Cultura commestibile 243

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Numero

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Con la cultura non si mangia Giulio Tremonti (apocrifo)

Magari

“Eluana Englaro, una persona che stava bene, magari poteva vivere una vita vegetale�. Carlo Giovanardi 14 dicembre 2017 Maschietto Editore


NY City, 1969

La prima

immagine Una delle tante manifestazioni nel parco contro il razzismo e le solite politiche di guerra sempre proposte dall’amministrazione. Giovani e anziani, uomini e donne, bianchi, afro americani e non solo lasciavano i loro nomi e sottoscrivevano per le future iniziative dei vari comitati! L’impressione, per me che venivo dall’Italia, dove queste cose erano già da tempo all’ordine del giorno mi riempivano di entusiasmo e di speranza per il futuro. In realtà, purtroppo, il tempo si è fatto carico di ridimensionare questa valutazione senza peraltro scalfire la mia fiducia in tutta quella bella energia che vedevo scorrere sotto i miei occhi.

dall’archivio di Maurizio Berlincioni


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Riunione di famiglia Il ponte sullo Stretto (di Signa) Le Sorelle Marx

Lezioni di geografia Lo Zio di Trotzky

Firenze di verde e viola vestita I Cugini Engels

In questo numero PentaChiari di Laura Monaldi

1 risma di pere di Claudio Cosma

La Toscana da Pietro Leopoldo a Murat di Mauro Marrani

Mappe di percezione: San Francisco di Andrea Ponsi

Suoni combustibili di Alessandro Michelucci

Alias Grace di Mariangela Arnavas

Il curato e il granduca di M. Cristina François

All’opera sul divano di Susanna Cressati

Gli ultimi Jedi dirazza e non delude! di Michele Morrocchi

Notre-Dame, un restauro di tutti di Simone Zanuccoli

Gilbert Garcin Surrealista delicato di Danilo Cecchi

Arricchire l’offerta culturale? Perché?. di Valentino Moradei Gabbrielli

Frank Gehry, la Fondation Vuitton di Francesco Gurrieri

Pinocchi di Cristina Pucci

e Sandro Damiani, Sergio Favilli...

Direttore Simone Siliani

Illustrazione di Lido Contemori, Massimo Cavezzali

Redazione Gianni Biagi, Sara Chiarello, Aldo Frangioni, Vittoria Maschietto, Michele Morrocchi, Sara Nocentini, Barbara Setti

Editore Maschietto Editore via del Rosso Fiorentino, 2/D - 50142 Firenze tel/fax +39 055 701111

Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012

Progetto Grafico Emiliano Bacci

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di Laura Monaldi Parlare oggi di linguaggio musicale significa porsi il problema della possibilità di comunicazione della musica come esigenza e ricerca culturale, il cui nodo fondamentale di discussione è proprio la sua semanticità: tema ancora aperto e incentrato sulla possibilità formale e funzionale della musica di esprimere e comunicare attraverso una terminologia dotata di un preciso significato, diverso e lontano da quello tradizionale. A Firenze la nuova musica prese campo a partire dall’idea di interdisciplinarietà estetica – fra poesia e musica, musica e immagine, nonché fra segno, gesto, concetto ed evento, in continuità con le avanguardie dadaiste – e da un’attenzione particolare alla comunicazione di massa e alla società dei consumi: questione decisamente generalizzata fra le esperienze artistiche degli anni Sessanta, tra cui le sperimentazioni verbo-visuali e l’architettura radicale, che proprio in quegli anni si manifestarono in una fervida attività intellettuale e operativa. Paradigmatica fu l’esperienza dell’associazione Vita Musicale Contemporanea (1960-1967) che, nata per iniziativa di Pietro Grossi e Giuseppe Chiari, da una parte recuperò le avanguardie storiche presentando le opere dei maestri del primo Novecento (Strawinsky, Schoenberg, Berg, Hindemith, Webern) e dall’altra evidenziò l’atteggiamento sperimentale e la nuova riflessione musicale. In linea con la contemporaneità neoavanguardista, Pietro Grossi fondò nel 1963 lo Studio Fonologico di Firenze S2 FM, mentre Sylvano Bussotti e Giuseppe Chiari si concentrarono sui rapporti fra musica e segno ed evento, con l’idea di portare la musica a un livello metalinguistico più vicino alla visualità – ne è un esempio la mostra Musica e Segno del 1963 incentrata sulla grafia musicale che rispondeva alle istanze profonde di sperimentare percezione, memoria, azione, rappresentazione, dove entravano in gioco le interazioni tra segno, gesto, suono e visione, le quali facevano della musica un qualcosa di più complesso di un semplice ascolto di forme udibili. A partire dagli anni Sessanta Firenze è stata il centro di un denso panorama di iniziative personali e collettive, in cui arte, suono, gesto e musica hanno dato importanti contributi estetici al rinnovamento culturale dell’epoca, con un forte impegno intellettuale e sociale, fino alla realizzazione di Tempo Reale (1987) il centro di ricerca, produzione e didattica musicale fondato da Luciano

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Penta Chiari

Berio, che si occupa tutt’oggi del rapporto fra musica e nuove tecnologie e della diffusione della musica di ricerca, nata in seno a quelle sperimentazioni sonore neoavanguardiste che hanno reso possibile il progresso culturale. La contemporaneità – ormai è risaputo – offre la possibilità di letture e interpretazioni infinite, in virtù di un’idea di Arte che si è fatta strumento e oggetto di ricerca sulla complessità moderna. Di conseguenza, conoscenza e percezione sono divenute tematiche relativamente soggettive e le categorie di tempo e spazio, proprie della sfera culturale umana, hanno dilatato le rispettive definizioni fino all’inverosimi-

le. Allo stesso modo il suono e la musica si sono confrontati con il mondo circostante, non più come forme di espressione artistica ma come indagine e strumento di comunicazione culturale. Decostruzione musicale, esaltazione dell’automatismo sonoro, accettazione dell’assurdo e dell’indeterminato, rifiuto della tradizione e sconvolgimento dei concetti di ritmo e tempo, sono divenuti nel corso del tempo i cardini della sperimentazione neoavanguardista, attraverso cui i compositori fiorentini hanno portato avanti una ricerca radicale sulla musica e sul suono, coinvolgendo ogni forma artistica e utilizzando medium inediti per l’e-


spressione musicale. Non a caso la notazione convenzionale è stata sostituita dall’uso del segno, in nome di una sintattica sonora aderente al contemporaneo e meno regolativa e strutturale, osservando nella partitura e nell’esecuzione finale soltanto il punto di arrivo di una riflessione a priori, intima e profonda, sulla creazione e sulle implicazioni sonore che andavano riscoperte alla luce di una Musica nuova, più concettuale e meno idealizzata. Primo fra tutti Giuseppe Chiari ha saputo coinvolgere il suono e il gesto musicale in una prassi eclettica e in un’azione proteiforme vicinissima alla poetica fluxus, alla performance e alle spe-

rimentazioni verbo-visuali del secondo Novecento. Nel decennale della scomparsa di Giuseppe Chiari ha avuto luogo, lo scorso 2 dicembre, l’inaugurazione di “PentaChiari”: esposizione, curata da Bruno Corà che ha visto protagoniste cinque importanti gallerie delle città di Firenze e Prato, celebrando simultaneamente e coralmente l’opera del Maestro, offrendo al pubblico un vasto repertorio, sia cronologico che tematico, di oltre cento opere in una sintesi irripetibile del pensiero di questo grande artista fiorentino, che andava necessariamente riscoperto e promosso. Con un brindisi di apertura e un concerto finale, la Galleria Santo Ficara,

Frittelli Arte Contemporanea, la Galleria Armanda Gori Arte, la Galleria Il Ponte e la Galleria Tornabuoni Arte, hanno creato una mostra “diffusa” sul territorio di sperimentazione di Giuseppe Chiari, nella quale ognuna ha esposto un nucleo ben preciso di opere e una linea di ricerca ben demarcata: da Santo Ficara le tecniche miste, i collage e gli strumenti musicali; Armanda Gori Arte le opere musicali, le tecniche miste, i pianoforti e i vinili, nonché le opere storiche e le fotografie delle sue azioni più famose come “Gesti sul piano” e così via. La mostra è un percorso conoscitivo denso di arte e poetica, denso di pathos e capace di focalizzare l’attenzione sull’importanza dei linguaggi artisti del secondo Novecento e sul ruolo centrale che Firenze ha avuto non solo nell’avanguardia poetica e artistica ma anche musicale, focalizzando l’attenzione dopo gli eventi creatisi attorno al centenario della nascita di Pietro Grossi - sul pensiero di Giuseppe Chiari. Nella sua opera, così come nelle opere in mostra nelle cinque gallerie, emerge, con chiara evidenza, l’importanza e l’esigenza per il compositore contemporaneo di creare ex novo le regole logiche che stanno alla base della composizione musicale: la partitura si trasfigura in un elaborato visivo godibile in modo sinestetico; il gesto si mescola all’idea che l’Arte è un costante flusso variabile di possibilità e per tale motivo ha in sé la capacità di dialogare con il molteplice e il differente; gli elementi grafico-pittorici fanno della ritmicità armonica del suono l’estensione qualitativa della propria funzione; la comunicazione estetica si fa azione e il musicista diviene di per sé un artista in senso lato, dimenticando la mera e storica qualifica di esecutore. La poetica di Giuseppe Chiari ha seguito le onde rivoluzionarie della neoavanguardia, collaborando con i movimenti, i gruppi e i personaggi che sono stati capaci di segnare la storia dell’arte e della cultura mondiale portando avanti un’idea di Arte quotidiana, alla portata di tutti, lontana dalla dimensione aulica di pochi eletti fruitori. Quella dell’artista è stata una forte presa di posizione sulla “facilità” e la vitalità dell’estetica contemporanea, poiché al centro di tutto vi è l’uomo e il dibattito culturale: di conseguenza il compito dell’artista sta nel donare al pubblico una personale, inedita e singolare interpretazione, attraverso una ‘musica visiva’ e viva capace di tenere insieme l’essere umano e l’universo nel continuo divenire dell’Arte, la cui totalità risiede nell’agire dello spirito umano.

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Le Sorelle Marx

Il ponte sullo Stretto (di Signa)

L’incipiente competizione elettorale fa brutti scherzi ai nostri politici. Non si tratta però delle solite mance elettorali o di proposte di emendamento alla legge di bilancio per la Pro Loco di Vattelapesca. No. In Toscana la politica cerca consensi in altro modo. E si inventa il “ponte gigliato”. Ora di un ponte che mettesse in collegamento la sponda sinistra e quella destra fra Signa e Lastra a Signa si parla almeno da 40 anni. Il povero ponte di Porto di Mezzo è ormai stremato. Ma ci voleva il genio politico del nostro vice ministro Riccardo Nencini per fare progettare ai tecnici di Anas un ponte strallato con il puntone centrale a forma di Giglio in omaggio alla città capoluogo che ha lanciato nell’olimpo romano della

Lo Zio di Trotzky

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puntone. Ma ne dubitiamo. Sinceramente noi preferivamo le vecchie mance elettorali di una volta. Almeno non erano ridicole. E le Pro Loco ne avevano comunque qualche beneficio.

Lezioni di geografia

Casa Bianca – Washigton D.C. - lunedì mattina: lezione di geografia Hope Hicks, la giovane e intraprendente direttrice della comunicazione del presidente Trump (già modella per Ralph Lauren e nota per aver introdotto la minigonna alla Casa Bianca) ha organizzato un brief con lezione di geografia con due allievi speciali: il Segretario di Stato Rex Wayne Tillerson e il Presidente Donald Trump. Docente d’eccezione: Edward Nicolae Luttwak. Obiettivo: evitare che i due facciano figure meschine sul proscenio internazionale. Luttwak: Goooood Moooorning, America!!! Iniziamo da alcune cose facili: quale è la capitale d’Italia? Trump alza sulbito la mano: “il Vaticano: ci sono stato poco tempo fa e ho incontrato il capo, il signor Francesco. Fantastico!” Luttwak timidamente: “No, Donald è Roma, la città eterna” Trump,visibilmente contrariato, impreca: “Fuck Romee tutti quei sassi vecchi!”

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politica il Matteo da Rignano. Forse accurati studi strutturali avranno evidenziato che la forma del giglio è quella che più è consona a sopportare le tensioni a compressione e torsione che gli stralli esercitano sul

Luttwak riprende: “Rex, tu mi sai dire la capitale della Francia?” Tillerson: “La Francia? Dov’è? Non so, io al massimo mi sono spostato dal mio Texas per andare in Oklahoma a caccia di orsi”. Luttwak: “Ma Rex, è Parigi, la ville lumiere. Ora una domanda per entrambi: qual èla capitale di Israele?” Tillerson, per rifarsi della brutta figura precedente, consulta il suo iPhone, alza la mano e tutto eccitato risponde: “Tel Aviv!, Tel Aviv!” Ma Trump indispettito, si scaglia contro il suo Segretario di Stato: “Rex, you stupid asshole, tutti sanno che la capitale di Israele è Gerusalemme!!!” Tillerson tenta una debole difesa: “Ma Donald, me lo hanno detto ieri all’ONU: loro lo sanno di sicuro!” “Fuck, fuck, fuck, Rex! L’Onu? Ma dimmi un po’, stupido idiota: chi finanzia l’ONU?” “Mah, Donald, non so... tutti gli Stati membri?”

“Ah già, quindi secondo te il Costa Rica finanzia l’Onu come noi?” “Beh, no, non credo... noi siamo il paese più potente, quindi noi finanziamo di più...” “Allora, lo vedi che sei scemo? Se noi paghiamo di più, vuol dire che comandiamo noi. Quindi, se io dico che Gerusalemme è la capitale di Israele, allora è vero! Capito?” Luttwak tenta di riportare a ragione gli allievi indisciplinati: “Ehi ragazzi, ma se diciamo questa cosa, i palestinesi si arrabbiano, l’Europa si innervosisce e Macron si inquieta...” Ma Trump, da vero presidente, si impone: “Senti,fesso di un rumeno (a proposito, qual è la capitale della Romania?), io dell’Europa me ne fotto, Macron me lo pappo in un boccone anche perché ho la moglie più bella e più giovane della sua, quanto ai palestinesi... chi sono? Hanno una capitale? Una squadra di baseball? Hanno dei campi da golf ? Se non hanno niente di tutto questo, sai che ti dico? Fuck palestinans!”


Nel migliore dei Lidi possibili

I Cugini Engels

disegno di Lido Contemori

Firenze di verde e viola vestita

didascalia di Aldo Frangioni

Tipologia di migrante accettabile da Ungheria, Slovacchia, Céchia e Polonia

SCavez zacollo

disegno di Massimo Cavezzali

Dopo avere, negli anni scorsi, illuminato di verde il Nettuno della fontana dell’Ammannati in piazza della Signoria, facendolo sembrare davvero l’incredibile Hulk (e dando ulteriormente ragione ai salaci fiorentini che avevano criticato l’opera con il leggendario detto “Ammannato che bel marmo t’hai sciupato”), quest’anno i solerti tecnici della Silfi hanno preso di mira la Torre di Arnolfo e altre icone architettoniche della città. L’opera di Arnolfo di Cambio appare colorata in viola e verde, quasi scomparendo dallo skyline della città. Già la scelta dei due colori abbinati desta qualche perplessità e neppure la Fiorentina (che pure ha il verde di San Giovanni fra le sue maglie di riserva) ha mai pensato di indossare pantaloncini verdi e maglia viola. Ma che cosa c’entrino questi colori con la storia e le architetture della città lo sa solo il fulgente presidente di Silfi che, estasiato davanti all’illuminazione della porta ottocentesca di piazza della Libertà, ha dichiarato che “anche Firenze ha la sua piccola porta di Brandeburgo”. Quale sia il nesso logico fra i fatti e le parole del Matteo Casanovi (deve essere il nome che provoca turbamenti mentali) è compito dei fiorentini cercarlo. Auguri.........

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di Sandro Damiani C’è un commediografo italiano, aquilano di nascita ma con residenza a New York, che la nostra scena – operatori teatrali, teatranti, critica e pubblico – bellamente ignora. Nulla di nuovo, direte. Vero. Con una piccola differenza. Il signore in questione è lo scrittore di teatro italiano del Novecento più rappresentato negli Stati Uniti. E’ autore di un centinaio di testi – monologhi, atti unici, commedie, drammi, ecc. - tradotto in venti lingue e rappresentato in una sessantina di Paesi di tutto il mondo, Cina, Russia, Giappone compresi. Si chiama Mario Fratti. Insegnava alla Ca’ Foscari, nel 1962, quando l’amico Menotti, direttore del Festival dei Due Mondi di Spoleto, fece rappresentare un suo testo da una compagnia di giovani umbri. Il caso vuole che alla recita presenziasse Lee Strasberg, il fondatore dell’Actor’s Studio di New York; che il testo gli piacesse, che lo usasse e lo mettesse in scena l’anno successivo con i suoi allievi; che la critica americane lo accogliesse benissimo. Fratti, in occasione del debutto, si trovava a New York, ospite di Strasberg. Era il 1963. Da allora, nono si è più mosso dagli USA, nel senso che le richieste di testi da parte degli impresari americani sono state tante che gli è sembrato più che intelligente restarsene a New York. Dove ha mietuto discreti successi, fino all’allestimento di “Sei donne appassionate”, scritto nei Settanta e dedicato, a suo modo, a Federico Fellini ed al suo “8 e 1/2”. Un trionfo, centinaia di repliche nei teatri di Broadway. Nell’82 gli arriva la richiesta di farne il libretto per un musical. Detto, fatto. Due anni di lavoro per trovare un impresario. Trovatolo, bisogna inventare un titolo accattivante, furbo, che dica e non dica, che alluda. A Fellini i due testi (la commedia e il libretto) non dispiacciono, ci tiene però che il titolo non sia quello del suo film. Fratti è d’accordo: “Allora il musical si intitolerà Nine”, cioè “nove”... La prima edizione conta oltre settecento repliche. Protagonista, uno dei più affermati interpreti broadwaiani – cantante, attore, danzatore: Raul Julia. Il quale riporterà un tale successo che si vedrà spalancare le porte di Hoolywood e la Paramount lo ingaggerà per fare il protagonista della seconda edizione della “Famiglia Addams”, accanto ad Anjelica Huston e Judith Malina. Poco più di dieci anni dopo, nel 1996, riecco il musical di nuovo in scena, ma solo per tre mesi. Passano altri cinque, sei anni... ed è nuovamente Broadway: trecento repliche. Questa volta il protagonista è Antonio Banderas e tra le protagoniste femminili ci sono Chita Rivera, Mary

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Stuart Masterson e la grande Eartha Kitt. Da tenere presente che nelle “pause” tra un’uscita broadweiana e l’altra, “Nine” viene allestito no-stop in tutti gli States, per un totale di circa quaranta edizioni. Ad oggi, il musical ha ottenuto otto Tony (l’Oscar del musical e del teatro di prosa). Non se ne escludono di ulteriori quando in futuro tornerà a calcare le scene con altri complessi, registi, coreografi. Ma torniamo alla commedia che ha dato origine al lavoro musicale, “Six passionate women” - Sei donne appassionate. Ebbene, tra la fine di novembre e la prima quindicina di dicembre, la piece è andata in scena a Fiume e in Istria, allestita dall’unico Teatro stabile di lingua italiana fuori dai confini nazionali, cioè il Dramma Italiano di Fiume. La regia è di Vincenzo Manna. Per l’occasione, il complesso si è avvalso della collaborazione del Florian Metateatro di Pescara, il che permetterà allo spettacolo di venire rappresentato anche in Abruzzo, dove Mario Fratti è nato, seguito ed apprezzato. (A proposito, fate mente locale su quanti bei nomi l’Abruzzo ha dato alle Lettere italiane, a cominciare da Ovidio: D’Annunzio, Croce,

Silone, Flaiano). “Sei donne appassionate” se non forse l’unico, è di certo uno dei pochi testi teatrali dedicati a Federico Fellini, peraltro scritto quando il regista di “Amarcord” era vivo vegeto e operante. Fratti, però, lo ritrae in un momento di crisi artistica ed esistenziale, ovviamente scherzandoci amorevolmente. La commedia ebbe, ripeto, grande successo a New York; vuoi per la bravura di Fratti, vuoi – prima ancora – per l’affetto e la stima che la società artistica e culturale newyorkese ha sempre avuto per Fellini. Infine, poche righe sulla compagnia del Dramma Italiano di Fiume. Fondato nel 1946, ha all’attivo 71 stagioni di prosa per un totale di circa 400 titoli messi in scena; in prevalenza di autori italiani, in second’ordine (ex)jugoslavi, vale a dire croati, sloveni, serbi, bosniaci, macedoni. Quindi, della letteratura drammatica universale. Non pochi sono stati gli artisti teatrali toscani che hanno collaborato con il complesso fiumano: registi, compositori, attrici e attori. Qualche nome: i gemelli Andrea e Antonio Frazzi, Alberto Gagnarli, Gianfranco Pedullà, Angelo Savelli, il compianto Pier Luigi Zollo, Marcellina Ruocco, Monica Menchi, Giusi Merli, Gianluca Guidotti, Fernando Maraghini, Giovanni Fochi, Andrea Bruno Savelli, Marzia Risaliti. Concludiamo questa nota ricordando che, a proposito della collaborazione tra il Dramma Italiano e la scena toscana, nel caso concreto con Arca Azzurra Teatro, nel 2019 dovrebbe andare in porto lo spettacolo tratto dalla riduzione di un libro di racconti di Miroslav Krleza (“Il Dio della guerra”), che Jean-Paul Sartre ha definito “il più antimilitarista dei racconti del Novecento”, dal titolo “Baracca 5 B”, riduzione e regia curate da Massimo Salvianti.

Dall’Aquila a New York, tutto per un musical


Musica

Maestro di Alessandro Michelucci Nel 2003 Anna Kiełbusiewicz, cantante e chitarrista polacca di 29 anni, muore in un incidente stradale. Nella stessa macchina c’è Grzegorz Lesiak, anche lui chitarrista, che suona con lei nel gruppo folk-jazz Ania z Zielonego Wzgórza (Anna dai capelli verdi). Gravemente ferito, il musicista lublinese riporta un grave danno all’udito e necessita di una lunga rieducazione prima di poter tornare in attività. Nel 2011 Lesiak è finalmente in grado di imbracciare nuovamente la chitarra. Riunisce alcuni amici (il sassofonista Tomasz Piątek, il bassista Łukasz Downar e il batterista Krzysztof Redas) e fonda un nuovo gruppo, Tatvamasi. Il termine deriva dal sanscrito “tat tvam asi”, traducibile con “questo sei tu”. Il quartetto esordisce con un EP autoprodotto, Peleton zachwianych rowerzystów, al quale segue il CD Parts of The Entirety (Cuneiform, 2013). Assolutamente incatalogabile, la musica è tesa, nervosa, talvolta anche dura, ma lontana anni luce dal fracasso pacchiano dello heavy metal. Chitarra e sassofono si incontrano, si scontrano e si rincorrono tessendo una ricca trama che la sezione ritmica rifinisce egregiamente. In questa musica confluiscono influenze molto varie: rock progressivo, jazz, echi di folklore slavo. Musica di nicchia, ma grazie all’interesse dell’etichetta americana il gruppo esce dalla marginalità e accede al mercato internazionale, cominciando a stimolare l’interesse della stampa. Incoraggiato da questo consenso, il gruppo si lancia in un’attività intensa. Si trasforma in quintetto con l’ingresso del trombettista Jan Michalec: nasce così The House of Words (Requiem Records, 2015). I tre lunghi brani che compongono Dyliżans Siedmiu (Audio Cave, 2016), nei quali si intrecciano umori jazz e psichedelici, confermano che il gruppo ha le idee chiare. La formazione si è ulteriormente ampliata grazie a due validi musicisti, il percussionista spagnolo Vasco Trilla e il sassofonista brasiliano Yedo Gibson. Il disco esce come allegato alla

Suoni combustibili rivista Lizard, alla quale può essere richiesto (redakcja@lizardmagazyn.pl). Diversamente da molti gruppi, che dopo i primi successi si anglicizzano in modo più o meno marcato, il gruppo conserva sempre uno stretto legame col paese d’origine. Eccettuati i suddetti Gibson e Trilla, i componenti sono tutti polacchi. Dopo il CD registrato con la Cuneiform, il successivo Amor Fati (Obuh, 2017) viene realizzato da un’etichetta polacca. La formazione è cambiata ancora

una volta: la novità più importante l’inserimento degli archi (violino, viola e violoncello). La musica è sempre nervosa, caratterizzata da frequenti cambiamenti di tempo e da occasionali aperture melodiche. Originale, elegante e ricco di idee, il gruppo conferma il crescente rilievo della Polonia nel campo delle musiche altre care al nostro amico Antonello Cresti, musicologo attento e autorevole.

I viaggia magici di Raffaele Lo Studio Bong ha presentato la mostra dal titolo “Raffaele Bueno”, in Via Calimaruzza 10/R, Firenze. Lo Studio Bong nasce come spazio indipendente votato al supporto degli artisti contemporanei, ricercando, promuovendo e valorizzando opere che siano arte. La mostra attualmente in corso è stata curata da Elisabetta Bongi e Lando Di Bari, supportata e resa possibile dalla collaborazione con un altr David Styler, promotore della Solid Art. L’esposizione dell’artista Raffaele Bueno ha proposto un percorso nel tempo, includendo primissimi lavori degli anni ’70, fino alle opere più recenti. In questa esposizione Raffaele ha proposto un viaggio attraverso la sua stessa evoluzione artistica e personale. Le sue opere sono viaggi favolosi e magici dove sono concentrare avventure, ricordi d’infanzia o balocchi, tutti riassunti nel breve spazio di un foglio o di una piccola tela. Lavora con libertà e ironia, utiliz-

zando il capriccio e la fantasia perché l’arte non si esprime attraverso regole prefissate e non è frutto di teorie. Una trama di ricordi, visioni e simboli, ricostruita in un cosmo rimpicciolito al massimo.

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di Mauro Marrani Il Granducato di Toscana dall’illuminismo leopoldino alle occupazioni napoleoniche e murattiane, supplemento al periodico L’Universo dell’IGM, è scaturito da una doppia ricorrenza trascorsa nel 2015, ossia il 250° anniversario dell’elezione di Pietro Leopoldo a Granduca di Toscana e il bicentenario del proclama murattiano di Rimini. È un volume che vuole ripercorrere la storia e i mutamenti territoriali del Gran-Ducato di Toscana dal 1765 al 1815, ossia dall’avvento dei Lorena fino al Congresso di Vienna, passando per l’età napoleonica. Di Pietro Leopoldo ricordiamo qui la figura di innovatore, di monarca illuminato, di antesignano, ancora oggi ricordato come fautore di una politica di governo lungimirante e efficiente in una Firenze che, insieme alla Toscana tutta, i posteri avrebbero ricordato come la Firenze del massimo splendore dopo il Rinascimento e che abbiamo in parte perduto per vicissitudini conseguenti all’unificazione nazionale e agli ultimi eventi bellici. Si fa qui riferimento al settecentesco Granducato lorenese, che ebbe inizio con la reggenza dell’imperatore Francesco I di Lorena, quando non poche furono le migliorie apportate in ambito sociale, anche se rilevanti rimasero i bisogni del popolo, che nutriva grandi speranze per la diretta presenza di un sovrano a Firenze; speranze che divennero realtà quando il nuovo Gran-Duca Pietro Leopoldo fece il suo solenne ingresso con la consorte in Firenze, proveniente dalla villa di Pratolino, il 13 settembre 1765, con il popolo che accompagnò tra ali di folla festanti i principi alla loro reggia. Appena salito sul trono di Toscana Leopoldo manifestò i primi saggi di buon governo e di clemenza. Gli apparve da subito manifesta la presenza di un complesso di antiche leggi obsolete e ‘barbare’ e si rese conto dei non pochi abusi di potere preesistenti: per questo avviò la promulgazione di leggi, bandi e motupropri ad hoc. Dopo ben trent’anni un sovrano tornò a risiedere in Toscana. E vi rimase per un quarto di secolo, fino all’avvicendamento dinastico con Ferdinando III, che operò personali modifiche alle riforme leopoldine. Un avvicendamento che risentì dei mutamenti del contesto europeo in seguito alla Rivoluzione Francese con evidenti riflessi sulle vicende interne del Granducato, dove furono adottati ulteriori provvedimenti legislativi e si verificarono importanti cambiamenti istituzionali.

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La Toscana da Pietro Leopoldo a Murat La successiva inarrestabile ascesa di Napoleone Bonaparte, a cavallo fra Sette e Ottocento, lasciò un’impronta indelebile nei difficili equilibri geopolitici del complesso scacchiere europeo ed ebbe notevoli ripercussioni – prevalentemente di carattere storico – anche nel Granducato, per il quale Ferdinando III si era adoperato a più riprese ma invano contro l’occupazione francese. La stagione bonapartista in Toscana non ebbe vita molto lunga, ma ne condizionò gli eventi per quindici anni (dal 1799 al 1814), con rilevanti stravolgimenti, conseguenti alle incisive riforme del sistema elettorale, dello stato civile, del regime fiscale, del sistema di

gata Baciocchi. Dell’occupazione e dell’annessione napoleonica vengono in questo numero speciale messi in evidenza gli aspetti più eclatanti che ebbero ripercussioni sull’assetto politico-amministrativo della regione, anche attraverso gli editti promulgati, gli accorati proclami e la documentazione postale dell’epoca, che qui sono andati a costituire il ricco corredo dell’appendice dedicata. Il tutto si chiude con il biennio 1814-15, durante il quale Gioacchino Murat, ormai non più fedelissimo maresciallo dell’Impero francese, tradì più volte Napoleone, stipulando patti segreti con i suoi nemici, nell’e-

esazione e riscossione e di quello giudiziario, del catasto e della pubblica istruzione, e alla diffusa soppressione delle corporazioni religiose. Nel 1801 Firenze divenne capitale dell’effimero Regno d’Etruria, ceduto da Napoleone ai Borboni di Parma, mentre nel 1808 la Toscana fu annessa all’Impero di Francia, suddivisa nei tre dipartimenti dell’Arno, dell’Ombrone e del Mediterraneo, fin alla riunione territoriale voluta da Napoleone nuovamente in un unico Gran-Ducato, a capo del quale pose la sorella, Elisa coniu-

stremo tentativo di riprendersi il ‘suo’ Regno di Napoli. Alla fine di una ripetuta serie di cambi di rotta politica e di repentini spostamenti lungo l’Italia, fino in Francia e in Corsica, giunse quarantottenne alla fine dei suoi giorni a Pizzo Calabro sotto il fuoco di un plotone di esecuzione della gendarmeria borbonica e vi giunse pronunciando la celebre frase: «Risparmiate il mio volto, mirate al cuore, fuoco!». Col Congresso di Vienna si giunse così alla cosiddetta Restaurazione e al ritorno dei sovrani ‘cacciati’ dagli invasori d’Oltralpe.


di Francesco Gurrieri Di fronte all’ultima realizzazione di Gehry – la “Fondation Vuitton” – nel Bois de Boulogne a Parigi, si è spinti nuovamente e più intensamente ad interrogarsi sul senso di certa architettura contemporanea e su ciò che resta del suo “statuto”. Gehry, l’architetto di Los Angeles (ad oggi rubricato nella corrente “decostruttivista”) è stato, almeno formalmente, il più dirompente della sua generazione. Nato nel 1929 a Toronto e poi trasferitosi in California, nell’àmbito museale esordisce col suo inconfondibile linguaggio con il piccolo museo di Minneapolis ( USA, Minnesota). Qui è chiamato da Lyndel King, Director and Chief Curator, che si trova nell’opportunità di ampliare il suo piccolo museo disponendo di risorse private. Nasce il “Weisman Art Museum (WAM) legato anche all’università locale, con funzione di promozione culturale oltre che di conservazione. Gehry e la King lavorano insieme a lungo. Lei è una donna assai aperta alla contemporaneità (il caso ha voluto che diventasse anche buona amica di famiglia) e di “grafismi” di Gehry conservò ogni disegno, ogni foglio, lasciandone traccia persino sulle pareti intonacate del suo studio di Curator del WAM. Ma questa prima opera museale, così come la successiva di Bilbao (Guggenheim, 1997), limita la libera plasticizzazione alla copertura, al “guscio” esterno che, solo in parte modella gli spazi interni. Il Museo Guggenheim di Bilbao fu la seconda grande opera, certamente la più nota, che consacrò Gehry fra i più trasgressivi architetti a cavallo del XXXXi secolo. Quel museo valse la resurrezione di una cittadina spagnola che sembrava destinata al declino e a Gehry la funzione di taumaturgo urbano e il passaggio nello “star system”. A ben guardare, Gehry, dopo due generazioni, tornava a suo modo ad un <<neoplasticismo tecnomorfo>>, da collocarsi nella grande famiglia formale della <<scultura architettonica>>, così come fu, mutatis mutandis, per la Torre Einstein di Mendelsohn a Potsdam (1920), rubricata nell’espressionismo. Ma alla scultura, se si può ancora chiedere la firmitas, la stabilità perché deve stare in piedi, non si può imporre la utilitas, che è invece propria dello ‘statuto’ dell’architettura. Così Gerhy, scultore dell’architettura, libera tutto se stesso

Frank Gehry, la “Fondation Vuitton”

e quel che resta dell’architettura il neoplasticismo tecnomorfo involontaria tipologia di marketing in quest’ultima opera che si è mangiata una buona fetta del Bois de Boulogne a Parigi. Commissionata da Bernard Arnault per la Fondation Louis Vuitton, questo nuovo museo è stato aperto al pubblico nell’ottobre 2014. Tre anni di collaudo dunque, sono forse la misura giusta per valutarne l’impatto reale e giudicarne la valenza culturale. L’impressione è che, ancor priva di patrimonio artistico proprio, la Fondazione cerchi giustamente “alleati” per costruire eventi, così com’è per quello in corso (2017-2018), “Etre moderne. Le MoMa à Paris”, ove le sale ospitano opere che vanno da Brancusi a Pollok a Warhol: niente di assolutamente nuovo ma solo dignitosissimi imprestiti. Resta allora l’architettura di Gehry. In effetti, si prende la navetta della Fondazione (andata e ritorno) a l’Etoile e si va al Bois de Boulogne. Allora, è di questa architettura che bisogna dire: “ le bâtiment en courbes, lignes et jeux de transparence est le premier geste artistique d’un lieu incontournable de la création artistique contemporaine”, come recita il dépliant dedicato. Dunque, una “gestualità artistica” a cui non si può chiedere il rispetto dello statuto dell’architettura. Come gesto va preso com’è. Con tutta la sua sovrabbondante complessità tecnologica. E con tutta la ridondante inutilizzazione di spazi e volumi che grida vendetta. Cosa ne penserebbero Pevsner, Zevi, Tafuri, a fronte di tanto spreco? Ci chiediamo: esiste ancora uno ‘statuto’ dell’architettura? Non è domanda di poco conto.

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di Danilo Cecchi Ospite del Vinci Photo Festival è il fotografo (poeta) francese Gilbert Garcin (1929 -), con i suoi fotomontaggi di chiara ispirazione surrealista. All’interno della galassia della fotografia surrealista, fatta di costruzioni fantastiche, accostamenti inconsueti, sovversioni ardite, situazioni improbabili, interventi dissacratori ed ironie perturbanti e spesso feroci, l’opera di Garcin si basa invece su di una autoironia sottile, una visione della vita garbata ed un poco fatalista, una concezione del reale che oltrepassa i luoghi comuni prendendosene gioco. Garcin illustra la surrealtà di un universo in cui le leggi della fisica e del buon senso sono semplicemente capovolte. La sua carriera fotografica è del resto anomala, si occupa di fotografia solo dopo il pensionamento e scopre nel 1993 il fascino del fotomontaggio, creando un unico personaggio, interprete di tutte le sue immagini, un piccolo uomo dal cappotto scuro, che ricorda i personaggi dipinti da Magritte e quelli fotografati da Rodney Smith, ma anche il Mr. Hulot di Jacques Tati. In realtà quel piccolo uomo è lo stesso Garcin, spogliato della sua individualità per assumere quella dell’uomo qualsiasi, simbolo dell’umanità intera e vittima predestinata di circostanze assurde, ma anche artefice e demiurgo di quel mondo desolato in cui è costretto ad abitare, accompagnato più tardi da una figura femminile, abbigliata con un analogo cappotto scuro, interpretata da M.me Garcin. L’omino attraversa il suo mondo dando forma ai pensieri, ai luoghi comuni, ai modi di dire, che trasforma in immagini fortemente simboliche. Cammina in tondo sui suoi propri passi e porta una croce, per piantarla poi nel centro del cerchio disegnato dai suoi passi, oppure cancella l’impronta dei propri passi sulla sabbia con un rullo, mentre continua a girare in tondo lasciando nuove impronte dietro di sé, oppure moltiplica se stesso in numerosi personaggi, ciascuno dei quali cammina in tondo sul bordo di cerchi che non si toccano e non si incrociano mai fra di loro, ed infine cammina incessantemente sul bordo di un quadrato, estremo atto di ribellione di chi non vuole più “tourner en rond”. Manovra lui stesso i fili a cui è appeso come un burattino, tenta di arginare con stracci e spazzoloni la marea nera che invade tutta l’immagine, oppure vernicia di nero il cielo e lo sfondo, come atto di protesta verso l’uniformità del paesaggio e la banalità di certa pittura. Si mette al centro di una meridiana per misurare con la propria ombra il tempo, oppure al centro di uno spazio bianco circondato da una distesa di pietre nere,

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Gilbert Garcin Surrealista delicato e contempla una singola pietra nera, la sua coscienza, rimane in equilibrio fra il pallone che lo trascina in alto ed il contrappeso che lo tiene ancorato al suolo, solleva un enorme telo bianco che si spinge fino all’orizzonte per mettere a nudo solamente il terreno arido che vi è sotto. Nel suo mondo di solitudine si alternano diversi oggetti, i grossi orologi che lo trascinano in basso, che lui rincorre lungo un piano inclinato, che scambia con un altro se stesso, oppure le sfere, che lo sovrastano, lo incalzano, e che cavalca in equilibrio mentre rotolano sopra una distesa di chiodi. Si arrampica in cima ad una scala e si protende verso l’alto, verso mete lontane, come la luna, ma si tratta di una falsa luna, appesa ad un filo, irraggiungibile come l’altra luna che appare ancora più in alto. L’omino è spesso sommerso dai numeri, scritti sulle pietre che lo circondano o su rotoli di carta che scorrono all’infinito. Numerose linee, dritte o curve, precise o ingarbugliate, sono tracciate sul terreno, sulle pareti o nel cielo e diventano parte del paesaggio, diventano il paesaggio stesso, assumono spessore e consistenza, diventano cavi, corde, a volte nastri, percorsi obbligati o dedali impraticabili in cui il piccolo uomo si muove con apparente impegno e tranquillità, arrivando lui stesso a tracciare le linee del suo percorso. Fino a quando attraversa un intreccio di cerchi recando sottobraccio un quadrato, marcando così la propria differenza. Il piccolo uomo si trova spesso a confronto con la propria immagine, ingrandita, rimpicciolita, deformata, moltiplicata, ridotta a maschera, ed infine inserita in una cornice. Le sue cornici racchiudono un altro mondo, che a volte è lo specchio del mondo esterno, a volte riflette il nulla, a volte contiene altre cornici, in una serie di rimandi e citazioni che si ripetono continuamente. Anche quando accanto all’omino compare la figura femminile, gli oggetti e le simbologie non cambiano, ma si articolano in un gioco di ripetizioni o di opposizioni. A volta le due figure si incontrano, a volte condividono lo spazio e le esperienze, altre volte l’incontro viene ostacolato da elementi di disturbo, altre volte ancora i due percorsi si allontanano inesorabilmente. Come accade spesso in ogni coppia, reale o surreale.


di Michele Morrocchi Arrivati all’ottavo episodio di una delle più longeve e fortunate saghe cinematografiche, gli ultimi Jedi, non delude le aspettative e anzi supera di gran lunga il predecessore, primo della trilogia targata Disney, mostrando una maturità ed un autonomia che fanno bene al film e alla saga. Visto al primo giorno di programmazione in un tripudio di spade laser brandite da quarantenni accompagnati dai propri figli, gli ultimi Jedi, è un film spettacolare, forse un po’ troppo ingarbugliato e con un’eccessiva ramificazioni di sotto trame che a qualche spettatore han fatto pensare al “troppa trama” di universale memoria, che gioca con l’effetto nostalgia ma in modo meno smaccato e pesante del predecessore. Eppure il film, lungo, scorre e non si ingolfa mai, certo la storia talvolta si risolve senza difficoltà, in uno standard da film d’azione holliwoodiano, e la complessità dei personaggi è abbozzata, mai scavata. Una differenza sostanziale con le due trilogie di George Lucas. Qui, come ne il risveglio della forza, l’universo Star Wars è a servizio del plot (e del merchandising) e non la storia al servizio dell’universo Star Wars. George Lucas creò un mondo attraverso un film (che infatti ha dato vita a migliaia di spin off fumettistici, di giochi ruolo, letterari, …), Disney usa quel mondo come il contesto dove ambientare dei buoni film. Se l’operazione era parzialmente riuscita a JJ Abrams nell’episodio VII (forse per troppo timore reverenziale del regista), portata all’estremo in Rougue One (uno splendido film di guerra casualmente ambientato nell’universo Star Wars), qui il mix si fa completo rendendo gli ultimi Jedi un film pienamente inserito nella saga ma autonomo nel suo svolgersi. Anzi Rian Johnson, regista e sceneggiatore, riesce a dare un tocco personale, inserendo un umorismo caustico, battute fulminanti che sinora erano riservate al solo Ian Solo. Anche nel ridisegnare i personaggi non mostra alcun timore reverenziale e si permette di inaugurare persino la figura del Jedi sfiduciato, dando finalmente a Luke Skywalker una dimensione non più lancillottesca (non apprezzata, si racconta, dall’attore Mark Hamill, vero fan della saga). Certo l’impronta Disney si nota, i personaggi sono rigorosamente multietnici, le depressioni, le bassezze, mai portate al limite (come ci si poteva aspettare da uno dei registi di Breaking Bad), nessun rimando a una lettura politica (salvo forse un Kilo Ren che declina un manifesto, oltre la destra e oltre la sinistra,

Gli ultimi Jedi dirazza e non delude

per dominare l’universo), nessuna indagine sulla caduta e la redenzione, centrali nelle due trilogie precedenti. Qui anzi il tormento tra bene e male serve a costruire un colpo di scena fondamentale ma non è il cuore della storia. Anche il rapporto tra padri e figli non si scioglie e la cosa non crea grossi problemi. Dunque gli ultimi Jedi, con le sue scene di battaglie, i suoi rimandi alla trilogia o a molto altro cinema, risulta un bel film che rinuncia a competere con la trilogia classica e così facendo ne esce rafforzato e godibilissimo.

Il pastorello Ghizzoni di Sergio Favilli Una grossa novità in arrivo : quest’anno nel presepe ci sarà un nuovo personaggio, il pastorello Ghizzoni, si, l’ex AD di UniCredit , appositamente agghindato e completo di zampogna dorata, come si conviene per un banchiere, sarà presente in tutti i presepi nazionali, compreso quello famoso di S. Michele Vesuviano. Voi vi chiederete: - Ma che ci fa un banchiere famoso in un presepe natalizio?? Pensateci su bene, sono mesi e mesi che Ghizzoni subisce pressioni da una parte e dall’altra, c’è chi dice che abbia ricevuto una telefonata dalla Sora Boschi, c’è chi vocifera che si sarebbe trattato di una telefonata per la richiesta di un mutuo atto all’acquisto del Castello di Cenerentola, c’è chi bisbiglia strane tresche interbancarie ai danni di Baffo D’Alema, i grillonzi sono arrivati a dire che si tratta di un complotto demo plutocratico per far togliere al loro

Bepponzo il fido bancario, Giggino de Meio non conosce il problema e si è limitato a dire che , comunque vada, la colpa è degli altri. Allora, amici cari, avete capito perché Ghizzoni pastorello è nel presepe??? Facilissimo, è a conoscenza del quinto segreto di Fatima e si vuol consultare con l’Arcangelo Gabriele prima di andare in Commissione a parlare, che voglia un salvacondotto per il paradiso dopo esser stato costretto a dir bugie?????

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di Susanna Cressati Bisogna intendersi. Se si bada più che altro alla musica, anche starsene sprofondati nel divano di casa, al caldo, con le cuffie collegate a buon apparecchio televisivo, può andare. L’effetto di ascolto è sicuramente di ottima qualità, la comodità innegabile, e alla fin fine anche la visione delle scene è nettamente più ricca e variata di quella che si godrebbe dalla platea, da un palco, per non parlare dello scomodissimo loggione meneghino. Ça va sans dire che la presenza fisica in teatro, che sia un piccolo palco di provincia o che sia la Scala, che sia una qualsiasi replica o che sia la recita del giorno di Sant’Ambrogio, comporta sensazioni inarrivabili. Ma suvvia, pochissimi possono permettersi una trasferta milanese con tanto di biglietto per la prima della Scala! Così ben venga la diretta di Rai 1, ripristinata dall’anno scorso dopo lunga pausa e, diciamolo subito, ben riuscita. La prima della serie fu realizzata nel 1976. Era un Otello diretto da Carlos Kleiber, regista e scenografo Franco Zeffirelli. Mentre Mirella Freni, Plácido Domingo, Piero Cappuccilli e Giuliano Giannella intonavano le arie verdiane, fuori dal teatro, in una Milano plumbea e blindata, i kamikaze e i militanti dei Circoli del proletariato giovanile davano battaglia con molotov e bastoni alle forze dell’ordine in assetto di guerra. Il sovrintendente Paolo Grassi, tutto preso dall’esaltazione per la novità mediatica, bollò sbrigativamente la sanguinosa manifestazione (che tanto mostrava del disagio sociale e politico dell’Italia di allora) come “un fatto secondario”. La diretta 2017 dell’Andrea Chénier, condotta con misura da Antonio Di Bella e Milly Carlucci, non ha demeritato: suggestive le riprese della scena, limitate al massimo le incursioni nel foyer e le chiacchiere sulle “mises” delle signore, il commento sulle voci affidato alla sicura competenza di Cecilia Gasdia, brevi (per fortuna) le scontatissime e vetuste apparizioni di Sergio Romano e Carla Fracci. Fin troppo misurati e patinati i giovani intervistati durante l’intervallo nel ridotto dei palchi. L’edizione è piaciuta. Sbrigato con sobrio mestiere l’inno di Mameli, Riccardo Chailly si è gettato con lena sulla musica che il giovanissimo Umberto Giordano, emigrato da Foggia, anelava di scrivere mentre in una stanzetta del deposito di statue funebri del Monumentale, dove abitava, aspettava il

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tanto sospirato libretto che Luigi Illica, socialista, gli stava preparando. “Erano quelli – ha scritto Natalia Aspesi riferendosi al debutto dell’opera, nel 1896 - anni difficili per l’Italia: scioperi, disoccupazione, scandali bancari (ricorda qualcosa...), e qualche anno prima l’inchiesta del senatore Jacini aveva rivelato lo stato delle campagne, dei contadini schiacciati da miseria, fame, analfabetismo, pellagra”. Nell’opera c’è dunque, almeno in parte, una spinta civile e politica di cui però, nell’edizione affidata alla regia di Mario Martone, elegante, molto tradizionale e senza grandi sprazzi, si è visto forse troppo poco. Anche l’irrompere, nel primo atto, del tanto temuto “Terzo stato” condotto da Gérard (il bravissimo Luca Salsi) nel bel mezzo della festa patrizia, si è risolto in una scena un po’ sbrigativa, tutto sommato innocua e ben lontana dalle violenze rivoluzionarie. Tutte le antenne erano puntate sulla diva del giorno, l’indiscussa soprano russa Anna

Netrebko, maestra di “legato e filato”, e sul tenore azero Yusif Eyvazov, suo marito nella vita, che ha ripagato con buona moneta professionale la supponente sfiducia patita nella vigilia. (Piuttosto i due dovrebbero anche capire che pancia e doppio mento mal si combinano con i primi piani televisivi). Amore dunque più che rivoluzione. Anche le attese contestazioni esterne sono apparse blanda routine. Le assenze dei maggiori vertici politici e istituzionali non hanno lasciato il segno, liquidate dal sovrintendente Alexander Pereira con poco più di un’alzata di spalle. Se, come ha detto una voce autorevole (Armando Torno sul Sole 24 Ore) “Andrea Chénier è un invito a riflettere sulla realtà...un’opera politica, con la quale ci si dovrebbe misurare e grazie alla quale approfondire le riflessioni, soprattutto in un tempo come il nostro”, il fatto che la politica attuale non abbia approfittato dell’occasione non meraviglia nessuno.

All’opera sul divano


1 risma di pere ovvero come mescolare l’arte contemporanea con le amicizie

molte vesti nelle quali si possono manifestare. Questo complesso lavoro si può mostrare in modo performativo con una modella o un modello che indossando quanti bianchi di cotone li mostrano meccanicamente agli spettatori, oppure possono essere esposti tutti e 500 incorniciati e attaccati a delle pareti, o non visti, contenuti nelle scatole che li celano e contemporaneamente li proteggono e vederli come una scultura. In questo caso quello che appare saranno due parallelepipedi con le superfici superiori che ospitano ognuno una “silhouette” di carta lucida ritagliata a rappresentare una pera (appunto) tenuta ferma da

un aggeggio di plastica trasparente sul quale è inciso in colore rosso: “1 risma di pere / si prega di scompaginare i fogli senza sottrarli”. Un altro modo, del tutto privato, è quello di guardarli da solo o con qualche amico, quando capiti l’occasione. Nel luogo dove conservo questa e altre opere, ho l’opportunità di organizzare delle esposizioni di una selezione tematica scelta fra disegni, sculture, fotografie, video o singoli artisti, fra i quali ho mostrato Silvia Noferi, nel maggio scorso e prossimamente farò vedere una serie di sculture di Aldo Frangioni, per la maggior parte chieste in prestito a collezionisti, di modo che opere custodite in case private vengano nuovamente viste dai miei ospiti nel giorno dell’apertura e a chi desiderasse vederle, per la durata dell’esposizione, su appuntamento. Sono occasioni che nascono dalla mia passione per l’arte e avere una artista come Silvia Noferi che viene da me da Sensus, così si chiama lo spazio dedicato alla collezione, per fotografare un altro lavoro d’arte, il cui risultato è sotto i vostri occhi, è uno splendido modo di passare il tempo. Foto di Silvia Noferi

di Claudio Cosma I due contenitori che vedete nella foto sono in realtà un lavoro di un artista fiorentino, sia l’uno che gli altri mi sono molto cari ed insieme alla foto, essa stessa un opera d’arte, e alla sua autrice, fanno parte di una riserva di ricordi legati alla mia collezione, ma anche al modo nel quale mi piace vivere. Mi spiego meglio. “1 risma di pere” è il lavoro in questione, l’artista si chiama Aldo Frangioni e la fotografa si chiama Silvia Noferi, entrambi, al mio modo di vedere e sentire, amici. Prima conosciuti per le cose che fanno professionalmente e successivamente trasformati in artisti /amici, sebbene il Frangioni sia conosciuto per le sue molteplici attività e per i suoi numerosi interessi, fra i quali essere redattore di Cultura Commestibile, rivista prima cartacea e successivamente on-line, che ospita questa rubrica d’arte, con questo articolo arrivata alla sua trentottesima uscita. Ci sono due contesti temporali, il primo risale al 2013 quando Aldo ha realizzato, come indica la parola risma, 500 modi di raffigurare le pere, usando varie tecniche, pur tenendo per tutte lo stesso formato e raccogliendole nei contenitori, 250 ciascuno. Il secondo quando Silvia nel 2016 ne ha realizzato una serie di fotografie, di cui quella riprodotta nel testo, li rappresenta in una delle

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di Mariangela Arnavas Dobbiamo essere grati a Netflix ed alle sue serie televisive se i romanzi di Margaret Atwood, (nata a Ottawa il 18 novembre del 1939), una delle scrittrici canadesi attuali più importanti e popolari, sono tornati negli scaffali delle librerie italiane da cui erano scomparsi da anni. Alias Grace, “L’altra Grace” è il titolo italiano a mio avviso poco felice, è appunto uno dei romanzi della Atwood da cui è stata tratta una serie televisiva in sei puntate, come anche la foto di copertina. È una narrazione in cui si intrecciano indissolubilmente diversi livelli di lettura, il primo dei quali è la storia dell’infanzia e adolescenza di una ragazza irlandese povera, primogenita di nove figli, per questo condannata ad un vero e proprio inferno in terra; la miseria, la fame, la durezza del lavoro di cura senza speranza, lo spaventoso viaggio verso il nuovo continente durante il quale le muore la madre, le vessazioni e gli assalti degli uomini, anche di quelli che dovrebbero proteggerla. È bella Grace, come quei fiori che crescono sulla ghiaia, le peonie che “spuntano in mezzo ai sassolini grigi, i boccioli esplorano l’aria come antenne di lumaca, poi si gonfiano e si aprono, grossi fiori rossi scuro lucidi e brillanti come seta”, proprio come i suoi capelli, ma la bellezza non le è d’aiuto, al contrario rende la sua vita di adolescente ancora più difficile perché le domestiche sono state per secoli, merce dei padroni, salvo essere cacciate se rimanevano incinte ; così infatti, l’unica amica della protagonista, Mary Whitney finisce per morirle accanto nel letto dissanguata dopo un aborto clandestino. Il destino di Grace sarà quasi altrettanto tragico, coinvolta dall’altro domestico della casa negli omicidi dell’ultimo dei suoi padroni e della sua governante nonché amante, sarà, a soli sedici anni, prima condannata a morte e poi all’ergastolo. Spesso racconta in prima persona Grace ed ha uno sguardo lucido e puntigliosamente ironico sulla realtà, talora all’apparenza involontario, ma sempre con gli occhi asciutti e quando il giovane psichiatra che si interessa al suo caso, tentando un po’ maldestramente un approccio di tipo analitico (ma ancora siamo ai primordi rudimentali della psicoanalisi),le chiederà se la vittima le aveva mai fatto proposte indecenti e non si era mai preso delle libertà con lei, risponde: “Nei limiti della norma, signore”, e, di fronte allo sconcerto del giovane aggiunge “Con una domestica, signore. Era un buon padrone, signore”. E ancora: “Gli uomini come lui non sono costretti a pulire quello che sporcano, siamo noi che dobbiamo pulire quello che sporchiamo, e perdi più quello che sporcano loro.” Questa condanna a vita di generazioni e generazioni di donne emerge

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un’ incosciente spietatezza il commento della figlia del direttore del carcere che le dirà che è così brava a cucire ed un vero tesoro tanto che “sperava non mi facessero mai uscire di prigione, perché voleva che fossi sempre disponibile a dedicarmi al suo guardaroba. Suppongo che in un certo senso fosse un complimento”. Solo in un tentativo di ipnosi ad opera di un personaggio ricorrente nella narrazione, anche lui, come Grace, con nomi diversi e in più ruoli molteplici e multiformi da venditore ambulante a medico sperimentatore sembreranno emergere le diverse personalità di Grace, forse non tutte interne, ma il dubbio non si chiarirà completamente e la verità rimarrà inafferrabile. In questo senso la traduzione italiana appare non del tutto adeguata, prima di tutto nel titolo perché “ alias” non significa “altro” in italiano, significa “pseudonimo”, allude a nomi d’arte o di convenienza e, visto che anche in questo senso è usato in italiano poteva rimanere identico anche nell’edizione nella nostra lingua tanto più che è parola latina che significa, in questo caso, “altrimenti; ancora peggiore è la traduzione di un passaggio riportato anche nel retro di copertina, ritenuto quindi anche dall’editore molto significativo, che suona così: “comunque assassina è una parola pesante da portarsi dietro. Ha un odore, quella parola, un odore muschiato e opprimente, come di fiori recisi in vaso. Qualche volta, di notte, me lo ripeto a bassa voce: Assassina, assassina. Fruscia, come una gonna di taffetà sul pavimento. Assassino evoca solo violenza. E’ come un martello, o un pezzo di metallo. Preferisco essere un’assassina che un assassino se questa è l’unica alternativa.” Leggendo queste frasi non riuscivo a capire come la variazione della sola vocale finale potesse determinare tutta questa differenza di suono; poi ho capito che quella differenza, con tutte le sue potenzialità evocative, c’era ma in inglese dove assassino è “murderer” mentre assassina è “murderesses”; può darsi che non sia del tutto un male costringere i lettori ad aguzzare l’ingegno ma mi sembra di poter ritenere che, anche in questo caso, la traduzione sia inadeguata e incongrua. Tantissimi spunti interessanti ed una scrittura asciutta e ironica, del tutto adeguata ai temi trattati con lo scabro realismo e il passaggio rapido e ripetuto del racconto in prima persona da un personaggio all’altro; capace di tenere la lettrice o il lettore incollati al filo della narrazione fino alla conclusione delle 560 pagine e oltre.

Alias Grace con chiarezza inequivocabile ed una semplicità opprimente che aumenta la forza della denuncia. Ma c’è un altro importante filone di lettura che è quello dell’“elusiveness of the truth”, l’inafferrabilità del vero; infatti nella vicenda, ispirata ad una storia realmente avvenuta in Canada nel 1843, la versione di Grace sugli omicidi viene modificata dal suo avvocato, resa perversa dalla stampa scandalistica e distorta dal suo stesso desiderio di compiacere, proteggere e forse vendicare se stessa, come afferma The Guardian. La stessa Atwood dice in un intervista: “Mi ha colpita, ad esempio, che fosse in grado di leggere e scrivere a differenza di quanto venne testimoniato all’epoca; l’immagine e la rappresentazione di Grace erano molto differenti dalla realtà”. Ma c’è un altro percorso interessante nella narrazione, che è quello della struttura delle personalità cosiddette multiple o comunque della stratificazione nel tempo di personalità diverse in una stessa donna, tematica legata ad una concezione del tempo non più newtoniana, ma più coerente con la fisica moderna che sembra affascinare alcune delle più importanti scrittrici attuali, tra cui anche Annie Ernaux. Così Grace è “alias” Mary Whitney, l’unica amica distrutta dall’egoismo e dalla crudeltà del giovane padrone e forse altre ancora. Grace dice infatti di essere svenuta ad un certo punto nella notte degli omicidi e di non ricordare almeno una parte degli avvenimenti e inutilmente il giovane psichiatra tenterà di raggiungere la verità con maldestri tentativi di ricorso al metodo analogico, presentandosi ogni giorno con un ortaggio diverso e sollecitando associazioni di idee; anche qui la Atwood evidenzia, come in molti altri passaggi del romanzo, la crudele e un po’ stolida insensibilità dei benestanti/benpensanti con cui Grace viene in contatto: sarà infatti lei a dover chiedere al giovane medico che almeno le siano portati ortaggi o frutti freschi e mangiabili perché nel vitto della prigione erano esclusi; così appare di


di Andrea Ponsi Lombard Street

Una strada di montagna, quanto più ripida si possa immaginare, con tornanti strettissimi confinati nello spazio di un singolo isolato: la strada più tortuosa del mondo è un serpente sinuoso che si districa in un declivio-giardino con effetti sorprendenti. Vista dal basso , da Lavenworth Street, il piano stradale neppure si vede. Si scorge solo una folta e bassa vegetazione, un tappeto di ortensie colorate incongruamente attraversato da cofani di automobili che lentamente affrontano la discesa. Naturalmente la strada è a senso unico , e per distinguersi ulteriormente da tutte le altre a San Francisco, è pavimentata con mattoni rossi. Un buon modo di utilizzare un declivio ripidissimo che altrimenti potrebbe essere solo negoziato rendendolo pedonale con rampe e scale, come è sempre il caso in situazioni analoghe , per esempio nella adiacente Filbert Street Si parla di città giardino, quartiere giardino, piazza giardino . Questa è certamente la strada-giardino più rinomata al mondo. A ben pensarci un simile andamento tortuoso potrebbe funzionare anche se il terreno fosse piano. Sarebbe un buon modo per decelerare il traffico e , come appunto a Lombard Street, creare ampi giardini di fronte ad ogni casa nello spazio concavo tra un tornante e l’altro. Una inedita, tipologia stradale: la “strada giardino a tornante”, anche se perfettamente piana. Dolores Street

Una volta disegnai le strade di San Francisco, come le ricordavo, non dal vero. Per Dolores Street preparai un disegno verticale. Nella parte bassa del foglio delineai il preciso profilo dell’ America Latina. Con l’acquarello lo inondai di verde come se l’intero continente fosse una grande foresta tropicale. Verso l’alto, dopo la strettoia di Panama, il continente si allargava nella forma del Messico per trasformarsi infine, con un salto di scala alquanto fantasioso, nella planimetria della penisola di San Francisco. Lì la massa verde diventava, con una rapida metamorfosi, una fila di altrettanto verdi palme tropicali allineate al centro di Dolores Street. La strada andava infine a confluire in prospettiva in Market Street . Dolores Street è l’ultima propaggine di un percorso che nel tempo ha portato a San Francisco il popolo dell’America Latina. E’ il simbolo di questo percorso e del suo punto di arrivo: il punto in cui il quartiere di Mission e

Mappe di percezione

San Francisco

le palme di Dolores street vanno a mescolarsi col downtown americano. Dolores park

Se San Francisco fosse una città europea o latino-americana, allora la “piazza” che meglio rispecchierebbe la sua identità sarebbe Dolores Park. Come dice il suo nome piazza non è, è solo un parco. Ma non un parco inteso come un prato verde, campi sportivi e cosi via; è una piazza-parco perché qui si sente che c’è ancora qualcosa dello zocalo e qualcosa dell’Europa. Le zone del parco sono identificabili dall’uso o dall’etnie di chi le usa. E’ domenica mattina. Su in alto vi è il prato scelto dai gay; stanno in costume a prendere il sole, anche d’inverno. A metà costa prevalgono gli ispanici, poi cerchi di gente accovacciata qua e là che suona, chiacchera o si scambia qualche eterea sostanza. Più in là, gli apprendisti giocolieri, con le palle, i bastoni e altri aggeggi. E famiglie con bambini intorno a un barbecue. C’è chi dorme sul declivio, chi tira un frisbee al cane, chi si arrampica su un albero, chi si stira di fronte al sole. Da qui la vista spazia su tutta la città. Sui i grattacieli del downtown , i campanili messicani, le cupole massoniche, le palme di Los Angeles, i bow windows Vittoriani e le colline dell’East Bay. La piazza-park è in discesa: un grande prato verde che si adatta alla collina. E’ quadrata, e questa sua precisa geometria la rende una vera “piazza topografica”, analoga a tutta la città di San Francisco, città topografica per eccellenza che, come un kilt di quadrati tutti uguali, si conforma al suo letto a saliscendi

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di M. Cristina François Nella rinnovata, recentissima attenzione da parte degli studiosi nei confronti di Francesco de’ Medici, mi sono detta che certamente l’Archivio Storico di S.Felicita doveva serbare qualche carta interessante sul personaggio. Così ho immediatamente cercato e trovato una testimonianza relativa a ciò che pensava di questo sovrano un Curato che compilò tra il 1860 e il 1868 la seguente Cronaca: “Al Rev.mo Mons. Niccolò Del Meglio Parroco della R.Chiesa di S.Felicita di Firenze, questa più che povera raccolta di memorie, il Sac.Cesare Ganci, dedicava” [Mss.729 e 730]. La relazione di questo sacerdote storico ed erudito, che si presenta apparentemente distaccata, oggettiva nel suo andamento cronologico, si rivela agli occhi nostri una cartina al tornasole della mentalità del suo tempo di cui si conserva in gran parte il retaggio. Sorpreso che nel “Libro Lungo dei Morti, 1537-1659” [Ms.126], non sia stato trascritto l’avvenuto decesso del Granduca Francesco e della Granduchessa Bianca, il Curato Ganci così scrive: “Nulla vi ha sui nostri registri dei morti […].

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Non par possibile, se il registro dei morti ed’ altri manoscritti del Priore Assettati di questa Chiesa che era scrupolosissimo nel prendere ricordo di avvenimenti anche di poca importanza, non ce lo accertassero che nulla vi sia che rammenti se la nostra Chiesa prendesse parte al trasporto solenne che si sarà fatti di questi cadaveri se non altro dalla Porta della Città alla Chiesa di San Lorenzo, ciò sarebbe piuttosto indizio che il Parroco che allora era il Mannini, non fosse stato neppure invitato, cosa che è avvenuta altre volte come potrà vedersi in progresso di tempo [ma che non si verificò mai - aggiungo - per sovrani del ‘popolo’ di S.Felicita] forse per colpa di quei di S. Lorenzo che quasi sempre si litigavano il diritto di stola.” [Ms.730 p.109]. E continua riferendo che furono fatte in S.Lorenzo “solenni esequie, per ordine del Cardinale Ferdinando fratello dell’estinto Granduca, [e che] il cadavere di Bianca fu fatto seppellire nei Sotterranei di detta Basilica e solo quello del Granduca fu lasciato esposto alla vista del popolo. […] Il Granduca lasciò due figlie della prima

Il curato

moglie, la Granduchessa Giovanna d’Austria, ed’ un figlio naturale per nome D.Antonio che per inganno di Bianca aveva riconosciuto come tale” [p.110]. Qui si innesta il virgulto, tra storia e leggenda, cresciuto intorno alla figura di Don Antonio che non tratteremo in questa sede. Alla sua altezza cronologica, il Ganci è rappresentativo della posizione assunta in rapporto ai fatti di Francesco dalla Curia Fiorentina e conseguentemente è favorevole al “buon governo” dell’ex-Cardinale il Granduca Ferdinando I. Aggiunge infatti che questi il 25 ottobre 1587 fece il giuramento nel Salone dei ‘500 “ed’ il popolo animato dalla speranza di cambiar sorte, perché non ben trattato dal regime di Francesco, con trasporti di gioia lo salutò Granduca di Toscana. Al suo avvenimento al trono fece molte opere di beneficenza […] conservò anche a D.Antonio creduto figlio di Bianca il trattamento assegnatogli da Francesco e regalando una somma di danaro a D.Pietro suo fratello onde pagare i tanti debiti che aveva contratti per i suoi stravizzi” [p.110]. Anche il com-


e il granduca

portamento di Ferdinando nei riguardi della defunta Bianca fu moralmente approvato dalla Chiesa Fiorentina poiché “Ei fu Principe clemente, dolce di carattere, moderato e giusto”, motivando in tal modo il fatto che “non volle che le armi medicee fossero inquartate con quella della Cappello, e fatte cancellare le insegne di questa, vi sostituì quelle di Giovanna d’Austria” [p.111]. Mentre il Curato Ganci celebrava la clemenza di Ferdinando nei confronti del figlio di Bianca, faceva rilevare l’ingiusta decisione di Francesco il quale “il giorno stesso della morte di Cosimo intimò che fosse rinchiusa in un Convento” Cammilla Martelli, proprio quella stessa che il buon Ferdinando, appena Granduca, farà invece magnanimamente “porre in libertà” [pp.103 e 110]. Anche con i propri fratelli Francesco sembrò “essere in buona armonia in sul principio ma poi si alienarono i loro animi” [p.103]. Il Curato lo condanna soprattutto per “la pochissima moralità […], [in quanto] faceva passare tristissimi giorni alla sua consorte la Serenissima Principessa Giovanna figlia dell’Imperatore Ferdinando I d’Austria; e la scostumatezza del fratello D.Pietro [De’ Medici] dava animo […] di condurre una vita non troppo savia […]. La Corte in quest’epoca non era che l’esempio della scostumatezza, della corruzione e del disordine” [p.104]. Nello scritto del Ganci, la Granduchessa Giovanna diviene al contrario il simbolo di colei che pagò con la propria morte, come una martire cristiana, le colpe di Francesco e la seguente descrizione dei fatti dice tutto: “Nell’anno 1576, erano undici anni dacché l’Arciduchessa Giovanna […] era stata sposata al Granduca Francesco I De Medici, ebbe finalmente un figlio cui fu posto il nome di Filippo. Fu questa l’epoca dopo il Suo matrimonio in cui questa povera principessa incominciò a goder di qualche cosa, se non altro vide riconciliarsi con essa il marito poiché era odiata e molto per non aver dato ancora alla luce un figlio. Ma dovea durar poco questa sua non piccola contentezza perché, era nata per soffrire, infatti non valendo a sopportare le pene dell’operazione al quarto suo parto avvenuto il dì 11 d’Aprile del 1578, mancò ai vivi dopo soli sette giorni. Pare però che morisse in Palazzo vecchio poiché nel Registro pri-

mo dei morti compilato dal Priore Santi Assettati, allora Curato di questa Chiesa scrive sul tal proposito a carte 29 la seguente benché sterilissima partita come era costume d’allora, cioè: Adì 18 Aprile 1578 La Serenissima Giovanna d’Austria Granduchessa di Toscana in S.Lorenzo, morì nel Palazzo di Piazza, lire 6 per limosina”[p.105]. Il paragrafo successivo contrasta violentemente con il precedente. Il Ganci lo intitola significativamente “Avventure del Granduca Francesco I con Bianca Cappello il di cui marito è stilettato in Via del Presto”: vi si racconta come un tal Pietro Bonaventuri fiorentino, si innamorò di Bianca e come la sposò segretamente contro la volontà del padre di lei, così essi “fuggirono da Venezia a Firenze, e si ricoverarono in una casa del Bonaventuri divenuto già povero […]. Era anche Bianca poverissima, perché non aveva portato seco altro che quello che aveva in dosso, ma veduta un giorno dal Granduca Francesco I se ne invaghì per modo, che, quantunque avesse ancora viva la moglie Giovanna d’Austria, nonostante non viveva con essa punto onestamente. Cominciò poi a trattarla con molta splendidezza allorché gli fu morta la moglie e la fece collocare in una casa Sua in Via Maggio […]. Passati due mesi dalla morte della propria moglie, desiderando ardentemente di togliersi Bianca in sposa, fece stilettare il di lei marito Bonaventuri, il quale fu veduto ucciso dietro la Via Maggio, cioè in Via del Presto dove era la porta segreta di sua casa. Il dì 29 di Giugno di quest’anno 1578 segretamente, allora la sposò, promettendo però di pubblicarne solennemente il contratto deposte che fossero le gramaglie della vedovanza” un anno dopo [p.105]. Di questo matrimonio granducale si rallegrò molto la Repubblica di Venezia e dichiarò Bianca “a pieni voti vera e particolar figliuola della Repubblica” [p.106] riabilitandola completamente, tanto che fu ritirato l’ordine di “bando” dalla sua città, bando che l’aveva colpita quando era fuggita dalla Serenissima. Ma alla gioia peccaminosa di questa unione sembra far seguito il castigo divino. Nel paragrafo seguente, infatti, il Curato racconta la morte di Don Filippo, unico figlio del Granduca. “Aveva soli sei anni di età perché nacque nel 1576. Fu grande il dispiacere del Gran-

duca perché nella morte di questo figlio, svanì ogni speranza di successione, non avendo neppur potuto ottener figli dalla seconda sua moglie Bianca Cappello” [p.107]. Si noti che neppure la memoria del piccolo figlio fu segnata nel Registro dei Morti della Chiesa di S.Felicita, così che il Curato conclude il racconto della vicenda con queste parole: “non sappiamo perché non si faccia menzione della morte [di D.Filippo]”. Parrebbe che l’Istituzione Ecclesiastica, rappresentata qui dai ‘Registri dei Morti’, facesse biblicamente “ricadere sui figli le colpe dei padri”. Di contro, Ferdinando I “Principe clemente, moderato e giusto” fu subito liberato dai sospetti di avvelenamento ormai noti: leggiamo a questo proposito, a p.109 del manoscritto, che nel 1587 Francesco e Bianca decisero di trascorrere “i deliziosi giorni di ottobre nella R.Villa di Poggio a Cajano” e vi invitarono anche il Cardinal fratello; “Questi che fino dal matrimonio di Francesco con Bianca era stato sempre non di buon umore con essi, non ricusossi per questo a quell’invito”, ma mentre “tutto era festa, tutto era gioia” il Cielo sembrò ancora una volta punire i due ‘peccatori’ che morirono inspiegabilmente “quasi nello stesso tempo”. Se ciò “diede luogo a sospettare di un avvelenamento fu osservato per mezzo di una sezione dei cadaveri che i sospetti erano del tutto infondati” e ciò scagionò Ferdinando. Ben si guardò la Chiesa dal prender partito per il Principe introverso, melanconico ed oscuro, ma scelse la politica del ‘vincente’, già ex-prelato. Si chiude qui la ‘damnatio memoriæ’ che le pagine di questa Cronaca ottocentesca giunte fino a noi trasmisero sul Principe Francesco De’ Medici. Ancora una volta le carte dell’Archivio di S.Felicita Parrocchia Granducale ci hanno permesso di indagare nel passato che, poi, è ragion d’essere del nostro presente. Nel “Bollettino di Pitti” aa. 2006-2007, in cartaceo e on line, si possono leggere due miei articoli intitolati “Le Carte della Real Corte (1^ e 2^ parte)” che introducono alla “Sezione della Biblioteca della Memorie” custodita presso l’Archivio di S.Felicita nella quale, oltre il documento del Ganci, si conservano testimonianze anche inedite sul governo della nostra città dalle origini fino al 1918.

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Notre-Dame, un restauro di tutti

di Simonetta Zanuccoli Nel 1831 apparve il romanzo Notre-Dame de Paris di Victor Hugo. Il suo autore scrisse all’epoca “E’ difficile non sospirare, non essere indignati per i degradi, le innumerevoli mutilazioni che contemporaneamente il tempo e gli uomini hanno fatto al venerabile monumento”. Quasi duecento anni dopo queste parole sono più attuali che mai. L’usura del tempo che continua a scorrere inesorabile, l’inquinamento e la pioggia acida, hanno peggiorato le cose e la Cattedrale continua ad essere spogliata dei pezzi più pericolanti a rischio di caduta. Notre-Dame, pietra miliare nella storia dell’architettura gotica, è senza dubbio uno dei monumenti più emblematici della Francia e il più visitato con oltre 14 milioni di persone l’anno. Costruita in 107 anni a partire da metà del XII secolo, oggi considerata Patrimo Mondiale dall’Unesco, ha avuto nel corso del tempo inponenti restauri, come quello tra il 1844 e il 1864 ad opera di Eugene Viollet-le Duc e Jean-Baptiste Lassus, e qualche trasformazione come le vetrate della navata, sostituite nel 1967, la riorganizzazione dello spazio liturgico nel 2004 e le nuove campane nel 2013. L’ultimo grande restauro risale agli anni 90 anche se è stato letteralmente “di facciata”, rivolto alle parti più in vista e trascurando quelle più nascoste. Lo Stato, proprietario della Cattedrale, spende già 2

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milioni di euro l’anno di manutenzione ma questi risultano ormai insufficienti a preservare il patrimonio interno di dipinti, sculture...e i decori e le strutture esterne. Tra questi il deterioramento di alcuni dei gargoyle, i 54 famosissimi mostri a guardia del perimetro di Notre Dame e, per molti, il suo simbolo, ha fatto scalpore nell’opinione pubblica (pochi giorni fa è apparso un articolo in proposito su La Repubblica). In realtà, i gargoyle non sono figure medievali coeve al progetto originale gotico e, secondo una presupposta leggenda, a protezione della Cattedrale dal maleficio, come in genere vengono creduti, ma ornamenti decorativi, voluti da Viollet-le Duc durante il suo audace restauro ottocentesco, posti alle estremità delle grondaie (in francese gargouille). Un “falso storico” dunque al quale molti critici dell’arte hanno tentato di dare una spiegazione. Secondo l’americano Michael Camile, i mostri erano la caricatura della percezione dell’ epoca dei raffinati benpensanti e benestanti che vedevano invasa la loro Parigi da orde di popolani (ritenuti brutti e cattivi da una società molto classista) delle perdute provincie francesi che in quel periodo stavano invadendo la capitale alla ricerca di lavoro e di una vita migliore. Quello che preoccupa di più i tecnici dei monumenti storici che si stanno occupando della Cattedrale “malata” è lo stato delle tavole di piombo che rivestono il tetto che, essendo molto logorate, lasciano filtrare

l’acqua all’interno facendo marcire la preziosa struttura di sostegno, la foret sublime, fatta con antichissimi legni provenienti da alberi vecchi 300, 400 anni abbattuti a metà del XII secolo, e i contrafforti volanti che sorreggono lo scheletro dell’edificio. Alcuni di essi sono talmente rovinati da minacciarne, in un prossimo futuro, la stabilità. L’ accordo di mobilitare 60 milioni di euro in 10 anni firmato l’anno scorso tra l’allora presidente Hollande, il sindaco di Parigi, Anne Hidago e l’arcivescovo Andrè Vingt-Trois, non è sufficiente per effettuare il necessario restauro generale. Ne servirebbero altri 90 milioni. Per questo la Fondation Notre Dame di Paris sta facendo appello per una massiccia raccolta di fondi sui giornali e su molti siti internet ai francesi di tutte le religioni perchè la Cattedrale deve essere considerata come patrimonio collettivo. Da quest’anno è stata lanciata un’identica iniziativa negli Stati Uniti da Friends of Notre Dame. Le due fondazioni nel 2018 inizieranno insieme un tour nelle principali città americane, da New York a Los Angeles, per mobilitare i ricchi mecenati e sollecitarli, attraverso riunioni a tema e cene a pagamento, a cospicue donazioni. Pensando ai tanti bellissimi monumenti e edifici italiani in condizione di simile o peggiore degrado ci si chiede, con rammarico, perchè non possiamo metterci lo stesso impegno per salvarne almeno qualcuno


di Cristina Pucci “....con le mie scarpe di zuppa e pan bagnato...il vestitino di carta colorato....Pinocchio ma cosa fai, Pinocchio ma dove vai.. “canta la mia nipotina, due anni e mezzo... Pinocchio è un eroe di tutti, del mondo intero, ognuno ha in sè un ricordo del terribile burattino che tante ne combina al povero falegname-padre Geppetto prima di redimersi e diventare un vero buon bambino. Io fui un po’ sconvolta dai conigli che gli portano la bara quando, malato, non vuole prendere la medicina...Comparve la prima volta a puntate, su un supplemento settimanale per bambini, allegato al quotidiano Il Fanfulla, 1881. Collodi ne inviò otto “pezzi” poi , poco convinto concluse, ma le proteste dei lettori lo costrinsero a riprendere in mano il racconto ... Pare che abbia detto all’Editore “son bambinate..” “se le pubblichi pagamele bene per farmi venir voglia di seguitarle...” E allora non poteva mancare un collezionista di Pinocchi! Torniamo dal nostro amico Enzo Fumagalli, di cui abbiamo ammirato le raffinate ceramiche del Novecento, certi di trovare una vetrina, e non solo, piena dei più vari esemplari del Burattino Nazionale. In essa vediamo campeggiare una bellissima bambola, abito bianco a pois azzurri in pendant col cappello di feltro e le scarpe, trattasi di quella che la madre di Enzo conservava nella sua camera, ricordo dolce e malinconico del padre che gliel’ aveva donata, era un pilota e quando lei aveva appena 9 anni era stato abbattuto. Venuta a mancare la madre Enzo, curioso di sapere di che bambola si trattasse, ne mise la foto su Facebook, scoprì che era una rarissima Burgarella, dal nome della Ditta attiva a Roma per un breve periodo negli anni ‘20 /30. Il suo corpo snodabile e i suoi occhi dipinti forse gli ricordarono un burattino e la sua preziosa rarità gli fece nascere il desiderio di collezionare oggetti magari conosciuti da tutti, ma altrettanto rari e preziosi. Da sempre amava le complesse avventure del burattino di Collodi, alle sue raffigurazioni si rivolsero quindi il suo interesse e la sua ricerca, 12 anni fa, circa. Il primo che ha acquistato è un grosso pupazzo con il lungo ed affilato naso con la punta rossa, risale agli anni ‘20 ed è stato fabbricato dalla rinomata Ditta Furga. Quello che più ama è un bellissimo Pinocchio dai lineamenti del volto morbidi di un quasi bambino, elegante e composto con i libri legati vicino a sé, Lenci , anni ‘40, sta in mostra seduto alla destra della bambolona. Accanto a lui ne vediamo uno, sempre grandino, dalle linee più grezze,

Pinocchi che ha inserito nel retro un carillon. L’ultimo arrivo è davvero raro e davvero prezioso , come nei suoi progetti, di Zaccagnini, della serie di deliziose ceramiche da lui dedicate ai personaggi Disney. Nella vetrina, in primo piano, si osserva un Pinocchietto a cavalcioni di un primordiale e delizioso triciclo, è di latta litografata della Ditta Bell. Ne ha uno, piccolo con gli orecchioni da somaro, gonfiabile, che è un gadget anni ‘60 della Ditta Maggiora, biscottificio dalla antica e interessantissima storia. Non posso trala-

sciare in clima natalizio un piccolo Pinocchino- pallina di vetro colorato, da attaccare all’albero. Il più bislacco, una ceramica a forma di albero, dietro al tronco sbucano il Gatto e la Volpe, sulle foglie staziona un grosso e nero Grillo Parlante, davanti Pinocchio con completino rosato, è una bottiglia in realtà. Enzo ha comprato anche un libro con le Illustrazioni di Mussino, uno dei più antichi e significativi fra le decine di illustratori di Pinocchio, quello che illustrò l’edizione del 1911, anche se dice che non è il più prezioso, a me sembra bellissimo, ce lo mostra circondato da scatoline di latta in tema e due meravigliosi astucci di legno a parallelepipedo, quelli con il tappo scorrevole che anche io avevo alle elementari.

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di Valentino Moradei Gabbrielli

Arricchire l’offerta culturale? Perché? Ci presentiamo all’ingresso della Scuola Grande di San Rocco in Venezia, sede dell’omonima Confraternita di Laici. Un giovane studente, ci invita ad entrare dicendo che in occasione della mostra in corso sulla Cappella degli Scrovegni, l’ingresso al piano terreno dell’edificio è gratuito. Siamo nella Sala Terrena, all’interno della Scuola, una delle più importanti e ricche Confraternite Veneziane. L’immensa aula, custodisce uno dei tre cicli pittorici realizzati dal pittore Jacopo Robusti conosciuto come “Tintoretto” all’interno del complesso di San Rocco nel corso del suo lungo rapporto con la Confraternita durato oltre venti anni, alla quale il suo nome è indissolubilmente legato. Gli otto teleri di grandi dimensioni presenti nella sala, rappresentano episodi dell’Antico e Nuovo Testamento e costituiscono insieme all’architettura, un unico e prezioso tesoro che ha reso e rende tutt’oggi famosa la Scuola. Un monumentale corpus di oltre 60 opere realizzato interamente dall’artista a prezioso completamento e decoro dell’architettura al piano terreno e superiore con la Sala Capitolare e la Sala dell’Albergo. La mostra temporanea in essere, presentata come “Un’affascinante risorsa per tutte le scuole venete”, occupa circa 120 mq per un’altezza di 4,5 metri ed è collocata al centro della sala. Consiste nella riproduzione fotografica in scala ridotta della Cappella degli Scrovegni in Padova affrescata da Giotto. Nella scheda tecnica è presentata come un’ideazione e realizzazione di Itaca Eventi, che fa parte di Itaca Edizioni, e propone la mostra itinerante come un pacchetto chiavi in mano specificando i costi dell’intera operazione. Mi domando: sarà davvero necessario “arricchire” di una nuova e ulteriore offerta culturale un luogo così armonico e “naturalmente” saturo di storia, arte e cultura, o siamo di fronte ad una delle sempre più frequenti operazioni di carattere commerciale che si inseriscono nel luogo di importanti monumenti come inopportune distrazioni?

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Sabato 16 dicembre alle ore 18. al Caffè Letterario Le Murate, piazza delle Murate a Firenze , verrà presentato il libro di satira Mein Trump (Intrecci Edizioni,2017) e verrà inaugurata la mostra omonima di vignette e testi. L’evento è ispirato con sarcasmo a Donald Trump che appare in copertina come un grottesco dittatore moderno, padre putativo di una beffarda parodia del Mein Kampf sottolineata anche dalla grafica dei caratteri gotici del titolo. II curatore/vignettista Pietro Vanessi dialoga con alcuni autori : i vignettisti Lido Contemori e Giuliano (Rossetti), la scrittrice Lucilla Masini e Augusto Rasori (redattore di Lercio). Interviene l’editrice Lucia Pasquini. Un libro di satira corrosiva, divertente e irriverente sul presidente Americano Donald Trump, un uomo dagli atteggiamenti provocatori ed estremi che ha attirato verso sé gli strali di quasi tutto il resto del mondo. Un libro irriverente che, tra una risata e l’altra, vi farà riflettere su quello che Europa, Messico, Russia, Cina e il mondo arabo potrebbero affrontare nei prossimi anni. “Non c’è un solo osso razzista nel mio corpo”. “In realtà penso di essere umile”. “Non è stato facile per me. Ho cominciato a Brooklin. Mio padre mi ha fatto un piccolo prestito di un milione di dollari”. Alcune frasi autentiche di Trump, riportate nell’introduzione e che indicano come un libro satirico su questo particolarisssimo presidente fosse assolutamente necessario. E allora ecco Trump, nelle vignette e negli scritti, alle prese con il potere, il mondo, i

Marsèll a Faenza Con Marsèll Temporary Store and Lab continua la collaborazione tra il Museo Carlo Zauli di Faenza e il brand Marsèll, partita nel 2014 con un temporary store e proseguita nel 2017 con il lancio di Marsèll Profumi. A partire da giovedì 7 dicembre, aprirà un nuovo spazio temporaneo nella sala del design del museo, per l’occasione in un nuovo allestimento. Lo spazio ospiterà per un mese una selezione di scarpe e borse e le edizioni musicali ed editoriali targate Marsèll, oltre ad un inedito laboratorio in cui creare da soli piccoli oggetti ispirati alla collezione, assemblando

L’imprevedibile mein Trump

media, le armi, l’immigrazione e le donne. Diviso in 7 capitoli e interpretato da alcune delle firme più eccellenti della satira italiana, questo libro vuole dare un’istantanea critica e volutamente di parte di quello che sarà probabilmente ricordato come “il presidente più temuto e imprevedibile degli ultimi 50

anni di storia americana”. . In programma anche l’apertura della mostra di una ampia scelta di disegni e brani tratti dal libro, la proiezione di un video satirico di Pietro Vanessi e un mini-spettacolo di cabaret con Lucilla Masini. La mostra resterà aperta fino alla fine di gennaio 2018.

con le proprie mani uno a scelta tra 20 piccoli accessori. Sarà inoltre l’occasione per acquistare la prima fragranza Marsèll: progetto corale di profumo artistico realizzato con il contributo del fragrance creation studio Flair di Parigi per la fragranza e del Museo Carlo Zauli per la custodia scultorea in argilla. La prima fragranza del brand Marsèll è progetto corale di profumo artistico con il contributo del fragrance creation studio Flair di Parigi, per la creazione della fragranza e del Museo Carlo Zauli di Faenza, per la custodia. Un profumo unisex ed evocativo, progetto culturale e comunicativo che distilla in forma liquida la filosofia di Marsèll. Contemporaneo e classico, tecnologico e artigianale, definito, lineare, netto. Profumo come accessorio immateriale ma denso di significato, con un legame stretto come quello del brand con la cultura, e l’arte visiva in particolare, che ritroviamo nell’involucro prezioso ed inconsueto realizzato artigianalmente a quattro mani da

Marsèll e Museo Carlo Zauli. Un cubo in argilla nera del Belgio - conservata gelosamente nelle cantine del Museo a partire dagli anni ’80 e utilizzata da Carlo Zauli per alcuni dei suoi lavori più rilevanti dell’epoca; la scultura involucro si declina in un numero di pezzi unici pari a quello dei componenti della fragranza e in un’edizione speciale a tiratura limitata.

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Il Diverso Femminile di Carlo Cantini

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Negli anni ’70 il mondo femminile scese nelle piazze per reclamare il desiderio di cambiamento. In quella occasione realizzai questo lavoro fotografico per dare un significato a questi eventi per rafforzare l’evoluzione della donna.


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