Cultura commestibile 244

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Con la cultura non si mangia Giulio Tremonti (apocrifo)

“Attendo l’azione civile di cui ho sentito finora parlare, senza aver ricevuto alcun atto. Aspettando che sia il Tribunale a dire l’ultima parola credo che la penultima l’abbia già detta Ghizzoni.” Feruccio De Bortoli

Penultima parola

Maschietto Editore


NY City, 1969

La prima

immagine Siamo ai bordi del Central Park ed io sto aspettando l’arrivo di alcuni amici per recarmi assieme a loro al grande evento della parata in onore degli Astronauti di Apollo 11. All’epoca per realizzare questo “selfie”, che allora si sarebbe chiamato molto più prosaicamente un “autoscatto”, ho dovuto piazzare un bel treppiede in mezzo al marciapiede, mantenere una posa sorridente e, al tempo stesso, fare molta attenzione per evitare che qualche passante distratto urtasse per distrazione questo mio ambaradan facendolo cadere rovinosamente a terra. Fare questo, guardare in macchina e mantenere un atteggiamento rilassato non è stato per niente semplice. Ho dovuto fare diversi scatti avanti e indietro ma alla fine sono riuscito ad ottenerne uno accettabile! Buone Feste, tanti auguri a tutti e… arrivederci all’Anno Nuovo!

dall’archivio di Maurizio Berlincioni


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In questo numero

Riunione di famiglia Palle di Natale Le Sorelle Marx

En attendant querela La Stilista di Lenin

La guerra degli alberi di Natale I Cugini Engels

Auguri e arrivederci al 2018 da Cultura Commestibile e Maschietto Editore

Leonardo Savioli 100 di Andrea Aleardi

Voltapagina di Claudio Cosma

La vita di LVM in un film di Gianni Biagi

Mappe di percezione: San Francisco di Andrea Ponsi

Nuove melodie bizantine di Alessandro Michelucci

L’insulto di Mariangela Arnavas

I mai visti di S.Felicita di M. Cristina François

Il Diverso Femminile di Carlo Cantini

Gli ultimi Jedi dirazza e non delude! di Michele Morrocchi

Pascal, l’inventore dei trasporti pubblici di Simone Zanuccoli

Berlin, Alexanderplatz di Danilo Cecchi

Far spesa con Arte di Valentino Moradei Gabbrielli

Florencedisneyland di Annamaria Piccini

Amore in corsa di Cristina Pucci

Direttore Simone Siliani

Illustrazione di Lido Contemori, Massimo Cavezzali

Redazione Gianni Biagi, Sara Chiarello, Carlo Cuppini Aldo Frangioni, Michele Morrocchi, Sara Nocentini, Barbara Setti

Editore Maschietto Editore via del Rosso Fiorentino, 2/D - 50142 Firenze tel/fax +39 055 701111

Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012

Progetto Grafico Emiliano Bacci

redazione@culturacommestibile.com culturacommestibile@gmail.com www.culturacommestibile.com www.facebook.com/cultura.commestibile


di Andrea Aleardi Savioli100, il programma articolato in vari luoghi dell’area fiorentina e della Toscana, ha coinvolto alcune tra le più importanti istituzioni – coordinate dalla Fondazione Michelucci – allo scopo di sensibilizzare il pubblico di cittadini, studenti, professionisti, università italiane e straniere, studiosi ed operatori, al vasto patrimonio culturale e architettonico moderno toscano, attraverso la scoperta della poetica, le opere, i progetti e il pensiero di uno dei suoi più importanti esponenti, l’architetto Leonardo Savioli, quest’anno nel centenario dalla nascita, che ci ha lasciato da un lato un patrimonio architettonico e del territorio, innovativo e di grande valore storico-artistico; dall’altro lato un patrimonio archivistico fatto di esperienze, saperi e sensibilità che ha formato diverse generazioni di architetti, a cominciare da quella delle utopie radicali degli anni Sessanta, sino alle nuove che scoprono oggi un universo di visioni artistiche e progettuali ancora attuale. Il primo appuntamento del programma è stata la mostra “Nello spazio intorno all’uomo. Disegni e modelli di Leonardo Savioli” presso Archivio di Stato di Firenze (23 settembre – 8 ottobre 2017) curata da Roberto Fuda e i suoi collaboratori che ha presentato gli splendidi materiali d’archivio delle sue opere, dalla casa di via Piagentina alle ville sperimentali, al complesso di San Gaggio, in un affascinante mondo grafico ormai lontano fatto di grandi formati, chine, lucidi, retini, radex e soprattutto straordinari modelli in acciaio cromato e altri materiali; sempre sul prezioso patrimonio archivistico dell’architetto il 29 settembre 2017 il Centro Pecci di Prato gli ha dedicato una giornata di studio “Leonardo Savioli: studio, archivio, museo”, nell’ambito di una più ampia rassegna sugli archivi degli artisti curata da Stefano Pezzato, raccogliendo il contributo degli studiosi e di alcuni suoi collaboratori come Marco Dezzi Bardeschi per Sorgane. Ma il cuore delle manifestazioni è stato senz’altro il luogo a lui più caro, lo studio al Galluzzo lungamente condiviso con la moglie Flora Wiechmann che lo ha donato alla Regione Toscana prima della sua scomparsa. E’ uno dei luoghi più suggestivi legati alla vita privata e professionale di Savioli, in cui l’architettura si inserisce armoniosamente nel paesaggio collinare alle porte di Firenze, affacciandosi sul complesso della Certosa del Galluzzo, già fonte di ispirazione per molti architetti della modernità tra

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Leonardo Savioli

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Io non disegno l’architettura subito; non disegno, voglio dire, l’architettura in pianta, in alzato, in sezione o altro modo, prima. Ho detto che quello che faccio “prima” è continuamente registrare, come è possibile, l’esistenza; poi a poco a poco questa “esigenza registrata” si arricchisce gradualmente, mediante nuovi e successivi segni, di illusioni, di intenzioni; i segni si precisano in gesti, i gesti in movimenti, i movimenti in percorsi, i percorsi in spazi, gli spazi in materia. Leonardo Savioli, 1981


cui Le Corbusier e Michelucci. Il ciclo di visite guidate tra ottobre e novembre “Savioli e lo spazio ideale del suo studio al Galluzzo”, curato da Alessandro Masetti, Nadia Musumeci e Paola Ricco, è stata l’occasione per riaprirlo al pubblico; ad accompagnare le visite un piccolo ma significativo riallestimento realizzato insieme al Centro Pecci che ne custodisce arredi, dipinti, modelli e vari oggetti, presenti qui sino alla scomparsa di Flora, e la proiezione del toccante documentario “Leonardo Savioli. Il segno generatore di forma-spazio” di Massimo Becattini del 2012 che hanno ancor più immerso i visitatori nell’atmosfera di questo luogo. Ma oltre al grande successo di pubblico (tutte le prenotazioni ai 12 turni di visita sono andate esaurite rapidamente, auspicando nuovi cicli nel prossimo anno) si sono cercate anche altre chiavi di lettura da offri-

re entrando in questo luogo. La coincidenza con la grande mostra alla Strozzina ha innescato tra novembre e gennaio (l’ultimo appuntamento è appunto il 13 gennaio prossimo) “Utopie Radicali. Omaggio a Savioli”, portandovi alcuni protagonisti di quella stagione (e allievi di Savioli), con alcuni incontri/visita/intervista allo studio aperti al pubblico, tra la memoria del rapporto con l’architetto ed il futuro delle loro strade che andavano cercando e sperimentando negli anni a venire. L’altra importante iniziativa sperimentale, covata da tempo dal sottoscritto con Francesco Giomi, è stata “SSS – Suono Studio Savioli. La sonorizzazione dello studio per una esperienza percettiva dello spazio architettonico” realizzata tra il 7 e il 10 dicembre da Tempo Reale su un progetto sonoro di Agnese Banti e con l’allestimento tecnico di Francesco Perissi. Un’installazione sonora interpretativa attraverso la geometria del luogo, l’evocazione degli scritti, la presenza della voce, le suggestioni artistiche di ricerca dell’architetto fiorentino per rileggere e reinterpretare gli spazi di uno dei luoghi chiave della vita professionale e personale di Savioli. La sonorizzazione, infatti, trae ispirazione dalla poetica savioliana attraverso scritti, lezioni e opere, nello specifico lo spazio del suo studio come architettura vivente. Anche in questo caso è stato preziosissimo il contributo di Massimo Becattini che ha messo a disposizione dal suo archivio la voce dell’architetto registrata da una lezione nell’Aula di Minerva ad Architettura il 9 febbraio 1971 sull’architettura e le avanguardie artistiche del Novecento. Ancora sul fronte della didattica, con Fondazione Architetti Firenze a novembre, sono ancora stati coinvolti i suoi allievi storici per un ciclo di tre conferenze, “Learning from Savioli” curate da Roberto Masini e Riccardo Renzi, per cogliere da Alberto Breschi, Sandro Poli e Adolfo Natalini quale influenza le sue opere hanno avuto sulle successive generazioni, incrociando e confrontando architetture, allestimenti e progetto urbano. Le visite guidate alle sue opere sono poi state l’altro asse portante di questo esteso programma, portando l’ampio e partecipe pubblico “sul campo”, vis-à-vis con le opere realizzate, misurandosi con la dimensione architettonica reale e al contempo con la

loro capacità di attraversare nel tempo lo spazio della contemporaneità. In questo caso tra ottobre e novembre “Savioli a Firenze” e “Savioli in Toscana”, ancora a cura di Alessandro Masetti, Nadia Musumeci e Paola Ricco, hanno accompagnato alcune centinaia di visitatori a scoprire Sorgane, la casa di via Piagentina, il ponte Giovanni da Verrazzano a Firenze e poi ancora i due Mercati dei fiori a Pescia, il commovente cimitero di Montecatini Alto e il villaggio Belvedere di Pistoia, offrendo un saggio di come il pensiero progettuale e poetico di Savioli si sia sostanziato nella dimensione urbana e del territorio, ritrovando l’estrema coerenza etica ed artistica dell’architetto fiorentino. Un percorso di valorizzazione importante, per chi ne ha semplicemente (ed emotivamente) fruito come visitatore ma anche per coloro, come le tante istituzioni che hanno collaborato, per riguardare ai propri materiali d’archivio o ritornare nei luoghi ancora oggetto dei propri studi e ancor più – attraverso questa lunga collaborazione – per vedere allargato il proprio campo di indagine su Savioli e più in generale sul Novecento toscano. Con l’auspicio che soprattutto le architetture attraverso una più ampia conoscenza trovino protezione, tutela e riconoscimento come patrimonio storico, civile e artistico di una comunità. Proprio in questo senso con la conclusione delle iniziative 2017 del centenario infine si intende a breve mettere a disposizione alcuni strumenti informativi e conoscitivi che permangano nel tempo, affidando al sito web www.architeturatoscana.it tutto ciò che possa fare riferimento a Savioli: dalle schede e la mappatura delle sue opere alle bibliografie di riferimento, da una ampia e aperta raccolta fotografica ai contributi critici degli studiosi e della stampa specializzata, sino infine a rendere finalmente consultabile online l’inventario del Fondo Savioli presso l’Archivio di Stato di Firenze (inventario a loro cura) direttamente tramite il web. Per i social il riferimento per trovare materiali, immagini e altre informazioni è #savioli100 e i programmi di tutte le iniziative sono consultabili sempre su www.architetturatoscana.it. E già si guarda al prossimo appuntamento 2018 per Ricci100!

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Le Sorelle Marx

Palle di Natale

Al Nazzareno c’è agitazione in questi giorni. In particolare al Segretario Generale, Matteo Renzi, girano parecchio le sfere per le dichiarazioni di Ghizzoni sugli incontri con la Boschi e la mail di Carrai. Ma soprattutto perché vede profilarsi una (ulteriore) sconfitta elettorale anche grazie alla particolare disinvoltura dei suoi amichetti della parrocchietta nell’occuparsi di banche. Così, furibondo, si è attaccato al telefono. “Pronto Marchino? Senti volevo sollecitarti, nel rispetto dei ruoli s’intenda, di andartene abbracciandoti a quel paese! Senti imbecillino, ma che ti è saltato in testa di scrivere una lail allo Sghiribizzoni sulla questione Etruria? Ma sei scemo? Cosa ti ho insegnato, io? Eh, dimmelo un po’” “Noooo, Matteo, davvero non ho detto niente di male.... Tu mi hai insegnato a non fare cose scorrette, per carità...” “Oh grullino, io t’ho detto che le cose vanno fatte a modino. Sicché, non si scrivono le mail, hai capito? E poi chi è che ti avrebbe chiesto di sollecitare lo Sgiribizzo lì?” “Ma come, Matteo... o non mi avevi detto che...” “Senti scemo, te non mi conosci, non mi hai mai sentito da quando si giocava a tappini sul selciato della parrocchia di Rignano, capito?” “Sì, sì certo, Matteo, tranquillo... Non volevo tirarti nel mezzo. Sai la Maria Elena...” “Ma allora sei proprio cretino: non toccare la Mary Ellen, che già mi ha combinato parecchi casini di suo!” “Ah, va bene... ora ci penso un attimo... ecco avrei pensato di dire così: “Si trattava di questione tecnica, niente di più. Ero interessato, nel rispetto dei ruolì come ho scritto non a caso nell’email, a capire gli intendimenti di Unicredit riguardo Banca Etruria perché un mio cliente stava verificando il dossier di Banca Federico Del Vecchio, storico istituto fiorentino di proprietà di Etruria. Tutto assolutamente trasparente, tutto assolutamente legittimo”. Che ne dici?” “Si, vabbè, siamo rovinati: a questa non ci crede nemmeno il gatto! Guarda che il Bomba sono io, mica te! Fatti venire in

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mente qualcosa di meglio, sennò ti mando ad amministrare il condominio di mio zio a Londa, altro che aeroporti!” “Va bene, Matteo, ci penso” “Vai, ma non ti sforzare troppo, che sennò ti si fonde il cervello. Ora lasciami telefonare a quell’altra” “Pronto Mary, come stai? Un po’ sotto stress? E’ lo capisco, ma vedrai s’aggiusta tutto” “Grazie Matteo per la solidarietà e la comprensione. Vedrai sistemo tutto...” “Sì, bellina, basta che te en stai un po’ zittina perché come apri la tua boccuccia di rosa, mi combini guai. Via, ora fai la brava,

I Cugini Engels

che faccio intervenire Orfini” “Pronto, Matteo? Senti, potresti dire una delle tue genialate su questa incresciosa vicenda di Ghiribizzoni, la Mary Ellen e la mail di Marchino?” “Certo,a gli ordini Matteo. Senti questa: “Non abbiamo nessun addebito da fare a Boschi, penso che sia una grande personalità del Pd e che debba essere ricandidata, perché è una leader amata dai nostri elettori. Era preoccupata del suo territorio” Forte, eh?” “Vabbé, ho capito: domani vado in ritiro all’eremo di Camaldoli a scrivere le mie memorie. Siamo rovinati”

La guerra degli alberi di Natale

Altro che Spelacchio, cara mia! In Toscana le prodezze dell’albero natalizio della Raggi, ci fanno un baffo. Ci ha pensato il sempre mitico presidente del Consiglio Regionale Eugenio Giani che, sprezzante delle sue origini laico-socialiste, ha fatto costruire un bell’albero di Natale con legni di recupero (già morti così da evitare la tragica agonia che è toccata in sorte al romano Spelacchio) e l’ha battezzato “Canapone”, dal nomignolo dell’ultimo granduca di Toscana, Leopoldo II di Lorena, anzianotto monarca dai capelli biondicci. Ma il buon Eugenio dopo aver battezzato Canapone, per mostrare la superiorità di Florentia rispetto a Roma, l’ha pure fatto benedire da un religioso. Ma non aveva fatto i conti con Enrico il Rosso, presidente della Regione e custode arcigno della laicità di Stato che, memore della soppressione del Natale come giorno

festivo negli anni venti del XX secolo da parte delle autorità sovietiche, in seno alla politica di laicizzazione del Paese, ha disertato la cerimonia dichiarando di “non condividere né la benedizione, né la scelta stessa del ‘nordico’ albero, in quanto simbolo di un cedimento consumistico sbagliato laddove il presepe è legato alla tradizione culturale italiana”. E così, si è dedicato a realizzare un laico presepe sovietico in cui, al posto dei tradizionali personaggi francescani, ha posizionato i figurini della laica tradizione societica: Nonno Gelo (in russo: Ded Moroz), raffigurato come un vecchietto vestito con una lunga pelliccia” e sua nipote Sneguročka, ovvero la “Fanciulla di neve”. considerata una personificazione dell’inverno. Al posto del “Tu scendi dalle stelle”, troppo poco laico, i tradizionali canti russi koljadki.


Nel migliore dei Lidi possibili

La stilista di Lenin En attendant querela

disegno di Lido Contemori didascalia di Aldo Frangioni

Buon Natale a tutti coloro che passano dalla cassa

SCavez zacollo

disegno di Massimo Cavezzali

Tra le varie querele e richieste di risarcimento per ora annunciate dal sottosegretario Boschi pare che stia valutando anche di chiedere soddisfazione a chi ne ha scritto che era mal vestita. Ho quindi allertato il mio legale in caso anche questa richiesta si concretizzasse e mi sono chiesta se non era il caso di cercare anche il buon De Bortoli, sempre cosi elegante per altro, per trovare una linea difensiva comune. Il mio avvocato mi ha rassicurato che non può esservi danno nel raccontare la realtà e che non serve né giudice né un magister elegantiorum per decretare che di solo esercizio di critica si sia trattato quando, da queste colonne, si sono descritti i vestitini marroni, gli smanicati fuori luogo o i colori accessi in occasioni formali. Va però detto che qui si scrive, più o meno di moda, mentre qualche collega ha talvolta confuso l’eleganza con l’agire politico o ha usato la lunghezza delle gonne con la capacità politica. A questi colleghi posso solo dire che la moda è cosa troppo seria per farne scrivere chi si occupa di politica sui giornali.

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di Gianni Biagi Un racconto intimo e intenso sulla vita di una donna che ha segnato la critica d’arte militante degli ultimi 70 anni. Il documentario che Mirella Branca e Massimo Becattini hanno prodotto sull’attività professionale e sulla vita di Lara Vinca Masini non è solo “una testimonianza affettuosa verso una cara amica”, come ha detto in apertura Mirella Branca, ma è un ritratto a tutto campo che racconta la storia di una vita intensa. Una vita che Lara rifarebbe così come la sta vivendo alla sua splendida età di oltre 90 anni, come essa stessa dichiara quasi sul finire del documentario. Un documentario voluto dalla Fondazione della Cassa di Risparmio di Firenze e presentato da Carlo Sisi nelle sale della Fondazione dove, come ha notato lo stesso Sisi, parliamo seduti su sedie progettate da Giovanni Michelucci a rimarcare il forte legame con la contemporanietà che la Fondazione ha sempre manifestato. “E’ importante soprattutto per le giovani generazioni conoscere la critica militante della seconda metà del XX secolo” ha detto nella sua introduzione Mirella Branca ricordando che tutta la biblioteca (accuratamente riordinata da Lara stessa) e le opere d’arte saranno conservate al museo Pecci di Prato. In circa 120 minuti di intensi primi piani e di immagini di persone, avvenimenti, fatti che hanno intersecato la vita di Lara c’è spazio anche per riflessioni personali e ricordi. “Ho sempre amato gli animali. A 2 anni avevo una piccola civetta e più tardi uno scoiattolo che dormiva nella mia mano. Ho avuto anche due gatti e ora ho Guia un cane lupo. Ho sempre voluto un cane e in particolare un cane lupo. Ora sta bene ma quando è venuta era tutta pelle e ossa” dice Lara mentre Guia mangia vicino a lei. Sono queste incursioni nella vita privata che si alternano a giudizi netti e taglienti sull’arte contemporanea, troppo simile ad uno spettacolo che non a arte vera e sofferta, che fanno di questo documentario una testimonianza preziosa sull’opera di una dei più importanti critici d’arte del nostro paese. Un paese che non molto tempo fa ha negato a Lara l’applicazione della legge Bacchelli e che dovrebbe riparare presto a questo torto come hanno chiesto le centinaia di persone del mondo della cultura, dell’arte, della politica e cittadini amanti della giustizia che hanno aderito all’appello lanciato nei mesi scorsi dalla nostra rivista.

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La vita di

LVM in un film


Musica

Maestro di Alessandro Michelucci La repubblica turca che Kemal Atatürk fonda nel 1923 possiede un vizio originario: la ferma intenzione di cancellare il retaggio multiculturale dell’impero ottomano per costruire un paese con un solo popolo, una sola lingua, una sola cultura. Apparentemente vittoriosa per molti decenni, questa omogeneizzazione spietata si è poi dimostrata perdente. Verso la fine del Novecento sono rinate attività culturali di vario tipo che hanno fatto conoscere al resto del mondo la ricchezza della cultura armena, assira, circassa, lasa... In questa varietà non potevano mancare gli eredi della cultura bizantina. In altre parole, i discendenti dei greci sopravvissuti al genocidio delle minoranze cristiane (Armeni, Assiri e appunto Greci) che ebbe luogo fra la fine dell’impero e la nascita della repubblica turca. Uno dei musicisti che esprimono questa eredità è Apolas Lermi. Il cantautore trentunenne è nato nella comunità ellenofona di Trabzon (Trebisonda), situata sul Mar Nero, che nel 1461 fu l’ultima città indipendente a essere conquistata dall’impero ottomano. Il nome del musicista è stato islamizzato in Abdurrahman, ma lui è rimasto fiero delle proprie radici greche. Proprio per questo il suo ultimo CD si intitola Romeika, termine che indica la minoranza ellenofona del Mar Nero. Dato che questa parola è ignota a molti, la copertina riporta la scritta Pontic Greek (greco del Ponto) per chiarire meglio le origini di Lermi. Pubblicato simultaneamente in Turchia e in Grecia, il CD segna una svolta importante rispetto ai due precedenti, Kalandar ‎(Anadolu, 2011) e Santa ‎(Kalan, 2014). Mentre in questi prevaleva il turco e il greco aveva un ruolo marginale, Romeika è interamente cantato nella lingua nativa. Il volumetto accluso riporta i testi in tre lingue (greco, inglese e turco). Quasi tutti i brani sono tradizionali del Mar Nero, ma non manca un brano cretese (“Tzivaeri”). La musica è semplice, diretta, ma non ba-

nale. La varietà culturale del Mar Nero si riflette in quella strumentale, composta fra l’altro da bouzouki, chitarra acustica, kemence, piano e tulum (cornamusa tipica della regione). Il solo appunto che si può fare al cantautore è una certa monotonia vocale. Ma l’importanza di Lermi va al di là della musica,

perché attraverso questa esprime la vitalità di una cultura minoritaria che non vuole morire. Al tempo stesso, Romeika ci ricorda che le radici della cultura europea devono essere ricercate anche nel Mediterraneo orientale, verso l’Asia: non a caso i due continenti sono i soli uniti da una contiguità territoriale che testimonia una storia comune.

Nuove melodie bizantine 9 23 DICEMBRE 2017


di Danilo Cecchi “Alexanderplatz” arriva in Italia, e sarà in mostra alla Galleria Villa Massimo, presso l’Accademia Tedesca di Roma, fino alla metà di gennaio. Il fotografo Göran Gnaudschun, nato a Potsdam nel 1971, ha continuato a frequentare per tre anni, fra il 2010 ed il 2014, la ben nota piazza di Berlino, colpito dal tipo di persone che vi trascorrono la loro esistenza, senza fissa dimora, senza occupazioni stabili, apparentemente senza scopo e senza alcun tipo di futuro. Il fotografo entra in contatto con queste persone quasi per caso e, grazie al suo passato di chitarrista in un gruppo punk, viene immediatamente accettato come membro di quella variegata e squinternata comunità. Questa sorta di intimità gli permette di raccogliere le confidenze delle diverse persone, di conoscere le loro storie, e di realizzare dei ritratti che vanno oltre la superficie ed oltre le apparenze. I frequentatori della “Alex” sono quel genere di persone che vengono classificate in maniera generica come “disadattate” o “non integrate”, comunque come “asociali”. In realtà dietro ognuna di queste persone, bambini cresciuti troppo in fretta, o giovani invecchiati troppo presto, vi è una storia diversa, spesso fatta di violenze subite, di emarginazione sofferta, di incompatibilità familiare, di abbandono. Molti sono fuggiti da casa, altri da una provincia soffocante, alcuni sono usciti di prigione, pochi hanno avuto altre possibilità, se non quella di convergere verso la grande città e di ritrovarsi al centro di quella piazza, dove tutto sembrava possibile, dove tutte le strade sembravano aperte, e dove niente si è invece realizzato. Qualcuno inseguiva impossibili sogni di libertà, qualcun altro si illudeva di trovare un’altra vita, altri volevano solo andare un poco più lontano. Tutti passano le loro giornate e le loro notti aspettando un domani improbabile, nell’attesa qualcuno si droga e tutti bevono molto. Il fotografo ascolta le loro storie, scatta le sue foto, regala qualche stampa, paga qualche birra, condivide qualche nottata di attesa, e racconta questo mondo che vive al centro della più grande delle città dell’Europa continentale, ma anche ai margini della più forte economia europea, accontentandosi delle briciole. Il fotografo osserva la quotidianità di queste persone, senza giudicare, senza accusare, senza schierarsi. Si limita a raccontare ciascuna di queste persone in quanto persona, cercando di restituire loro quella dignità e quel rispetto che i frettolosi passanti che attraversano la piazza sembrano negare o ignorare. I giovani e meno giovani che stazionano nella “Alex”

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Berlin, Alexanderplatz

non sono un fenomeno nuovo, e non sono nemmeno un fenomeno limitato alla Berlino degli anni duemila. Ogni società industriale o post-industriale produce fatalmente il suo opposto, la sua negazione, quelli che considera i suoi “scarti”, ma che sono in realtà i suoi fallimenti. Il fotografo non può fare altro che documentare, raccontare, mostrare,

restituendo a quelle persone che non hanno potuto, saputo o voluto integrarsi nella omogeneità della civiltà dominante, un volto ed un nome. Raffigurando i diversi Dimitrij, Mama, Meph, Sascha e Basti, e le diverse Muecke, Mel, Shelley con la scritta “Rage” sul petto, e Clara che esibisce il suo tatuaggio “Fight to Survive”.


di Anna Maria Piccinini Carissimi mangiatori di cultura (infatti, se non mangiaste, che fareste a Firenze, una delle più grandi mangiatoie d’Italia?). Insomma , carissimi, un invito a tutti voi per venire a casa mia a vedere Firenze meravigliosamente trasformata in Disneyland. Non c’è bisogno di andare nella Parigi metropolitana. La mia casa ha il privilegio di avere le finestre sul Lungarno Torrigiani ed esattamente di fronte al braccio corto degli Uffizi , e, sulla sinistra, il Pontevecchio . E allora, amici miei, dovrei invitare tutto l’Unesco e il Fai per assistere allo spettacolo indicibile che ogni sera ho la fortuna di ammirare, e senza spendere un euro! La cupa torre di Arnolfo , così ferrigna e petrosa da non attrarre certo lo sguardo delle gioiose folle di questo periodo prenatalizio, trasformata in un fiammeggiante missile rivolto al cielo stellato (che disturberebbe, ma per fortuna non si vede più, ha capito di dover migrare altrove); un missile ,dicevo, ora rosa, ora giallo, ora azzurro in un caleidoscopio di colori. Ma non basta. Quel grigio tristissimo degli Uffizi vasariani ha bisogno di un po’ di colore. Così, ogni tanto, un arcobaleno proveniente dal Pontevecchio lo trapassa, perché, anche quell’arcaico ponte, che col suo riflesso fa intristire le acque dell’Arno, che dovrebbe essere d’argento, è finalmente

Florencedisneyland È questo che piace, bellezza!

ridente: luci d’ogni colore , una tavolozza da far invidia a Monet con le sue ninfee, lo trasformano in una visione così luminosa che un astronauta americano ha pensato fosse l’ennesima bravata di Kim Jong-Un per nascondere l’ultima sua gittata missilistica. Ma ad ogni poeta manca un verso. I nostri amministratori-artisti hanno dimenticato di inondare di luce e colore anche la grande scultura di Urs Fischer In Piazza Signoria: purtroppo ai nostri artisti mancava il marrone. O meglio erano incerti sulle sfumature del marrone che assumono talvolta certi escrementi dei cavalli delle carrozze di piazza che, per pudore, messi a confronto con la montagna di materiale della scultura, portano il sacco nel di dietro.

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di Valentino Moradei Gabbrielli Quando penso alla cultura all’arte, non penso ai monumenti, ai musei. Penso alla vita o meglio alla qualità della vita. Talvolta confondiamo la custodia dell’arte in luoghi “sicuri e deputati” come la miglior promozione e valorizzazione di essa. A mio avviso l’arte non va cercata, ma deve vivere in mezzo a noi, laddove trascorriamo la nostra quotidianità: tra una faccenda e l’altra, mentre percorriamo un’autostrada, ci serviamo di una stazione ferroviaria e di un sottopassaggio pedonale; mentre facciamo la spesa di tutti i giorni, scegliamo che tipo di pasta vogliamo mangiare, che birra preferiamo bere, fino al parcheggio dove trasferiamo i nostri acquisti dal carrello al bagagliaio dell’automobile. Penso che l’arte ci dovrebbe accompagnare anche nei momenti “meno importanti”, come una piacevole presenza estetica. Siamo abituati a scindere la nostra esistenza in due: il lavoro, inteso anche come routine e, la vita. Lo stesso si può dire del nostro modo di vedere il mondo: infatti, siamo soliti considerare in maniera separata i luoghi del quotidiano e quelli della cultura e dello svago. Trascorriamo gran parte del nostro tempo-esistenza nei luoghi di lavoro, nei centri commerciali caratterizzati da soluzioni architettoniche nel migliore dei casi solo funzionali, nelle strade, nelle stazioni ferroviarie, negli aeroporti negli ospedali: luoghi in genere considerati, pensati e progettati esclusivamente per assolvere la loro specifica funzione. Un ottimo esempio di armonia estetica e funzionalità è rappresentato a mio avviso da un edificio degli anni ’80 che ospita adesso un supermercato PAM di media dimensione, situato in località Monticelli, con ingresso da via Pietro Francavilla. Comodamente accessibile dal parcheggio sotterraneo libero da pilastri, è sostenuto da una sola colonna centrale che s’irradia attraverso agili nervature sull’intero soffitto ricordando le esperienze dell’ingegner Pier Luigi Nervi. La suddetta armonia estetica coadiuvata da funzionalità si ripresenta al piano superiore dedicato alla vendita, dove è possibile osservare uno sviluppo delle nervature più fitte e leggere. Insomma, un angolo di periferia della nostra città che merita di essere conosciuto forse scoperto.

Far spesa con Arte

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Foto di Silvia Noferi

Voltapagina

di Claudio Cosma Nel pensare il lavoro di Aldo Frangioni ne ho tenuto presente i molti aspetti che lo compongono, ma di questi il più importate è quello di scaturire dalla testa. Un pensiero unico e tenace col quale condivide le incombenze della vita. Come una seppia che si gonfia per espellere il suo inchiostro muovendosi invisibile e sicura all’interno di questa nube che lei stessa ha creato, così dalla testa di Aldo si susseguono incessanti i ghirigori della sua arte. Questo flusso continuo, accompagna e protegge la sua quotidianità e forma quello speciale vapore nel quale vanno formandosi quelle che saranno le proprie modalità espressive. Da qui nasceranno i periodi o stili omogenei della sua lunga attività artistica: le mappe, gli alfabeti, i giochi di parole figurati, le composizioni di oggetti o assemblaggi e soprattutto i suoi bestiari fantastici che fondono insieme animali, cose e persone. La traccia evidente e segreta di questo speciale modo di lavoro sono i suoi diari dei quali ne esistono circa 40 e ce ne sarebbero di più se un malaugurato trasloco non avesse determinato la dolorosa perdita di alcuni. I diari rappresentano una temporanea incubatrice dove le idee si auto alimentano, si condensano e si espandono fino a fare esplodere il contenitore stesso che si gonfia a dismisura lasciando fuoriuscire, se incontrollato, ogni sorta di componenti. Nel raccogliere le opere dell’artista alla Fondazione Sensus, uno spazio speciale è dedicato proprio ai diari, che disposti in successione formano una unica colonna orizzontale dove si concentrano inseparabili i bozzetti e gli schizzi che diverranno in seguito i lavori finiti e la quotidianità della vita. Composti dalle note delle cose da fare ed i commenti a quelle importanti, il tutto con aggiunte, codicilli, foglietti sparsi, cartoncini incollati, inviti a mostre, biglietti di spettacoli e di viaggi, vanno a gonfiare in simulacro una vita ridondante e cortese che ho cercato di riprodurre nello spazio protetto della galleria. Di ogni singolo diario, (ne sono stati selezionati venti, in rappresentanza ciascuno di un anno di tempo vissuto), si potranno vedere solo due pagine, scelte quasi a caso, a formare un campione di quaranta giorni in successione non cronologica, che nei miei intendimenti è da considerare un unico lavoro, un nastro fluente che condensa le tracce di un modo di vivere. La strabordante vitalità in questi contenuta viene trattenuta, a stento, da una lastra di vetro che li protegge e contemporaneamente li allontana idealmente da ogni possibile fruizione, collocandoli in un contesto museografico sovra temporale. Una peculiarità espositiva, che costituisce lo spirito della mostra, consiste nella scelta dei lavori che sono tutti prestiti di collezionisti o amici e persone che senza rientrare nella definizione di “collezionista”, hanno comprato o ricevuto in regalo opere dell’artista. Sono quindi lavori che compiono un secondo giro, ritornando ad essere visibili per un pubblico più vasto, compatibilmente con le caratteristiche private del luogo che li ospita. Un’occasione per gli amici di Aldo e per gli ospiti abituali della Fondazione Sensus per partecipare alla speciale messa in scena allestita per far convivere in democratico subbuglio una selezione di più di 50 anni di lavoro, contrastando, senza probabilmente riuscirci, il suo particolar “horror vacui” creativo con la vuotezza immacolata dello spazio e con una particolare maniera espositiva, che mi è propria, che unisce al lavoro dell’artista un modo di leggerlo ed interpretarlo. Il titolo “Voltapagina” allude sia ad una fase che si conclude per aprirsi sull’elaborazione di nuove idee, sia alla possibilità di girare le pagine delle nostre vite in senso contrario, tornando a recuperare, come fatto coll’assemblare lavori di periodi differenti e con i diari, aspetti perduti o creduti tali.

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di Mariangela Arnavas Il film “L’insulto” di Ziad Doueiri , vincitore a Venezia della Coppa Volpi per il miglior attore, il palestinese Kamel El Basha, si apre con il comizio del partito della destra cristiana in Libano, cui assiste un entusiasta giovane meccanico che sarà protagonista della vicenda. Si tratta dello scontro tra due persone, il giovane meccanico Cristiano libanese e il più anziano palestinese (Kamel El Basha appunto), ingegnere qualificato costretto a fare il capo cantiere per questioni razziali: il primo farà cadere dell’acqua sporca sulla testa del secondo da un tubo aperto che dal suo terrazzo sporge sulla strada, il secondo riparerà il tubo ma, a quel punto il libanese lo spaccherà con un’ascia e l’altro allora lo chiamerà “cane”; poi il libanese pretenderà delle scuse e l’altro, costretto dalla minaccia del licenziamento si presenterà di malavoglia, solo che a quel punto usciranno dalla bocca del primo parole pesanti, quasi una maledizione, “Almeno Sharon vi avesse sterminati tutti” e l’altro risponderà con un pugno. Entrambi ostinati si affronteranno in due processi mentre intorno progressivamente gli scontri tra palestinesi e Cristiano libanesi si moltiplicano e si ampliano. Dietro i futili motivi dello scontro tra i due uomini stanno le profonde ferite non ancora del tutto sanate della guerra civile atroce e spietata tra le milizie cristiane facenti capo al partito falangista di Pierre Gemayel e la coalizione

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arabo-palestinese (1975). Il film comincia con la bella fotografia di Tommaso Fiorilli che si infila nei vicoli e nelle strade di una Beirut in pieno fermento, viva e rutilante e tutta la prima parte è segnata da un buon ritmo e dalla strisciante tensione che deriva dal disagio nella constatazione dell’eccesso di aggressività che si manifesta nello scontro tra i due, in cui affiorano rancori vecchi e nuovi sociali, etnici, culturali. Verrebbe da dire “non solo in Libano” perché anche in Europa si sente montare questa conflittualità apparentemente futile che copre dinamiche di scontri economici, sociali, etnici, culturali. Qui il rimosso emerge in tutta la sua realistica tragicità e in questo senso il film è davvero interessante e molto ben sostenuto dall’interpretazione di tutti gli attori facendo emergere due filoni di pensiero: da una parte la riflessione sui due protagonisti, diversi per etnia e religione ma simili per le sofferenze subite in passato, pur su fronti diversi, nella guerra civile, le cui conseguenze pesano ancora negativamente sulle loro vite e simili anche per l’abilità e la passione nel proprio lavoro; dall’altra la constatazione che nessun popolo può sentirsi immune dal

pericolo di atrocità e violenze e che spesso gli oppressi di oggi si trasformano negli oppressori di domani, se non si riesce a far spirare con forza il vento della pace. Sulle vicende umane apparentemente private dei due protagonisti pesano le ombre della strage di Tel al Zaatar dove nel 1976 furono uccisi dalle truppe cristiano falangiste 3000 palestinesi e della rappresaglia palestinese di Damour (non a caso paese d’origine di uno dei due litiganti) dove vennero sterminati 600 cristiani; queste ombre emergeranno durante le vicende processuali che seguiranno alla lite allargandosi alle famiglie ed ai gruppi sociali ed etnici più ampi. La seconda parte del film è infatti un court drama, dove l’influenza della formazione americana del regista, cresciuto sul set dei primi film di Tarantino, si avverte con forza e dove, per converso, la narrazione si fa più debole e pesante, perdendo di smalto nonostante i continui flashback con relativi colpi di scena che animano il duello legale tra padre e figlia, avvocati contrapposti nella vicenda processuale dei due protagonisti. Nel complesso, pur in questa disarmonia, sicuramente un film da vedere.

L’insulto


di Andrea Ponsi 3’x 3’

A North Beach, dove mi trovo, come quasi dovunque a San Francisco e forse in America, i marciapiedi sono di cemento e invariabilmente divisi con giunti di espansione in quadrati di 3 piedi per 3 piedi. Eccetto per questa rigorosa geometria i quadrati di cemento sono sempre un po’ diversi. Quando cosparsi di macchie nere di chewing-gum calpestati, quando prevalgono le lastre di ghisa dei tombini. Alcuni quadrati sono interrotti dalle strisce rosse dipinte sui cordoli dei marciapiedi, altri solcati da crepe in ogni direzione. Alcuni sono grigio scuri (un mix sabbia/ cemento), altri chiarissimi. Spesso sono umidi e verdastri per le muffe e borraccine, altre volte sono perfetti, appena fatti. Comunque utile il reticolo di 3 piedi per 3 a dare il ritmo al passo. Per non toccare le linee di giuntura occorre un passo lungo, da persona bene in forma. Ai bambini occorrono due passi per percorrere un quadrato, ai vecchietti uno e mezzo, chi va piano uno e tre quarti. Lampione

Non è un semplice palo della luce questo sull’angolo di un marciapiede all’incrocio di due strade. E’ un albero. Il suo tronco metallico si assottiglia via via che sale. Più in basso si staccano i primi rami d’acciaio: uno sorregge un semaforo per il passaggio pedonale: dentro lo schermo decine di punti rossi a led disegnano una manina aperta, che poi diventa bianca, indicando che si può passare. Più in alto un altro ramo sorregge l’insegna della strada (“Grant Street”), un altro, quasi verticale, il semaforo più grande, quello tradizionale a tre colori. Altri due piedi e una insegna avverte: “no turns”; segue il cartello della strada che qui incrocia ( “California Street”) e due braccia di metallo con appesi alcuni stendardi pubblicitari. Infine un braccio lunghissimo, il ramo più importante, che si slancia fino al centro dell’incrocio. Sulla punta è appeso un lampione. L’albero appena descritto è, se paragonato ad altri, piuttosto spoglio. Non ha i rami con i cavi elettrici degli autobus, né quelli che, in altri incroci, sostengono multipli semafori. Però albero resta e “sempreverde“. Albero urbano, mutevole, non tanto rispetto alle stagioni, quanto ad ogni singolo minuto, per le luci verdi, rosse e gialle che lampeggiano. Albero utile per informare; sicuro per non fasi travolgere; decisamente locale : come icona è infatti molto “americano” e si trova dappertutto, dall’Atlantico al Pacifico.

P.S. A Grant Street, a Chinatown, questi tecno-alberi urbani assumono forme più etniche. Qui sono dipinti verdi chiari, come la giada e, sebbene siano in tutto simili ai precedenti, un dragone d’oro avvolge intorno al palo la sua coda e con le quattro zampe sorregge una lanterna rossa a forma di pagoda.

Mappe di percezione

San Francisco

Fili

Sembrano i fili di una ragnatela lasciati qui a penzolare dal tempo dei pionieri. Su questi pali elettrici di legno a forma di “T” che costeggiano almeno metà delle strade a San Francisco, non potrebbe andarsi a posare un avvoltoio ? Non sono gli stessi pali che seguendo le vie sterrate delle praterie del West sono giunti fino a qui? Ora quei pali sono mangiati dal salmastro, sbiancati dalle piogge, punzecchiati da migliaia di volantini, strati su strati, palinsesti degli eventi: camere in affitto, film, massaggi, corsi di yoga. Matasse di fili passano da un palo a un altro palo, con una leggera flessione al centro della strada. Si attorcigliano su cilindri di ceramica isolanti o sui perni fissati alle facciate delle case. Dentro quei fili scorre l’energia per l’aspirapolvere, il phon, la sveglia elettrica. In quei cavi sospesi sulle strade passa la vita nascosta delle case: gli schermi accesi, le lampade, le coperte elettriche, la piastra ardente del caffè ogni mattina.

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di M. Cristina François Come ogni contesto stratificatosi nel tempo, il complesso di S. Felicita – Chiesa e parte dell’ex-Monastero – cela molti tesori da scoprire. Li ho chiamati i “mai visti” per ricordare la bella iniziativa di A.Natali. In questo numero mi occuperò di opere eseguite a piano terra, nascoste da uno scialbo o da un intonaco o da una tamponatura, oppure scomparse o distrutte, ma sopravvissute nelle carte d’Archivio. Lavori realizzati in tutti i tempi si sono sovrapposti, soprattutto a partire dalla Soppressione Napoleonica in poi, fino ai nostri giorni: nei casi più fortunati hanno nascosto o inglobato le opere, negli altri casi ne hanno cancellato l’esistenza. In questo numero segnalerò le pitture a fresco che nella piantina ho indicato con numeri, mentre prossimamente elencherò il lapideo (busti, vasche, epigrafi), qui contrassegnato con lettere maiuscole. Alle opere disperse dedicherò più avanti un articolo a parte. Entrando nel chiostro, appena passata la porta, a mano sinistra, stava una piccola scarsella con un altare della Madonna a fresco (n.1), il cui accesso era segnato da due colonne. L’insieme risaliva almeno al rifacimento del Ruggieri (1736-1739) in quanto a dritto filo col vestibolo nord del chiostro; con la luce radente si può ancora intravedere dove poggiavano a parete le colonne. A mano destra, all’ingresso delle attuali “stanze di catechismo” – lato ovest – si apriva l’aula rettangolare di una Cappella decorata ad affresco da Francesco Saverio Baldinucci (n.1669 - m.1738) [Ms.727 redatto da D.M.Manni nel 1750]. La Cappella, soppresso il Monastero l’11 ottobre 1810, fu trasformata - a partire da ristrutturazioni iniziate nel 1815 - nelle “Stanze bone degli Operaj dell’Opera” con la Sala delle “Adunanze”. Le “pitture antiche” furono restaurate nel 1817 da Gaetano Paci il quale, oltre a intervenire con “ritocchi di pittura vecchia antica”, riquadrò “stanze e sovrapporte” [Ms.325, Ric.94]. Lo stesso artista dipinse nella parete sud interna al chiostro: “due cartelle sopra le Porte”, varie “scorniciature” e affreschi a trompe-l’œil che rappresentavano “cinque Pilastri simili al vero, con [zoccolo a] fascia”, riproducendo così, nell’interno del vestibolo, l’illusione di un’altra serie di colonne corrispondenti a quelle reali esterne [Ms.325, Ric.28]. Più tardi, nel 1828, il “figurista” Vincenzio Cigheri fu pagato “per Pitturare [in volta] due Stanze di dett’Opera a forma del Disegno” e ricevette in più £30 “per riquadratura provvisoria [in parete] della stanza, prima di Pit-

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I mai visti di S.Felicita

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turarla” [Ms.337 Ric.20]. Siamo sempre in questo ambiente dell’Opera, a piano terra, detta anche “Stanza bona dei divani” e possiamo dedurre dal documento che le figure che il Cigheri vi affrescò fossero delle grottesche perché eseguite nella volta “alla Raffaella” [Ms.712, scheda n.742]. Nel 1893 il riquadratore e frescante Pasquale Pucci riprese nuovamente queste pitture e dipinse a fresco “nello stile alla Raffaella” [Ms.194, c.33r] questa stessa stanza che, lo ricordiamo, era all’epoca molto grande in quanto

occupava l’intero volume dell’ex-Cappella monastica, non divisa in due salette come oggi. Ampiezza necessaria non solo per le “Adunanze”, ma per accogliere degnamente i Papi nelle loro visite. A testimoniare questi interventi sovrapposti, adesso vediamo far capolino dal soffitto un angioletto che gioca con un bue (simbolo di S.Luca?). Le “riquadrature” e ornamentazioni monocrome ottocentesche imitarono (o semplicemente complementarono nelle lacune) quelle che già esistevano in parete al tempo delle Monache: tutte decorazioni ad opera di Domenico Stagi, pittore di architetture, scene di teatro e prospettive che molto lavorò anche per il Granduca Leopoldo. Nella cupoletta della Cappella Capponi lo Stagi affrescò dei monocromi che il restauratore Paolo Cantaluppi sta attualmente recuperando dallo scialbo con grande perizia. Stagi dipinse anche un trompe-l’oeil raffigurante un finto scalone prospettico (n.5) - non più esistente a causa di una demolizione del 1812 - nonché le pareti della Cappella (n.2), dell’ex-Parlatorio (n.3) e della Cappellina del SS.mo Sacramento (n.10). Nel 1847 G.Battista Ricci distaccò dal Capitolo, trasferendoli su tela, alcuni affreschi di Niccolò di Pietro Gerini [ms.322, fasc.20 e 21]. Fra questi l’ “Annunciazione” e l’ “Adorazione dei pastori” oggi in Sagrestia, e due “Profeti” (n.7 e 8), uno dei quali (n.7) non più presente negli ambienti della Canonica in cui si trovava (v. M.C.François, “Monache e Granduchi”, in “Bollettino di Pitti”, a.2014, p.56). Negli anni ’60 dell’Ottocento, Gaetano Bianchi procedette a interventi di “rassettatura” dei costoloni bicromi gotici del complesso claustrale e aggiunse elementi neo-gotici di sua invenzione all’interno delle campatelle (n.6) e nel soffitto della sala contigua. In Capitolo, la zona decorata a fresco intorno alla “bucolina della Comunione” (n.9) per le Monache di Clausura è stata distrutta dopo il 1810 al momento dello scasso per l’apertura di una porta del Capitolo stesso. Nella Cappellina del SS.mo Sacramento (n.10) che comunicava con il Capitolo attraverso questa “bucolina” non sono più visibili le “riquadrature” e le decorazioni monocrome dipinte dallo Stagi. Infine, all’interno dell’intra muros del campanile, si intravedono lacerti di affreschi gotici (n.11) pertinenti una delle cappelle trecentesche dell’antico transetto.


di Simonetta Zanuccoli Nel XVII secolo comparve a Parigi il primo trasporto pubblico. A idearlo fu Blaise Pascal (1623-1662), matematico, filosofo, scrittore, il più originale pensatore francese del 1600 dopo Cartesio. E anche un incredibile precursore dei tempi. A 18 anni inventò la cosidetta Pascaline, uno strumento di calcolo, antenato della moderna calcolatrice, che consentiva di addizionare e sottrarre velocemente numeri composti anche da 12 cifre. Ne fece fare un certo numero da un orologiaio di Rouen, dopo aver ottenuto per decreto da Luigi XIV, suo fedele ammiratore, l’esclusiva per la produzione e la commercializzazione. Oggi quattro esemplari di Pascaline sono conservati al Musée des Arts et Metiers di Parigi. Pare che Blaise Pascal inventò anche la rouler, poi chiamata roulette, modificando un antico gioco cinese. Poi, osservando come si muoveva la pallina e dove si fermava, scrisse in un trattato una delle leggi più importanti di questo gioco, basata sul calcolo delle probabilità: la Legge del Terzo. In un ciclo di 36 giocate consecutive escono in media solo 24 dei 36 numeri della ruota. Quindi 2/3 dei numeri escono, 1/3 no. Fatto un secondo ciclo di giocate, l’insieme delle combinazioni del gruppo non uscito nel primo rispetta anch’esso la legge del terzo: 2/3 sì, 1/3 no.......La costante apparizione di questo risultato, pur non offrendo garanzia di vincita sicura, ne fa, a tutt’oggi, una delle basi più valide per lo sviluppo di sistemi semplici o multipli per la ricerca del numero giusto (il terzo mancante). In una giornata d’inverno particolarmente fredda del 1661 a Pascal venne l’idea di un trasporto pubblico. Parigi era già con i suoi 500.000 abitanti la seconda città più popolata del mondo dopo Londra. Aveva 500 strade, 100 piazze, 9 ponti e 22.000 case. Spostarsi, se non si era ricchi e possessori di una carrozza privata, cominciava a essere un problema. Su questa constatazione Blaise, insieme a altri coraggiosi visionari, nel giro di due mesi, fondò un’azienda investendo gran parte del suo patrimonio (compresa la dote della sorella) dopo aver ottenuto da Luigi XIV il benestare e il monopolio per un servizio pubblico. Il progetto, ideato per fornire ai poveri (petites gents) gli stessi vantaggi dei ricchi, consisteva in grandi carrozze a otto posti trainate da quattro cavalli che effettuavano sempre gli stessi tragitti (lignes) tra un quartiere e l’altro. Questi antichi bus partivano a orari prestabiliti indipendentemente dai

Pascal, l’inventore dei trasporti pubblici posti occupati, perciò anche se erano vuoti. Si chiamavano Carrosses à cinq sols perchè ogni occupante pagava 5 soldi. Le fermate erano a richiesta per consentire ai passeggeri di salire e scendere, dipendentemente dalla necessità, durante il tragitto. Le lignes, con capolinea a Luxembourg, erano cinque, una delle quali, chiamata Tour de Paris, faceva un percorso circolare collegando le zone più esterne (in questo caso il biglietto costava a secondo i tratti che il passeggero faceva). In seguito sarebbero dovuti nascere altri 3 percorsi in modo da coprire tutta Parigi. Al viaggio inaugurale, nel 1662, al quale Pascal partecipò nonostante la malattia che lo corrodeva fin da bambino e che lo porterà alla morte pochi mesi più tardi, un’enorme folla si riversò nelle strade applaudendo al passaggio del primo mezzo pubblico della storia. Durante i primi mesi le Carrosses à cinq sols erano sempre piene, ma poi il Parlamento di Parigi, fatto di nobili che mal accettavano questa novità, opponendosi alla volontà

reale, decretarono il divieto di utilizzo agli strati più bassi della società, soldati, paggi, lacchè e altri personaggi in livrea, per “maggiore convenienza e libertà dei borghesi e persone di merito”. Questo sprezzante classismo su quello che doveva essere un ideale servizio sociale provocò l’ostilità del popolo che oltre a manifestazioni violente cominciò per protesta a non utilizzare più le carrozze pubbliche. Così la scarsità dei passeggeri, il costo dei salari di un centinaio di persone, tra cocchieri, stallieri, addetti alle manutenzioni...., e il mantenimento di altrettanti cavalli, portarono, dopo solo cinque anni, nel 1667, alla chiusura per difficoltà finanziarie dell’azienda creata da Pascal e alla fine del suo avveniristico progetto. Non si sa che fine abbiano fatto le pesanti carrozze a otto posti. Il terreno, nella allora desolata pianura di Montrouge, comprato da Pascal e i suoi soci per parcheggiare i mezzi e ricoverare i cavalli, oggi è diventato il deposito degli autobus numero 38 della RATP.

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di Cristina Pucci E oggi posso dedicare letture di approfondimento ad uno dei miei amori, il cinema, di Hollywood, degli anni d’oro e a due Stars dell’epoca. Rossano ha beccato in un sedicente cinema, chiuso negli anni ‘40, una serie di vecchi manifesti cinematografici originali e ben si sa quanto possano essere rari e preziosi. Quello di oggi è la locandina di un film del 1936, “Amore in corsa”, con nientemeno che Clark Gable e Joan Crawford , si osservi, stampiglata sui bolli che, testimoniandone la autenticità, ne permettevano l’esposizione, la data, Anno XVI, era fascista ovvio. La vicenda che vi si narra è, come spesso nei film di allora, esilina, tale da prestarsi ad avventurose fughe e mirabolanti battibecchi. Due giornalisti rivali si trovano coinvolti nel tentativo di una bella ereditiera di sfuggire alle nozze preparatele dalla famiglia. Gable e la bella Joan fuggono usando gli abiti di due ipotetici baroni che devono partire per una escursione nella stratosfera, risulteranno essere due pericolose spie....Il tentativo di Gable di vendere al giornale e il racconto di questa scoperta e le peripezie con la fuggitiva viene da lei sgamato e fa sì che si rivolga al secondo giornalista....Corri di qua e corrri di là alla fine sarà l’ineguaglabile Baffo di Gable ad avere la meglio e conquistarsi la bella. Film dal ritmo indiavolato, pieno di situazioni improbabili e ridicole, sostenuto dalla bravura degli interpreti. All’inizio delle riprese il regista organizzò una festa con torta e candeline per festeggiare il quinto anno dall’inizio della collaborazione fra i due Divi. Lavorarono insieme la prima volta nel 1931, Joan era già una stella di primo rango fra le mille della Metro Goldwyn Mayer, Gable quasi sconosciuto. L’attrice ne fu attratta fortemente e pretese di lavorare ancora con lui, “immediatamente”, altri tre film nell’anno. La potente alchimia che si instaurò fra loro, e che buca lo schermo, era tale che tutti cominciarono a parlare della loro storia d’amore, pare infuocata, ma silenziata dalla casa produttrice che non voleva scandali, erano ambedue sposati. Rimasero saltuari amanti a lungo e poi amici, la Crawford sostenne e aiutò Gable dopo la tragica morte della amatissima Carole Lombard. Si racconta che le riprese dell’ultimo film della coppia , “L’isola del Diavolo” (‘40) siano state appesantite da una tensione fortissima fra i due causata dalla gelosia di Joan per il travolgente amore di Gable per la Lombard. Gable... Spencer Tracy, che lo chiamava “l’alce” per le orecchie a sventola,

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Bizzarria degli

oggetti

Dalla collezione di Rossano

Amore di corsa

una mattina in cui non riusciva ad entrare negli Studios intasati dalle fans che lo acclamavano, gridò “viva il Re! ora però andiamo a lavorare”. Gli cercarono per scherzo una corona. L’idea di votare un Re ed una Regina prese campo, con una maggioranza schiacciante vinse lui e tale rimase per tutta la vita ed anche oggi viene così definito. Di Mirna Loy, eletta Regina, nessuno si ricorda. Di bellezza non tradizionale aveva un sorriso irresistibile il cui sarcasmo era attenuato da tenere fossette sulle guance, una espressione dolcemente beffarda accentuata da baffetti assassini ed occhi spesso socchiusi e dal ridente sguardo in tralice. La sua presenza era magnetica. Quando in “Accadde una notte”, che non voleva girare e gli valse l’Oscar, rimase a dorso nudo, rischiò di far fallire le

fabbriche di canottiere, nessun le indossava più. La Crawford: “la prima volta che lo vidi fu come se una scossa elettrica mi avesse attraversato.. mi si piegarono le ginocchia..” Chi non lo ricorda come il brusco, irresistibile, Rhett Butler di “Via col vento? “ Nei 30 anni della sua carriera ha lavorato con tutte le più grandi dive, da Greta Garbo a Marilyn Monroe che da sempre andava dicendo di essere sua figlia e se ne innamorò. Con lei il suo ultimo film “Gli spostati”, (‘62) da un lavoro di Arthur Miller, dover interpretare un macho cawboy lo sottopose ad acrobazie e sforzi fisici eccessivi per un uomo di 59 anni non in forma nè allenato, sarebbero stati proprio questi a dare il colpo definitivo al suo traballante cuore. Morì senza vedere nè il film nè il suo unico figlio.


di Roberto Giacinti Dicembre all’insegna della solidarietà da fare, insieme, nei confronti di chi ha bisogno. Sono stati tanti, quest’anno, gli appuntamenti benefici e gioiosi della onlus, Compagnia di Babbo Natale, organizzati per promuovere la raccolta di fondi diretti a sostenere i bambini che vivono una situazione di disagio. Tra questi la pubblicazione di un originale volume, da collezione, fuori commercio, dal titolo ”Un Natale di cioccolata”. I fondi raccolti sono destinati principalmente all’erogazione di assegni di Natale da € 400 ciascuno ad almeno 100 Famiglie bisognose scelte dalla Caritas e dai Servizi Sociali del Comune di Firenze, con bambini in difficoltà. Il libro è arricchito anche dalle filastrocche originali di Renato Conti. Grande merito dunque a chi vorrà ha sostenuto questo programma e continuerà a farlo in futuro. Donazioni deducibili per persone fisiche e società a Compagnia di Babbo Natale ONLUS su: IBAN: IT 92T032 5302 8060 0000 0092 506 Banca Federico Del Vecchio Ag. P.zza Pier Vettori, 6r-11, Firenze.

La Cioccolata di Renato Conti Maledetta cioccolata Non ti avessero inventata Sono schiavo ormai da sempre E tormenta la mia mente La sua vista è inebriante Il suo gusto rilassante Se mi sento un poco giù Mangio un Bacio e torno su E col pane e la Nutella La mia vita torna bella Quando guardo una vetrina E la torta è lì vicina Tonda, scura, al cioccolato Posso dir d’esser spacciato Mi si muove tutto dentro Apro, un attimo ed io entro ...

Le ricette di Babbo Natale

“me la incarta per favore ...” E già penso al suo sapore. Il cacao già da bambino Ce lo avevo lì vicino La mattina a colazione Con il latte … una passione Ed a Pasqua poi c’è l’uovo Senza un pezzo non mi muovo Quel bell’uovo al cioccolato Tu lo rompi e sei incantato Tutti quanti i pezzettini Li rincorri coi vicini E col pane certamente E’ magnifico il fondente Non sarà forse davvero Nella storia il suo mistero Era cibo per sovrani, Sol per nobili e guerrieri La “bevanda degli dei” La chiamavano già ieri

Forse i Maya, dei sacerdoti Esaltato han le sue doti E conserva i suoi poteri Anche oggi come ieri Mentre lenta scioglie in bocca E attraversa la tua gola Già soddisfa il tuo palato La fatica ti consola Mentre parlo ho già scartato Un biscotto al cioccolato Mordo, assaggio, e lentamente Già raggiunge la mia mente Il suo gusto è una delizia Per la vita lui mi vizia Mi soddisfa e dà allegria E i pensieri porta via Ma se un giorno lui mi manca La mia vita torna stanca Senza te son disperato Maledetto cioccolato …

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Il Diverso Femminile di Carlo Cantini

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Negli anni ’70 il mondo femminile scese nelle piazze per reclamare il desiderio di cambiamento. In quella occasione realizzai questo lavoro fotografico per dare un significato a questi eventi per rafforzare l’evoluzione della donna.


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