Numero
13 gennaio 2018
312
245
Con la cultura non si mangia Giulio Tremonti (apocrifo)
Carmen è viva e lotta insieme a noi Maschietto Editore
NY City, 1969
La prima
immagine Quì siamo in un quartiere periferico principalmente abitato da ispanici, portoricani ma anche una classe media bianca non particolarmente benestante. L’ambiente era tranquillo, c’era abbastanza verde e le persone erano decisamente più inclini alla chiacchiera e all’incontro rispetto alla fretta e la spersonalizzazione dei rapporti tipica del centro di Manhattan. Per me fu davvero una bella boccata di ossigeno dopo tutte le mie passeggiate, si fa per dire, nel centro nevralgico della Grande Mela. Sono stato loro ospite per qualche giorno di relax e poi sono tornato a fare i miei soliti giri un pò nevrotici nella città a cui mi ero decisamente affezionato. La persona ritratta si chiamava Mario ed era il cugino di una mia cara amica portoricana.
dall’archivio di Maurizio Berlincioni
Numero
13 gennaio 2018
Il pagellone di fine legislatura Le Sorelle Marx
Il chiavaio I Cugini Engels
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Riunione di famiglia
In questo numero I poeti muoiono da soli di Erfan Rashid
I pendoli rovesciati di Claudio Cosma
Addio anima candida di Laura Bozzi
Mappe di percezione: San Francisco di Andrea Ponsi
Pittori di suoni di Alessandro Michelucci
Napoli svelata di Mariangela Arnavas
I mai visti di S.Felicita - 2a parte di M. Cristina François
Alla scoperta di Gonfienti di Gianni Biagi
Il trapasso tutto da ridere di Stalin di Michele Morrocchi
La pittura non è fatta per decorare appartamenti di Paolo Marini
A morte Carmen di Simone Siliani
L’Arte 3x2 di Valentino Moradei Gabbrielli
Biancaneve, o della meraviglia di Elisa Zuri
Amleto e la fisica di Gianni Bechelli
e Remo Fattorini, Anna Lanzetta, Roberto Barzanti
Direttore Simone Siliani
Illustrazione di Lido Contemori, Massimo Cavezzali
Redazione Gianni Biagi, Sara Chiarello, Carlo Cuppini Aldo Frangioni, Michele Morrocchi, Sara Nocentini, Barbara Setti
Editore Maschietto Editore via del Rosso Fiorentino, 2/D - 50142 Firenze tel/fax +39 055 701111
Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012
Progetto Grafico Emiliano Bacci
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di Erfan Rashid Tre sono i modi in cui muoiono gli iracheni da oramai di più di mezzo secolo: per torture subite da aguzzini dei vari regimi, da vittime nelle varie guerre causate o scatenate da quei regimi o dalla disperazione nelle solitudini degli esili a cui sono stati costretti. Hassan al Nassar è stato uno di questi iracheni; egli non è morto per il coma causato dalla rovinosa caduta in una notte di dicembre, ma è, in tutti i sensi, vittima dei regimi iracheni, che prima l’hanno perseguitato e costretto all’esilio dopo l’impiccagione del fratello, e poi, l’hanno costretto a vivere in assoluta indegenza e privazione malgrado la fine del regime di Saddam Hussein. Poteva benissimo, Hassan al Nassar, che era una giovane promessa della narrativa irachena degli anni ‘70, arrampicarsi sula spalla degli aguzzini e gerarchi di Saddam Hussein e giungere là dove è arrivata gente con molto meno di talento rispetto a lui, ma egli preferì conservare la sua dignità di uomo e di intellettuale rifiutando di aderire al progetto fascista di Saddam Hussein e di prendere la via dell’ignoto esilio che è durato dal marzo 1979 fino alla sua morte la notte di Natale 2017 a Firenze, città del suo primo arrivo, come pure è stata la città del suo ultimo viaggio di solo andata.
I poeti muoiono da soli scrivere poesie è stato il desiderio che l’ha guidato e, nel contempo, tormentato. Non aveva scelto la vita del clochard e dal bohemien, bensì era costretto a vivere come tale non avendo altro che una penna, un quaderno e molti libri di poesie da cui trarre ispirazioni. Non era un clochard o un anarchico perché era impegnato, lui bisognoso di aiuti, era iscritto al partito di Rifondazione Comunista e si era avvicinato ai progetti sociali di Padre Ernesto Balducci. Hassan al Nassar è morto, il poeta è morto da solo. Ma non era solo al momento del commiato. Numerosi erano lì per sostenerlo a scrivere, la sua ultima strofa. Avesse aperto gli occhi, in quel clima assolato nel penultimo giorno del 2017, avrebbe sorriso e avrebbe pensato che gli amici raccolti intorno alla sua povera bara di legno color ocra opaca, gli avessero teso uno scherzo: “Non ho mai visto così tanta gente ad attendermi e così tanti amici e conoscenti a darmi l’addio! Non scherziamo ragazzi! Ho ancora molte poesie da scrivere, non è ancora giunto il momento di andare via!…”. Avrebbe detto Hassan al Nassar, poeta e narratore iracheno nato a Nassiriya nel sud dell’Iraq 10 febbraio del 1954.
“Erfan!, eccoti qua!”
Lo sentivo chiamare appena arrivato a piazza Sant’Ambrogio prima di imboccare via Pietrapiana verso il centro storico. Era seduto lì sulla gradinata della chiesa con la sua borsa-sacca di color militare colma di libri di poesie. “Lo sai che i miei concittadini di Nassirya hanno festeggiato l’inserimento di alcune delle mie poesie nell’antologia della poesia italiana - diceva orgoglioso mentre sorseggiava il caffè -, ti giuro non sono stato io a comunicarli la notizia, è stata una loro iniziativa…”. Altre volte lo incontravo a piazza Salvemini. Incontri fugaci che finivano sempre con un caffè, e mai con il vino come qualcuno ha asserito, incontri in cui ribadiva, senza pretese, la sua volontà di stare con gli altri, e specialmente con noi, i suoi connazionali dopo che molti di noi, me compreso, ci sentivamo incapaci di farlo desistere da quel lento andarsene. Si era ripreso, faceva una specie di cura disintossicante, ma gli orari impostagli dall’ospizio in cui era ospitato gli stavano stretti perché doveva rientrare con l’imbrunire,
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“Come i polli devo rincasare, se no rimango fuori!”. Sentivo molto dolore e molta rabbia ogni qualvolta lo incontravo; dolore per lo stato in cui era ridotto, e rabbia contro tutti i regimi, quelli iracheni in primis, per la violenza esercitata su una delle persone più pacifiche che abbia mai incontrato. Negli ultimi sei, sette mesi l’ho incontrato numerose volte, molto di più di quanto avessi fatto durante gli anni. Era un segno? Non aveva, o meglio, non ha mai parlato di grandi progetti. Il desiderio di vivere e di
Riposa in pace Hassan al-Nassar… Sarò sempre arrabbiato con te per il tuo lento suicidio.. Terrò sempre in mente le nostre conversazioni notturne nella Baghdad degli anni ’70 a bordo del bus notturno numero 48. Conserverò sempre i nostri recenti dialoghi davanti alla tazzina di caffè dei bar di via Pietrapiana e piazza Salvemini. Ricorderò la tua mente stanca e i tuoi occhi offuscati dalla malattia ma senza perdere l’ossessione per la poesia e per la Parola.. Riposati adesso. Nessuno ti mettere fretta per scendere scendere dal letto all’alba... e nessun portone ti sarà chiuso all’imbrunire…
di Laura Bozzi
Addio anima candida
Conoscevo Hasan da molti anni. Non ricordo il nostro primo incontro, ma ho vive nella memoria le conversazioni nel chiostro dell’Università, lui timido e schietto al contempo. Con la borsa a tracolla, la nuvola di riccioli neri, mi affascinava con i suoi modi gentili, la sua anima candida, l’italiano a volte stentato. Alle manifestazioni c’era sempre. Vi partecipava senza grida, ma col carisma silenzioso della sua sola presenza. Occupava ora una stanza, ora un’altra, sempre zeppa di libri, foto, cartoline. E se capitavi da lui, ti accoglieva col suo fare schivo e generoso, pronto a donarti un oggetto o ospitalità per la notte, disposto a dormire per terra pur di non negare un aiuto. Di Hasan si può e si dovrà ricordare delle sue origini e dell’esilio; si scriverà che era uomo colto, plurilaureato, che ha scritto articoli, pubblicato raccolte poetiche, partecipato a conferenze, addirittura recitato in teatro, e che ha avuto riconoscimenti anche a livello internazionale. Io posso solo testimoniare l’intensità della nostra amicizia. Mi leggeva l’anima come solo un uomo che ama profondamente, e come un vero Poeta, sa fare. Negli ultimi anni l’ho incrociato spesso in centro a Firenze, ma la frenesia degli impegni, i ritmi di lavoro, il frettoloso e distratto presente, mi hanno sottratto al suo sguardo e al suo tempo, quello più dilatato dell’amicizia e dei poeti. Poi, in un pomeriggio di due anni fa, mi parlò entusiasta di “Affluenti - nuova poesia fiorentina”, un’antologia di poesie, tra cui le sue, nata proprio con l’obiettivo di far convergere verso Firenze anche le voci di altre città e paesi. Nel maggio di quest’anno, alla presentazione della raccolta Roghi sull’acqua babilonese ho riabbracciato a lungo il mio amico di un tempo e entrata in contatto con quella che non esito a definire la sua nuova, vera famiglia fiorentina: la sua dolce Margherita, tenace supporto contro una burocrazia lenta e disarmante, Edoar-
do Olmi, fondatore e curatore, con Marco Incardona, dell’antologia “Affluenti,” e tutti gli amici poeti. Nelle serate organizzate da “Affluenti” Hasan non amava leggersi. Demandava ad altri questo arduo compito, ma se spronato avanzava con passo timido e incerto verso il palco e recitava i suoi versi in arabo, come quella sera di agosto alla Limonaia di Villa Strozzi, quando un magico silenzio avvolse la platea incantata. Nel suo ultimo mese di vita, abbiamo condiviso con amore qualche ora del nostro tempo in ospedale con Hasan, che nei dormiveglia ci riconosceva e sorrideva come sempre. Ci ha lasciati con un sorriso, Hasan Atiya Al Nassar, e mi piace pensare che la morte gli sia giunta lieve e amica. Ai funerali c’erano tutti, anche chi non lo vedeva da anni ma serbava intatto nel cuore il suo sguardo chiaro, sornione e sincero. La presenza di persone con età e credo diversi mi ha riportato alle parole del mio e suo amato Padre Balducci, quando gridava la necessità che le religioni “cessassero di misurarsi sull’asse verticale delle loro certezze per confrontarsi su quella orizzontale del futuro dell’Uomo”. Padre Graif, testimone dell’eredità di Balducci, mi ha ringraziato per avergli dato modo di assistere al ricordo commosso di un “uomo ai margini”. E’ un pensiero dolce e importante detto da un uomo di chiesa, ma è triste pensare che ai margini vivesse un uomo buono, un “esule”, e un uomo di poesia. Oggi quindi abbiamo non solo il compito di diffondere la poesia, ma anche il pensiero e la storia di Hasan. Perseguiremo questo obiettivo con energia e con gioia, pur in mezzo agli impegni di questo frenetico tempo presente che troppe volte ha distolto i miei occhi dai suoi. Mi voleva bene, Hasan, e io gliene volevo. Diceva di avermi dedicato una poesia. Chissà se si burlava di me, o se un giorno avrò mai l’onore di ritrovarla. Sarà il mio piccolo grande sogno che porterò sempre dentro.
L’Ultima poesia
è la solitudine Solo, di fronte a un fiume di gelide acque, Solo, quando le donne vanno via, una dopo l’altra, e lui rimane solo. Solo nel buio, dove non vi è alcuna luce nella vicinanza, Solo sotto le ombre degli alberi, Solo con la sua tristezza e gioia, Solo con la guerra che verrà, Solo con la Radio 3, Solo con il disumano gelo di un inverno glaciale, Solo a combattere contro le zanzare, Solo seduto sul bus numero 23, Solo vivo o solo muoio, Solo con la ragazza che lo spoglia, come se gli togliesse la pelle, o quando lo abbandona in mezzo alla vasca bianca e gelida, Solo come quando può pronunciare la parola NO, Solo, e malgrado la febbre che lo invade, si leva dal letto, Solo quando dorme su un letto sgangherato, Solo nel momento della caduta delle stelle ferite nel fiume, Solo sdraiato su una panchina in una piazza in compagna dell’amico casuale, Solo da quando l’Iraq cessò di essergli Patria lasciandolo orfano, esule, mendicante di una vita o una morte! è la solitudine, ed è la grande sofferenza perché i tempi del martirio sono presenti quando giunge il momento della fine…
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Le Sorelle Marx
Il pagellone di fine legislatura
GENTILONI 9 – partito dall’estrema sinistra e da rivoluzionario (seppur da nobile famiglia papalina) finisce per incarnare il più tranquillo dei democristiani e il più rassicurante dei premier. Dopo i 1000 giorni di Renzi una boccata d’ossigeno e un’ipoteca su un possibile bis, magari con una squadra scelta almeno un po’ da lui. Una vita da mediano. RENZI 4 – come il 4 dicembre. Esagerato nella vittoria come nella sconfitta: non ne azzecca più una. Dalla squadra di governo alle vacanze sulla neve (a proposito Renzi è l’unico che con l’acconto di un libro non solo ci mangia ma fa pure la vita da nababbo, altro che cultura commestibile), dalla commissione banche alla legge elettorale. Tutto pare essere buono per dargli addosso. Non si era mai visto uno stare così velocemente sul culo al Paese come lui. Fuoriclasse, intanto probabilmente fuori dal governo. BERLUSCONI 10 – al Paese che gli ha detto ben tornato, ha risposto: “non me ne ero mai andato”. Immarcescibile, come la plastica della quale pare essere ormai ricoperto, incandidabile ma probabile vincitore. L’unico rivoluzionario rimasto in grado di sembrare un padre della patria e citare Lenin nemmeno a sproposito. Intramontabile. MINNITI 6- - il comunista che fece suo il motto di Balbo, si conferma l’erede dei migliori ministri dell’interno che l’URSS abbia mai prodotto. Ammirato a destra, temuto a sinistra, era emerso come l’uomo forte del governo, il decisionista, alla lunga ha pagato il conto prima con un furbesco accordo sui migranti in terra di Libia e poi con alcune nomine di poliziotti implicati nei fatti di Genova che non rendono merito al ministro. Sperduto. DI MAIO 3 – in geografia meriterebbe anche il 2, ma anche per il resto un’insufficienza piena. Non studia, non si applica e pare interessato soltanto ad andare al governo. A farci cosa lo decideranno Grillo e Casaleggio. Intanto lui si fa cucire completi su misura e riprendere in improbabili contesti, incontra quarte file del dipartimento di Stato americano e imprenditori che
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vorrebbe rassicurare. Non fosse pericoloso sarebbe il nostro cazzaro preferito. ALFANO 7 – non si ricandida e solo per questo merita più della sufficienza. L’unico uomo politico che ha ricoperto i dicasteri di Giustizia, Interno e Esteri senza avere i voti nemmeno dei parenti, oltre che al quid come diceva Berlusconi. Prima che se ne accorgesse anche l’elettorato e Renzi ha deciso di desistere e di fare la riserva della Repubblica, scommettendo che si torni a votare presto magari. Panchinaro di lusso. ORLANDO 6 - - - da ministro della giustizia uno dei migliori degli ultimi quaranta anni, da oppositore di Renzi un carciofo. Ha preso pochi voti, non ha impedito la scissione e molto probabilmente vedrà i suoi scomparire nelle liste turborenziane. Ultimo centromediano metodista rimasto. CALENDA 7 ½ - investito dalla stampa borghese come il Macron italiano (spero cha abbia fatto gli scongiuri), gioca a fare il Pierino che ha studiato. I maligni lo danno come possibile premier tecnico o in attesa delle prossime elezioni dopo quelle di marzo. Epici i suoi duelli con Emiliano e una spettacolarità ereditata in famiglia. Futura promessa MARTINA 5 – Ministro dell’agricoltura non pervenuto, è stato usato come ennesimo vice da Renzi che sceglie sempre ex Ds dall’espressione non troppo vispa (vedi Nardella) come suoi secondi per poi fare come vuole sempre e comunque. Un cartonato praticamente. BOSCHI 2 – da madrina degli italiani a donna più detestata del Paese in meno di un lustro, con una spiccata propensione a complicarsi la vita giurando di non occuparsi di banca Etruria, di dimettersi in caso di sconfitta al referendum e di essere andata in settimana bianca per motivi istituzionali. Nessuna violazione di legge in tutti questi casi ma allora perché crearsi tutti questi problemi? Casinista. ROSATO e PARRINI 0 – i due si dice siano i veri autori della prima legge elettorale masochista della storia delle democrazie europee. Furbi come faine pare che si siano fatti consigliare da qualche astuto forzista
che li ha assicurati che il PD con questa legge sarebbe andato benissimo. Coalizioni obbligatorie per il partito con a capo un segretario che ha litigato persino con l’ortolano sotto casa, firme per gli alleati, collegi insicuri anche nelle regioni rosse e nessun meccanismo di recupero. Comunardo Niccolai sarebbe fiero di loro. FEDELI 2 – prima la polemica per la laurea mai conseguita, poi quella per il diploma, alla fine dai suoi discorsi dovremo pensare che anche alla licenza elementari qualche difficoltà deve averla avuta. Perfetta immagine della scuola in questo paese. Retrocessa. FRANCESCHINI 8 – pronto al prossimo governo, qualunque esso sia, viene accreditato di almeno due sottocaliffati di peso anche dovesse sbarcare l’ISIS in Italia. Nel frattempo attende l’esito elettorale per decidere di disfarsi di Renzi o meno, mentre sui territori piazza, come sempre, suoi fedelissimi. Il Pirlo della politica. GRASSO 7 – scansa le polemiche del doppio ruolo istituzionale e di capo partito senza neanche curarsene, si scopre di sinistra sinistra in un’età nella quale normalmente ci si scopre più reazionari che conservatori, non ha il fisco del Corbin italiano ma un aplomb che potrebbe pagare. Ennesimo magistrato scelto da D’Alema per far vincere la sinistra, si spera con maggior fortuna che nel passato. Ruvido in difesa. SALVINI 4 – passa dall’essere il possibile leader del centrodestra a subire più di tutti il ritorno di Berlusconi mentre sui suoi “temi” elettorali viene scavalcato da fascisti e grillini. Improbabile nel ruolo di difensore dell’italianità. Inconvocabile in nazionale avendo militato in quella della Padania. MATTARELLA 6 – parla poco, molto poco. Pare assente dalle polemiche quotidiane ma si racconta che non perda un colpo e intervenga molto. Dalla scelta dei ministri alla riconferma del governatore di Banca d’Italia è stata una sponda discreta del premier Gentiloni. Con il parlamento balcanizzato che uscirà dalle urne il prossimo 4 marzo non potrà nascondersi molto. (Ultima) Speranza.
Nel migliore dei Lidi possibili disegno di Lido Contemori didascalia di Aldo Frangioni
La sinistra italiana imbottigliata
I Cugini Engels
Il chiavaio
Palazzo Vecchio, prima mattina. IL capo di gabinetto del sindaco Dario Nardella si affaccia nella sala di Clemente VII: “Dario, mika ha telefonato”. “Ah beh, se non ha mica telefonato, allora che problema c’è?” “No, Dario non hai capito: ha telefonato Mika, il cantante, per te” “O che vuole? Lo abbiamo incensato ieri con le chiavi della città. Che simpaticone: gli ho detto che Firenze ama chi ama la cultura e che lui ha contribuito a diffonderla sia con la musica che con i suoi sofisticati varietà televisivi suscitando nelle nuove generazioni grande curiosità e ansia di conoscenza, ecc. ecc.. Che bel discorso che ho fatto!” “Ecco, appunto. Lui dice che purtroppo ha fatto quello che sua mamma gli ha detto di non fare: ha perso le chiavi, lasciandole sul bus. E allora non sa come entrare” “Mannaggia, Manuele: muoviti, vai subito
dal ferramenta a fargli le copie: quel poveretto rischia di rimanere fuori all’addiaccio. IO gli avevo promesso che con queste chiavi poteva entrare a Firenze quando voleva!” “Oh Dario, ma sei proprio un piciu! Sono chiavi simboliche!” “Ma come? Dici davvero? Io le avevo date anche a Ricky Cunningham, ma forse a lui gliele ha fregate Fonzie” “Ma va là, boja faùss! Non so se è più suonato lui o il suo violino!... Dario, cosa devo fare con ‘sto Mika? Te lo passo?” “No, digli di venire qui che si fa un duetto: lui canta e io suono “Primavera fiorentina” E poi gli diamo un altro mazzo di chiavi. Anche se ce n’è rimaste poche, perché se l’è prese tutte Matteo e prima di lui Eugenio...” “Boh questo Ese cùm l’asu al sùn d’la lira [Stupido come l’asino al suono della lira, ndr]... Pronto Mika? No, guardi, le chiavi
non gliele diamo mika: le abbiamo finite. E quindi, come diciamo noi in Piemonte, “Ciúcia Martin, c’a lè breu d’autin” [Martino, puoi succhiare, è brodo del filare].
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di Simone Siliani Ha suscitato una certa attenzione (anche di pubblico, e il fatto di per sé è positivo) e anche dibattito pubblico (anche questo fatto degno di nota per un’opera scritta nel 1875) la messa in scena di “Carmen” di Georges Bizet al teatro del Maggio Musicale Fiorentino, cui il regista Leo Muscato ha cambiato il finale. “Nel finale della nostra Carmen la protagonista è posta di fronte al dilemma se “difendersi o soccombere” e il suo istinto la porta a difendersi”, spiega Muscato a Vanity Fair. E così, Carmen, sfodera un revolver e uccide Don Josè, possessivo e violento, cui la libera e passionale Carmen ha preferito il torero Escamillo. Immediatamente si è scatenata la polemica social fra “riformisti” e “puristi”, fra coloro che mal digeriscono la trasposizione e lo stravolgimento contemporaneo dell’opera (per quanto Muscato abbia tenuto a specificare che dal punto musicale e del libretto la “sua” Carmen è filologicamente corretta) e quanto vorrebbero mantenere una assoluta fedeltà all’opera originale. I commenti sui social sono necessariamente superficiali e impulsivi. Così, ad esempio, quello che non ha saputo trattenere Dario Nardella che, precisando di parlare in quanto Presidente del Maggio Musicale, ha tenuto ad informarci che lui sostiene “la decisione di cambiare il finale di #Carmen, che non muore. Messaggio culturale, sociale ed etico che denuncia la violenza sulle donne, in aumento in Italia”. Molti dei commenti (positivi) insistono sul “messaggio” (lasciando stare l’etica di Nardella, diremmo culturale e politico) legato al tema del femminicidio. Lo stesso regista è stato chiaro al proposito: «Con questa lettura vogliamo ribadire che non bisogna accettare passivamente una violenza da parte di un uomo che dice di amarti, come fa Don José, ma che continua a ossessionarti. Vogliamo dire alle donne che esiste una possibilità per difendersi. Sempre e comunque». Ma se Veronica Simeoni, la soprano nei panni di Carmen, correttamente a Vanity Fair speiga che «Oggi ci sono tanti modi per ribellarsi alle violenze, fisiche e psicologiche. Le donne possono e devono denunciare, rivolgersi ai centri antiviolenza, usare gli strumenti che lo Stato mette a loro disposizione.”, è vero anche che il “messaggio” che lo spettacolo trasmette è che ci si può difendere, uccidendo l’aggressore. Dobbiamo riflettere su questo: se un regista si prende la libertà di modificare così drasticamente il finale di un’opera storica (operazione certamente legittima), deve anche assumersi la responsabilità del “messaggio” che gli spettatori possono, altrettanto legittimamente, recepire. E quel messaggio può anche essere: “Ci si può sempre difendere, spa-
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A morte Carmen rando, uccidendo l’aggressore”. Il che, se il messaggio fosse così recepito ad ampio raggio, può prefigurare una società in cui tutti (non solo le donne, ovviamente) possono difendersi da sé, anche uccidendo se del caso. Uno scenario da Far West: tutti armati (per legittima difesa, naturalmente), lo Stato delegittimato (perché la delega allo Stato della difesa dei cittadini e, per ciò, anche all’utilizzo proporzionato della forza viene meno nel “messaggio” del nuovo finale), meno donne uccise (forse), più aggressori uccisi (certo), dunque una distribuzione diversa, più “equa” dal punto di vista del genere, della violenza; un modello di difesa che, una volta sdoganato per il femminicidio, dovrebbe esserlo anche per altri reati (è il caso concreto dei furti notturni in appartamento o nei negozi). Ecco un possibile, ma dal mio punto di vista non auspicabile, scenario derivante dal “messaggio” del nuovo finale della Carmen. Credo vi sia da riflettere su questo tema “mcluhaniano”: il medium è il messaggio. Certamente molto più serio e profondo il commento della soprano Veronica Simeoni (“Spero che questa Carmen possa servire anche agli uomini. Per suggerigli che c’è bisogno di un altro linguaggio, più carico di dolcezza e umanità”), che non quello superficiale e maschile di Nardella. Ma vi è poi l’altro tema, che qui ci limitiamo ad accennare, ed è quello del rapporto con l’opera d’arte storicizzata. Questione che vale tanto per l’opera lirica quanto per ogni altra tipologia di opera d’arte e dell’ingegno. Non sono pochi i casi di stravolgimento dell’opera d’arte storicizzata (soprattutto nelle arti figurative) che hanno dato luogo ad altre e diverse opere d’arte. Così come ve ne sono per dar luogo a denunce sociali, per fustigare costumi retrivi e violenti; opere satiriche per irridere ai tiranni o alla politica ottusa. Si può fare, non è di per sé
qualcosa da censurare (termine che, appunto, mal si addice in un discorso sull’arte, che non sopporta censure). Purché abbia un senso culturale e sia rispettosa dell’opera d’arte su cui si interviene, la cui integrità non è data solo dagli esiti espressivi, ma da un insieme di elementi che ne definisco il contesto, il ruolo culturale e sociale, il senso ultimo. Ma già qui mi rendo conto della difficoltà di attribuire dei confini certi e stabiliti apriori di queste parole, “senso culturale” e “rispetto”: chi stabilisce e in base a quali parametri il confine fra rispetto e mancanza di rispetto nei confronti dell’opera d’arte? come si stabilisce se l’intervento sull’opera d’arte storicizzata ne stravolga il senso, tanto da renderla irriconoscibile o indecifrabile il “messaggio” profondo? Sono questioni certamente affrontabili e anche risolvibili, avendo di fronte il singolo intervento e non certo aprioristicamente e teoricamente, ma occorre lavoro di scavo, studio, formazione, comprensione, elaborazione. Che non si risolve certo con un tweet e, forse, neppure con un finale d’opera che, a dire il vero, in questo caso appare un po’ una trovata da spettacolo per destare attenzione e suscitare un po’ di clamore e riverbero (legittimo, per carità) del botteghino. Forse, però, per riflettere sul tema del femminicidio o su altre questioni certamente di grande importanza sociale, etica e, dunque, anche culturale occorrono impegni ben più profondi, cui pure possono accompagnarsi questo tipo di esiti scenici. Ad esempio, lo ha sollevato appropriatamente Francesco Giomi (direttore di Tempo reale), perché la Fondazione del Maggio Musicale Fiorentino non commissiona un’opera (lirica, musicale, tersicorea, ecc.) contemporanea sul tema del femminicidio, appunto? Così adempirebbe più pienamente al suo ruolo che non dovrebbe essere solo quello di rappresentare opere liriche storicizzate e men che meno di repertorio, bensì anche quello di produrre l’arte del presente. In tal modo il Maggio lascerebbe davvero un segno nella cultura di oggi per il futuro, producendo opere contemporanee che domani potranno essere opere storicizzate, su cui i registi e gli artisti del futuro potranno lavorare per produrre altre opere, per rappresentare la cultura del tempo nostro. Sì, perché come ebbe a scrivere con lettere di fuoco (al neon) Maurizio Nannucci sul lato degli Uffizi prospicente l’Arno, “tutta l’arte è stata contemporanea” (All Art has been Contemporary). Affrontare, con coraggio, questo lato della questione sarebbe sì compito del Presidente della Fondazione del Maggio Musicale Fiorentino, per quanto molto più difficile che scrivere un banale tweet; ma se il Maggio non torna a fare queste cose, ci si potrà interrogare, legittimamente, sul suo senso.
Musica
Maestro di Alessandro Michelucci In passato abbiamo parlato più volte dell’etichetta statunitense Cuneiform, per la quale nutriamo la massima stima. Oggi torniamo a farlo, ma stavolta per un motivo particolare. La casa discografica fondata e diretta da Steve Feigenbaum ha pubblicato un cofanetto intitolato 44 1/2: Live & Unreleased Works. La confezione comprende 12 CD e due DVD che raccolgono una messe di materiale prezioso ma ancora inedito, realizzato dai francesi Art Zoyd fra il 1972 e il 2015: 44 anni e mezzo, come dice il titolo (calcolati a partire dal 1971, anno di rifondazione del gruppo). I CD offrono oltre 15 ore di musica: circa dieci di registrazioni dal vivo (1972-2004) e cinque di materiale registrato in studio, apparizioni televisive e brani inediti. Attenzione però: non si tratta di una compilation messa insieme con materiale di scarto, ma di una pubblicazione che rende piena giustizia al gruppo francese sottolineando la sua importanza e la sua varietà espressiva. Frutto di un notevole sforzo tecnico ed economico, ma anche di una passione sincera, quest’opera è necessaria a chi vuole conoscere gli Art Zoyd come a chi li apprezza già. La storia del gruppo, articolata e complessa, spazia dal cinema al balletto, dal teatro ad opere multimediali innovative e stimolanti. Il gruppo nasce nel 1969: fondato da Rocco Fernandez, inizialmente è orientato verso il rock progressivo. Nel 1971, con l’ingresso dei polistrumentisti Gerard Hourbette e Thierry Zaboitzeff, subisce una svolta radicale. I due nuovi arrivati operano una rifondazione che determina la fuoriuscita dei membri originari. A partire dal 1975 la formazione si orienta decisamente verso un rock d’avanguardia che l’avvicina ai Magma. L’influenza del gruppo di Christian Vander (insieme a quella zappiana) traspare dal primo LP, Symphonie pour le jour où brûleront les cités (1976), e dal successivo Musique pour l’Odyssée (1979). Quest’ultimo segna l’arrivo del batterista Daniel Denis, leader dei belgi Univers Zéro. In questi primi lavori
Pittori di suoni
una strumentazione ricca (archi, fiati, tastiere, chitarre, ritmica), insieme alle acrobazie vocali di Zaboitzeff, mette già in mostra lo stoffa del gruppo. Il brano “Cérémonie”, tratto da Les espaces inquiets (1983) esemplifica l’avvicinamento all’universo elettroacustico. Introdotto da suoni cupi a arcani, il pezzo sfocia in una tensione ritmica che poi si stempera nella quiete finale. Allo stesso anno risale L’étrangleur est derrière vous (1983), scritto per l’omonimo spettacolo teatrale, all’epoca pubblicato su cassetta. Firmata da Hourbette, la composizione è eseguita da Jean-Pierre Soarez (tromba), Thierry Willems (piano) e Thierry Zaboitzeff (basso e violoncello). Nello stesso anno il coreografo Roland Petit commissiona al gruppo la musica per il balletto Le mariage du ciel et de l’enfer, che viene rappresentato alla Scala di Milano. Lo spettacolo verrà poi replicato in alcuni teatri francesi. Questa esperienza segna l’ingresso del gruppo in una dimensione che trascende quella puramente musicale. Il nuovo orizzonte trova espressione compiuta in un proprio studio musicale che non si limita alla registrazione, ma include la creazione di spettacoli e la didattica. In pochi anni gli Art Zoyd acquisiscono un rilievo europeo che viene attestato dalla partecipazione alle manifestazioni più diverse: festival, iniziative organizzate da centri culturali, eventi di grande respiro come l’anno europeo della cultura (Copenaghen, 1996). La versatilità del gruppo si espande poi an-
che verso il cinema. Nosferatu (1988) è la prima colonna sonora che realizza per un film muto. Nel 1997, dopo la dipartita di Thierry Zaboitzeff, Hourbette e gli altri iniziano a collaborare con l’Orchestre Nationale de Lille. Il frutto è Dangereuses Visions, una creazione dove l’orchestra si fonde con un vasto apparato visivo. Nel frattempo prosegue il fruttuoso legame col cinema. Dopo le musiche per Faust (1993), il classico di Murnau, e per Häxan (1995), diretto da Benjamin Christensen, è la volta di Metropolis (2002). La musica composta per il classico di Fritz Lang è una suite in 33 movimenti dove il gruppo dà libero sfogo alla propria creatività, spingendola talvolta ai confini della cacofonia. Il secondo DVD include la registrazione integrale del concerto che si è tenuto il 19 settembre 2015 al Festival Rock in Opposition. La manifestazione, (ri)nata nel 2007 grazie a Michel Besset e a Roger Trigaux, si tiene ogni anno a Carmaux, una cittadina della Francia meridionale. Per l’occasione la formazione comprendeva 10 elementi vecchi e attuali, compreso lo storico Thierry Zaboitzeff. In questo modo il gruppo di Gerard Hourbette si è ricongiunto idealmente alle proprie origini, rivendicando la continuità fra lo spirito del Rock in Opposition e le creazioni più recenti della formazione transalpina. Questa è davvero musica europea, musica diversa, una delle esperienze più luminose e originali che il nostro continente abbia espresso nel ventesimo secolo.
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di Gianni Biagi A Gonfienti, un piccolo agglomerato urbano al confine fra i Comuni di Campi Bisenzio e Prato, nel 1996 durante le opere di sistemazione di una parte del costruendo Interporto avviene il ritrovamento di resti di un insediamento etrusco. Gli scavi portano a scoprire la più grande “domus arcaica etrusca” mai rinvenuta in Italia. Dopo i primi momenti di eccitazione, e di polemiche per alcune autorizzazioni della Soprintendenza archeologica per consentire di proseguire i lavori dell’Interporto, la città di Gonfienti ritorna nell’oblio nella quale le vicende idrogeologiche e le conseguenti modificazioni morfologiche della valle del Marina e del Bisenzio l’avevano relegata per oltre 2500 anni. Ad oggi tutto tace dalla sponda dell’archeologia “ufficiale” che, quasi controvoglia, ha dovuto prendere atto di una scoperta che riportava sulla scena della storia una parte del territorio della piana fiorentino-pratese che lo sviluppo urbanistico aveva destinato ad altri scopi. Ma che nell’area fra Campi Bisenzio, Calenzano e Prato fosse probabile, anzi possibile, una presenza etrusca di importanza strategica per la comprensione di questo popolo di quasi certe origini medio-orientali (ma che per anni l’archeologia ufficiale ha definito autoctono) era facilmente desumibile dalla storia dei ritrovamenti di oggetti etruschi nell’area. Il British Musem di Londra ha fra le sue opere la statuetta detta “L’Offerente”, ritrovata nel 1735 a Pizzidimonte a pochi chilometri da Gonfienti, e eruditi locali già nel XVIII secolo descrissero bronzetti a figura umana e vari manufatti ritrovati casualmente nei dintorni di Prato, in particolare lunga la via Fiorentina. La questione della città etrusca di Gonfienti meritava quindi di essere riportata alla ribalta della discussione pubblica e delle cose da fare. Con questo intento l’Associazione “Ilva-Isola d’Elba- La via Etrusca del Ferro” e il Teatro La Baracca hanno organizzato a metà del mese di dicembre 2017 un pomeriggio di studio e di discussione sul tema con la presenza dell’archeologo Michelangelo Zecchini, dell’architetto Mario Preti, introdotti dal presidente dell’Associazione Ilva prof. Carlo Alberto Garzonio e coordinati dal prof. Giuseppe Alberto Centauro, entrambi dell’Università di Firenze. Ha fatto gli onori di casa Maila Ermini del Teatro La Baracca. Cultura Commestibile ha offerto le proprie pagine, a partire dai prossimi numeri della rivista, agli studiosi e esperti che illustreranno quanto è stato scoperto e quanto ancora, a loro giudizio, resta da fare, sia nel campo del-
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Alla scoperta di Gonfienti
la ricerca sia nel campo della tutela, per restituire alla fruizione pubblica un patrimonio archeologico unico nel panorama nazionale costituito non solo dai ritrovamenti di Gonfienti ma anche dallo straordinario sistema di insediamenti contermini che vanno dalla città etrusca di Fiesole ad Artimino passando per le tombe della Montagnola e della Mula, solo per citare monumenti certamente noti a tutti.
di Paolo Marini Si parla tanto delle opere pittoriche di Pablo Picasso, raramente di ciò che ha lasciato scritto. Eppure il contenuto degli “Scritti” merita attenzione: vi spicca la poetica (intesa quale statuto prescelto per l’arte), in coerenza con il suo modo d’essere e di esprimersi: immediato, categorico, a volte sconcertante. Ne riporto, per brevità, poche affermazioni ma di peso: 1) “Quando io dipingo, il mio scopo è di mostrare quel che ho trovato e non quello che sto cercando”. Al tempo, egli se la prendeva con l’idea del cercare, che a suo dire aveva portato una parte dei pittori nel mondo (a lui alieno) delle astrazioni. Infatti “l’oggettività del reale rappresenta per Picasso un centro di gravitazione verso cui muovono irresistibilmente tutte le sue immagini” (De Micheli). Tradotta nell’oggi la frase sarebbe un salutare vaffanculo alla modaiola narrazione del ‘percorso’ e della ‘ricerca’, quella in cui e per cui il risultato è che non c’è mai un risultato, ancorché provvisorio. L’assurgere dell’in fieri a categoria sempre richiamata offre d’altronde un alibi a tutti coloro che non vogliono fare i conti con la realtà e, in particolare, con sé stessi. La poetica di Pablo è allora un contraltare a questa cautela e prepara il terreno ad un’arte che vuol essere giustappunto nuda e compiuta realtà. Senza nulla togliere al lavorìo, al carattere diremmo ‘processuale’ della creazione artistica: “Un quadro non è mai pensato e deciso anticipatamente, mentre vien composto segue il mutamento del pensiero” e “l’opera compiuta è il risultato di una serie di scoperte via via eliminate”. 2) “L’arte astratta non esiste” perché “si deve sempre partire da qualcosa” (a conferma del suo ‘realismo’) e “ogni cosa ci appare sotto forma di figura. Persino nella metafisica le idee si esprimono attraverso figure”. Mi viene il dubbio che ‘segno’ sia termine qui più adatto di ‘figura’ ma soprattutto sono incantato dall’idea che milioni di ricerche, libri, critiche e discussioni sulla distinzione tra arte figurativa e non figurativa possano rivelarsi, improvvisamente, inutili. L’arte è forme e colori, è una “bugia che ci fa realizzare la verità”, esprime un fuoco interiore, è il prodotto degli “stati di pienezza e restituzione” che percorrono l’artista: tutto qui. Per quanto non indiscutibili, certi concetti hanno radici profonde e sono indizi (gravi, precisi e concordanti) di un uomo che non ha alcuna inclinazione a ‘fare il verso all’artista’ indugiando in amene considerazioni. 3) “La mia adesione al partito comunista è la conseguenza logica di tutta la mia vita, di tutta la mia opera. Perché, sono fiero di dirlo, non ho
Pablo Picasso: “Donna seduta in camicia”, 1923 - Dalla Mostra “Picasso tra Cubismo e Classicismo:1915-1925” - Scuderie del Quirinale, Roma, fino al 28 gennaio 2018
mai considerato la pittura come un’arte di puro piacere, di distrazione. (…). Sì, io ho coscienza d’aver sempre lottato, con la mia pittura, da vero rivoluzionario”. Nel ‘44 Picasso scriveva questa dichiarazione programmatica, di un ‘programma’ politico, ideale, che assurgeva a fattore d’ispirazione artistica. Si era dunque di fronte ad un’arte che si inchinava alla politica, ad una ideologia? Ed era, questo programma, un involontario de profundis dell’arte, che dovrebbe essere sempre ‘fine a sé stessa’? No, questo proprio non si può affermare di Picasso, neppure se si prende la sola “Guernica”, che forse è la sua opera più ‘politica’ (“un deliberato appello al popolo”, l’aveva definita). Bisogna rispondere che l’arte fine a sé stessa non è qualcosa di scisso dall’uomo ma è sua costante espressione; dell’uomo tutto, s’intende, di un’anima in cui/da cui è impossibile separare/espungere qualcosa. ‘Arte fine a sé stessa’ non significa arte senza movente, bensì che non tollera movente che non si leghi intimamente all’impulso creativo. E’ questa, allora, la differenza tra idea e ideologia? L’idea è ispirazione e si compenetra nell’atto creativo, è ‘calda’ del suo stesso sviluppo; l’ideologia, no, è una pretesa ‘esterna’, è pregiudiziale, predispone ‘a freddo’ quell’atto, gli sottrae quanto ha di creativo, ne diventa la guida - incompatibile con la sua essenziale libertà. Data per buona la concezione di arte come techné e al contempo come idea/poesia (D’Angelo, che peraltro cita Schelling), l’ideologia soggioga la techné ed espunge la poesia, mentre l’idea creativa è la poesia stessa che associa la techné per realizzarsi, cioè diventare ‘res’. L’arte di Picasso pare ‘soggiogata’ da nient’altro che Picasso e dal suo “potente sigillo formale” (De Micheli). 4) “la pittura non è fatta per decorare appartamenti”: ammonizione profetica, che sedicenti artisti e collezionisti sono invitati a memorizzare come se fosse la posologia d’un bugiardino. Ciascuno ne faccia, ovviamente, l’uso che vuole.
La pittura non è fatta per decorare appartamenti
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di Elisa Zuri Una risata terrificante che irrompe nella quiete, personaggi che incombono come ombre gigantesche, la sensazione di essere burattini manipolati e che alle feste non siamo invitati. Ad ognuno i suoi natali. Quelli di Biancaneve, a pensarci, non sono stati felici. Eppure che gran riscatto! Il 16 dicembre il Funaro Centro Culturale ha chiuso un 2017 importante, in cui Pistoia è stata Capitale Italiana della Cultura, con Biancaneve, capolavoro e manifesto poetico del Teatro del Carretto, in scena dal 1983. L’adattamento e la regia di Maria Grazia Cipriani e le scene di Graziano Gregori hanno reso la fiaba tedesca dei Fratelli Grimm, portata dalla tradizione orale alla scrittura nel lontano 1812, un’occasione di riflessione attualissima sulla crescita, le dinamiche familiari, l’incontro con il diverso, la gestione della paura. Fin dai primi instanti a colpire è il tempo, una dimensione di racconto lenta, totalmente altra rispetto alla frenesia in cui il pubblico era immerso fuori, nei giorni precedenti al Natale. Una lentezza strana, a cui ci sono voluti dei minuti ad abituarsi. Ha richiesto attenzione, un respiro diverso, ha creato disorientamento ed è stato in questa piccola vertigine di vuoto che i grandi interpreti Elena Nenè Barilli, Giacomo Vezzani, Giacomo Pecchia e Jonathan Bertolai ci hanno catturato e portato dentro. Davanti allo spettatore c’è un grande armadio di legno con piccole finestre ed ante che si aprono per far entrare o uscire maschere, burattini, personaggi in carne ed ossa accompagnati dalle arie di Puccini. L’imponente struttura di legno è ora il palazzo della matrigna da cui Biancaneve viene cacciata, ora il bosco, ma anche la casetta dei nani, la miniera e infine il castello in cui Biancaneve vivrà felice e contenta per tutta la vita col principe. A suggerire che il percorso di crescita è un luogo intimo, interiore, in cui gli incontri sono occasioni di evoluzione. I personaggi sono dotati di maschere - il che ci permette di entrare immediatamente in una dimensione simbolica - e hanno diverse dimensioni che impressionano lo spettatore: Biancaneve in carne ed ossa ci porta dentro la struttura scenica, i nani entrano a dimensione naturale dalla porta di legno e si trasformano in piccolissimi burattini, la regina ne esce più volte, enorme e con la maschera ambigua e terribile del potere. Tutto nella cornice della scenografia si tra-
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Biancaneve, o della meraviglia sforma in simbolo. I colpi di scena strappano risate e piccoli urli di paura. Il pubblico è pervaso di meraviglia e colpito dall’imprevedibilità delle azioni sceniche, nonostante la fiaba sia tra le più conosciute. Un piccolo miracolo teatrale. I nani intimano a Biancaneve di proteggersi, di non far entrare nessuno. Cosa accade quando si apre la porta? Il pericolo incombe, ma anche la costruzione della vita, le relazioni giocose, che aiutano a sanare e a crescere. C’è la possibilità di imbattersi nei fantasmi che ci riportano indietro in stato di sofferenza, oppure si può essere accolti, incontrare un principe, o tutte le cose insieme. E mentre i burattini danzanti festeggiano le nozze di Biancaneve e girano vorticosamente come dervisci in preda ad estasi, fino a sbattere
contro le pareti ed accasciarsi, la voce narrante annuncia la sconfitta della matrigna: per lei calzari di ferro rovente e dovette ballare. Ho pensato a Rilke: “Ogni spazio felice è figlio o discende da separazione”. Che bisogna passare per il dolore e la perdita per poter creare nuove forme. Che stare fermi a volte è la minaccia più grande. Che la crisi e il diverso sono sempre opportunità. Esco dal Funaro pensando che il teatro, quando funziona, dona nuovi occhi, restituisce un cuore alleggerito, esorcizza la paura. Il Funaro chiude la programmazione con un capolavoro e riapre la stagione a febbraio 2018 con Il caso Malaussène di e con Daniel Pennac. Non vediamo l’ora.
di Claudio Cosma Le passeggiate di crinale sono le migliori per mantenersi in quota e godere di due paesaggi contemporaneamente. Inoltre in questa situazione si rimane in un limbo sospeso tra il visibile e l’invisibile: i piedi sono sulla terra, la testa è nel cielo e mentre i passi si susseguono portandoci dove desi-
mette in contatto nature diverse. Il privilegio di essere artista rimanda al privilegio di non esserlo e alla libertà di giudizio che ti permette di rimanere in quota e di attribuire un valore simbolico a quello che stai osservando e alla somma dei pensieri che ne ha permesso la sua realizzazione. Non
sospesi e in movimento, il movimento si realizza in esterno grazie al vento e in interno per via di certi motorini presi da dei giocattoli che vengono applicati alla sommità del filo che li sostiene. Rovesciando i pendoli li si condanna all’immobilità, ma li si liberano dall’impossibilità, o quasi, del
I pendoli rovesciati deriamo giungere, i pensieri sono partecipi delle nuvole in perpetuo e impetuoso movimento, ma anche della nebbia la cui coltre non è mossa dal vento. Similmente quando guardo un lavoro d’arte rimango sospeso fra la parte reale e materiale della quale è composto e dalla parte immateriale e invisibile della quale pure è composto che consiste nel pensiero dell’artista che l’ha pensato. Questo pensiero parimenti si divide ancora in due parti, di nuovo una visibile ed una invisibile, c’è sempre un confine che
so come mai i pendoli rovesciati di Francesco Andrenelli mi hanno portato a tale precisazione che agisce da cappello alla loro presentazione. Andrenelli cammina nei boschi intorno al suo studio, riflette e scorge nei legni caduti, mai da lui tagliati, le forme che vuole realizzare, unendo così una parte reale ed una invisibile, ma contenuta sia nella sua testa, sia nella natura che non mostra quello che può contenere. Questi lavori di essenze di legni diversi sono nati come variante ai suoi pendoli
movimento perpetuo. In fin dei conti una volta placato il vento o esaurita la forza della spinta impressagli, i pendoli tornano in stato di quiete, cosa alla quale tutti ambiamo, le forze inerziali si oppongono sempre al cambiamento di velocità o di stasi. Finalmente liberi di essere delle sculture, sono dotati di piccole basi, sempre facenti parte del singolo pezzo di legno, si beano del loro essere torniti e di non avere un davanti o un didietro e raggiungere la perfezione della circolarità.
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di Mariangela Arnavas Comincia bene “Napoli Velata”, l’ultimo film di Ferzan Ozpetek in distribuzione nelle sale, che ha peraltro superato al box office Star Wars durante le feste di Natale; comincia con la “figliata” dei femminielli, rito popolare napoletano rappresentato in un salotto borghese dove i protagonisti Adriana, Giovanna Mezzogiorno e Andrea, Alessandro Borghi, si incontrano nello sguardo per poi trascorrere una notte d’amore, che scorre in una sequenza erotica ad alta intensità dove, come dice Carola Proto, la protagonista “si libera del senso del dovere e della propria rigidità e si apre alla passione, all’istinto, al bisogno di sentirsi sensuale“ così che allora, all’improvviso, tutti la notano e la guardano e la desiderano e colgono il suo lasciarsi andare. Poi ci saranno tre omicidi, molto mistero e altri riti popolari come la “tombola vaiassa“ e salotti ridondanti di barocco napoletano e scenari come la scala liberty del Palazzo Mannaiuolo; nel frattempo il film tenterà di prendere la strada del noir, che però pur nell’apprezzabile eclettismo stilistico di Ozpetek sembra essere la chiave meno felice; in primis, la professione della protagonista, anatomopatologa come tanti personaggi di serie tv famose, che fa dire ad una psicologa napoletana su Repubblica: “regalerei un corno potente (alla protagonista), per evitare che si imbatta di nuovo, casualmente, in un altro amante sul tavolo dell’autopsia”; poi la raffigurazione dei poliziotti, purtroppo non in chiave ironica: una commissaria donna e un ispettore che fin da subito comincia, invece di seguire le varie piste, a tampinare Adriana di cui si
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è innamorato, convenendo poi con la collega sua superiore che, una volta appurato che la vittima svolgeva traffico illecito di reperti archeologici, si era meritato di morire ammazzato e tanto poteva bastare, inutile sprecare altre energie per le indagini. È invece interessante e intrigante il progressivo dis velamento dei misteri: l’uccisione del padre di Adriana, un omicidio sul pianerottolo come in un giallo italiano vecchio stile, e il ruolo della zia, un’inquietante Anna Bonaiuti, sempre circondata da oggetti d’arte di incerta provenienza; la dubbia esistenza del gemello di Andrea, quasi sempre racchiuso tra le mura della casa di Adriana; l’ antica maschera rubata e le ladre amanti, il tutto immerso in unaquotidianità in cui non esistono l’ordinario e il banale. Ma quel che riesce veramente bene a Ozpetek è la reinterpretazione della teatralità, a partire da quel velo che sta nel titolo e che è un noto espediente teatrale, usato da Strehler nella regia di Re Lear negli anni ‘80, scolpito artisticamente da Giuseppe Sanmartino (1753) nella statua del Cristo Velato, opera centrale nel film; ed è felice anche il consueto gruppo di scena, come sempre eterogeneo, che segue e commenta le vicende della protagonista: la zia, Anna Bonaiuti appunto, le amiche in ruoli ambigui, tra cui Elena Sastri e Isabella Ferrari e l’amico/ vittima Pasquale, un ottimo Beppe Barra; si muovono nella vicenda, in una certa misura, concorrendo attivamen-
te al mistero ma soprattutto come il coro nelle tragedie e commedie greche, commentando e dialogando costantemente, pur senza omogeneità, con la protagonista; del resto, nella casa di Adriana, teatro delle sue vicende amorose, reali o sognate, la camera da letto, non a caso, si apre e si chiude con delle quinte che girano su se stesse. Il film, come Napoli, sa essere spettacolo, con la capacità di entrare nelle contraddizioni eterne della città: l’estrema raffinatezza culturale e la ridondanza piena di fascino delle sue tradizioni popolari, la malinconia struggente e un po’ ostentata delle sue canzoni, perfetta per l’ambientazione nella colonna sonora “Vasame” cantata da Arisa, la grande vitalità e generosità, insieme alla violenza sempre latente e all’onnipresente ossessione della morte. È vero che si pere ogni tanto il filo emotivo della narrazione; ci sono vuoti e incertezze; forse sono un po’ troppi gli strati del feuilleton, i traumi infantili, la perdita dei genitori, la colpa, il tradimento, il doppio, la maschera, l’ossessione dello sguardo e quindi degli occhi che non possono vedere (i ciechi turisti a Napoli, il cadavere di Andrea), occhi come oggetto/feticcio e come dono. Comunque, dopo il flop di Rosso Istambul, pur con limiti riconoscibili, questo è un film che vale la pena vedere, fosse solo per immergersi per un po’ di tempo nelle atmosfere dei sogni e dei riti di questa Napoli intrigante e piena di misteri non solo esoterici.
Napoli svelata
di Andrea Ponsi Entrare
L’entrata più spettacolare a San Francisco è certamente all’uscita dal tunnel che poco dopo Sausalito si apre sul Golden Gate Bridge e la città. Dopo un miglio di oscurità scavata dentro la montagna, un semicerchio di luce inquadra perfettamente i due piloni del gran ponte. Poi la visione si svela in tutta la sua magnificenza e San Francisco appare splendente sulla baia. Passata un’ampia curva in discesa, la strada entra nel ponte. E mentre si penetrano in velocità i portali rossi ritagliati nei piloni, a sinistra, oltre i cavi d’acciaio appesi al cielo, scorrono da un lato Alcatraz, Angel Island e le colline dell’East Bay, sull’altro lato la distesa dell’ oceano.
Mappe di percezione
Oriente-occidente
Il Golden Gate bridge è un ideogramma giapponese, un rosso portale shintoista in mezzo all’acqua. In modo analogo ai portali che in Giappone si volgono ad oriente, qui il ponte guarda a occidente. Ossimoro geografico: qui guardando a occidente si va incontro all’Oriente. Là, rivolgendosi a oriente si trova l’Occidente. Vorrei
Vorrei non parlare delle migliaia di uomini e donne che si sono uccisi gettandosi dal Golden Gate Bridge. Preferirei non pensare a quell’automobile che poco fa ho visto ferma sulla carreggiata, mentre le altre scorrevano lentamente ai suoi lati; da quell’automobile forse è sceso qualcuno e si è gettato oltre la balaustra. Vorrei non spiegare che qui si suicidano almeno trenta persone ogni anno, tre persone ogni mese, forse una oggi, quella che è uscita dalla macchina ferma, poco fa, sulla carreggiata. Vorrei che ciò non fosse vero, che fosse solo una storia inventata, esagerata, un orribile scherzo.
Fort Mason
I piers di Fort Mason si allungano nella baia come le dita di una mano. Da qui partivano i soldati per andare a combattere nel Pacifico negli anni ‘40. I piers di Fort Mason fluttuano nell’acqua come navi da guerra pronte a salpare per spedizioni av-
venturose, per guerre inutili, per destinazioni sconosciute. Fortunatamente non lo fanno. Non ci sono più soldati e capitani nelle loro cabine, né bombe e munizioni nei magazzini. Ci sono invece ristoranti biologici, studi di artisti, gallerie d’ arte, scuole di danza e di tai chi.
L’erba dei prati
L’erba dei prati di San Francisco non è verde, è verdissima. Sembra sempre tagliata di fresco. Non è nemmeno verdissima; è talmente brillante, che è quasi gialla, un giallo trasparente, come se il sole la penetrasse per farla risplendere come una superficie rifrangente. E’ l’erba che è verde o è la luce che è nitida? Talmente nitida da far credere che non ci sia l’aria, l’atmosfera, ad attutirne la forza. O è il cielo così azzurro che fa sembrare tutto più vivido, l’erba più verde, le case più bianche, il sole più giallo?
San Francisco 15 13 GENNAIO 2018
di M. Cristina François Riprendo in questo n.245 la serie de “i mai visti” a piano terra del complesso di S. Felicita. Tratterò del patrimonio lapideo sconosciuto e in parte non ufficialmente inventariato, per cui citerò per le opere non ancora catalogate il numero dell’Inventario da me redatto. Farò riferimento alla piantina già pubblicata nel precedente n.244 seguendo topograficamente le lettere segnate dalla “A” alla “H” con, in aggiunta, un “mai visto” dissimulato dietro uno sportello nell’angolo sud-est della Cappella Capponi. In una foto del 1936 si può vedere la vasca in pietra serena “A” montata su gradoni polilobati, che fu posta al centro del primo Chiostro (XVI-XVII secolo) in sostituzione del pozzo medievale. Come ricorda Eleonora F., che vive in canonica dal 1951, la vasca venne smontata ancor prima dell’alluvione e accantonata in un angolo del Chiostro dove sostò finché le fu data una sistemazione provvisoria a Castello. Dall’immagine risulta che il Chiostro presentava una cornice marcapiano in pietra serena “B” decorata a dentelli, la quale rilevava i finestroni dei quattro vestiboli superiori; inoltre, anche la corsa degli archi sui capitelli era sottolineata da cornici a tutto sesto; le banchine in pietra serena erano rifinite da una leggera gola funzionale e decorativa. Ai nostri giorni tutto questo è scomparso in un appiattimento generale dei moduli perimetrali e di superficie. Nel ripostiglio ricavato all’angolo nord-est del Chiostro (oggi denominato locale dell’ex-caldaia) sono ancora visibili due pilastri esagoni gotici [Inv.9095-96] con relativi capitelli “C” riconducibili al 1340 ca. Nel punto segnato “D” stava il busto del Priore Giuseppe Balocchi (n.1769-m.1844) oggi disperso, ma documentato nell’ASPSF come “marmo del Duprè”. Si legge a p.458 (Ms.730) che il corpo del Sacerdote Balocchi è sepolto sotto il pavimento “dell’andito di capitolo presso lo stanzino dove si confessano i sordi, ed’ ove attualmente [1868] leggesi in piccolo cartello di marmo il di lui nome. Alla parete in un ovale nel muro vedesi il di lui busto che al dire di coloro che lo conobbero è somigliantissimo; […] presso la porta di sagrestia fu posta la seguente iscrizione in marmo” [segue nel Ms. la trascrizione della lapide “E”, ora verosimilmente depositata, insieme ad altre di sacerdoti di questa Chiesa, nel sottoscala
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I mai visti di S.Felicita dell’‘Organo Contini’ o nell’intra muros che conduce al campanile]. Il Priore Balocchi morì di “colpo apoplettico” durante la celebrazione della Messa per l’Immacolata e per questo fu sepolto con i parati liturgici di quella festa, il volto girato verso la sua Chiesa; ebbe esequie “more nobilium”; sotto il Governo napoleonico fu Parroco di S.Giorgio alla Costa e nel 1814 divenne Priore di S.Felicita; il 20 luglio 1824, dietro sua richiesta, gli “fu spedito da Roma […] il Decreto Pontificio del S.Padre Leone XIII” [p.438] che distinse una volta per tutte i due culti - da sempre confusi - di S.Felicita e dei SS.Fratelli Maccabei; uomo di grande cultura, pubblicò nel 1828 la prima opera completa sulla Chiesa e l’ex-Monastero. Nel transetto destro dalla parte della Sagrestia erano affisse - come ho detto - le lapidi di Parroci e Curati [da inventariare] e sopra l’ingresso “F”
fu collocato il busto di un altro Sacerdote che molto operò per S. Felicita: Mons. Niccolò del Meglio. Fu qui Curato e poi Parroco dal 1849 per 41 anni; rinnovò la Canonica; fu grande studioso, eclettico e collezionista; nel 1887 inaugurò una Biblioteca di libri rari al primo piano, in un ambiente dove ancora oggi si legge al di sopra della porta di accesso [Inv.9083] il cartello in legno che la designa BIBLIOTECA [Inv.9071]. Di lui, oltre le trasformazioni strutturali della Canonica, restano soltanto: l’Inventario dei suoi libri da lui stesso redatto nel 1888 [Ms.731]; le librerie originali ancora conservate nel loro ambiente; una parte delle sue collezioni di monete e le sue carte geografiche; nonché la panca a muro per l’attesa davanti alla Biblioteca [n.9084]. Tutto il resto, con il passar del tempo, è andato disperso. Nel 1889 gli fu dedicato, per i tanti suoi meriti verso questa Chiesa, l’altare di Sagrestia in pietra serena su cui si legge inciso a caratteri d’oro: “IN MEMORIAM NICOLAI DEL MEGLIO CURIONIS OPTIME MERITI A. MDCCCLXXXIX”. Nella corte che in passato era occupata dal porticato della “Schola de’ Cherici di S.Felicita”, detta “corticina de’ preti”, si vede una vasca seicentesca “H” in pietra nera del Belgio [Inv.9053] proveniente dalla Chiesa di S.Jacopo sopr’Arno; sono pure visibili tre colonne protoromaniche [Inv.9037-38-39] con fusto in rocchi di marmo serpentino di Prato e altre due colonne in pietra serena [Inv.9040-41], con capitelli stile rinascimento, rifatte e sistemate in situ dal Priore Santi Assettati nel 1624-25. Alcune di queste emergenze sono oggi reperibili all’interno del sovrastante quartiere mezzanino (cfr. “Cultura Commestibile”, n.226, p.13). Infine si segnala una parasta in pietra serena del Brunelleschi (1420 ca.) inglobata nella Cappella Capponi e nascosta da uno sportello ligneo [Inv.9026]; la parte terminale della parasta [Inv.9005] - piatto con rosone e trabeazione (cfr. idem, n.224, p.13) - è apprezzabile nel piccolo coretto a destra sopra la porta di fianco.
di Michele Morrocchi La tragicità dello stalinismo è stata affrontata in saggi, romanzi, film. La durezza di quel regime, la ferocia di milioni di morti, imprigionati, le libertà soffocate, il terrore, il tradimento dell’ideale di eguaglianza, hanno attraversato generazioni di intellettuali. Eppure forse mai lo stalinismo è stato affrontato nel suo lato grottesco, nella sua farsa terribile. Troppi i morti, troppa la tragicità di intere popolazioni fatte morire di fame nelle carestie programmate per imporre il socialismo delle terre. Ci prova riuscendoci, Armando Iannucci, cineasta scozzese (a dispetto del nome) che mette in scena una commedia brillante, “Morto Stalin se ne fa un altro”, sulle ultime ore del dittatore sovietico e sulla successiva lotta per la successione. Iannucci condensa molti fatti veri, seppur possano apparire completamente inverosimili, avvenuti sotto l’ombra del giorgiano, nello spazio dei giorni che vanno dalla morte al funerale di Stalin facendone un’iperbole che falsa un po’ la narrazione storica ma contribuisce a creare un effetto comico davvero eccellente. Così come eccellente è il cast, con una serie di attori
Segnali di fumo di Remo Fattorini Il 4 marzo non voterò nessuno che promette meno tasse, meno immigrati, meno debito. E spiego il perché. Ho trascorso il natale insieme ad una signora non più autosufficiente, invalida e allettata da tre anni. Ha bisogno di un’assistenza continua, h24. Unica soluzione: la badante. Ma bisogna fare bene i conti. serve un contratto di lavoro con tanto di buste paga, contributi, tredicesima, ferie, festività, giorni e ore di riposo e i soldi per il Tfr. Costo, oltre 1.500 euro al mese. Questa signora vive con una pensione di poco più di 800 euro. Per fortuna può contare sull’aiuto della figlia, che, sempre per fortuna, ha un lavoro, con orari da rispettare, a cui deve sommare le tante adempienze per seguire la salute della mamma: il rapporto con medici e infermieri, le medicine e altri ausili da procurare, esami e visite di controllo da programmare, occuparsi delle forniture dai consumi alle bollette, alle pratiche del condominio fino a quelle dell’invalidità e dell’Inps. E soprattutto contribuire in maniera significativa
Il trapasso tutto da ridere di Stalin
in stato grazia, perfetti per il registro grottesco degli eventi: da Steve Buscemi nei panni (troppo magri rispetto all’originale) di Kruščëv o uno straordinario Simon Russel Beale in quelli (troppo grassi) di Lavrentij Berija. Un cast
decisamente affiatato e british supportato da dialoghi scritti magistralmente che sono essenziali per un film corale in cui l’azione è tutta al supporto della sceneggiatura e non viceversa. Siamo dunque di fronte a un piccolo film che però di questa dimensione trae vantaggio e si fa apprezzare per il suo essere molto divertente ma capace di farci riflettere sulle degenerazioni degli ideali, sulla tirannia e sulla sua riproducibilità, in questo il titolo italiano penalizzante rispetto all’originale (The Death of Stalin) ha almeno il merito, come ha notato in modo molto politically correct il regista nell’anteprima dello scorso martedì al cinema Stensen di Firenze, di farci riflettere sin da subito che quelle incredibili tragedie potrebbero anche ritornare se le dovessimo dimenticare.
alle spese. Praticamente un triplo impegno che gli toglie qualsiasi spazio. Tutto al netto di imprevisti, che invece sono sempre dietro l’angolo. Quanto tempo, quanti soldi e quanta fatica per assicurare un minimo di vita dignitosa a chi non è più autosufficiente. Un impegno che devi affrontare in solitaria, con le proprie forze, fra mille asperità. Perché accanto alle difficoltà economiche ci sono anche gli effetti della malattia: per chi non è più autosufficiente le giornate sono tutte uguali, si perde il controllo del tempo, dei giorni, dei mesi e delle stagioni. La vita trascorre tra il letto e la sedia a rotelle. Passando le settimane a guardare il soffitto, a vedere la tv senza seguirla, a parlare con chi non c’è, a litigare con i fantasmi del passato, a fare richieste assurde e improbabili. Stati d’animo che viene mitigato solo grazie alle cassettate di medicinali. Tanto che solo nei momenti migliori e quando il clima lo consente ci si può permettere un giro in carrozzina ai giardini. Tre anni passati tra il dolore, l’ospedale, il letto o con lo sguardo perso davanti alla tv, lasciano il segno. E pensare che la sua è sempre stata una vita dedicata agli altri: dall’ospitare gli sfollati durante l’ultima guerra ad abbandonare la scuola elementare per aiutare la famiglia nei lavori dei campi, ad aiutare il fratello vedovo con tre figli piccoli oltre alle non facili vicende della sua famiglia: la precoce scomparsa di un figlio e del marito. Ha sempre lavorato duro, sostenuto chi era in difficoltà, cresciuto figli e nipoti e oggi lo Stato gli riconosce una pensione misera, un po’
di reversibilità del marito e il contributo di invalidità. In tutto molto meno di ciò che gli serve. Ma a qualcuno deve essere sembrato persino troppo, e allora giù a fargli le bucce, tanto che l’Inps pretende anche dagli anziani invalidi al 100% l’invio annuale di una dichiarazione sul reddito percepito. Se sbagli l’Inps ti riduce d’ufficio il 50% della pensione. Ed è quello che è accaduto, così senza spiegazioni. Mentre le spese per sopravvivere restano quelle, mese dopo mese. A natale abbiamo preparato il pranzo, parlato del tempo, del passato, delle cose che si fanno quando siamo giovani e, soprattutto, della noia. Tuttavia non si lamenta: c’è sempre qualcuno che sta peggio e poi questa da tre anni è la sua vita. Una persona così sarebbe da premiare, da portare come esempio di virtù per il fatto di riuscire a gestire con poche risorse una vita complicata, fatta prima di privazioni, fatica, rinunce e poi segnata dalla malattia, dalla vecchiaia, dalla precarietà e dal senso di abbandono. Penso che le istituzioni dovrebbero preoccuparsi di questo, visto che l’Italia è uno dei paesi più vecchi al mondo, dove una famiglia su tre è composta da una sola persona e con il 23% della popolazione (in Toscana il 25%) con un’età superiore ai 65 anni. Che dignità di vita sappiamo offrirgli? Berlusconi gli ha promesso una pensione da mille euro al mese. Mentre gli altri si occupano di non si sa bene di che cosa. Per me la priorità è garantire più dignità a chi ha più bisogno. Almeno fino a quando invecchiare bene resterà un lusso che solo in pochi si possono permettere.
17 13 GENNAIO 2018
di Anna Lanzetta Più passano gli anni, più il presepe diventa importante per me, in attesa del Natale e poi dell’Epifania. È il simbolo di una realtà passata, un susseguirsi di ricordi che il tempo rinvigorisce. Ero piccola, ma ricordo con nostalgia l’affanno che spingeva ognuno di noi ad assolvere il compito che gli era stato assegnato. Poco spazio in camera, ma il presepe lo occupava quasi tutto. Fin dal mattino si iniziava a martellare e i rintocchi proseguivano fino all’ora di pranzo, una breve pausa e poi si ricominciava. “Sono pronte le casette?”. “Ho terminato le montagne”. Quest’anno le grotte si susseguono, ma quella riservata al Bambino è la più grande per fare posto alla Madonna, a San Giuseppe, al bue e all’asinello. “E gli zampognari?”. Chiedevo ansiosa! “Non ti preoccupare, ci sono!”. Esclamava a voce alta mio fratello, impegnato a completare la struttura. Le mie sorelle disponevano i personaggi: il vinaiuolo e il macellaio avevano il posto migliore e io gioivo perché erano i miei preferiti. L’aia era ricchissima e il piccolo ruscello ospitava lungo le sponde oche e anatre. I pastori pascolavano beati il gregge e guardavano meravigliati la stella splendente che gli indicava il cammino mentre lontano avanzavano sui cammelli i Magi, alla ricerca del Re dei Re. Questo era ed è il mio presepe, specchio del mio mondo passato, che con le sue luci multicolori mi strappa per ore al tempo quotidiano e in ogni simbolo mi incanta, mi stupisce, mi meraviglia, nell’infanzia ritrovata. Il presepe è gioia, è amore, è felicità per chi crede alla sua funzione di aggregare l’intera famiglia. È meraviglia per i bambini, è ricordo dolcissimo per chi è avanti con l’età e conosce l’importanza delle tradizioni. Il Natale è una trade union tra passato e presente, un ricordo e un racconto, la continuità di un sentimento di affetto verso chi non può più allietarlo, è una promessa mantenuta a continuare e a narrare, un invito per tutti a unirsi per sostenersi e per consolare, è un atto d’amore in cui i personaggi comunicano la vita di un tempo che nei valori non muta: nel bisogno di pace e di solidarietà, perché il mondo diventi migliore. Conosco tutti i personaggi che popolano il mio presepe e li custodisco con amore. Di mattina presto, appena mi alzo, accendo le luci e resto per un attimo abbagliata dal loro brillio che mi riporta un passato felice in cui si mescola la realtà del presente. Nel silenzio, che mi avvolge, ripercorro i momenti
18 13 GENNAIO 2018
Il presepe Un dolce ricordo più belli della mia infanzia, in cui quei personaggi mi hanno accompagnato. Sistemo un po’ d’erba fuori posto, con delicatezza, quasi una carezza come un tempo la mano
SCavez zacollo
disegno di Massimo Cavezzali
lieve di mia madre. Mi commuovo… le luci fanno scudo ai miei occhi lucidi e i ricordi mi assalgono. Controllo che tutto sia a posto, ogni elemento è una parte di me. Ora, di sera, lo guardiamo insieme seduti, in due. La mia mano cerca la sua e il suo tepore mi riscalda. Pensi che lo conserveranno? Non abbiamo una risposta ma nel nostro cuore speriamo che un giorno, i personaggi possano continuare a vivere e a raccontare la memoria di coloro che lo hanno amato. Mentre si consuma il lungo cenone, rigorosamente tradizionale, tra fritto, anguille, zeppole e baccalà, si fa una pausa e si scartano i regali, i più piccoli sono euforici. Arrivano amici ad assaggiare e a degustare prelibatezze e dolci. Ed ecco improvviso il suono che mi riporta all’infanzia. È quasi mezzanotte… mancano pochi minuti, l’emozione mi assale, gli occhi non reggono ma mi freno, forse, penso, non capirebbero, tutti sono impegnati in altro, piano mi alzo, quasi di soppiatto, le mani mi tremano, avverto nel cuore la gioia avvolgente del passato, lo cerco… trovo il bambino, era nascosto e come una volta, lo depongo nella mangiatoia. Una gioia improvvisa mi prende, nulla si è interrotto, la tradizione continua, sul mio volto vedo i tratti di mia madre che guida come un tempo la mia piccola mano verso la grotta dove campeggia il mio angioletto azzurro… i bambini gioiscono, tutti esultano ma io devo fare un grande sforzo per contenermi, l’emozione è forte e a stento trattengo le lacrime che ora, mentre racconto inondano il mio viso e le sento dolcissime.
di Roberto Barzanti È stato del tutto coerente con l’estetica del meraviglioso che guida la scelta dei siti Unesco da eleggere a patrimonio dell’umanità – e l’Italia ne annovera ben 53 ! – il programma orchestrato da Alberto Angela per Rai uno applicando con maestria le tecnologie permesse dal 4K HDR, che quadruplica la risoluzione dei tv Full HD, spingendola da 2 milioni e passa a 8 milioni di pixel. E permette animazione di dettagli, vivacizza i toni con colori saturi, perfeziona geometricamente le sagome degli edifici come fossero combinazioni Lego, trasforma monumenti in divertenti maquettes. Una miriade di soluzioni che, se usate in quantità eccessive, finiscono per frastornare e distrarre. Droni guidati abilmente producono spesso cartolinesche vedute: senza una smagliatura, senza una piega. Fin dalla prima delle quattro puntate – trasmessa il 4 gennaio – della serie Meraviglie-La penisola dei tesori sono apparsi chiari gli scopi di un’idea incentrata sull’esplorazione, da ottiche non comuni, di alcuni degli ambienti più celebri e celebrati della penisola. Niente da dire sulla resa pubblicitaria, né sul dosaggio geopolitico tra nord, centro e sud in cui ogni puntata si articola per prevenire irate proteste campanilistiche. Il successo di share (32,8%) è stato notevole, come da pronostici, con 5. 662.000 spettatori ammaliati da tante bellezze. I numeri non impediscono di interrogarsi su quanto oggi sia conoscitivamente proficuo un ripristino così invasivo e strabordante del meraviglioso. Affiora nella mente il netto imperativo del Marino: «E’del poeta il fin la meraviglia, / parlo dell’eccellente e non del goffo, / chi non sa far stupir vada alla striglia»? La compiaciuta esaltazione del mirabolante è lo strumento più adatto per incrementare un’avveduta cultura dei beni artistici? Il moto di meraviglia che lascia a bocca aperta non richiederebbe sobri e pausati commenti, anziché l’enfasi di prolisse spiegazioni che pretendono di spiegare tutto con erudito puntiglio? La prima puntata del programma del bravo Angela ha preso le mosse dalla Cena di Santa Maria delle Grazie. Non si capisce in quali aspetti sia stata resa più comprensibile dalla confessione autobiografica di Philippe Leroy, interprete nel 1971 del fortunato Leonardo televisivo di Renato Castellani. I media citano se stessi dal momento che la loro mitografia ha sostituito il reale con un’imprescindibile virtualità. Ed ecco poi planare l’attrezzatissima équipe in quel di Siena, una città intera elevata (con ottime ragioni) a patrimonio dell’umanità. C’è da esser grati a qualsiasi discorso che oggi illumini della città fattori originari e fondanti. La struttura urbana con i suoi
vorticosi avvolgimenti e l’intrico compatto delle lottizzazioni medievali hanno scoperchiato uno scheletro di un corpo che si immagina solo vagamente. La tecnologia è stata posta, in passaggi salienti, al servizio di una comprensione esatta. Per questa via si potrà fare molto, evitando le levigate inquadrature à la “National Geographic” e lasciando gli affreschi alle tinte mitigate dai secoli. La ricostruzione del rotante Mappamondo rotante che dava il nome alla sala principale del Palazzo Pubblico – secondo la dizione ormai obbligata – è stata un indimenticabile colpo a effetto. E bene ha fatto il conduttore ha iniziare la sua illustrazione dalla malconcia parete in cui Ambrogio Lorenzetti ha rappresentato il Malgoverno, con la Giustizia immobilizzata e prigioniera ed il saggio Comune trasformato in uno strabico e cornuto diavolaccio. Di fronte si distende il progetto ideale – non utopico – di una città operosa e retta con rigore, capace di dare sicurezza e nuovi diritti. La macchina del Duomo è stata anch’essa smontata come un modellino scenico. Non è ammissibile affermare che solo una delle 56 tarsie marmoree del pavimento reca la firma di un artista, il Pintoricchio, e che le altre sono opera di volenterosi artigiani. E Beccafumi? E Matteo di Giovanni? Della formula adottata non ha convinto soprattutto il taglio monumentalistico che la sottende e il deserto umano che circonda i manufatti. Le cose staccate dalla vita. L’arte sotto campana di vetro. Anche la Val d’Orcia è geometrizzata in partizioni coloratissime e irreali. Gianna Nannini ha dismesso la sua aria irriverente ed è stata costretta a recitare il ruolo di una sbiadita testimone, piena di elogi per l’intracontradismo – parola nuova, se ho ben inteso, da appuntare, boh! – imparato nella beata infanzia. Per non dire degli sketch oratoriali dedicati ad un improbabile Cecco Angiolieri, sorpreso a far schiamazzi e multato in un
infuocato Castelvecchio. Insomma all’impegnativa opera ha fatto difetto incisività e forza. In ciò ha tradotto fedelmente l’approccio inventariale degli elenchi consacrati dall’Unesco. Le prime tre tappe delle dodici in calendario si son chiuse con la Valle dei templi di Agrigento: esempio clamoroso di un’aggressione violenta, che non sì è peritata di circuire con brutale edilizia speculativa un insieme unico. Andrea Camilleri ha rammentato, commosso, da quante tormentate avventure sia stata attraversata la splendida valle. Soltanto la «figure larvali della memoria», per dirla col Carlo Emilio Gadda delle sue Meraviglie d’Italia, resuscitano l’incanto di paesaggi feriti, di misteriosi costruzioni, di palazzi incantati, di fieri e diroccati templi. E l’immagine più folgorante del dotto percorso è stata, forse, la famosissima (incidentale) foto di Robert Capa: con il contadino che indica perentorio la direzione da prendere al soldato delle truppe alleate: un angelo piovuto da lontano. Post scriptum La seconda puntata del decantato programma di Alberto Angela è stata dedicata alla Reggia di Caserta, alle Langhe, a Assisi ed è stata infarcita di alcuni brevi inserti per memoria (o pubblicità?). Tra i quali ha brillato quello sull’Abbazia di San Galgano, Comune di Chiusdino, presso Siena. Tanto per accrescerne l’effetto visivo è stata scelta quale colonna sonora d’accompagnamento l’aria del Trovatore verdiano «Di quella pira…». Forse per assonanza con la spada della roccia attribuita al santo, che figura nella prossima cappella di Montesiepi. La parte migliore è stata senz’altro quella su Assisi, anche se la colorazione accentuata degli affreschi della Basilica ha riprodotto i difetti delle prime Meraviglie. Abbondante il gossip: dagli amori semiclandestini di Vittorio Emanuele con la Bella Rosina al rapporto tra Ferdinando e Carolina in quel di Caserta, con indugianti inquadrature sulla vasca da bagno e sulla sontuosa camera matrimoniale. Il Castello di Grinzane ha avuto grande spazio e così un lungo disquisire sulla pregiata enologia dei dintorni. Non sono mancati all’appello i Bronzi di Riace (?) e il candido David di Michelangelo dell’Accademia. Non si capisce con quale logica. Monica Bellucci ha esaltato l’ispirazione ecologistica di San Francesco. Il labirinto della Masone costruito da Franco Maria Ricci a Fontanellato (Parma) ha impreziosito il viaggio. Alla seconda tappa sembra di intravedere una deriva da pot-pourri, che oscura la funzione didattico-informativa (a base di cifre snocciolate per destare stupore) apprezzabile in taluni passaggi.
Angela delle Meraviglie
19 13 GENNAIO 2018
di Gianni Bechelli “Ci sono più cose in terra e in cielo, Orazio, di quanto ne sogni la tua filosofia” sono le parole di Amleto all’amico dopo l’apparizione dell’ombra del padre ucciso. Ed è la sensazione che prende chiunque incominci ad interessarsi della scienza almeno negli ultimi cento anni durante i quali si è rivoluzionato tutto e non solo per la teoria della relatività di Einstein, che in parte ha prodotto degli effetti anche se molto parziali nella cultura comune e diffusa, teoria che nonostante abbia prodotto tutta la fase successiva, rischia di impallidire rispetto alle nuove scoperte cosmologiche e alla fisica quantistica. Una rivoluzione superiore a quella prodottasi dopo il medioevo in occidente e che pure ha cambiato il mondo. Le basi di quella scienza sono messe in discussione perché, se almeno continuano a dare spiegazione ad alcuni fenomeni tipo le orbite dei pianeti, poco ci spiegano dell’evoluzione e destino dell’universo, di uno spazio-tempo deformato dalla gravità, della nascita dal nulla di materia ed energia, del ruolo dell’osservatore nel determinare la realtà, ossia se le leggi fisiche conformate al meccanicismo, al rapporto di causa-effetto, agli effetti pratici dell’ottimismo della Ragione per cui tutto è conoscibile basta avere tutti i dati, che hanno fatto la scienza di Newton, e Galileo, se tutto questo mantiene un grande ruolo storico e in parte ancor oggi utile, è tuttavia sempre più marginale negli sviluppi della nuova fisica. Eppure queste novità straordinarie son poco produttrici di vere novità culturali e riflessioni filosofiche e di curiosità intellettuali diffuse. Un tempo era, per gran parte, la fisica a determinare i quadri concettuali in cui si muoveva la filosofia, e anche la stessa teologia .Certo è difficile spiegarla perché va per lo più contro quello che è senso comune, esperienza pratica. E solo raramente si tifa per il bosone di Higgs, senza sapere perché è tanto importante da chiamarsi particella di Dio, o si equipara massa ed energia come se fosse praticamente la stessa cosa, come in effetti è . Del resto si dice che chi prova a spiegare bene la fisica quantistica vuol dire che non l’ha capita. Questo è in fondo il paradosso. E tuttavia insieme alla difficoltà indubbia credo che ci sia un rifiuto più o meno consapevole perché sono davvero molte le certezze che si mettono in discussione, ideologiche, religiose e che sembrano dar ragione, al di là dell’interpretazioni più estreme, a forme di quello che
20 13 GENNAIO 2018
Amleto e la fisica Dispense di astrofisica 1
un tempo avremmo chiamato soggettivismo idealistico e proprio su basi scientifiche, fino anche a sfiorare la metafisica. Il tempo ci dirà quanta forzatura c’è, ma certo quasi tutto è in discussione. Vorrei accompagnare in futuro una serie di riflessioni su questi punti più da una logica d’interesse culturale che di teoremi scientifici precisi da spiegare, anzi chiedo venia agli scienziati veri di qualche inevitabile imprecisione e semplificazione. Quello che cerco è di attivare un interesse, così com’è successo a me che pure scienziato non sono, ho basi matematiche poco solide ma ho la curiosità che da una decina d’anni mi motiva a seguire, io che ho basi più letterarie e filosofiche, per quella che mi pare un’affascinante avventura della scienza in continua e veloce evoluzione. Qualcuno mi dice che cerco nella scienza attuale certezze di ciò che si è perduto prima colla religione e poi colla filosofia. Tutto
può essere ovviamente, ma dissento perché oggi la scienza apre incredibili nuovi scenari, scartabella l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo, ma non da vere certezze se non quella di essere all’inizio di un nuovo cammino senza più la solidità che ci ha dato la scienza precedente che sembrava vicino a farci comprendere quasi tutto. Ora sappiamo che c’è un mondo da scoprire ed interpretare, molte teorie nascono e molte decadranno, resta la novità assoluta della scoperta del ruolo centrale del pensiero nella formazione oggettiva della realtà. In una serie di articoli su questi argomenti proverò a raccontare i nuovi dilemmi della scienza a partire dalle mie conoscenze, parlando di big bang, del vuoto e del nulla, della possibilità degli infiniti universi, delle nuove dimensioni dello spazio-tempo e cosa cambiano e cambieranno nel nostro universo concettuale.
Il pupo di Sieni
di Simone Siliani Tre interpreti sul palcoscenico, che sono al contempo tre danzatori, tre pupi e pupari, tre individui avvinti l’uno sugli altri con i corpi e lo spirito, che rappresentano la favola drammatica eppure così commovente della vita. A conclusione del Festival La Democrazia del corpo 2017, a Cantieri Goldonetta a Firenze. Mimmo Cuticchio e Virgilio Sieni hanno presentato (28-30 dicembre 2017), Atlante_L’umano del gesto un dialogo scenico tra due maestri sulla relazione tra gesto e marionetta, tra l’arte della danza e l’Opera dei pupi. Lo spettacolo è stata una tappa di un ampio progetto triennale dal titolo “Palermo_Arte del gesto nel Mediterraneo_ Accademia sui linguaggi del corpo e l’opera dei pupi”. Cuticchio, Sieni-umano, il pupo-Sieni: mentre i tre interpreti di gesti intrecciano le loro esistenze in una danza delicata e vorticosa, si trasmettono vita, identità; trasfigurano l’uno negli altri. Chi è davvero il pupo mosso dai fili manovrati con sapienza dal Puparo Cuticchio? Il Sieni-umano e il pupo-Sieni si confondono, si trasmettono continuamente le loro identità. E’ il pupo-Sieni, con il più delicato e leggiadro gesto che abbia mai visto su un palcoscenico, che accompagna con il braccio e con la mano il rotolarsi di Sieni-umano? Ma non è, forse, in quel momento il pupo-Sieni l’essere umano sulla scena? E il Puparo non ha forse perso in quello stesso momento il suo
ruolo di Grande Architetto delle vite altrui, perché i due Sieni sono autonomi creatori di vita? Il Coreografo, veramente, di questo straordinaria opera d’arte, chi è? Sieni-umano sembra perdere questa sua identità, perché chi mena le danze (è il caso di dirlo), forse, è Cuticchio, egli stesso danzatore, leggero e potente. Il pupo-Sieni non è, infine, la marionetta guidata e manovrata da fili mossi dall’Alto: si riscatta, prende vita, si agita e danza di forza propria, solo per il contatto taumaturgico con Sieni-umano. Ma, in fondo, è questo il miracolo della vita. In ogni caso, è il risultato dell’incontro dei due mondi di Cuticchio e Sieni intorno al corpo, al gesto: molte volte, nel corso degli anni, abbiamo visto nella danza di Virgilio Sieni movimenti tipici dei pupi; così come, nelle mani di Cuticchio, i pupi danzano anche (forse soprattutto) quando combattono, si scontrano e fatalmente si toccano e si trasmettono vita e morte continuamente. L’incontro dei due, forse, è stato preparato inconsapevolmente dagli autonomi percorsi artistici che hanno compiuto. Così i gesti comuni, usuali di camminare (rannicchiandosi, aprendo le braccia, zoppicando, cadendo), sedersi, sfiorarsi, voltarsi, diventano una danza, talvolta leggera e in altri momenti vorticosa. Fragilità e trasfigurazione, dovessi scegliere, sono i poli di questo commovente spettacolo. Una fragilità di corpi, di materia, ma anche di spiriti e di
condizioni esistenziali. La trasfigurazione, la migrazione continua di esistenze individuali nei corpi e nelle paure dell’altro. Tutto è così umano, in fine soprattutto nella marionetta, il medium vitale fra i due artisti, che finalmente si incontrano, dopo anni di autonoma ricerca artistica, nella fragilità esistenziale di questo pezzo di legno, cosi ricolmo di vita. E’ anche questa una delle forme attraverso cui la tradizione, anche così antica come quella dei pupi siciliani (che nasce fra il ‘700 e l’800, ma si ritiene che se ne trovi traccia anche in Cervantes, che ha portato Carlo Magno dentro il Don Chisciotte), si rinnova facendosi attraversare dallo scorrere dei tempi e delle generazioni. La danza contemporanea di Virgilio Sieni ha trovato un canale segreto e insospettato di dialogo con questa tradizione. E ce lo testimoniano anche i video realizzati durante il lungo lavoro svolto a Palermo da febbraio-marzo a ottobre-dicembre 2017 nel progetto Palermo_Arte del gesto nel Mediterraneo: Sieni ha attraversato gli oratori e i luoghi più suggestivi della città (dal Kalsa all’oratorio San Mercurio, dai Cantieri Culturali Ziza alla chiesa di S.Giorgio dei Genovesi, fino agli oratori di Santa Cita e dei SS.Rosario in San Domenico) con azioni coreografiche, incontri con i cittadini, performance. Una immersione totale in un mondo e in un tempo solo apparentemente bloccati, ma in cui scorre una vita travolgente, sangue e sogno, senza soluzione di continuità.
21 13 GENNAIO 2018
di Aldo Frangioni Al civico 64 rosso di Borgo Ognissanti ha preso vita da qualche mese la nuova galleria d’arte Florence Art Gallery, affacciata su una delle piazze gioiello di Firenze, Piazza Ognissanti. Alle pareti i grandi Maestri del Novecento, da Campigli, Rosai, Soffici, Sironi, fino a Conti, Tirinnanzi, Possenti e Scatizzi; non mancano poi affermati artisti contemporanei tra cui, tanto per citarne alcuni, Marcello Scuffi, Luciano Pasquini, Claudio Cargiolli, Ugo Nespolo, Luigi Pellanda, Angelo Vadalà. Molto interessante anche la proposta di autori emergenti, dal già noto Claudio Cionini fino a Skim, Simone Malizia e lo scultore Vanni Cenerini. Tutte le opere sono impreziosite dalle cornici di Franco Ristori, realizzate rigorosamente a mano e simbolo del saper fare artigiano. Florence Art Gallery nasce dalla passione di Franco Ristori, rinomato artigiano fiorentino, e Roberto de Ruggiero, che già da qualche anno collaborava con Ristori presso la Bottega Artigiana di via Francesco Gianni, nata nel 1971 come laboratorio artigianale per la creazione di cornici e divenuta, nel corso degli anni, punto di riferimento e ritrovo per artisti, collezionisti d’arte ed esperti del settore, mossi dal desiderio di impreziosire i propri dipinti con un prodotto esclusivo, un pregiato vestito su misura. «Dagli anni Novanta - racconta Ristori - accanto all’attività artigianale, nella bottega si è affiancata l’offerta di opere scelte dei Maestri del ‘900 e di artisti contemporanei. Assieme a Roberto stavamo cercando da qualche tempo uno spazio internazionale ed è così che abbiamo deciso di investire nel centro della nostra città. Oltre ad un pubblico italiano ci aspettiamo di attrarre anche una clientela straniera: in questo modo intendiamo valorizzare le elevate potenzialità dei nostri artisti, troppe volte trascurate in favore di una dilagante esterofilia». In continuità con quanto portato avanti negli ultimi 5 anni nella Bottega Artigiana Ristori, Florence Art Gallery organizzerà periodicamente il noto “Tè da Ristori”, un ciclo di eventi che consiste in rassegne monografiche dedicate a specifici autori e che rappresenta una interessante occasione per creare uno scambio culturale con il pubblico e contaminazioni tra diversi artisti. Lo scorso 28 ottobre la stagione si è inaugurata con una personale dedicata a Luciano Pasquini dal titolo L’eterna bellezza; il 25
22 13 GENNAIO 2018
novembre è stato fatto omaggio all’opera di Antonio Possenti dal titolo In viaggio verso Itaca. In linea con la filosofia di questi eventi, le esposizioni hanno sempre la durata di una settimana: breve durata, ma alto contenuto qualitativo. La grande affluenza di visitatori, sia italiani sia stranieri, ha confer-
mato il successo di questo metodo espositivo. Florence Art Gallery continuerà anche nel 2018 ad organizzare periodici eventi di questo genere, già in programma per il prossimo 10 febbraio una mostra dal titolo La generazione del ’20 – Tirinnanzi-Scatizzi-Faraoni-Loffredo-Caponi.
Arte toscana del XX e XXI secolo
Rauch e i piccoli mostri di De Poli
Domenica 14 gennaio alle ore17 al Circolo La Montanina (via di Montebeni 5 - Montebeni ) Andrea Rauch parlerà di Fabio de Poli ad una mostra di sue illustrazioni inedite nell’ambito dell’iniziativa Arte Accatena. L’iniziativa è adatta anche ad un pubblico di bambine e bambini che potranno intervenire nell’allestimento della mostra a partire dalle ore 15 dello stesso 14 gennaio. Le illustrazioni in mostra sono infatti dedicate principalmente a loro.
di Valentino Moradei Gabbrielli I costi di gestione delle collezioni d’arte e monumenti a loro affidati, è stata da sempre la preoccupazione dei direttori dei musei pubblici. L’incasso derivante dai biglietti d’ingresso mai sufficienti. Le mostre temporanee sono state dagli stessi salutate come una boccata d’ossigeno perché attraverso il maggior introito rappresentato dal biglietto sensibilmente maggiorato, si arricchiva il budget del museo, oltre ad avvicinare una nuova utenza e sponsors che abbattevano i costi agguntivi e straordinari da sostenere per l’esposizione temporanea. Un passo successivo per salvare le piccole collezioni ed i monumenti minori, è stato quello di legarli a musei importanti o monumenti di “successo”. Questa filosofia consorziale, ha portato nel tempo a formare realtà molto ampie e importanti, come il complesso di “Piazza dei Miracoli” a Pisa, dove l’ingresso ai monumenti che la compongono (Duomo, Camposanto Monumentale, Museo delle Sinopie, Torre Pendente, Museo Diocesano) viene regolato da un biglietto cumulativo, o rimanendo a Firenze, il complesso dell’Opera del Duomo (Battistero di San Giovanni, Cupola del Brunelleschi, Museo dell’Opera, Area Archeologica e Campanile di Giotto).
L’Arte 3X2 Recentemente ho visitato un giardino monumentale all’interno del quale si custodiva la collezione d’arte del proprietario. Il giardino ospitava temporaneamente la mostra di uno scultore contemporaneo. Da tanta offerta, un luogo monumentale, una collezione d’arte, una esposizione temporanea d’arte contemporanea, ne derivava un prezzo del biglietto d’ingresso elevato. Ma se i singoli ingressi possono avere un prezzo
accessibile a molti, quando si sommano con gli altri, la cifra comincia ad essere impegnativa e il prezzo può diventare davvero troppo alto. Ecco che l’”offerta” diventa il vero ostacolo per l’impossibilità di frammentare la spesa. Le visite a luoghi come il Museo degli Uffizi, che ho visitato recentemente perché interessato alla mostra “Rinascimento giapponese”, sono venduti a pacchetto. Ed il pacchetto è chiuso. O tutto o niente!
Ponte di Babele Dona un libro, costruisci un ponte Sabato 13 gennaio alle ore 18alla Biblioteca delle Oblate, Sala conferenze si svolgerà una serata basata sullo scambio e la donazione di libri in lingua originale per la creazione di una Biblioteca multiculturale Abbattere muri e costruire ponti partendo dalla lingua. Nasce il Ponte di Babele, un ponte simbolico fatto di libri. Un pomeriggio ricco di eventi, si aprirà la raccolta di libri dedicati a questo nuovo scambio interculturale. Promosso dall’associazione stART_art projects in collaborazione con Singidunum Onlus, lo scambio è partito da uno dei luoghi più antichi dei Balcani, considerato da sempre fra le principali porte di ingresso fra Oriente e Occidente: la città di Niš, illustrazione di Marica Kicušic . Qui i cittadini hanno donato libri in serbo che presto saranno disponibili a tutti presso le Oblate. Ora, i fiorentini potranno partecipare all’evento donando volumi in lingua italiana che arriveranno alla cittadinanza serba presso la Biblioteca Nazionale Stevan Sremac e la Biblioteca Uni-
versitaria Nikola Tesla, che hanno raccolto i libri serbi insieme alla Biblioteca Nazionale di Belgrado. Tutti i testi sono ben accetti, che trattino di cucina o storia dell’arte, passando per la narrativa per adulti o per ragazzi. Il progetto sostenuto dall’Ambasciata della Repubblica di Serbia a Roma e del Consolato Onorario della Repubblica di Serbia a Firenze prevede oltre alle istituzioni menzionate, la partecipazione del presidente di Singidunum, associazione dei Serbi a Firenze, Srdjan Radivojevic del console onorario della Repubblica di Serbia a Firenze, Leandro Chiarelli. “Il nostro scopo – spiega Tijana Stankovic, presidente di stART_art projects – è creare uno spazio multilingue per compiere un primo passo verso la conoscenza reciproca e l’integrazione culturale tra paesi diversi che passa attraverso il linguaggio. Se questa prima tappa riguarda la Serbia, da cui provengo, contiamo di sviluppare presto il progetto coinvolgendo anche altri paesi”. Durante l’incontro saranno presentati due
libri per bambini: il libro di poesie Putovanje kroz srbiju (viaggio in Serbia) di Simeona Marinkovic con i disegni di Marica Kicušic, vincitrice del premio miglior illustratore alla fiera di Belgrado 2017, e i volumi Ajvar Ala Smazala di Gordana Simovic illustrato da Jelena Pesic, autrice di albi illustrati per Kreativni centar, BIGZ e altre case editrici. Alla presenza delle illustratrici entreremo tramite la lettura di brani scelti e le proiezioni di diversi disegni, nei paesaggi più belli della Serbia e scopriremo poi l’azbuka, l’alfabeto serbo. Il Ponte di Babele è una delle iniziative del progetto Ho in serbo una sorpresa per te che prevede laboratori multiculturali per conoscere le culture straniere che abitano il territorio toscano (verso diverso), un ciclo di mostre d’arte dedicato ai temi dell’infanzia e della multiculturalità (a doppio filo), un corso di lingua del paese d’origine (parlo la mia lingua). Se Babele esiste ancora oggi non è più una città ma un ponte che unisce le diverse culture.
23 13 GENNAIO 2018
1982 Carlo Cantini a New York di Carlo Cantini
Riproduzione del pannello in cima all’Empire State Building
24 13 GENNAIO 2018
Tre amici decisero di andare a New York non per fare un viaggio turistico come si usava abitualmente in quegli anni, ma per scoprire quello che accadeva in quella straordinaria città in relazione all’arte contemporanea di quegli anni ’80. I tre amici, un gallerista Silvano Menghelli, un fotografo Carlo Cantini e un pittore Fabio De Poli avevano un’idea in comune, l’interesse per l’arte. Cosa c’era d’interessante per intraprendere questo lungo viaggio? Nelle più importanti gallerie d’arte di New York presentavano artisti italiani. L’arte di quel momento era all’attenzione di tutto il mondo culturale, si trattava del movimento definito Transavanguardia. Quel viaggio fu documentato fotograficamente da Carlo Cantini, non solo andando a vedere le mostre in quelle Gallerie come Leo Castelli, Mary Bond e altre dove presentavano il lavoro quegli artisti italiani: Sandro Chia, Mimmo Paladino, Enzo Cucchi, Francesco Clemente e Nicola De Maria. Ma scoprendo una città che rappresentava l’arte in ogni sua strada. In questa carrellata di foto che mostrerò nella rivista Cultura Commestibile si ritroverà il viaggio di questi 3 amici che vissero quello straordinario momento nella grande mela con i segnali dell’arte negli anni