagine e la forza che un’immagine ha nel convincere, propagarsi, insinuarsi nelle nostre menti, ogni nuovo invasore, portatore di una nuova cultura, detrattore della precedente, ha da sempre distrutto le bandiere, i riconoscimenti iconografici della cultura che voleva cancellare. Ha quindi ragione la signora che con solerzia, secondo la sua sensibilità e quella di altre 9000 persone ha sollecitato il museo a togliere un’immagine che potrebbe confondere animi fragili, che potrebbe indurre nel peccato, che potrebbe…potrebbe…potrebbe? La storia del Concili, delle Riforme e Controriforme, del terrore dell’immagine che va a sollecitare e solleticare pulsioni che vorremmo non vedere ci direbbe “sì, certo che ha ragio-

10 9 DICEMBRE 2017

Accorrete,accorrete, il mondo sta impazzendo! ne!”, altro che un mondo impazzito, la signora Mia Merrill è solo un’esponente di un mondo che è solito ripetere nei secoli dei secoli le stesse dinamiche. La psicologia arriverebbe a dire anche di più, ovvero che proprio quei 9000, e prima tra tutte la nostra Mia, hanno percepito quell’opera particolare come “istigazione alla pedofilia” proprio perché quell’immagine, come spesso le immagini fanno, è andata a recuperare paure, inquietudini, pulsioni che sentivano l’esigenza di cancellare in sé. La signora Mia si sta comportando come un nuovo stato che subentra al vecchio, e per paura di lotte intestine preferisce cancellare ciò che non sa controllare o ciò

con cui non sa dialogare. Nulla di nuovo sotto il sole, l’arte ha assolto questa funzione da secoli, e ciò che spesso non si arriva a comprendere è che qualunque cosa sia è una parte della nostra storia, universale o personale che parla. E’ il motivo per cui saltuariamente e con una certa mestizia per la sottoscritta, ancora si parla della necessità di abbattere l’architettura fascista. L’arte ha il sacro potere di ricordarci che siamo deboli, questa è la verità, siamo deboli come persone e come società. E più siamo deboli, e più necessitiamo di distruggere ciò che non vogliamo comprendere. “Occhio non vede cuore non duole”


di Francesco Gurrieri Non è un caso che nella monumentale hall di Palais de Chaillot vi siano i busti di Jean Vilar e di chi ha fatto grande il teatro popolare e sperimentale francese. Al Théâtre National Populaire, Vilar piazzò il pubblico al cuore della creazione del teatro per tutti. Così, in questi giorni, al Théâtre National de la Danse (a Chaillot, appunto) è stato presentato uno spettacolo sperimentale, “Initio” (Live), opera coreografica, a cura di Tatiana Julien e Pedro Garcia-Velasquez, con l’esecuzione del gruppo musicale “Il Balcone”: un ensemble che, sotto la direzione di Maxime Pascal contamina e implementa musica, balletto, dinamica teatrale, narrazione lirica. Tutto a proporre al pubblico (generoso nei lunghi applausi) una possibile catarsi dalla condizione di impotenza sociale e di frustrante impossibilità di dialogo a cui ci hanno condannato la globalizzazione e la finanziarizzazione dell’economia. Non è un caso che nel grande spazio che divide l’orchestra (violino, basso, sassofono, violoncello, clarinetto) dalla platea del pubblico, l’azione si apra con un’oscurità ove a terra strisciano corpi umani, con contorsioni che ricordano rassegnate, quasi indefinibili creature; mentre altri improvvisamente si alzano e corrono sbattendo nei muri che, perentori, delimitano lo spazio scenico. “Da qui, da questa condanna, non si esce” - sembrano dire questi corpi, condannati a non essere. Poi, dal debole suono del violino, esaltato via via dal violoncello, dalle note sgranate del sassofono, dalla gestualità del maestro d’orchestra, sembra uscire un sorgivo segnale di riscossa. Qualche figura si alza lentamente e sembra riappropriarsi della sua autonomia, per poi ricadere e ancora rialzarsi. Un movimento fluente e drammatico , metafora di una lotta interiore tesa a frantumare l’inviluppo che lo opprime. E’ un gioco stupefacente fra due linguaggi, ove il quintetto spinge il ballo disperato e questo invoca gli archi e i fiati. Poi, la linfa vitale sembra prevalere e tutto cerca di fondersi e riconfigurarsi a nuova vita: gli orchestrali e il maestro scendono dal podio, si scalzano, si mescolano con i ballerini. E tutto, con la vita e l’armonia, torna a far sperare. Queste alcune idee simbolo della messa in scena: “Dall’inizio alle origini del teatro / Un coro e dei cantanti brulicanti e vorticosi, dei danzatori che incarnano la musica e si confondono con essa, la parola che naviga nei corpi, nel suono, nella musica e nel canto”. Alla fine, tutto si tiene con gli stessi spettatori, secondo il modulo di Pi-

A Palais de Chaillot ritorna l’opera sperimentale randello (nei “Sei personaggi in cerca d’autore”), in cui tutti i protagonisti si mescolano col pubblico, in una metafora ove tutti sono uguali, nella sofferenza e nel riscatto. (Doveroso ricordare quanti, a vario titolo, hanno concorso al successo dell’opera: Tatiana Julien, Pedro Garcia-Velasquez, Alexandre Salcède, Maxime Pascal, Florent Derex, Kevin Briard, Pascale Lavandier, Gaëtan Besnard, Myrtille Debièvre, Sylvain Riejou, Rodrigo Ferreira, Benjamin Forgues, Christine Gérard, Brigitte Asselineau, Yoanne Hourcade, Lea Trommenschlager, Valentin Broucke, Héloïse Dely, Juliette Herbert, Askor Ishangaliyev, Ghislain Roffat, Axel Rigaud, il Coro ‘Calligrammes’).

Ponsi-it a cura di Aldo Frangioni Architetto, designer, pittore, scrittore, Andrea Ponsi ha sempre considerato il disegno la sua attività favorita. Forse per il fatto di essere italiano gli riesce difficile parlare senza gesticolare, o comunque senza metter in azione le mani, perfino quando si tratta di conversare al telefono mentre è al lavoro alla sua scrivania. Come spinto da una forza irresistibile prende lapis o penna e, raggiunto un blocchetto di Post-it a portata di mano, comincia a disegnare facce, ognuna diversa, ognuna inventata sul momento. Questa mostra riporta gli effetti di questa stravagante ossessione: circa duemilacinquecento facce selezionate dalle oltre ventimila disegnate su piccoli Post-its gialli di 7 cm per 7 cm nel corso degli ultimi vent’anni. Coadiuvato dalla sua vasta conoscenza della storia dell’arte, Ponsi manifesta in questi volti una vertiginosa serie di stili: dagli studi meticolosi che ricordano Daumier o Goya alle veloci ed evocative caricature di Hirschfeld e Steadman. Ponsi si affretta a chiarire che “nessuna delle facce appartiene a una persona reale specifica”, e che sono invece tutte frutto della sua vivace immaginazione. Il disegno è per Ponsi un aspetto fondamentale della vita ; schizzi di studio , disegni architettonici, progetti di mobili e oggetti , sono sia ricettori che proiezioni di idee e visioni sul mondo circostante. Essere nato in Toscana e avere trascorso gli anni universitari a

Firenze ha fornito a Ponsi la possibilità di attingere a una ricca storia artistica; ma furono i successivi viaggi in Europa, Sud America, Asia e oltre un decennio di soggiorno negli Stati Uniti, a definire l’identità del suo operare . Mentre gli acquerelli di carattere percettivo- architettonico sposano in un’eleganza prosaica forma e funzione, sono i disegni su post-it che offrono un esito decisamente insolito e affascinante sul suo modo di pensare concentrando anni di osservazione e studio sulla superficie di un quadratino giallo. Andrea Ponsi alla Cross MacKenzie Gallery – Washington DC fino al 18 gennaio 2018.

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di Danilo Cecchi Esattamente cinquant’anni fa moriva a Bruxelles Paul Nougé (1895-1967), di professione biochimico, noto per essere uno dei fondatori del partito comunista belga, ma soprattutto come poeta, scrittore, fotografo, pornografo e poligrafo, teorico e attivista del movimento surrealista in Belgio, da lui stesso fondato nel 1924 insieme a Marcel Lacomte ed a Camille Goemans (seguiti nel 1925 da Edouard Léon Mesons e René Magritte) sull’onda del surrealismo francese fondato da André Breton con Louis Aragon e Paul Eluard. Rispetto al surrealismo francese, il surrealismo belga si pone fino dall’inizio su di un piano diverso, moderando l’entusiasmo per l’automatismo psichico a favore di una maggiore presa di coscienza del valore “altro”, sia delle parole che delle immagini, parole ed immagini che non vengono mai scelte a caso, ma in funzione del loro valore disarmante, disorientante e perturbante. Ed è proprio Paul Nougé che redige fra il dicembre del 1929 ed il febbraio del 1930 quello che è di fatto il manifesto della fotografia surrealista, per il quale realizza appositamente diciannove immagini fotografiche. L’opuscolo viene tirato in sole venticinque copie numerate, da “Les lévres nues”, e viene riproposto quasi quarant’anni più tardi, nel 1968, dopo la morte di Paul Nougé. Con questo volumetto Nougé precisa il ruolo dell’oggetto (o della mancanza dell’oggetto) nella poetica surrealista, formulando la teoria dell’oggetto “sconvolgente” (boulversant). Diversamente dagli altri fotografi surrealisti dell’epoca, tesi a sperimentare l’intera gamma delle possibilità del mezzo fotografico, dalle distorsioni alle doppie esposizioni, dalle immagini senza fotocamera alle elaborazioni di camera oscura, Nougé impiega la fotografia nella maniera più semplice ed immediata, costruendo scene in cui l’interesse non è per il metodo o per il linguaggio, ma per l’ambivalenza e la capacità di straniamento dell’immagine stessa. Le situazioni immaginate da Nougé sono banali, gli oggetti sono quotidiani, i gesti sono abituali. Ma solo in apparenza. In tutte le immagini manca qualcosa, o c’è qualcosa di troppo, ed è proprio questo qualcosa che ne cambia profondamente il significato, aprendo spazi di inquietudine, di ambiguità, di sottile angoscia. L’attenzione si sposta dall’oggetto raffigurato fisicamente all’oggetto mentale, all’oggetto pensato ed immaginato, non in una diversa modalità di uso o di impiego, ma in una diversa interpretazione dello stesso, in una diversa forma mentale. Ogni oggetto è di per sé un oggetto onirico, simbolico, virtuale, fantastico e trovato, appartiene alla realtà fisica quanto alla realtà fanta-

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Paul Nougé Sovversione delle immagini

stica, e funziona in quanto è capace di modificare le nostra percezione e la nostra capacità di pensare e di immaginare. L’oggetto scelto, collocato in un contesto e raffigurato nelle immagini non serve a conoscere, non serve a meravigliare, non ha neppure una valenza estetica, serve solo a stimolare un processo mentale ed un nuovo atteggiamento della mente, serve a rimettere in discussione l’intera costruzione della realtà. Per provocare questo corto circuito nella percezione Nougé gioca con l’imprevisto, l’inatteso, il dissacrante, attivando un processo di presenza/assenza che delude le aspettative, capovolge la previsione, instaura rapporti anomali ed indecifrabili fra l’oggetto e la sua immagine. Ogni oggetto viene così con-

temporaneamente affermato e negato, fa parte della realtà ma anche di quella surrealtà che è contenuta all’interno della realtà stessa, senza esserle superiore né inferiore. Mettere in questioni l’oggetto è mettere in questione il suo ruolo nell’universo, è mettere in questione il rapporto che esiste fra il particolare e l’universale. Ripensare un oggetto equivale a ripensare la sua immagine. Nelle fotografie di Nougé come nelle pitture del suo contemporaneo ed amico René Magritte (1898-1967). L’ intérieur de votre tête n’est pas cette masse grise et blanche que l’on vous a dite c’est un paysage de sources et de branches une maison de feu mieux encore la ville miraculeuse qu’il vous plaira d’inventer.


di Paolo Marini Bisogna assecondare lo spirito e lo spirito, talvolta, mi sospinge a questo presidio di raccoglimento e religiosità del verdissimo Mugello, che è la chiesa di San Bonaventura al Bosco ai Frati. Lassù (dico ‘lassù’ perché salgo da Firenze) mi lascio ammansire dal clima austero della piccola comunità conventuale (dell’ordine dei Francescani dell’Immacolata) che si accompagna a gioia e a fervore religioso. Mi capita di ascoltarvi omelie di non comune intensità e puntualità teologica; dalle quali ogni volta apprendo qualcosa di nuovo e mi confermo che la nostra cifra di cristiani - o almeno quella della gran parte di noi - è una imbarazzante, radicale ignoranza delle cose della (nostra) fede. In tempi di gravi incertezze, si ha la sensazione che il presidio sia tale anche perché ripropone ogni settimana, al piccolo gruppo di fedeli e pellegrini che normalmente la chiesa accoglie (per lo più gente della zona, cordiale ma discreta, qualità quasi indotte dalla vita di campagna), la conferma di concetti e di verità altrove travolti da una incresciosa confusione. La chiesa del Bosco ai Frati è, nondimeno, anche il suo convento, il suo museo, la sua storia, i suoi tesori d’arte. Che ho scoperto adeguatamente compendiati in una pubblicazione di Gianni Frilli (“La chiesa, il convento e il museo di San Bonaventura al Bosco ai Frati” - Edizioninoferini.it), concepita con apparente passione e con dovizia di immagini e che prende le mosse dalle origini dell’insediamento. La fondazione risale all’anno 600 e si ascrive alla famiglia degli Ubaldini, definita “antichissima e potentissima”, al tempo proprietaria di un vasto territorio. Il luogo venne offerto ai monaci di San Basilio, che vi edificarono una piccola cappella ed un locale ad uso dei pellegrini. Vi restarono fino al 1012, poi il Bosco ai Frati rimase abbandonato per circa 200 anni, fino al 1206/12, quando gli Ubaldini chiamarono a risiedervi i frati francescani. Qui, nel giugno del 1273, Fra’ Bonaventura da Bagnoregio, che in seguito verrà fatto santo, ricevette dagli emissari di Papa Gregorio X, nell’orto del convento, le insegne cardinalizie. Si narra che Fra’ Bonaventura fosse intento a sciacquare piatti e pentole in un grande catino di pietra (ancora oggi sussistente), per cui chiese che le insegne fossero appese ad un ramo di un corniolo (tuttora vivente, nel chiostro del convento) onde terminare il lavoro. Il periodo d’oro del Bosco ai Frati si inaugurò nel XV° secolo e si protrasse per due secoli. Grazie al patronato della famiglia Medici e alla loro munificenza, la chiesa e il convento ebbero a ricevere importanti opere d’arte - in specie pale d’altare, dipinti e preziosi volumi per realizzare una grande biblioteca. Oggi il museo d’arte sacra, interno al convento, ospita

Salita al bosco dei frati

L’eleganza e la leggerezza

che ci mancheranno di Michele Morrocchi Jean D’Ormesson era un uomo piccolo che passava con leggerezza sulle cose pesanti della vita. L’ho incontrato, per intervistarlo per questa rivista, qualche anno fa grazie a Tommaso Gurrieri che per Barbés prima e Clichy poi ha tradotto alcuni degli ultimi volumi dello scrittore e filosofo francese. Doveva essere una breve intervista fra un suo impegno e l’altro, fu un densissimo pomeriggio di chiacchere io nel mio goffo francese, lui in una lingua magnifica, musicale e coltissima. Tra i tanti incontri privilegiati che collaborare a questa rivista mi ha dato, questo è uno dei più importanti e di quelli che ricorderò per sempre. Aristocratico e democratico, liberale e conservatore, D’Ormesson non è stato sicuramente il miglior romanziere francese né il filosofo più importante d’oltralpe ma poche persone hanno saputo incarnare l’intellettuale non engagé come lui. Non perché rifuggisse il confronto politico, anzi, ma perché nella politica come nella vita, passava leggero sugli accadimenti. Direttore de Le Figaro, assistente e consigliere di ministri, detestava (credo ricambiato) Mitter-

un crocifisso ligneo, dall’espressione di intensa sofferenza, che si attribuisce a Donatello (ovvero ad allievi della sua bottega) e che nel 1953 fu ritrovato, stipato nella cripta scavata sotto il pavimento della chiesa, da Alessandro Parronchi e Piero Bigongiari. Entrando nella chiesa si viene rapiti dall’altare ligneo con la statua della Madonna, dal senso di misura, compostezza e intimità che si effonde nella chiesa. Nell’abside è collocato il coro, risalente al XVII° secolo. Le mura della chiesa sono solcate da quattro dipinti, tra cui si segnalano la “Allegoria del cordone di San Francesco” di Jacopo Ligozzi, del 1589, e una “Annunciazione” attribuita ad Antonio del Ceraiolo (sec. XVI). Nel 1866 i frati francescani furono allontanati dal convento e il bene incamerato al demanio statale. Messo all’asta nel 1869, fu acquistato dalla famiglia Gerini per poco più di 30 mila lire. Nel 1870 i Gerini vi fecero rientrare i frati e nel 1949, a seguito di una donazione, la chiesa, il convento e tutti gli altri edifici divennero proprietà dell’Ordine dei Frati Minori. rand del quale però, alla fine, rivedrà il giudizio, credo anche alla luce dei successori del “fiorentino” alla guida del PS. La sua vita, raccontata nel suo ultimo volume Malgrado tutto, direi che questa vita è stata bella, è stata la somma di molte contraddizioni, molti amori, donne bellissime, senza mai perdere la gioia e la voglia di vivere. Agli intellettuali annoiati D’Ormesson ha sempre risposto col sorriso del nato fortunato, per casta e per scelta, che non ha sprecato le fortune che un casato, al servizio dei re di Francia dal medioevo, ed un’istruzione superiore gli avevano messo a disposizione. Gli ultimi anni li ha passati interrogandosi sulla vita e sulla morte, sul nostro posto nell’universo, senza mai cedere alla paura, all’angoscia ma guardando sempre al futuro, persino quando raccontava il (proprio) passato. Se ne è andato a 92 anni, che valgono almeno una decina delle vite di molti suoi colleghi.

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di Susanna Cressati Progettato nella seconda metà dell’Ottocento (Firenze capitale), il Cimitero degli Allori fu una scelta obbligata. L’apertura dei viali di circonvallazione aveva trasformato il Cimitero degli Inglesi in un’isola dei morti all’interno della città e le sepolture dei “non cattolici” erano giocoforza finite. Occorreva un altro spazio. Così cinque chiese evangeliche fiorentine si diedero da fare e nella zona del Galluzzo acquisirono il terreno per un nuovo camposanto. Nel 1878 le prime tumulazioni. Oggi questo cimitero, in cui si respira un atmosfera internazionale ed ecumenica, è un inestimabile archivio di pietra a cielo aperto, non soltanto per le testimonianze nel campo della scultura e delle arti applicate, ma ancor di più per l’evidente intreccio di tante esistenze individuali e familiari con la storia d’Italia e della città. Qui palpita ancora una travolgente storia d’amore per Firenze, che ha abbattuto confini e collegato linguaggi, e che meriterebbe da parte della città una rinnovata attenzione, anche con attività di riparo del grave stato di degrado in cui versa l’impianto. A riaccendere le luci su questo luogo prezioso e a tenere il bandolo di questa storia sono le donne. Tante donne. Grazia Gobbi Sica, che nel 2016 ha dato alle stampe per i tipi di Olschki, nell’ambito degli Studi del Gabinetto Vieusseux e con il contributo di raccolta fondi del circolo Piero Gobetti, un volume poderoso e ponderoso intitolato “In loving memory”, che insieme a un approfondimento saggistico espone le biografie dei defunti; Lucia Tonini, che nello stesso libro offre uno spaccato della comunità russa di cui tanti esponenti sono lì accolti; Carla Zarrilli, direttrice dell’Archivio di Stato di Firenze, e Rosalia Manno, presidente dell’Associazione Archivio per la memoria e la scrittura delle donne “Alessandra Contini Bonacossi”, che con Ilaria Borletti Buitoni, sottosegretaria del Mibac, hanno presentato nei giorni scorsi il lavoro. Lo hanno fatto con un’ottica particolare, cioè illustrando alcune delle biografie femminili più rilevanti tra le tante scolpite nel marmo degli Allori. Vite di donne combattive, dice Gobbi Sica, dotate di una ben precisa autonomia, viaggiatrici, scrittrici e animatrici culturali, patriote appassionate, decise a far sentire la loro voce nella vita civile, pienamente coscienti di sé, del ruolo della donna nella società, anticipatrici della battaglia femminista. Ma nonostante questo, o forse proprio per questo, vittime di una vera e propria “scotomizzazione di genere” (estesa dal nome alle immagini) che anche nel web (provare per credere) le ha relegate nelle note a margine delle vite degli uomini che hanno amato, affiancato, aiutato.

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Le donne degli Allori Allora mi sembra giusto, anche in questo articolo, citarle tutte queste le donne di cui si parla nel libro e di cui si è parlato all’Archivio di Stato, con il loro nome (non con quello del marito), forzando nuovamente questo secolare oscuramento. Costanza Casella (1841-1932). Scrittrice, traduttrice, fondatrice della prima scuola commerciale e industriale d’Italia aperta a entrambi i sessi, animatrice del Circolo Filologico fiorentino, “erudita e franca parlatrice”, amica di Giuseppe Garibaldi. Jessie Taylor (1826-1905). Musicista, musicologa, fondatrice della Corale Cherubini e amica di Hans von Bülow, Richard Wagner, Franz Liszt. Traduttrice di Schopenhauer. Margherita Albana (1827-1887). Nata a Corfù, visse in India a Madras. Colta, poliglotta, tenne a Firenze, in via Larga, un prestigioso salotto, frequentato tra gli altri da Pasquale Villari di cui fu amica e consigliera. Infaticabile propagandista liberale e teosofa. Giornalista, corrispondente del Daily News. Robinia Elizabeth Young (1809 –1897). Scozzese, benefattrice dell’Istituto Comandi di Firenze. Ludmilla Assing (1821-1880). Eccentrica, indipendente, in Italia dal 1860 dopo essere fuggita da Amburgo in Svizzera a causa della sua opera di editrice liberale. Scrittrice, giornalista del

Frankfurter Zeitung, traduttrice di Mazzini e al fianco del mazziniano Piero Cironi. Nel suo salotto di via Alamanni contò un anno ospiti di 14 diverse nazionalità, tra cui Herzen e Bakunin. Violet Trefusis (1894 –1972). Scrittrice inglese più famosa per il suo rapporto amoroso con la poetessa Vita Sackville-West che per le sue opere. Ma soprattutto viaggiatrice instancabile, poliglotta, romanziera, poetessa, saggista, giornalista per la BBC e France Libre. Amica di Marcel Proust, animatrice di un prestigioso salotto a Parigi. Alla morte lasciò sei milioni in donazione per i poveri di Firenze. Le russe. Frequenti e diverse per motivazioni e finalità sono state le migrazioni russe in Toscana, di cui gli Allori sono testimonianza: svago, vacanza e forme embrionali di turismo sono le prime, seguite dalle fughe dagli eventi rivoluzionari e dagli esodi verso il Nuovo Mondo. In tutto questo ribollire storico, dice Lucia Tonini, le donne ricordate agli Allori portano sulle spalle la funzione di ponte, di valore aggregante tra culture, nazioni, generazioni. Oscillando tra due stereotipi: Tatiana e Anna Karenina. Puškin e Tolstoj. Larisa Andreevna Smirnova (1823-1892). Moglie di un decabrista, Alessandro Poggio, che conosce al confino di Irkutsk, quando è educatrice dell’istituto per ragazze nobili della città. Nel 1870 è a Firenze. Ha una figlia, Varvara (1854-1922), musicista, femminista. La nipote di Varvara, Magda Grilli, con il marito André Trocmé, pastore protestante, salvò in Francia molti bambini ebrei dalle persecuzioni naziste. Entrambi sono stati riconosciuti “Giusti tra le nazioni”. Olga Nikolaevna Basilewsky (morta nel 1812). La singnora Olga, anche sul web, viene confusa con la sua ben nota villa sul viale Strozzi. Fu lei a donarla alla città, per scopi sanitari, e il più celebrato figlio Pietro a perfezionare la volontà materna. Sofia Besobrasov (1834- 1905). Di lei non resta alcuna immagine, solo un flusso ininterrotto di lettere amorose al marito, consegnate alla custodia della Biblioteca Nazionale. Perchè Sofia mise la sua intelligenza e la sua cultura al servizio dell’amore, della devozione e della abnegazione nei confronti di Angelo De Gubernatis, straripante e egocentrico scrittore, linguista e orientalista. La sua tomba è abbandonata. Le donne Olsufiev. Famiglia di “russi bianchi” fuggiti alla Rivoluzione. Dopo Olga, Marija (1907 – 1988) traduttrice e corrispondente di Andrej Sacharov, Aleksandr Solženicyn, Michail Bulgakov, Evgenij Evtušenko, Osip Mandel’štam, Boris Pasternak. Dormono tutte all’ombra dei cipressi degli Allori.


di Claudio Cosma Nella mia collezione ho qualche operina di una curiosa artista che struttura il suo lavoro sul tempo, come durata di qualcosa, sia il tempo intercorso a realizzarlo sia quello del tempo propriamente inteso quando invece compone delle installazioni assemblando cose trovate su cui l’azione degli elementi naturali, come il vento o lo scorrere dell’acqua, o i cambiamenti di temperatura, concorrono a trasformarli o a ridurli togliendo loro asperità e protuberanze. L’opera che mostro e commento fa parte della serie “Puntini” ed appartiene alla produzione del 2009. Si tratta di foglietti di carta usati come rifugio, un luogo in miniatura dove sia possibile astrarsi e lasciare fluttuare la mente. Propriamente e letteralmente sono puntini di china nera disposti in modo forse casuale a formare degli agglomerati incerti, cui verrà dato in seguito una valenza artistica, ma ai quali è difficile attribuire un nome oltre al loro essere puntini. Ho saputo che l’espandersi di queste forme era regolato dal tempo lasciato all’artista dalle contingenze della vita reale. Eventi esterni ne determinavano l’interruzione, ad esempio, se squillava il telefono o suo figlio piccolo piangeva, questi erano segni che l’opera dovesse essere considerata finita. Vanno quindi considerati come residui di attività, abbandonata nel momento in cui un elemento esterno ne determini la perdita di concentrazione. Non so se l’artista considerasse questa operazione come una forma di meditazione assecondata dalla ripetitività dell’agire, ma lo stare sul chi va là permanente circa il tempo da poter dedicare a quello che andava realizzando,credo determinasse, piuttosto, un stato d’ansia, che io scorgo chiaramente. Nei tre puntini di cui dispongo, tutti molto poco sviluppati, intravedo una vita casalinga vissuta con insofferenza, ben lontana dalla pace dello studio dove il tempo e la concentrazione sono protetti. Evidentemente il bambino frignava spesso e il telefono squillava in continuazione, forse anche la pappa sul fuoco era elemento di distrazione. Avrebbe anche potuto invertire i termini del lavoro e decidere che la pappa fosse cotta quando squillava il telefono e considerare l’opera finita nei pentolini con il contenuto non cotto o bruciacchiato, o rispondere al telefono quando il bambino piangesse e considerare il lavoro in una registrazione degli squilli uniti a quella degli strilli. Anche un video del fumo nero della pappa con colonna sonora del suono della penna che ripetutamente batte sul foglio poteva essere considerata. Questo non lo sapremo mai, rimangono i puntini a determinare una metodologia di lavoro propria di questa artista,

Chiara Camoni, in melanconica attesa

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di Mariangela Arnavas Cultura Commestibile ha già ospitato mesi fa una recensione sulla mostra a Reggio Emilia dell’artista livornese Ivo Lombardi dedicata alle api e la memoria è preziosa per una rivista culturale, anche se alcuni scrittori seriali all’interno di questo contesto mostrano spesso di non leggere quanto scrivono gli altri. Ma la mostra di Lombardi a Livorno, oltre ad essere un positivo ritorno a casa, vista anche la qualità dell’esposizione all’interno del Museo di Storia Naturale, ha un significato simbolico che non può essere trascurato: il 10 settembre 2017 la città è stata colpita durissimamente dall’alluvione e dallo straripamento del Rio Maggiore; ci sono state nove vittime e gravissimi danni, tra i quali anche il deposito delle opere dell’artista Ivo Lombardi. Nei giorni immediatamente successivi, spontaneamente e senza alcuna ricompensa gruppi di giovani livornesi e non solo perché hanno partecipato anche gruppi di ultrà del Pisa, la città storicamente e calcisticamente rivale, molti al di sotto dei 18 anni, si sono prodigati per giorni e giorni aiutando concretamente i cittadini colpiti dall’alluvione tra i quali anche Ivo Lombardi soprattutto nel recupero delle sue opere danneggiate; la città li ha soprannominati “i bimbi motosi” e per questo l’artista ha dedicato a loro la mostra delle api a Livorno: “Apis mellifera Habitat - volo migratorio verso altro mondo possibile”, inaugurata nella Sala delle Esposizioni Temporanee del Museo di Storia Naturale il 18 novembre scorso. Sono forti come la loro anima di ferro e leggere come la carta velina, sono tante e si muovono appena sospese a fili trasparenti; il movimento è continuo e in qualche modo apparente perché non attraversano lo spazio rimanendo centrate su se stesse; sono disposte secondo una regolarità che si intuisce senza essere comprensibile; sono illuminate, ricordano i moti dei corpi celesti. La capacità artistica di Ivo Lombardi ci restituisce esteticamente l’essenza misteriosa di queste insette, assolutamente femminili, anche se per secoli si è creduto che il re delle api fosse maschio, che si spostano continuamente da un unico punto di partenza senza mai disperdersi, collaborando nello spazio e nel tempo, dato che si avvicendano nei loro ruoli a seconda dell’età, producendo un magnifico nutrimento per sé e per gli altri, svolgendo un ruolo insostituibile per il mantenimento in vita delle altre specie animali tra le quali la nostra; non a caso tra le citazioni illustri

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nella mostra di Ivo Lombardi vi è la frase di Einstein che profetizza una sopravvivenza brevissima agli uomini, solo quattro anni, se le api dovessero estinguersi. La fissità dell’installazione che provoca nello spettatore, aldilà della bellezza, un senso istintivo di pericolo trasmette il presagio di un possibile rischio che la specie corre e noi con lei; tutto intorno alla stanza distese di carta leggera ci raccontano, attraverso le lettere traforate l’ispirazione dei poeti sul tema e la difficile situazione ambientale del nostro presente; anche queste carte sono aeree e pertinenti e alcune illuminate, proprio come le api. Si passa del tempo volentieri all’interno della mostra, un po’ stregati dalla magia di queste stanze, proprio perché l’esposizione rende piena giustizia all’opera dell’artista; colpisce il fatto che i bambini che visitano numerosi le stanze dell’esposizione siano affascinati ed eccitati e tormentino gli accompagnatori con le domande

più difficili e inaspettate sulle api; naturalmente le sfiorano anche, un po’ impauriti dall’armatura di ferro, ma divertiti dall’accelerazione che riescono ad imprimere al movimento. Disposti lungo le pareti si trovano anche video esplicativi sulle caratteristiche della vita delle insette e alcune opere di Lombardi di grande impatto estetico e visivo come il “fuoco spezzato”, potente scultura in terracotta, e i libri d’autore, pagine animate di leggera e sensata bellezza, che fanno parte della percorso artistico dell’autore. L’installazione richiama sottilmente il pericolo della morte e dell’estinzione, ma la bellezza vitale dell’opera, la sua naturale fruibilità per l’infanzia e la stessa dedica ai ragazzi che non hanno avuto paura di sporcarsi le mani e di fare fatica per essere d’aiuto agli altri fanno sentire forte la speranza che evidentemente non è morta nel cuore dell’artista e che si esprime con una grazia allo stesso tempo spontanea e ricercata.

La bellezza delle api


di M. Cristina François Fu dal 1589 col Sinodo Diocesano Fiorentino, sotto Ferdinando I granduca, che i Parroci ebbero l’obbligo a Firenze di redigere gli “Stati d’Anime”. Nell’Archivio Storico di S.Felicita sono conservati 56 pezzi che dal 1627 (Ms.1) giungono fino al 1926 (Ms.56). Considerato che Palazzo Pitti fece parte di questa Parrocchia dal 1550, vi sono compresi anche i suoi abitanti dal 1691 al 1905. Nel XII secolo la rete viaria era costituita solo da Borgo di Piazza (Via Guicciardini), Borgo Pidiglioso (Via de’ Bardi) e Borgo S.Jacopo, che si dipartivano dall’oliveto di Piazza S.Felicita e dalla vigna del suo Monastero [ASF, 83, Diplomatico, n.15]. Erano i tempi in cui questa piccola Parrocchia si estendeva tra il Pozzo Adulterone (a EST) “ossia il cosiddetto pozzino della via Stracciatella” [Ms.730, p.23], il Pozzo e la casa di Martin di Boga (a SUD “dove oggi sorge il Palazzo Pitti-Laparelli”), la Casa con Pozzo di Pietro Villani (a OVEST, cioè le prime “sette case con quella del Ponte Vecchio” del futuro Borgo S.Jacopo). Questa superficie assai limitata andò poi rapidamente articolandosi e aumentando nel ‘300, sia da un punto di vista viario che demografico. Prendiamo in considerazione l’anno 1627 (v. Ms.1). Uno dei quattro Curati di questa Chiesa documenta che in quell’anno “Le case erano n.216, Famiglie erano 331, individui in tutti 1610, dei quali 821 maschi, 789 femmine” e continua enumerando le famiglie nobili, cominciando da quella granducale comprensiva di Maggiordomi, Maggiordome e addetti “all’alto servizio” [Ms.730, pp.173]. Da “Palazzo” si snodano le strade la cui toponomastica deriva dai nobili che le abitavano (Via Guicciardini, Via dei Bardi, Via/Piazza dei Sapiti, Via dei Michelozzi, Via Toscanella, Via dei Velluti, Via dei Pavoni, Piazza dei Rossi, Costa dei Magnoli). Alle strade non contraddistinte da presenze magnatizie o nobiliari, il popolo che le abitava dette nomi variopinti, derivati dai “segni urbanistici” o da punti di reperimento quotidiani; ne risultarono toponimi antichissimi di cui si perde l’origine nel tempo tra le case della gente semplice (Via del Forno, primo tratto di via dei Velluti, dove un pubblico forno diverrà “il Forno Regio”; Via del Tanfura, “nome o soprannome di qualche individuo”; Via del Presto “per esser quivi l’Uffizio del Monte di Pietà”; Via Sguazza dove “l’acqua vi faceva anticamente un ristagno ed era sempre limacciosa”; Via del Toppo/

Buongiorno! Buonasera! Strade, case e palazzi Intoppo che fu “un Canto anziché via e non ha riuscita”; Via dello Sprone perché “a punta”; Via del Canneto che dal 1078 passava tra i giunchi di un “Junkito”; Via del Nicchio forse per una fontanella con scolpita una conchiglia; Via Stracciatella “detta avanti Via Nuova”; Via dei Giudei, oggi Via de’ Ramaglianti, dove ancor si vede il matroneo della Sinagoga: Ms.730, pp.65-67). Invece, la toponomastica stradale derivata dalle dimore nobiliari ebbe una sua precisa data d’origine: il “Borgo di Piazza” diverrà Via Guicciardini perché nel 1150 questi si inurbarono in Firenze dalla Val di Pesa per commerciare la seta [pp.24-25]. Nel 1100 “da Semifonte discese in Firenze un tal Berto Velluti, commerciante in lane e tessuti,

che abitò in Borgo Pidiglioso” oggi Via de’ Bardi; il nipote di lui “ebbe la mania di ingrandirsi e incominciò ad erigere case e torri […] in quella linea battuta oggi dalla Via Maggio e Via de’ Velluti [dove] rimarrebbe una parte di un Leone sulla cantonata di Via de’ Velluti, Pavoni, Tanfura, Toscanella di quattro che ve ne erano, detto perciò anche adesso dalla gente di quei contorni, Canto ai quattro Leoni” [p.22]. Dal 1217 i Mannelli, famiglia di stirpe antichissima che si faceva risalire addirittura alla “gens Manilia” dell’antica Roma, furono fra i parrocchiani di S.Felicita, ma questi non trasmisero il loro nome ad alcun toponimo perché di parte ghibellina [p.28]. Già prima del 1395 vennero i Sapiti dall’Incisa e dettero il nome alla Via/Piazzetta dove ebbero case e fondachi, ma questa schiatta “si estinse sul principio del Secolo decimo settimo” e con essa cadde in oblio anche la denominazione del luogo: la gente semplice se ne impossessò ribattezzandola Piazzetta della Passera, cioè riferendosi all’uso di alcune case che servivano ivi da postribolo [p.53]. Quanto alla famiglia dei Bardi “assai potente ai tempi della Repubblica”, ebbe un Palazzo “che poi venne distrutto e che sorgeva dove attualmente sorge quello dei Signori Bargagli già Tempi”, ma da cui derivò il nome della strada che all’arrivo di questa famiglia in Firenze aveva cancellato la precedente denominazione di “Borgo Pidiglioso”. E così si potrebbe seguitare arrivando ai nostri giorni in cui, però, quasi tutto - come ormai chiunque ripete - è stato uniformato: i ricchi palazzi e le semplici case secondo un arredo urbano ora gratuito ora globalizzato, con muti infissi “a norma”, campanelli cifrati, anonimi, con numeri e non più persone, grate di ferro dalla forma improbabile, porte rifatte per compiacere il cliente; lapidi o stemmi mai visti prima e affissi in facciata per solleticare il protagonismo di turisti locatari, fantasie per creare sui muri di casa lo ‘storico’ e ‘il caratteristico’. E gli interni? Che ne è della salvaguardia degli interni che sono i meno controllabili? Che sta succedendo nelle antiche dimore, dei loro affreschi, saloni, caminetti, delle loro scale nobili e quanto altro ancora? Per non parlare di giardini e ninfei trasformati in parcheggi. E la vita di quartiere? Anch’essa morta: nel vicinato non più “buongiorno” o “buonasera” tra persone con un nome, ma solo sconosciuti attaccati a un trolley che occupano la casa della nonna defunta o dell’anziano sfrattato per i “sùbiti guadagni” di innumerevoli B&B.

17 9 DICEMBRE 2017


di Andrea Ponsi Towers

La torre più alta, massiccia ed elegante di San Francisco è la Bank of America: un prisma diamantato, un redwood di granito, la cui scorza è costituita da cunei scavati che solcano a tutta altezza le pareti delle sue facciate. Il materiale è ricco, solido e scuro (granito) e la forma archetipa (il monolite). Bank of America è il grattacielo maschio, il re, il capo. Poco più in là svetta la sua dama, la piramide della Transamerica, snella e slanciata. E’ più frivola, chiara, gentile, ma anche ardita e coraggiosa. Malgrado la selva di highrises che sono stati eretti tutt’intorno, sono ancora loro il Re e la Regina, a regnare incontrastati sul downtown.

Mappe di percezione

Ricetta

Prendete una piramide, anche egizia. Con la punta del pollice e dell’indice afferratela al suo vertice. Poi tirate su, allungandola come fosse un pezzo di gomma molto elastica. Tirate in alto, sempre più in alto, fino a fare sì che la sua altezza sia almeno dieci volte la larghezza di un lato della base. Punzecchiatela con decine di finestre tutte uguali. Poi aggiungete due orecchi: i volumi in cemento degli ascensori. Sollevate il tutto e posatelo su una piccola foresta di pilastri intrecciati. Prendete l’edificio così fatto e calatelo dall’alto nel centro della città proprio in fondo a Columbus Avenue. Ecco, avete preparato la Transamerica Pyramid, l’edificio più riconoscibile della città, una vera icona, nemmeno tanto male. Columbus Tower ( Sentinel Building )

Eretto poco dopo il terremoto del 1904, all’angolo tra Columbus e Kearny Street, negli ultimi anni ha perso almeno due primati: quello di edificio simbolo della zona tra North Beach e Chinatown, ruolo passato al Transamerica Pyramid e quello di unico edificio totalmente rivestito di rame in città, surclassassato per dimensione dal De Young Museum. E’ un “flat-iron” Vittoriano, non esattamente “flat” perché il suo spigolo acuto consiste in un bow window cilindrico continuo alto sei piani e sormontato da una torretta circolare. Il rame lo avvolge quasi completamente adattandosi ai profili classici delle forme architettoniche. Stampato in un’ infinita serie di decori, il rame è di un bel verde profondo reso denso da una patina autentica che ne mostra la sua storia. Il Columbus Tower è un edificio intimo e urbano, un piccolo grattacielo costruito con grazia e decoro.

18 9 DICEMBRE 2017

Un’architettura che, come il suo rivestimento verde di rame, invecchia gentilmente, diventando più elegante col trascorrere del tempo. Maiden Lane

Lo spazio più intimo, il nòcciolo entro il quale, protetto, vi è un seme da cui sembra evolversi l’intera città, è un piccolo edificio, un negozio-galleria d’arte. E’ su Maiden Lane, un vicolo nascosto nel cuore del downtown. Sull’ ampia facciata di laterizi, in basso a sinistra, su un rettangolo rosso alla maniera di una stampa giapponese, c’è la firma dell’autore: Frank Lloyd Wright. Anche il portale a semicerchio scavato nella facciata ha un carat-

San Francisco

tere orientale; ma anche classico, romano, con i laterizi disposti in un ampio arco a ventaglio. L’entrata è profonda come un tunnel verso un antro segreto. Dopo il tunnel, infatti, appare un piccolo, miracolo: una lunga rampa bianca sale a spirale abbracciando lo spazio con un gesto insieme intimo e grandioso. Quella spirale si sarebbe anni dopo sviluppata, sulla costa opposta, a New York, nella grande conchiglia del Guggenheim Museum. Ancora una volta, l’inizio è in California. Al centro di San Francisco, in una piccola caverna di mattoni, F.L.Wright ha trovato lo stimolo per creare una visione inedita, l’opportunità per un’esperienza nuova e coraggiosa.


di Simonetta Zanuccoli Nel 1765 a Parigi un panettiere ebbe l’idea di proporre nel suo negozio, Le champ d’Oiseau, cibi vari su tavoli singoli a qualsiasi ora del giorno. Fino ad allora le osterie offrivano su grandi tavolate comuni un solo piatto a prezzo fisso e a orari prestabiliti. Nonostante l’ostilità degli osti verso il panettiere, la novità piacque molto nel ricco mondo dell’aristocrazia e degli intellettuali tanto che fu copiata da altri. Ma è solo nel 1782 che Antoine Beauvilliers, cuoco del principe di Condè, inaugurò La grande taverna di Londra, un ambiente raffinato che sarà il primo ristorante, così come l’intendiamo nella concezione moderna, che rimarrà anche l’unico nella capitale francese per oltre vent’anni. Incredibilmente la Rivoluzione dette impulso a questo fenomeno: la fuga dei nobili dalla lama della ghigliottina aveva lasciato senza alloggio e senza lavoro i loro cuochi di grande qualità che, per necessità, diventarono ristoratori. Nel 1789 a Parigi si contavano un centinaio di ristoranti raggruppati attorno al Palais Royal. Trent’anni dopo erano 300. La moda si era diffusa e nel 1803 Grimod de la Reyniére pubblicò il suo Almanacco dei Gourmets in cui si commentava i migliori ristoranti parigini. Tutti i giornali poi offrivano ai propri lettori rubriche gastronomiche. Nel 1860 per merito del geniale macellaio Pierre-Luis Duval, del quale ho già scritto in un precedente articolo, il ristorante, fino ad allora frequentato dalla ricca società, diventa “democratico”. Nel suo locale vicino a Le Halles si serviva ai lavoratori del mercato, agli artigiani e studenti squattrinati, abituati a mangiare in luride bottegucce, una cucina semplice e tradizionale a prezzi bassissimi in un ambiente pulito e ben arredato. Naturalmente anche questa idea fu copiata e si diffuse rapidamente. Oggi Parigi offre un’incredibile varietà di ristoranti. Il mio preferito è La Table des Gourmets in rue des Lombards 14, tra il Marais e l’affollata zona di Chatelet. E’ un luogo straordinario e inaspettato, una cappella sotterranea del XII secolo con i muri in pietra e uno splendido soffitto a volte sorretto da innumerevoli colonne, dichiarata Monumento Nazionale nel 1928. La sua storia si può leggere al lume di candela insieme al menu di piatti tradizionali a prezzi molto contenuti. Fu scoperta durante i lavori di restauro delle cantine di un ristorante vicino. Durante gli scavi furono trovati due pozzi, uno gallo-romanico e l’altro del XIV secolo, una serie di latrine risalenti al XVI secolo, frammenti di anfore rotte, cocci di vetro,ceramiche e ossa di animali. Testimonianza di un area forse usata

Parigi, dove nacquero i ristoranti nel Tardo Medioevo per attività artigianali anche se, nei successivi secoli, lavori di edificazioni e restauri hanno in parte distrutto la storia antica di questa parte di Parigi. La sala sotterranea dove si trova il ristorante era forse una cappella dedicata a San Giacomo, luogo di raduno e preghiera per i pellegrini in partenza per Santiago de Campostela. Un’ultima segnalazione per gli amanti del genere (spero pochi): dai primi di novembre in rue de Gre-

SCavez zacollo

nelle 9 è aperto O’ Naturel, il primo ristorante naturista sull’esempio di uno simile a Londra. Tolti i vestiti e le mutande, riposti negli armadietti dello spogliatoio, i commensali sono accompagnati nudi da camerieri in elegante completo nero ai tavoli con sedie rivestite da copertine monouso pronti a gustare il sofisticato menù. Il ristorante è aperto solo la sera. Anche questa idea sarà copiata e si diffonderà rapidamente?

disegno di Massimo Cavezzali

19 9 DICEMBRE 2017


di Cristina Pucci Gennaro Guerriero si chiama il personaggio di oggi, beccato sulla bacheca dei Collezionisti di Ceramiche del ‘900, Facebook ovviamente. Ha 50 anni, è sposato con una donna che, dice, è contenta se lui è contento e con questo sentimento accoglie il suo collezionare, ha tre figli. Vive a Napoli e si occupa di imbarcazioni da diporto, gestisce una banchina , “una specie di garage” spiega al persistere delle mie domande. Colleziona Bossons....e qui si va sul difficile! Si tratta di perfezionatissime rappresentazioni di volti in ceramica, 13-14 cm, che dietro hanno, oltre al marchio di fabbrica, Bossons appunto, una apertura che consente di attaccarli al muro, sono detti anche maschere da parete. Gennaro, che ama frequentare i mercatini delle pulci e raccogliere oggetti, ha anche scatole di latta, soldatini di piombo e modernisti Big Jim, è stato colto da interesse per i Bossons dove averne visto uno su un banco, poi, come può succedere, uno tira l’altro ...Ne possiede una settantina, vederli in bell’ordine sulle pareti del soggiorno lo rilassa. Bossons è il nome con cui si indica uno straordinario insieme di maschere da muro, figurine, piccoli soprammobili, basi di lumi, fermalibri, specchi ed oggetti di terraglia e ceramica prodotti, fra il 1948 e il 1986 dalla Ditta W.H. Bossons di Congleton. Quest’ultimo è un pittoresco paese nella contea inglese di Stoke-On- Trent, famosa, fin dal 1700, per la produzione di ceramiche, molte delle quali oggi esposte nel locale e assai apprezzato, Museo. Ray Bossons artista molto creativo ed accurato, dalle intuizioni innovative e particolari è colui cui si deve la creazione dei primi volti “da muro” ed è lui che, dopo la morte del padre , che si occupava prevalentemente di strategie produttive e vendite, trasformò in pochi anni il loro mestiere di ceramisti in una forma d’arte. Uomo molto colto, aveva una fornitissima biblioteca di storia e non solo ed è proprio alle immagini riportate nei libri che amava che si ispirò per dare vita ai volti che costituirono la fortunatissima e molto redditizia serie dei volti da parete. Fine conoscitore della anatomia, perfezionista estremo per quel che riguarda la fedeltà storica e l’eccellenza dei risultati, affidò la realizzazione delle maschere e delle figurine a veri e propri scultori cui non poneva alcun limite di tempo per foggiare le creature che egli aveva scelto e che venivano poi affidate a dei pittori per la colorazione e le rifiniture. La prima targa di ceramica realizzata si chiamò “Scena del villaggio” e la prima maschera da muro, del 1958 , fu un “Incantatore di serpenti” seguita da un “Suonatore di mandolino”. Queste mini statue ebbero immediato successo e di pubblico e di

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collezionisti che presto attivarono Clubs per favorire scambi di curiosità, cultura ed oggetti. Fu con loro enorme dispiacere che, nel 1996, Ray Bossons chiuse la ditta, morì ultraottantenne nel 1999. Esistono due introvabili pubblicazioni monografiche sui Bossons, nome che designa ormai quasi solo le statuette. Gennaro dice che non è facile trovare dei Bossons in buono stato e che sono piuttosto cari, soprattutto se integri ed ancora nella loro originaria scatola. Visto che in Inghilterra è possibile invece reperire dei buoni esemplari via via chiede agli amici che vi si recano di dare una occhiata in giro e se ne vedono qualcuno li prega di comprarlo per lui. Ha contagiato con questa passione anche la sua mamma che ne ha raccolti una cinquantina, ha anche imparato ad esegui-

re su di essi piccole riparazioni se necessarie ed ha aperto una pagina a loro dedicata su Facebook , sperando in conoscenze e nuove acquisizioni. Il suo più vecchio è del 1962, i suoi preferiti un marinaio con la pipa e sua moglie. Ne esistono molti che rappresentano personaggi famosi, letterari o storici.

Bossons, l’iperrealismo in ceramica


di Valentino Moradei Gabbrielli “Treasures from the Wreck of Unbelievable. Damien Hirst”, a Punta della Dogana e Palazzo Grassi in Venezia, è in linea con una tendenza che vuole la spettacolarizzazione delle esposizioni di arti visive sempre più volte ad assomigliare ad eventi. Le dimensioni monumentali delle opere, la storia che come un libretto d’opera racconta l’allestimento, la tecnica scenografica utilizzata per la loro realizzazione, il modo spettacolare di presentare le opere, il prezzo del biglietto d’ingresso elevato, ci fanno capire che non stiamo visitando un’esposizione di opere d’arte, ma che stiamo assistendo ad un evento; un evento che si consuma nel tempo della durata dell’esposizione. Fortunato chi potrà dire: “Io c’ero!”. L’esposizione-spettacolo, si basa su di un’idea ben architettata e sviluppata con disegni, bozzetti, modelli, video documentativi e gigantografie luminose. Il racconto (rap)presentato, è quello di una nave antica. Il suo relitto che si dice recuperato dai fondali marini, dopo un naufragio avvenuto migliaia di anni fa, è carico d’oggetti d’artigianato, gruppi scultorei, obelischi, spade, gioielli, ciotole ed utensili. Le vicende del recupero sono ben documentate da filmati e immagini; tutto quanto

The Hirst Show in Venice

dichiaratamente falso, proprio come appare la scenografia di un’opera o di un film storico. Il tutto è confezionato come un grande spettacolo, ma presentato come l’esposizione d’opere d’arte. Un allestimento scenografico, che sarà smembrato in singole opere, che transiteranno da aste internazionali per spiaggiare in collezioni pubbliche e private, o forse sono già state vendute prima dell’inaugurazione. Un dubbio o meglio una curiosità rimane sulla futura sistemazione dell’opera, assemblata sul posto, ed esposta nel cortile di Palazzo Grassi, realizzata in polistirolo e resine, di dimensioni gigantesche. E’ stata costruita su misura dell’edificio per cui non sarà facile la sua sistemazione altrove, ma è anche troppo costosa perché rimanga “invenduta”.

21 9 DICEMBRE 2017


Il Diverso Femminile di Carlo Cantini

22 9 DICEMBRE 2017

Negli anni ’70 il mondo femminile scese nelle piazze per reclamare il desiderio di cambiamento. In quella occasione realizzai questo lavoro fotografico per dare un significato a questi eventi per rafforzare l’evoluzione della donna.


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