Cultura commestibile 246

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“Quindi, dobbiamo fare delle scelte: decidere se la nostra etnia, la nostra razza bianca, la nostra società deve continuare a esistere o la nostra società deve essere cancellata: è una scelta.” Attilio Fontana

Con la cultura non si mangia Giulio Tremonti (apocrifo)

(ancora) Maschietto Editore


NY City, 1969

La prima

immagine Central park, una domenica mattina. Il bel tempo e il desiderio di un po’ di relax mi hanno spinto tornare a far due passi in solitaria. Era presto e non c’erano quegli assembramenti di folla che si trovano abitualmente nei giorni del week-end. Atmosfera rilassata, anche il poliziotto non sembra un robo-cop e viaggia a bordo di una tranquillizzante “Vespa” che ho notato con un certo piacere patriottico. Erano quasi tutte persone over-fifty, molte di origine italiana, che sceglievano sempre la prima mattina o il tardo pomeriggio per la passeggiata al parco. Il sole era ancora sopportabile e non si aveva quella sensazione sgradevole di essere immersi in una specie di melassa!

dall’archivio di Maurizio Berlincioni


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20 gennaio 2018

Al Bano, il putiniano pugliese Le Sorelle Marx

Quando c’era lui I Cugini Engels

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Riunione di famiglia

In questo numero ITra architettura e ambiente storico di Alessandro Gioli

Il ridicolo simbolismo della Ruota delle meraviglie di Francesco Cusa

Quei resti etruschi a Gonfienti di Giuseppe Alberto Centauro

Mappe di percezione: San Francisco di Andrea Ponsi

Le forme visibili dei pensieri invisibili di Laura Monaldi

Erika Stone fotografa sociale di Danilo Cecchi

Da Pontormo a San Carlo di M. Cristina François

La trottola e il robot di Cristina Pucci

Serra Yilmaz nei panni di Grisélidis, prostituta geniale di Michele Morrocchi

Non devi perderti nelle cose di Paolo Marini

Sorella arte di Simonetta Zanuccoli

Il Summer di Mimmo di Monica Innocenti

Viaggi straordinari di Valerio Dehò

Prima del Big Bang non c’era un prima di Gianni Bechelli

e Remo Fattorini, Alessandro Michelucci, Burchiello 2000...

Direttore Simone Siliani

Illustrazione di Lido Contemori, Massimo Cavezzali

Redazione Progetto Grafico Mariangela Arnavas, Gianni Biagi, Sara Chiarello, Emiliano Bacci Susanna Cressati, Carlo Cuppini, Remo Fattorini, Aldo Frangioni, Francesca Merz, Michele Morrocchi, Sara Nocentini, Sandra Salvato, Barbara Setti

Editore Maschietto Editore via del Rosso Fiorentino, 2/D - 50142 Firenze tel/fax +39 055 701111

Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012

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di Alessandro Gioli Il 19 novembre scorso fu presentato nella sala del Pegaso nel Palazzo della Regione di via Cavour il libro Architettura contemporanea e Ambiente storico, a cura di Francesco Gurrieri con scritti di Carlo Cresti, Giuseppe Cruciani Fabozzi, Sergio Givone, Francesco Gurrieri, Franco Purini, edito da Angelo Pontecorboli Editore, Firenze 2017. Chi scrive faceva parte dei presentatori insieme a Cristina Donati, lo stesso Gurrieri e Giuseppe Cruciani Fabozzi.. In quella occasione cercai di circoscrivere gli ampi e molto interessanti contenuti del libro soffermandomi su quali criteri adottare per progettare una nuova architettura in un ambiente storico, come recita lo stesso titolo. Progettare non è cosa da poco, specialmente a Firenze, cosicché proposi una riflessione: uno di noi si iscrive alla Facoltà di Architettura e, dopo molti anni di studio e di lavoro, ha la ventura di diventare architetto di fama internazionale. E’ molto probabile che la fama se la faccia all’estero piuttosto che in Italia ma un giorno, dopo aver fatto grandi cose, è chiamato a Firenze e qui gli si presenta una curiosa realtà: dagli studiosi preposti alla salvaguardia dell’Ambiente storico gli verrà detto che il suo progetto dovrà salvaguardare l’Ambiente storico; senza altro aggiungere. Naturalmente quel famoso architetto sa bene di essere stato invitato proprio per essersi distinto nella soluzione di complessi problemi attinenti l’inserimento di nuove architetture in varie città d’arte e, ovviamente ringrazierà e parlerà dei propri convincimenti, delle sue visioni del mondo e dell’architettura. Immagino anche che cercherà di tranquillizzare tutti coloro che, preoccupati per l’eventuale alterazione dell’immagine di Firenze, gli faranno notare, come ricorda Paola Grifoni in “Il silenzio dell’architetto” (pubblicato dopo la presentazione del suddetto libro in Cultura Commestibile n.240), che fra “notissimi architetti sia italiani che stranieri nessuno di loro è stato in grado di capire la realtà storica con la quale si trovava a interagire. Un architetto, solo perché di fama, non è esperto nelle diverse discipline e sovente non possiede la capacità di valutare i suoi limiti e la consapevolezza della diversità tra tipologie progettuali, in particolare l’approfondimento necessario per avvicinarsi al restauro architettonico o, ancora più impegnativo, a un intervento di progettazione in un ambito storicizzato”. Abbandonando quel grande architetto al suo destino cercherò dunque di individuare qua-

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Tra architettura 1944, fu deciso di ricostruirlo come era e dove era per l’impegno di molti uomini di cultura dell’epoca con un progetto di Riccardo Gizdulich che riuscì nella non facile impresa di far riaprire la cava di pietraforte nel giardino di Boboli. Già riaprire una cava di pietra a Boboli, foss’anche per ricostruire un’opera-immagine della città, sarebbe oggi cosa impensabile. Comunque in questo caso la storia è molto chiara: è stato rifatto come era, pur con non poche polemiche di chi lo avrebbe voluto nuovo o magari più largo visto che oggi sopporta il passaggio di autobus, taxi , auto e biciclette con i turisti fermi a fotografare dalle sue spallette il Ponte Vecchio. li potrebbero essere i modi di intervento in una città come Firenze. Faccio riferimento al saggio di Sergio Givone dal significativo titolo “Che fare?”. Ci sono, dice Givone, senza per altro crederci troppo, tre possibili strade; cercherò di seguire queste indicazioni e magari di ampliarle. 1) Come era e dove era

La prima possibilità consiste nel ricostruire l’opera architettonica come era nel suo luogo di origine. Qui a Firenze il convincimento prese forza per la ricostruzione delle zone distrutte intorno al Ponte Vecchio. Inutile ricordare le discussioni fra gli uomini di cultura dell’epoca sull’adozione o meno di tale criterio, fra chi paventava il nuovo e chi lo invocava come occasione di rinascita. Ci sono molti modi per porgersi in ascolto della storia ne indico tre sufficienti a far capire la complessità dell’argomento. 1.a) La storia viene rispettata pienamente.

Il Ponte a Santa Trìnita costruito nel 1567 dall’Ammannati, su suggerimento di Michelangelo, famosissimo per la bellezza e l’armonia delle arcate disegnate con il metodo della catenaria, fu distrutto più volte dalle piene dell’Arno del 1252, 1333, 1557. Fatto saltare in aria dai tedeschi il 4 agosto del

1.b) La storia viene rispettata solo in parte.

Givone fa l’esempio del teatro La Fenice a Venezia del 1789, ricostruito dopo l’ incendio del 1837 in un falso stile barocco e ricostruito nei primi anni 2000 dopo un altro incendio; ovviamente “dove era e come era” ma non come l’originale costruzione del 700 suggerita anche da Gae Aulenti, architetto incaricato del progetto, bensì su quella falsa ottocentesca. Perché? Probabilmente perché l‘immagine più recente della Fenice prevalse su altri intendimenti. Qui a Firenze abbiamo un caso analogo: le molte discussioni riguardanti il rifacimento della pavimentazione di piazza della Signoria si sono concluse non ascoltando il tempo della quattrocentesca pavimentazione in cotto e ricorsi in marmo a disegnare quella grande superficie al tempo del Savonarola, ma si è preferito riposizionare le stesse pietre, un po’ rettificate e lavorate, per non perdere la continuità visiva alla quale ormai si era abituati. In tal caso è valso più il ricordo del recente color grigio che non quello lontano del rosso mattone. Nel caso, le manifatture del cotto del Ferrone avrebbero avuto una bella presentazione e un promettente rilancio economico. 1.c) La storia non viene rispettata.

Per il ponte a Santa Trinita abbiamo detto;


ma ci comporteremmo nello stesso modo nel caso del Ponte alle Grazie? La storia ci dice che il ponte alle Grazie, in origine ponte di Rubaconte, costruito nel 1227, era a 9 campate poi ridotte a 6 per far posto ai Lungarni e all’attraversamento del tram; fu ricostruito dopo la guerra nel 1957 a 5 campate con una

ovvi motivi allontanare del tutto la contemporaneità, consigliano di nasconderla dentro l’involucro architettonico esistente. In piazza della Signoria c’è l’edificio in stile rinascimentale delle Assicurazioni Generali del 1871 dell’arch. Landi costruito sulle rovine della Loggia dei Pisani e della chiesa di S. Cecilia

giana e dei mestieri svolti nelle antiche botteghe; massima dunque giustissima che dimentica tuttavia come lo scorrere inesorabile del tempo porti con sé l’evoluzione complessiva della realtà, da quella tecnologica a quella culturale, fino a toccare tutte le particolarità del vivere; tanto è vero che ricordiamo con

trave in cemento armato su progetto di Michelucci, Gizdulich e Santi, progetto in parte modificato durante l’approvazione. La storia ci dice anche come su quelle precedenti 6 campate, per ogni pigna era posizionata una casetta; lì presero dimora alcune religiose che dettero vita a due ordini monastici femminili, quello delle Romite del Ponte e delle Murate. Mi pongo la domanda: se per un malaugurato evento naturale fossimo nella necessità di ricostruire di nuovo il ponte alle Grazie, a quale momento storico dovremmo fare riferimento? In sostanza il “come era e dove era” dovrebbe rispettare l’antico ponte con le casette sulle pigne o quello attuale del gruppo Michelucci? Optare per quest’ultimo vorrebbe dire preferire la contemporaneità rispetto a una testimonianza storica e allora perché non proporre un progetto del tutto nuovo magari a firma di un grande architetto, per pura ipotesi, Renzo Piano? Cosa sarebbe meglio per Firenze, rivedere in piedi il ponte di ora oppure una nuova opera di una grande firma?

del 1300, in stile neo gotico sono le facciate del Duomo del De Fabris del 1871 e quella di Santa Croce di Niccolò Matas del 1863, in seguito gli edifici del 1940 del Giovannozzi in via Valfonda, in bugnato di pietraforte, davanti alla Stazione del Gruppo Toscano di qualche anno precedente, forse a compensare il troppo razionalismo di quella. Per non parlare della neogotica sede del Parlamento Inglese a Londra e trasvolando l’oceano, la Casa Bianca in stile palladiano. Dopo l’ultima guerra qui a Firenze nacque lo stile fiorentino; un vernacolare né vecchio né nuovo fatto di cemento armato e pietra forte di Por Santa Maria “che fa da facciata a case borghesi e simula non si sa che”, dice Givone, oppure setti di pietraforte e superfici vetrate nelle ville sulle colline, infine quel vago sapore di medioevale povero, fatto di intonaco con aggiunte e affacci, volumi e volumetti che si arroccano gli uni sugli altri e i terrazzini raggiungibili da scale contorte e innumerevoli finestre e finestrine che si affacciano sull’Arno e sull’opera monumentale degli Uffizi. In quest’ultimo caso è stato detto che era il meglio che si poteva fare viste le condizioni oggettive in cui si operava e c’è da crederci, ma i risultati di quella occasionalità sono stati congelati, quasi fossero anch’essi opera monumentale da salvaguardare. In questo caso lo stile non può essere invocato. Di quelle costruzioni nessuno che abbia detto: “vi piace? Questo l’ho fatto io”.

sagre, palii e feste in costume come eravamo. La tradizione ci invita a far riemergere dalla storia antichi reperti trasformandoli in miti. In architettura rispettare le tecniche tradizionali del passato è, per legge, semplicemente impossibile. La tradizione rimane nell’ambito del restauro e nell’uso dei materiali come la pietra, il mattone, i manti di copertura dei tetti, le malte degli intonaci, il legno degli infissi esterni, le terre e gli ossidi per le colorazioni e così via.

ambiente storico

2) Lo stile

Potrebbe svolgere un ruolo di guida lo stile? Che almeno – così si dice - si costruisca seguendo i canoni stilistici esistenti, quelli tradizionali, quelli ormai divenuti nostra identità. Lo stile dovrebbe fornire la soluzione usando un dettato di norme lessicali di un tempo lontano. Quando si invoca lo stile occorrerebbe avere presente il fatto che si fa appello a una consuetudine linguistica, a un manierismo sorto in origine da un fare architettura del tutto personale e innovativo. Il Gotico, il Rinascimento a Firenze, il Barocco a Napoli, il Liberty, l’Art nouveau, la Secessione a Londra, Praga, Budapest, Vienna o Parigi hanno avuto una origine, una data di nascita, nel tempo mescolati e sostituiti da tanti ubbidienti “neo”, il neo gotico, il neoclassico e così via, a loro volta ispirazione di tanti revival, mode e via dicendo. I sostenitori del rapporto stile-identità, non potendo per

3) La tradizione

La storia ci insegna come la tradizione sia uno di quei termini, insieme all’identità e all’appartenenza, da maneggiare con cura soprattutto sul piano culturale e politico. Mi limito all’architettura e principalmente alle tecniche costruttive e all’uso dei materiali. La tradizione propone di fare come si è sempre fatto e si fonda sul detto che chi lascia la strada vecchia per la nuova non sa cosa si ritrova. La tradizione è fonte ispiratrice dell’arte arti-

4 ) La memoria

C’è un altro termine molto usato dagli architetti in cerca di mediazioni con la storia ed è la cosiddetta memoria. Anche per la memoria, come con la storia, non c’è niente di certo. Un dipinto di Salvator Dalì del 1931 intitolato “La persistenza della memoria” raffigura alcuni orologi molli a indicare, dietro le spinte della psicoanalisi di Freud e la teoria della relatività di Einstein, l’inconsistenza del tempo, il suo fugace valore. L’architettura non è da meno e se la storia è un difficile suggeritore allentiamo, se possibile, qualche sua maglia e lasciamo aperte le strade alla sensibilità interpretativa dell’autore lasciando il tempo e le date a loro stesse. Con la memoria l’interpretazione assume una grande importanza; essa libera chi progetta dalle pastoie delle categorie referenziali già indicate ma lo costringe a non distaccarsi troppo dalla realtà storica del luogo. La parola chiave è “riconoscimento”; se si riconosce la città in un edificio e viceversa vuol dire che quell’edificio diviene esempio di una felice corrispondenza, di una affinità elettiva, quasi di carattere parentale. A volte la memoria si concretizza in valori simbolici come per la ricostruzione del parlamento tedesco, il Bundestag, costruito nella seconda metà dell’800 da Paul Wallot, famoso per la grande cupola di vetro e acciaio. Il concorso vinto da Norman Foster ha lasciato come era la facciata esterna con le colonne

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mentre la nuova grande cupola in vetro e acciaio ricorda molto da vicino quella originale. Altre volte la memoria oscilla o nel totale rispetto dell’opera (in questi casi lo strumento a volte labile del ricordo si traduce negli statuti disciplinari del restauro) oppure in libere creazioni intese come superamento della stessa storia, ovvero come semplice negazione della presenza di un passato. Ricorda a tal proposito Francesco Gurrieri quanto sia grande l’importanza della conoscenza storica per arricchire e attualizzare il proprio sapere, ma ricorda anche come l‘ applicazione teorico-pratica del restauro, promuova differenti direzioni nelle stesse scuole disciplinari; a volte favorendo l’interpretazione creativa secondo cui, in una visione post moderna, il passato è già tutto compreso nel presente, a volte come auspicio di un ritorno alle identità originali, ripulendole e liberandole da superfetazioni, aggiunte, sostituzioni, abusi. Scrive Franco Purini: “Se ci si rivolge alla storia si vede con gli occhi della mente il luogo dell’origine di ogni forma, sul quale è necessario e bello meditare. Ma tale luogo contrasta talmente tanto, nella sua energia generativa, con l’infinita catena di possibilità che esso possiede, da non poter convivere con la contemplazione dell’inizio (germinazione di possibilità e di inneschi). Da tale incompatibilità, che non si riesce mai a superare, scaturisce l’immaginazione dell’architettura nella sua realtà più viva. Ma anche l’ambiente storico nasce da un consumo infinito dell’origine, dal suo replicarsi incessantemente nell’abitare umano”. Cosa è successo, che non c’è più un luogo nel nostro animo capace di vivere nelle nuove opere, non c’è più in ciò che facciamo una manifesta provenienza? Perché cimentarsi sempre nel rapporto fra architettura contemporanea e ambiente storico come se fossero cose diverse quando è proprio l’ambiente storico ad aver prodotto “naturalmente” l’architettura contemporanea? Detto questo, diviene importante porgere grande attenzione alla qualità del progetto architettonico. Carlo Cresti nel saggio “Architettura moderna e città storiche” ricorda l’edificio di Michelucci a Firenze fra via dello Sprone e via Guicciardini del 1956, la Casa alle Zattere a Venezia di Ignazio Gardella del 1957 e la Torre Velasca a Milano del gruppo BBPR del 1958. Tre edifici in tre anni, presi ad esempio dalla trattazione teorico pratica della progettazione in tutte le Facoltà di Architettura d’Italia; solo tre edifici per indicare la difficile interdi-

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pendenza fra realtà e innovazione, fra storia e modernità per chi ricercasse una “recondita armonia di (fra) bellezze diverse”. Recondita armonia come frutto di incerto e oscillante sentire in chi progetta, in cui si riflette un altrettanto incerto e oscillante criterio in chi deve giudicare. Si può dire che sia riuscita questa operazione di ricerca? No, non lo si può dire, e non sappiamo se questo sia dovuto a chi non ha saputo interpretare - gli architetti - o a coloro che non hanno saputo valutare, le Sovrintendenze. La cosiddetta “memoria” si offre anche a un’altra importante considerazione e riguarda il valore che assume la permanenza nella mente della medesima immagine. La persuasione avviene con meccanismi ormai noti che condizionano i nostri comportamenti quotidiani e i nostri giudizi. Non tanto l’opera in sé quanto la circolazione della sua immagine è ormai divenuto il mezzo per veicolare valori e consensi in modo del tutto simile ai messaggi pubblicitari. Non per niente viviamo nella realtà virtuale. “Beh, se piace tanto alla gente vuol dire che un valore artistico ci deve pur essere … se piace non può essere brutto” ebbe a dire con ironia Andy Warhol a proposito della discutibilissima opera pittorica di Margaret Keane che dipingeva sempre bimbi dai grandi occhi. Un’opera sarà riconosciuta e nel ripetersi della sua immagine acquisterà un surplus di valore che la renderà, più di altre, oggetto di attrazione e di desiderio. Per i monumenti ridotti a immagine di loro stessi avviene la medesima cosa. Certo, la persistenza del ricordo dipende dalla qualità della cosa ricordata nel senso che è quest’ultima ad innescarlo ma a volte si ricordano cose semplicemente antiche trasformate in icone e miti. La Tour Eiffel doveva essere smontata dopo l’esposizione universale del 1889 e invece è divenuta il simbolo di Parigi, e il Ponte Vecchio a Firenze, ricostruito nel 1345 da Taddeo Gaddi dopo la grande piena del 1333, a suo tempo innovativo in virtù dei tre archi ribassati, era strada su cui si svolgevano funzioni di mercato e di macellazione delle carni e su cui il Vasari costruì il suo Corridoio. Il mito ci porta a fermare il tempo e a rendere eterna l’architettura la quale, come tutto ciò che esiste, eterna non potrà essere. Viene in mente a tale proposito il paradosso della nave di Teseo. Il mito racconta che tornato Teseo in patria dopo essere riuscito ad uccidere il Minotauro, gli ateniesi decisero di conservare la sua nave nel tempo. Tutte le volte che qualcosa della nave si deteriorava quel qualcosa veniva rifatto esattamente come era;

il giorno in cui tutte le parti della nave furono sostituite qualcuno si domandò se la nave era ancora quella originale di Teseo.

5) La copia

Oltre allo strumento del ricordo si potrebbe ricorrere alla copia. Mentre noi conserviamo ciò che già abbiamo, in altre parti del mondo, ad esempio in Cina, Russia ecc., alcuni ricchi personaggi di quei paesi, disdegnando il contemporaneo, pensano all’architettura con la testa tutta rivolta all’indietro, al passato appunto e proprio a quello europeo; così copiano castelli e regge, palazzi e giardini come quelli di Bruges, Oxford o della Loira. Anche senza andare così lontano, la copia del “vecchio” pare fornire garanzie culturali maggiori rispetto all’inedito nuovo anche se realizzato dal famoso architetto e poi in tal caso non c’è da scomodare alcuna capacità interpretativa, si copia, come si faceva a scuola magari sbagliando i numeri finali del compito. Del resto chi non ricorda i monumenti fiorentini come la Loggia dei Lanzi, il Palazzo Pitti, lo Spedale degli Innocenti ricostruiti intorno al 1870 a Monaco di Baviera su volere di Ludovico I? E quante volte abbiamo detto di fronte alle molte banalità delle periferie che assediano i centri storici: perché non le hanno fatte come quelli? Per concludere di quale memoria, di quale storia, di quali pensieri dovrà avvalersi chi progetta a Firenze? Rimane forse la possibilità di un ritorno alle origini? Sembra necessario ripensare ciò che realmente siamo e ciò che vogliamo, ed è un augurio che si conclude con una domanda: non sarebbe meglio, anziché disperdersi in critiche, dubbi e divieti affidarsi, come pazienti di fronte alle collaudate e decantate virtù di un primario di medicina, alle capacità dei grandi architetti per risolvere i propri problemi come fanno già da tempo, in tutte le città del mondo? Diciamo la verità, a forza di ricordare e non fare, siamo rimasti soli, magari inorgogliti dai tanti forestieri venuti da fuori. Dimenticavo: ci si lamenta anche di quelli. Secondo Vittorio Gregotti ci potranno essere solo due strade: il nuovo farà a meno del passato e quanto più vorrà essere nuovo tanto più ne prenderà le distanze, in altre parole vorrà camminare da solo, oppure il nuovo non potrà essere altro che la copia di un qualsiasi occasionale passato preso in prestito. C’è da crederci. In altre parole, e ancora una volta come la storia ci insegna, l’architettura potrà presentarsi figlia del proprio tempo oppure fedele immagine del proprio passato


Vetrine d’arte Vetrine d’autore

di Vittoria Maschietto Anche questa volta a Firenze l’anno è cominciato. Portato da una ventata di moda o di ridicolo, a seconda del gusto o del punto di vista. In ogni caso Pitti ha depositato il suo strascico. Quanto meno nelle figure di gangster che si sono sparpagliate per il centro città, tra Luisa Via Roma e la Fortezza da Basso. Il panciotto quest’anno è stato d’obbligo. Così come il cappello in stile Borsalino, il sigaro in bocca e il vestito lungo. Era chiaro che quest’anno gli anni Venti dovevano fare da padroni, anche se con una patina di eccentrico anacronismo che fa sempre tanto italiano. L’anno è cominciato e il Must italo-internazionale della moda maschile è riapprodato a Firenze, come sempre, col suo passo ondulato da red carpet, e quel profumo dolciastro che tradisce ogni volta il suo passato da Fonzie di periferia. Pitti è tornato, con il suo look impomatato e le sue abitudini indefesse. I locali hanno tirato fuori le loro lavagnette per aggiungere la dicitura “Pitti” alle solite miscele di cocktail fatti di zenzero e gin della Conad. L’avevamo aspettato tutti anche quest’anno, il Pitti, per poter raccontare che quella festa era davvero troppo cool e insistere con la solita gabola del moda misto arte che funziona sempre e fa sentire tutti così dannatamente internazionali, pure se poi la sera devi tornare a Calenzano. Quando a Firenze c’è Pitti, sono tutti quanti appena tornati da un workshop a Berlino con Marina Abramovich. Lo stesso workshop di cui avevano parlato quei due conosciuti nel viaggio on the road in Thailandia... Anche quest’anno però, il buon vecchio Pitti

ha portato qualcosa di insolito. Da qualche parte, in un angolo un po’ meno trafficato, in qualche strada poco battuta da tacchi e riflettori, è accaduto qualcosa. Qualcuno è passato col naso per aria, un po’ per caso, in sordina. E si è fermato di fronte a una vetrina a pochi passi dal Ponte alla Vittoria. Dietro al vetro c’erano dei libri che parlano della Moda con la M maiuscola. La moda quando è nata, un po’ provocante un po’ provocatoria, la Moda ancora un po’ ingenua che

Maschietto Editore – Libri d’Arte via del Rosso Fiorentino, 2/D - 50142 Firenze tel/fax +39 055 701111

sculetta e ride, fuori dal canto e dalla retorica. Il passante col naso per aria ha bussato al vetro ed è entrato. Ha chiesto se poteva sfogliare quei libri, e pagina dopo si è immerso nella lettura. E poi è successo qualcosa di molto strano. La sua voce, che era un bisbiglio soffocato, mentre leggeva ha cominciato ad alzarsi di tono. Di più, sempre di più, tanto da richiamare a sé tutte le persone che c’erano intorno o che si trovavano per caso a passare di là. A poco a poco, quella voce alta e intonata, ha cominciato a staccarsi dalle pagine dei libri e ha cominciato a raccontare storie sue, tutte le storie che quelle pagine gli avevano fatto venire in mente. Insomma, a forza di raccontare e scambiarsi racconti, dietro a quel vetro e a quelle pagine di Moda è nata un’idea. Destinare lo spazio della vetrina al racconto di storie. Detto così sembra banale. Ma la faccenda è un po’ più articolata. L’idea è che chiunque potrà estrarre i libri da una grande collezione e disporli come vorrà dietro la vetrina. Impilandoli uno sopra all’altro, fino al soffitto, disponendoli uno in fila all’altro, come i tasselli di un domino. Chiudendoli come clutch da borsetta, o aprendoli come ventaglio... E’ soltanto un’idea di un passante venuto per caso. E’ soltanto una storia. Ma domani o tra un mese potrebbe diventare realtà, o un abito o un paio di pantaloni tenuto su con le bretelle. Nel frattempo chiunque potrà visitare la vetrina. Sta in via del Rosso Fiorentino. Non è troppo illuminata, ma dietro si intravede un culo stretto in un paio di shorts inguinali e tante altre copertine di libri. Accanto, un po’ distante, sulla destra, c’è un campanello con scritto Maschietto Editore. E si può sempre suonare.

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Le Sorelle Marx

Al Bano, il putiniano pugliese

Putin ha finito i rubli avendoli spesi tutti per condizionare le elezioni presidenziali USA, ottenendo peraltro un notevole successo. Ora però non può più spendere per aggiustare le elezioni italiane. Dove è indeciso: usato sicuro (il vecchio amico Silvio, compagno di tanti festini) o il nuovo frizzante (l’sbarco-partenopeo Di Maio, con il suo look Kgb)? Ma di sicuro ha messo a punto la sua arma segreta: Albano Carrisi. Pare che gli accordi per una nuova lista, guidata dal cantante pugliese, siano stati

I Cugini Engels

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“Nostalgia canaglia”, in onore della Grande Madre Russia e del suo Piccolo Padre, che punta ad essere l’ago della bilancia della politica italiana: se vince il Berlusca allora governo di destra, se invece vince Giggi avanti con un governo dell’altrove. Unica certezza: Al Bano e le sue Nostalgiche Canaglie dentro. Un solo inno: Libertà!

Quando c’era lui

C’è grande subbuglio nel Vecchio Palazzo di Firenze fra i Giovani Leoni ( che, in verità, assomigliano piuttosto a facoceri) perché i consiglieri della sinistra minacciano di uscire dalla maggioranza per le incaute frasi del presidente del Quartiere 1, Maurizio Sguanci, sul Duce. Il sindaco Nardella cerca di salvare capre (lo Sguanci, in “sgarbese”) e cavoli (la sua maggioranza). “ Maurizio, mi hai combinato un bel casino con il tuo post su Mussolini. Ora che si fa?” “ Casino? Oh Dario ma tu ci vivi fra la gente? Pensa, ieri ero alla stazione e c’erano tutti i treni in ritardo: ma ti rendi conto??? Quando c’era Lui queste cose non succedevano! E poi, cosa avrei detto mai?” “Ah si? Tu hai detto che ha fatto più cose Mussolini per questo paese in 4 lustri che tutti gli altri in 20 anni!!!! Ti pare una cosa da dire?” “ Perché, non è vero? Scusa Dario, i Patti Lateranensi, la riforma costituzionale…” “Ma che sei scemo???? Non nominare la riforma costituzionale qui che Matteo ha lasciato le cimici e ci ascolta!! E poi che mi

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conclusi durante il concerto per i 100 anni del Kgb, cui Al Bano ha partecipato come unico cantante straniero. Al Bano ha confessato al Corriere della Sera lo scorso 2 gennaio di essere un putiniano della prima ora: “Lo sostengo da tempi non sospetti. È un grande. Ha un senso religioso della vita. Ha il pugno di ferro e non ci vedo nulla di male. Ormai lo uso molti, a partire da Trump ma anche da noi. Capisco che nei casi di mors tua vita mea ci voglia anche questo”. Allora, giù nella mischia: un lista

frega delle riforme. Te devi chiedere scusa per la cazzata che hai detto: 4 lustri sono 20 anni. È una ripetizione, scemo!” “Ah, sì? Dici? A me la parola lustro mi suonava così bene… Va bene, per questo chiedo scusa” “ Non a me, grullo; alla Collesei e al Rossi che vogliono uscire dalla maggioranza! Tieni, chiamali sul cellulare.” “Pronto, Stefania? Volevo scusarmi per il mio imperdonabile errore: 4 lustri equivalgono a 20 anni….” Dall’altra parte della cornetta arriva una serie di improperi che letteralmente spettinano lo Sguanci, il quale riattacca. “Hai visto, Maurizio: era semplice. Bastava chiarirsi.” “ Veramente la Stefania mi ha detto dove potevo ficcarmi le scuse. Poi ha parlato in modo preciso su tua madre: la conosce? E poi mi ha detto che il problema era Mussolini e il fascismo: non capisco… Mi sembra strano… questi son dettagli…” “Mah, non so che dirti Maurizio… Questi comunisti sono così vecchi, rigidi… Aveva ragione la buonanima di Matteo: rottamare tutti li dovevamo! E ora che si fa?”

“ Ci penso io, Dario… basta che non mi fai dimettere. Chiamo un mio amico, il mio consigliere speciale per questo genere di cose” “E chi è?” “Guarda, Dario, un genio. Uno storico di qualità sopraffina. Anzi, te lo raccomando per il CdA del Vieusseux. Si chiama Saverio Di Giulio. Eccolo qui in fotografia” Ah rieccolo! Tu sei proprio scemo! Questa è la foto che suscitò tante polemiche nell’aprile 2016” “ Ma perché? Non capisco? Forse perché … è di Casa Pound?” “ No, idiota! Che me frega della casa di questo Pound… basta che non sia occupata! No, la polemica era perché questo individuo ha rovinato l’estetica della foto! Non lo vedi qui? Come si fa a twittare o a postare una simile schifezza?” “ Si, Dario… hai ragione. Che dici, se chiedo scusa lo possiamo mettere lo stesso al Vieusseux” A Firenze piove. Dario si esercita sul violino. Quando furoreggia. I facoceri veicolano cercando lombrichi. Tutto procede, nel migliore dei mondi possibili. Come sempre.


Nel migliore dei Lidi possibili disegno di Lido Contemori didascalia di Aldo Frangioni

Dobbiamo decidere se la nostra razza di rinoceronti deve continuare a esistere o se deve essere cancellata

Segnali di fumo di Remo Fattorini Promesse e dimenticanze. Partiamo dalle prime. Si promette di tutto in vista del voto del 4 marzo, sperando in questo modo di aumentare i consensi. Tra voli pindarici e fantasiose acrobazie, c’è chi promette l’abolizione del canone Rai, chi del bollo auto e chi delle tasse universitarie; oppure chi promette il reddito garantito e chi la retribuzione minima di 10 euro; chi il superamento del jobs act o la riduzione dell’aliquota sui redditi al 15%. Fino alla promessa delle pro-

messe: pensione minima di mille euro per tutti. L’impressione è che si tratti una gara sterile e inutile. Una sfida destinata a suscitare più ilarità che passioni. Ad oggi non ho sentito nessuno tra gli incerti e i disinteressati che abbia cambiato idea, che sia rimasto folgorato in vista del 4 marzo, ritrovando motivazioni e spinta per tornare alle urne. Leggo invece sondaggi che confermano alti livelli di incertezza destinati all’astensionismo, soprattutto tra i giovani. E penso che non ci sarà nessuna inversione di tendenza fino a quando una metà del paese continuerà a far finta che non esista l’altra metà. Voglio dire che il tarlo che alimenta sfiducia e disinteresse è nutrito dai crescenti livelli di disuguaglianza. L’Italia non è un paese solo rancoroso ma sempre più spaccato tra ricchi e poveri. Tanto che ai primi segnali di ripresa non si accompagnano né un ritorno di fiducia, né un minimo di entusiasmo. Un recente studio Eurostat ci dice che l’Italia è

in testa alla classifica delle persone in difficoltà. Non si tratta di bruscolini ma di qualcosa come 10,5 milioni di italiani che vivono in uno stato di “deprivazione materiale e sociale”. Un modo per dire che non sono più in grado di avere una vita dignitosa. E l’Istat affonda ancora di più il coltello: sono 1,6 milioni le famiglie in condizione di povertà, il 7,9% degli italiani, che salgono al 10% tra i giovani tra 18 e 34 anni. Dimenticanze. Mentre tutti i partiti dedicano una costante attenzione ai sondaggi pre-elettorali, nessuno, dico nessuno, sembra prendere sul serio questa realtà; nessuno dice una parola chiara sulla necessità di ridurre le disuguaglianze, tantomeno si avanzano proposte per una più equa redistribuzione della ricchezza. Di questo nessuno parla, come se si vivesse nel migliore dei mondi possibili. Confermo: non voterò per coloro che promettono una riduzione indiscriminata di tasse.

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di Laura Monaldi L’Arte di Luca De Silva è un viaggio della mente e nella mente, teso a sondare i campi mistici e misteriosi dell’armonia e dello spirito, in una continua e incessante creazione capace di annientare il tempo e fare dello spazio un connubio di espressione ed emozione. In questo percorso intimo che perdura dagli anni Sessanta a oggi, Luca De Silva ha aperto le porte della sua personalissima carriera offrendo, negli spazi espositivi della Biblioteca San Giorgio, un cammino di conoscenza e di scoperta nonché una sintesi cronologica e tematica delle tappe più importanti della sua ricerca estetica. Libri d’artista, libri oggetto, installazioni e piccole opere dialogano fra le vetrine e gli spazi della Biblioteca per offrire ai visitatori un corpus completo e monografico di un artista che ha dedicato la propria vita all’Arte e all’arduo tentativo di dare un senso alla Vita e ai complessi legami comunicativi della modernità. Un viaggio all’interno di una filosofia estetica estremamente originale ed inedita che l’artista ha diviso in vari periodi della sua vita: nel “Corpo ideale” la ricerca «era giocata su ritmi di colore nero lucido su nero opaco per poi passare a una geometria accennata e anche frantumata di colore», sulla scia di «ritmo cosmico» capace di indagare gli elementi più spirituali e creativi dell’arte; nel “Corpo antropologico” con la serie delle “Impronte” e dell’ “Omaggio ai nostri padri” si riscopre «la pelle delle cose», la traccia e l’oggetto dell’esistenza umana come testimonianza di una storia che dal primitivo torna al presente per concretizzarsi in una memoria senza tempo; nel “Corpo psicologico” l’attenzione artistica si sposta verso la dimensione dell’inconscio e dell’onirico, ossia laddove l’emotività fa da padrona amalgamandosi nelle pulsioni collettive; nel “Corpo assente o virtuale” l’opera d’arte

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Le forme visibili dei pensieri invisibili

diviene un viaggio mentale nei regni sconfinati dell’immaginario, dove il «corpo» si manifesta nella sua assenza e nella sua presenza immaginaria; nel “Corpo d’arte” l’artista si riappropria del corpo come elemento fagocitante e cannibale che diviene esso stesso opera d’arte in un gioco di luci e apparizioni epifaniche; infine nel “Corpo di sogno” si esplica una delicata sintesi fra l’immagine e l’azione che concretizza l’opera nella sua genesi più performativa ed evocativa. La prassi che Luca De Silva offre nelle vetrine della Biblioteca San Giorgio una ricerca dialettica, fatta di continue riflessioni e rimandi estetici, capaci di cogliere l’essenza stessa e

il principio fondante del fare arte. Allo stesso modo è l’eclettismo di base che rende l’artista emotivamente partecipe al proprio presente, come si percepisce sfogliando e contemplando le pagine, i pensieri e gli aforismi custoditi nel suo ultimo libro pubblicato recentemente da Morgana Edizioni dal titolo paradigmatico “Utopie”, oppure ascoltando i testi poetici cantati da Francesco Pinzani con le musiche di Cristiano De Silva contenuti nel CD a tiratura limitata “La mia eternità”. Tutto ciò perché per Luca De Silva l’arte altro non è che un continuo sfuggire alle regole di un gioco troppo limitante per un’anima così eternamente creatrice.


Musica

Maestro di Alessandro Michelucci “La musica e il diritto sono entrambe discipline che richiedono rigore e forma, da un lato, intuizione e fantasia, dall’altro”: con queste parole Remo Anzovino, avvocato e compositore, si presentava ad Alessandro Sgritta nel 2006. L’intervista fu realizzata poco dopo l’uscita di Dispari (La Frontiera/Rai Trade, 2006), il suo primo CD. Da allora sono passati 12 anni, nei quali il pianista friulano ci ha offerto una musica ricca di sensazioni, pensieri, riflessioni. Grande appassionato di cinema, Anzovino ha musicato fra l’altro il celebre film muto Nanook di Robert Flaherty. Ha scritto musiche dedicate ad avvenimenti e figure centrali del Novecento, come il disastro del Vajont (“Suite for Vajont”, in Vivo, 2013), Pier Paolo Pasolini (L’alba dei tram, 2015) e Cassius Clay/ Muhammad Ali (Fight for Freedom, 2017), quest’ultimo realizzato con Roy Paci. In tutti i lavori realizzati finora era stato affiancato da varie formazioni o da prestigiose orchestre. Mancava però un disco dove il piano fosse il protagonista assoluto. A colmare questa lacuna ha provveduto Nocturne (Sony Classical, 2017), l’ultimo lavoro di questo artista poliedrico, che si esibirà al Teatro Puccini di Firenze mercoledì 24 gennaio. Nel nuovo lavoro, come si diceva, domina il piano, accanto al quale compaiono talvolta dei solisti e la London Session Orchestra, arrangiata e diretta da Stefano Nanni. Anzovino ha studiato a fondo i celebri Notturni di Chopin, li ha esplorati e sezionati addentrandosi nei dettagli più nascosti della loro struttura. In brani come “Nocturne in Tokyo” e “Miss you” ha coagulato il frutto della sua indagine, mantenendo ciò che definisce “il frutto di quella planimetria”, che però ha riletto con la sensibilità di un musicista moderno. Ed è proprio la modernità il cardine attorno al quale ruota il disco: “fatta di smarrimento e solitudine”, dice il musicista, ma “questi sono anche il bello del tempo in cui viviamo”. Il disco può essere considerato una sorta di racconto, ambientato in “in una notta nella quale fai un bilancio della tua vita e guardi da

Le emozioni della notte vicino le tue debolezze”. Lo spirito che anima le tracce è stato concepito a Tokyo, ma altre metropoli simboleggiano lo smarrimento e la solitidune alle quali si accennava prima: ecco quindi “Istanbul” e “Manhattan 5am”. Ricco di melodie delicate ma mai leziose,

espresse in un linguaggio esplicito e diretto, Nocturne conferma ancora una volta il talento compositivo del pianista. Il solido bagaglio tecnico e il calore umano fanno di Remo Anzovino un musicista nel senso più pieno e più profondo del termine, un poeta capace di esprimersi senza usare le parole.

Dentiere per tutti di Sergio Favilli Va bene che in Italia ci sono 11 milioni di adulti creduloni che frequentano abitualmente maghi, cartomanti e fattucchiere, va bene che siamo in piena campagna elettorale dove c’è chi promette “dentiere per tutti”, dove si ipotizzano pensioni da mille euro anche per chi non ha pagato mai i contributi, dove tutti dicono che intendono abbassare le tasse, dove non si prospettano maggiori posti di lavoro ma rendite assistenziali a pioggia, dove nessuno osa dire quali saranno le coperture finanziarie delle sue promesse, va bene che i venditori di tappeti nel nostro paese son sempre ascoltati, ma forse, recentemente, si è superato il limite!! Quando un leader politico sostiene con convinzione che il suo partito o movimento riuscirà a triplicare, ripeto TRIplicare il numero dei propri parlamentari, siamo al vero e proprio delirio delle balle spaziali!! Non è che questa affermazione

sia stata fatta dal Segretario del Movimento Autonomo di Roccacannuccia, no, questa amena ed incredibile affermazione l’ha fatta un leader che si dichiara “in odor” di Palazzi Chigi!!!! Anche un bimbetto di prima media ripetente potrebbe calcolare che, con la legge attuale, per raggiungere mediamente i 360 parlamentari occorre arrivare almeno ad un risultato elettorale del 45/50%, cosa statisticamente e storicamente impossibile!! Che fare?? Nella speranza che masanielli, pifferai magici e fattucchiere siano rifilati in soffitta, domani mattina vado alla Camera di Commercio per aprire una catena di negozi denominata “L’anello al naso” , ho già anche un finanziatore occulto, un vecchio comico sul viale del tramonto che, ormai, fa solo piangere!!!

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di Giuseppe Alberto Centauro Mai rinvenimento archeologico di tale rilevante importanza fu tanto inaspettato da cogliere impreparati gli stessi tutori istituzionali: “Un’antica città in un luogo impensabile: quando alcuni anni fa la Società Interporto della Toscana Centrale scelse quest’area per realizzare il più grande scalo-merci ferroviario della Regione, non era stata in alcun modo presa in considerazione l’ipotesi che questa parte del territorio di Prato, posta ai confini con i Comuni di Campi Bisenzio e di Calenzano, in una zona a utilizzazione agricola, pianeggiante e priva di urbanizzazione recente, potesse celare una scoperta archeologica di straordinaria importanza, decisamente rivoluzionaria per la storia più antica dei luoghi oggi occupati dalla periferia della città di Prato” («Archeo», marzo 2001). Così le archeologhe Poggesi e Bocci della Soprintendenza fiorentina si espressero sulla scoperta dell’insediamento etrusco su Bisenzio. Ma facciamo un passo indietro, perché la storia dell’area archeologica di Gonfienti, comincia sul finire del 1996, grazie alla reiterata e circostanziata segnalazione da parte di Silvio G. Biagini, appassionato cultore di storia antica che, a quel tempo, lavorava all’Interporto presso la Dogana e che già l’anno prima, durante la costruzione del fosso attiguo al piazzale merci, aveva segnalato i resti di una strada acciottolata orientata SE- NO, valutata sulle prime come il paleo alveo di un torrente. Alla luce di queste scoperte mi domando ancor oggi perché al Biagini non sia stato conferito per meriti il titolo di ispettore onorario. Tornando ai fatti: nell’area detta «Pantano 2», a circa 700 metri dall’antica pieve di san Martino a Gonfienti, erano riemersi diffusi reperti strutturati e cocci vari dove si stava scavando per realizzare un bacino idrico di compenso per le acque reflue a servizio delle infrastrutture interportuali; dopo pochi mesi, a circa 500 metri di distanza dai primi, nel corso dei lavori di livellamento dei terreni per l’edificazione del un lotto 15 F, furono dissodati due complessi edificati. Tuttavia, nel 1997, dopo che i lavori di sbancamento (non sospesi dopo i primi ritrovamenti) avevano messo in luce un notevole quantitativo di reperti fittili (tra i quali – come segnalato dal suo scopritore – un frammento di vaso a figure nere su fondo rosso), la Soprintendenza fiorentina finalmente interviene con l’effettuazione di due piccoli saggi dai quali emergono con chiarezza le fondamenta a cassaforma di costruzioni contestualizzabili al periodo etrusco arcaico. Sui quei primi ritrovamenti archeologici ritornerà Gabriella Poggesi, responsabile di zona

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Quei resti etruschi a Gonfienti

Frammenti di cronaca di un ritrovamento “quasi fortuito”

La segnalazione del 1996 (da: Carta Archeologica della Provincia Prato, SBAT 2011, p.311)

per la SBAT, che racconterà alcuni anni più tardi a «La Repubblica» (Firenze, 24 luglio 2005): “Il primo sopralluogo ai resti, nel ’97, si svolse in un’atmosfera di grande tensione. Sapevo di avere davanti qualcosa di importante, ma non sapevo se saremmo riusciti a difendere dai grandi interessi in gioco con l’interporto”. A Gonfienti, solo nell’estate del 1999, vennero effettuate le prime indagini archeologiche. In una nota SBAT del 24 settembre 1999 inviata al Comune di Prato, si legge: “Nell’area del bacino di compenso di Gonfienti stanno tornando alla luce complessi strutturali di dimensioni notevoli … Si tratterebbe di un insediamento di età ellenistica, miracolosamente conservato fino ad oggi … E’ evidente che la scoperta è di notevolissima importanza per la storia più antica di Prato, in quanto riconduce almeno all’età ellenistica l’esistenza di centri


stanziali nel territorio; non si può d’altra parte escludere fasi di utilizzazione più antiche del complesso, che potrebbero emergere con l’auspicabile approfondimento dell’indagine archeologica.… Naturalmente la Società Interporto è stata ufficialmente informata che qualsiasi ulteriore lavoro di scavo nell’area in questione doveva essere comunicato a questo Ufficio per le necessarie esigenze di tutela e che dovevano in ogni caso essere effettuate indagini archeologiche per poter valutare l’estensione fisica e cronologica del complesso”. Nella riunione del 27 ottobre 1999 tra Comune e SBAT viene stabilito di effettuare sondaggi. Su «La Repubblica» del 22 settembre 2000, la direttrice Poggesi dichiara: «per ora pensiamo che si tratti di un abitato di oltre 2 ettari e mezzo”; l’8 ottobre su «La Nazione» il presidente dell’Interporto dichiara di avere già speso oltre 250 milioni (diventeranno in breve 500) per finanziare gli scavi e che gli ettari ancora da scoprire sono almeno cinque (saliranno entro l’anno a 11 con l’apertura di un nuovo cantiere). Eloquente il titolo di apertura dell’articolo: “Parco archeologico e interporto. Una scommessa tra passato e futuro” che annuncia la messa in luce di: “una strada larga 10 metri e una serie di complessi abitativi con tanto di canaletti di scolo delle acque”. Questa lunga gestazione dei primi saggi esplorativi si conclude con un resoconto pubblicato su «Archeo» dell’emblematico titolo “Etruschi di periferia”. Così il soprintendente Bottini: “… sono stati costantemente seguiti tutti i lavori che comportano asportazione di terreno; inoltre, i diversi lotti dell’intera area sono stati di volta in volta sottoposti ad indagini geofisiche e alla successiva verifica di anomalie evidenziate, mediante saggi di profondità. E’ stato così possibile realizzare una mappa con le zone a rischio, all’interno delle quali ha preso avvio la ricerca archeologica vera e propria, interamente finanziata dalla Società Interporto della Toscana Centrale”. In seguito agli oneri finanziari e al “congelamento” di vari ettari edificabili, Camera di Commercio, Unione Industriali e Cari-Prato, soci dell’Interporto, scrivono al Sindaco Mattei in merito “all’ultimo grave problema: quello della ennesima scoperta – in sé positiva ma ‘inopportuna’ quanto all’’ubicazione dei reperti – di vestigia etrusche”. Tuttavia le maggiori e più clamorose evidenze archeologiche dovranno ancora manifestarsi e bisognerà aspettare il 2003 per averne piena cognizione. Ma già pare incombere sulla città etrusca un palese conflitto d’interessi, tra controllore e controllato, quasi fosse uno spettro aleggiante sugli scavi ancora a venire.)

Planimetria tratta dalla Carta Archeologica della Provincia di Prato, © SBAT 2011, p. 320, riguarda le tracce (Lotto 15 F/G) dell’insediamento etrusco messe in luce nel 2001.

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di Paolo Marini Rileggo alcune pagine del diario di Etty Hillesum, da lei scritto tra il 1941 e il 1943, prima di morire a soli ventinove anni. Etty è (non ‘era’ né, tantomeno, ‘fu’) una ragazza unica. Dotata di una sensibilità e di una intelligenza fuori dal comune, ha accettato “con gioia la bellezza di questo mondo di Dio, malgrado tutto”. In quel “malgrado tutto” c’è il male che essa poco a poco conosce ed affronta; è come misteriosamente preparata e così, non solo lo accetta, ma gli va generosamente incontro. Etty è per caso pazza? Forse. O forse ha soltanto preso una decisione fondamentale, ancorché incomprensibile ai più: ha scelto di fidarsi di Dio. Il resto è tutto e soltanto una logica conseguenza. A Dio l’ha condotta la sua “irrequietezza ‘creativa’”. Gli chiede di essere più e più volte presa nella Sua grande mano e di diventare Suo strumento. Tenerezza e grandezza, allo stesso tempo, di una piccola donna che ha pure i desideri, i dubbi, i pensieri di tante coetanee. E’ Dio che fa la differenza. Ne pronuncia ripetutamente il nome ed esorta ad averne il coraggio (quanto mai necessario, nell’oggi!). La concentrazione che scaturisce dalla preghiera edifica quegli “alti muri” in mezzo ai quali può ritrovare se stessa e la sua unità, “lontana – scrive - da tutte le distrazioni”. E così, in questa solitudine del cuore ma senza fughe dalla realtà (che anzi legge sin nel profondo) né dagli altri (coltivando relazioni sociali e personali), Etty è una donna che irradia luce, tanto di più dove fa molto buio. Le sue non sono pagine ‘trionfali’, racchiudono soltanto una ineguagliabile umanità. Non pretende di possedere il mondo, ne accetta le contraddizioni: un “lungo e doloroso processo” - anzi, un vero apprendistato del dolore – ha forgiato in lei una spiccata autonomia, “la presa di coscienza che (...) non esiste alcun aiuto o appoggio o rifugio presso gli altri”, perché essi “sono altrettanto insicuri, deboli e indifesi”; soffre interiormente una battaglia sanguinosa, da cui esce ogni volta sfinita ma (più) consapevole, capace di godere della bellezza anche in mezzo all’odio e alla bestialità, forte di una svolta: “è in te che le cose devono venir in chiaro, non sei tu che devi perderti nelle cose”. La giovane donna vive dunque momenti drammatici, segnati da una “oppressione di piombo”, eppure ama la vita ed è riconoscente per tutto il tempo che ha a dispo-

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sizione. E’ un amore, il suo, che attinge da quella sorgente interiore, quel luogo intatto e recondito in cui incrocia quotidianamente Dio. Nel diario è anche un abbozzo di estetica della narrazione, che si lega perfettamente alla mistica di questa scrittrice ebrea olandese: Etty vorrebbe scrivere “con altrettanto spazio intorno a poche parole”, senza cercare le ‘belle lettere’ ma “parole che siano organicamente inserite in un grande silenzio, e non (...) che esistono solo per coprirlo e disperderlo”. Essenzialità e silenzio si alimentano a vicenda, si compenetrano. Un giorno del ‘43, il 30 novembre, tutto questo vitalissimo, magmatico mondo interiore incontra il capolinea terreno. Etty ha scelto di condividere la sorte di tanti ebrei prigionieri: parte per Westerbork e lì si trova “davanti al nudo steccato della vita” (“davanti alla sua ossatura, libera da qualsiasi costruzione esterna, Mio Dio, ti ringrazio perché m’insegni a leggere sempre meglio”); viene quindi deportata ad Auschwitz. In lei era già matura la consapevolezza che “tutte le cose indispensabili che sono state rimandate per una vita intera devono essere sbrigate con urgenza”. La morte “grande, semplice, e naturale” - insieme ad una graduale rarefazione delle “raffinatezze della civiltà” - si era già lasciata riconoscere al suo cospetto. Ma la luce della sua anima aveva, ha continuato a splendere e lo fa ancora, anche in questo momento. Etty ci consegna con il diario una lunga ode alla vita, una diffusa preghiera di ringraziamento a Dio, il suo sicuro investimento nella fede e nell’amore. Che Dio sia con te, Etty.

Non devi perderti nelle cose


di Simonetta Zanuccoli Women House, la mostra femminista, radicale e a volte ironica presentata nello spazio espositivo con magnifica vista sulla Senna del palazzo della Monnaie, la Zecca nazionale della Francia, a Parigi in Quai de Conti 11, ha suscitato in molti qualche perplessità. Un’esposizione al 100% femminile con quadri, fotografie, sculture, installazioni, tessuti, filmati... di 39 artiste, note o emergenti, provenienti da diverse parti del mondo che ha come tema il rapporto tra la donna e lo spazio domestico inteso come rifugio o come esilio (la prison du foyer). La mostra, dopo la tappa parigina, sarà accolta al National Museum of Woman in the Arts a Washington. L’intento della sua organizzatrice, Camille Morineau, è anche quello di portare a sempre maggiore conoscenza la creatività femminile penalizzata, secondo la storica dell’arte, rispetto a quella maschile. La stessa Morineau è a capo di un’organizzazione no profit chiamata Aware (Archives of Women Artist Reserarch & Exihipitions). Nel 2009 aveva curato, sempre a Parigi, Elle@ Pompidou, una delle principali mostre dell’arte femminista del periodo. La necessità di trovare uno spazio personale, un rifugio, in casa propria fu teorizzato da Virginia Woolf nel libro “Una stanza tutta per sé” del 1929. E’ questo l’anno nel quale inizia la mostra per creare un percorso che arriva ai giorni nostri passando attraverso gli anni ‘70, momento di ribellione delle artiste contro la privazione di uno spazio reale (di esposizione) e simbolico (di riconoscimento). Il titolo della mostra è un omaggio a un evento, Womenhouse, organizzato in quel periodo a Los Angeles da Judy Chicago e Mirian Schapiro che, in linea con il movimento femminista che anche nell’arte cercava il suo spazio, misero a disposizione di 25 artiste una casa abbandonata per trasformarla con le loro opere in un manifesto di protesta sulla condizione della donna. La mostra parigina, che si apre con una enorme, coloratissima scultura di Niki de Saint Phalle, Nana House II, e termina con un altrettanto grande ragno di Louise Bourgeois, rappresentazione degli aspetti protettivi e terrificanti della figura materna e qui simbolo del potere femminile, si sviluppa in otto sezioni che mostrano la varietà dei punti di vista delle artiste presenti: femminista, poetico, politico o nostalgico. A chi ha espresso il dubbio che fare una mostra di sole artiste tenda a ghettizzare anziché celebrare il loro lavoro, Camille Morineau risponde senza incertezze: è in un certo senso un gesto politico e dispiace avere ancora biso-

Sorella arte gno di fare questo gesto. Non ci rimane quindi che sperare che arrivi presto il giorno che queste esposizioni di genere non saranno più necessarie e il lavoro delle donne sarà semplicemente mostrato come

Arte e non come Arte Femminile. Nel frattempo esorto le amiche che si dilettono come me con tele e pennelli di sostenere le nostre sorelle artiste e andare a vedere Women House prima che finisca il 28 gennaio.

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di Francesco Cusa Ok, va bene la fotografia di Storaro (già in “Cafè Society”), la regia sapiente, il movimento studiato delle macchine da presa… ma la realtà ci offre l’ennesimo esercizio di stile del Woody-Allen-di-Natale. La cosa che infastidisce, al netto di alcune gemme di rara bellezza (su tutte la telefonata “abortita” di Ginny), è l’impalpabile anelito di costrutto fondato su didascalie fin troppo annunciate. Insomma: il simbolismo de “La Ruota delle Meraviglie” è semplicemente ridicolo. Allen oramai assomiglia sempre di

di nettare in un’opera confusa, infarcita di citazioni sterili, manieristica fino alla nausea. Il magnifico caleidoscopio generato da Storaro evidenzia semmai - per contrasto - tale pochezza di idee, tutte cristallizzate nelle iconcine dei personaggi, in una sorta di presepe del ricordo che fa tanto nostalgica piéce disneyana. Il dramma reale è che Allen ha smarrito la sua visionarietà. Ancor peggio: Woody Allen è oramai incapace di farci ridere! E’ diventato un tessitore di trame sterili, acconciate da cinema autoriale, confezionate come il bel regalino inutile da mettere sotto l’albero. Ormai si va a vedere

nologo finale di Ginny, talmente paludato e fuori da ogni tempistica teatrale e cinematografica da indurre alla contumelia. Immaginate una sorta di epilogo dell’Odissea con Ulisse in preda al mal di mare). Al di là delle belle apparenze, ne “La Ruota delle Meraviglie” non funziona quasi nulla. Non c’è nessuna tensione che non sia frutto della recitazione. Mai come in questo film ho visto gli attori…recitare. Una cosa davvero insostenibile, figlia di un approccio coercitivo e rigido che ben mi ricorda certe griglie compositive in grado di rendere asfittica, ad es., un’opera musicale. Invano ho atteso

Il ridicolo simbolismo della Ruota delle meraviglie più a certi allenatori di calcio dagli schemi logori che continuano a riproporre il medesimo modulo (un tempo foriero di successi) sfruttando fino allo stremo la grandezza di certi campioni. Soltanto che, a un certo punto, vuoi per ragioni di logoramento, vuoi per ragioni di anzianità, gli uomini di sport hanno quantomeno il buongusto di ritirarsi dall’attività agonistica, magari in favore d’una carriera da commentatori televisivi, o di rappresentanza. Qui l’ostinato Allen (che non possiede l’immarcescibile necessità espressiva di un de Oliveira) spreme fino all’osso la classe di Kate Winslet e Jim Belushi, ne vampirizza anima ed essenza al fine di produrre poche stille

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il cinema di Woody Allen per “spacchettarlo”. Perfino i due killer (straordinarie maschere de “I Soprano”) paiono essere lì per il puro gusto della citazione, maschere aliene conficcate a forza in un contesto sbagliato (“I Soprano”: andatevi a rivedere quella straordinaria serie se volete davvero riconciliarvi col Cinema). Coney Island è il presepe, la cornice immanente in cui il regista demiurgo relega e confina i suoi personaggi. Il problema è che la tragedia che dovrebbe dispiegarsi in questa agorà rimane invece accartocciata fra le lamiere della ruota panoramica, fra le pastoie del suo sterile impianto concettuale, con risultati che rasentano il patetico (vedasi il forzato mo-

un segnale da parte del Deus Ex Machina, l’enorme mano che forza il cielo di cartapesta e irrompe nella scena facendo a pezzi la “Ruota delle Meraviglie”. Da quanto tempo si attende un segnale visionario del genere in un film di Allen? D’un qualcosa che possa polverizzare il “contegno” borghese di ogni sua ultima opera? Impossibile: è la poetica di un cinema centripeto che nasconde una “volontà d’impotenza”; è il gatto che non si morderà mai la coda, il gatto alleniano che implode nella spirale interna. Evviva dunque il bambino piromane: ma facciamogli dare fuoco anche a ‘sta pellicola! Che bel finale che sarebbe stato, vecchio caro Woody. Impara da Buster Keaton!


di Mariangela Arnavas Che le divisioni socioeconomiche e culturali tra strati diversi della popolazione in Italia nel 2018 siano profonde come strapiombi è un dato piuttosto evidente ma l’ultimo film di Riccardo Milani “Come un gatto in tangenziale “ lo descrive e approfondisce con grazia ironica e senza retorica, con ottimi tempi comici garantiti soprattutto dal tandem Albanese/Cortellesi, “squisitamente complici”. È un vero sollievo ritrovare un film commedia italiano che non sia , come in tutto un recente passato, solo una sequenza di spot senza un vero filo logico e narrativo; qui la tendenza si inverte, forse anche perché si parte da un’esperienza reale di vita del regista e per il lavoro intenso fatto sul campo nei quartieri romani. In sintesi, Giovanni, Antonio Albanese, è un intellettuale agiato, molto sobrio, abita in un lussuoso appartamento nel centro storico della capitale, è un progressista e lavora come consulente di una think tank che elabora progetti per l’ottenimento di fondi europei destinati al recupero delle periferie urbane degradate, viaggiando con la sua equipe tra Roma e Bruxelles; la sua esistenza viene sconvolta dalla scoperta che la figlia tredicenne, Agnese, è innamorata di un coetaneo dall’apparenza piuttosto coatta , Alessio, che abita in una delle periferie sulle quali Giovanni disquisisce a Bruxelles, senza mai averle frequentate e precisamente Bastogi, sei palazzoni tra Torrevecchia e Quartaccio, che, come dice un collega napoletano di Giovanni, “fa sembrare Scampia un centro benessere”. Un amore, quello di Alessio e Agnese, che si tatuano sui polsi le rispettive “A”, destinato appunto a durare, come dice Monica, “come un gatto in tangenziale “. L’incontro/scontro di Giovanni con Monica, una Cortellesi a tratti esilarante, ma sempre con umanità e amore per il personaggio e la necessità di tuffarsi nel temibile Bastogi che si apre con la scritta “Lassate ogni speranza o voi k’entrate”, saranno la sostanza della narrazione successiva. Due personaggi, apparentemente molto lontani tra loro, come si evidenzia quando insieme portano i figli al mare, una volta a Coccia de’ morto, spiaggia libera in pieno degrado, frequentata da Monica, ex cassiera che lavora alla mensa di una casa di riposo per anziani e Capalbio, dove Giovanni frequenta gli intellettuali radical chic in vacanza; apparentemente lontani, ma in realtà accomunati dalla condizione di genitori separati; Giovanni perché la moglie, una Sonia Bergamasco felicemen-

te spaesata, è andata a coltivare lavanda in Provenza, Monica perché il marito parrucchiere dal taglio troppo facile si trova in vacanza a Rebibbia; sarà l’affetto e il senso di responsabilità verso i figli che li accomuna a trasformare lo scontro iniziale in un rapporto possibile. L’equipe degli sceneggiatori e della regia ha lavorato davvero a lungo a Bastogi, tanto che alcuni abitanti del quartiere sono entrati felicemente a far parte del cast; particolarmente divertenti Alessandra e Valentina Giudichessa, nel film Pamela e Suellen, sorellastre gemelle di Monica, che parlano all’unisono e si dedicano a quello che definiscono eufemisticamente “shopping compulsivo”, in realtà saccheggiando sistematicamente i supermercati del quar-

tiere. Lo si potrebbe definire un film sulla nuova incomunicabilità o anche sugli effetti possibili di una contaminazione reale; non manca qualche cliché come quello della domestica immigrata classista o l’eccesso macchiettistico di Claudio Amendola, marito di Monica in uscita dal gabbio così come nel fumetto su Coccia de morto; sono invece trattate con ironica maestria le manie dei radical chic sia a Capalbio che a Roma dove nel cinema d’essai Monica non comprende perché non si possa mangiare qualcosa vedendo il film in lingua originale armena né tanto meno alzarsi prima della fine dei titoli di coda. Un film brillantemente comico, ben diretto e recitato, che si chiude con un apertura di speranza senza retorica.

Come un gatto

in tangenziale 17 20 GENNAIO 2018


di Andrea Ponsi Colline

Nob, Russian, Telegraph, Portrero sono Hills (colline). Pacific è una aristocratica Heights. Delle più o meno quarantatre , così si dice, colline e collinette che formano la città di San Francisco una le sovrappassa tutte per altezza. Non è una “hill” né una “heights”, ma qualcosa di più: è un “peak”, anzi, molto di più, è un Twin Peaks.

Mappe di percezione

Pacific Heights

Pacific Heights, high on the Pacific, con le strade che scendono parallele verso l’acqua della baia come solchi di un trattore in un campo coltivato. Pacific Heights è un altopiano da cui si può ammirare il traffico di navi. Passano lente le navi, isole in movimento, accanto ad Alcatraz, isola vera dall’aspetto di una nave abbandonata. Sulle strade si alternano le ville in vari stili : Tudor, Georgean, French Hotel, Palladian, Coloniale. Sono belli i tramonti oltre le finestre delle belle case, accesi i caminetti nei salotti decorati. Sono ben curati i fiori dei giardini, lucide le Jaguar e Bmw’s dentro i garage. Garage Sale

La parte più intoccabile della strada è dove il cordolo dei marciapiedi (curb) si assottiglia e si fa piatto per chiarire che lì non ci si ferma con la macchina, lì c’è un garage! “Tow away , day and night” è spesso ricordato da un cartello. Il garage è spazio sacro, ancora più dell’ingresso della casa. Questi edifici, anche se sembrano di un’era pre-industriale, sono stati costruiti quando l’automobile era diffusa. Nelle strade non troppo commerciali ogni casetta ha il suo garage. Per il proprietario è un gran vantaggio, perché i posti sono due: uno dentro e uno davanti sulla strada, dove solo lui può parcheggiare. Il garage fa anche da stanza deposito, una specie di cantina della casa e talvolta da negozio, il sabato o la domenica mattina quando durante il garage sale vi si accatasta cianfrusaglie di ogni tipo. Questo spazio così tenacemente protetto, chiuso e indisponibile, diventa per un giorno spazio pubblico, estensione della strada aperto a tutti: passanti, curiosi, compratori.

sta fuori, quindi di entrare, ma un’ auto-imposta reclusione per chi sta dentro, quindi di uscire. Le “gated communities” rappresentano una delle forme estreme del “defensible space” urbano. Sono il segno della voglia di mettere confini, del desiderio di convivere con chi ci è più simile, della insicurezza che trasmette la città: la conseguenza è la progressiva erosione dello spazio pubblico a favore del privato. Si dirà: è un bisogno primordiale; tutte le porte, i cancelli, i ponti (levatoi) non hanno la stessa funzione? Non servono a proteggere dal pericolo, a scoraggiare gli intrusi, a unire gli assediati?

Gated Communities

Cable cars

Lungo le strade sinuose e ben tenute del Presidio si incontrano spesso dei grandi portali che indicano la presenza di esclusive “gated communities”. Dalla definizione sembra quasi che il divieto di passaggio non è tanto rivolto a chi

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San Francisco

C’è un edificio all’angolo di Washington Street e Mason Street che è il motore ( powerhouse) di tutte le cable cars della città. Come in una fabbrica di fiaba, in una grande sala all’interno del palazzotto di mattoni, quattro immense

ruote girano con un assordante sferragliare tirando tutti i cavi di acciaio che scorrono sotterranei nelle strade. A quei cavi si aggrappano le cable cars per scalare, e scendere, i colli più scoscesi. Nelle strade il cavo non si vede, ma si sente ovunque passa la rotaia. Anche se non ci sono in vista le vetture, si sente sempre questo continuo rombare del cavo sotterraneo, questo brusio di fiume carsico, lo sferragliare nascosto di una metropoli proto-industriale dell’800 che sembra non fermarsi mai. Sotto l’ interstizio metallico largo pochi centimetri ma lungo decine e decine di miglia, che insieme alle rotaie segnano di luccicante acciaio tante strade di San Francisco, scorre quel filo comandato da un grande, unico motore. Un motore alloggiato in un piccolo edificio che della città è il cuore vivo e pulsante, creatore di energia e movimento.


di Michele Morrocchi Il gennaio del Teatro di Rifredi è decisamente all’insegna di Serra Yilmaz, l’attrice icona di Ferzan Ozpetec che da anni è una presenza fissa della stagione di Pupi e Fresedde (in cartellone anche questa stagione per l’undicesimo anno consecutivo) con l’Ultimo Harem e da qualche anno anche con la Bastarda di Instambul, (che sarà in scena Roma alla Sala Umberto dal 15 al 25 marzo). Ai due successi ormai consolidati firmati Angelo Savelli quest’anno la compagnia di Rifredi ha aggiunto il testo di Coraly Zahonero, autrice e attrice della Comédie Française, Grisélidis, memorie di una prostituta. Un testo che l’autrice ha costruito sulle memorie e le interviste della prostituta franco-svizzera Grisélidis Réal che visse la sua “professione” come un’arte, costruendoci sopra una poetica che riversò in libri, quadri e nella sua attività militante a favore dei diritti delle prostitute. Lo spettacolo ha ricevuto un’accoglienza straordinaria in Francia e arriva nel nostro Paese al Teatro di Rifredi dal 25 al 27 gennaio dopo essere andato in scena a Vicenza nel dicembre scorso. Serra Yilmaz regala una interpretazione sentita, calandosi nella parte e portando di Burchiello 2000 Il ministro Franceschini ha diffuso gli ultimi dati incoraggianti sui nostri siti e musei maggiori. Dati che confermano il trend che, da anni, cresce “naturalmente”, anche per una generale crescita del turismo d’arte nel mondo. Ma questo deve misurarsi, forse, con altre notizie di segno contrario. La notizia del flop di iscrizioni ai corsi universitari in “Beni Culturali”, nonché il documento assai critico verso la politica ministeriale espressa da Franceschini, sottoscritto da sessantasei studiosi e specialisti del nostro patrimonio artistico, sembrano far emergere una condizione di disagio ben diversa da quanto prospettataci ufficialmente. Il documento, ove appaiono firme autorevoli, quali quelle di Andrea Emiliani, Francesco La Regina, Licia Vlad Borrelli, Bruno Toscano, Vezio De Lucia, parte da una considerazione che, se vera, sarebbe piuttosto grave: il silenzio imposto ai funzionari e al personale scientifico-tecnico e ai soprintendenti, in particolare. Il documento dei 66 si ferma su alcuni punti in particolare: la spesa reale per i beni culturali che resta fra le più basse d’Europa a fronte della dimensione del nostro patrimonio artisti-

Serra Yilmaz nei panni di Grisélidis, prostituta geniale in scena oltre al testo il suo impegno di intellettuale e di donna mostrandoci questa prostituta rivoluzionaria, l’approccio dei maschi, la poesia che si può trovare anche nel “mestiere”, senza però mai idealizzarlo. Una presenza scenica cruda, diretta, sottolineata

dalle musiche eseguite in scena da Stefano Cocco Cantini. Uno spettacolo che in tempi di regressione del discorso pubblico e privato sul corpo delle donne lo rimette al centro insieme alla sua dignità e alla sua libertà da (ri)conquistare.

Che succede al Mibact?

Non ultima, si ricorda la disapplicazione del codice e della legge sul paesaggio da parte del ministero che ha lasciato gran parte delle regioni senza “piani paesaggistici”. Ma altri hanno fatto notare come sia da considerare una grave anomalia istituzionale quella di stipulare “patti”, direttamente fra ministro e autorità comunali, bypassando ogni programma delle soprintendenze e depotenziandole fin quasi ad emarginarle ; cancellando così una norma fondamentale di buon governo che ha sempre caratterizzato la programmazione della spesa (modesta in verità) del ministero dei beni culturali. Di ciò, un esempio calzante sarebbe proprio Firenze, ove il patto diretto col Comune ha prosciugato le risorse delle soprintendenze, concentrando la spesa sui soli monumenti di proprietà comunale, abbandonando la doverosa cura persino dei beni e dei complessi monumentali demaniali, di proprietà dello stato. Insomma, il documento dei 66 lamenta una conduzione del ministero che avrebbe “svuotato la tutela”. Se così fosse, che ne sarebbe di quel ministero che Giovanni Spadolini fortemente volle per restituire dignità e ruolo al nostro patrimonio artistico ?

co, l’impegnare risorse in obiettivi futili quali le gare di canottaggio nella vasca monumentale della Reggia di Caserta, le mostre del Napoli calcio nel Museo Archeologico, la valorizzazione dei beni affidata prevalentemente a fondazioni private. A tacere della sottomissione delle soprintendenze alle prefetture, dalla singolare gestione di alcuni concorsi giudicati in conflitto di interessi dall’autorità anticorruzione, del curioso investimento di 18 milioni per consentire al Colosseo i giochi gladiatori, ed altro ancora. L’autorevolezza della denuncia di ex-soprintendenti e di cattedratici universitari del settore non può non preoccupare, soprattutto se si considera l’avvertibile politica di depotenziamento della tutela e della conservazione a favore di una dominante spinta verso il turismo, mai affrontato con responsabilità per la dimensione eccessiva e talvolta persino “distruttiva” che questo ha raggiuto in alcune realtà di centri storici e musei del paese.

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di M. Cristina François Mi ha sempre interessato nella Cappella Capponi la presenza, discutibile per i più, del cenotafio con reliquia dedicato a S.Carlo Borromeo. Non è fatto trascurabile ritrovare per volontà dei Capponi nella loro Cappella questo Santo così legato al Concilio di Trento e così operante in esso nella sua Sessione conclusiva, Santo che “emanò Decreti in ordine alla salvezza delle anime” (cfr. Memoria del Martirologio Romano). Nato nel 1538, sarebbe ovviamente assurdo parlare di un suo influsso sulle opere di Pontormo eseguite nella Cappella tra il 1525 e il 1528; come pure sarebbe anacronistico intravedere il suo pensiero nella nuova definizione dello spazio religioso che la nobile famiglia si riservò in S.Felicita. Eppure il suo legame con i Capponi, anche se successivo, merita alcune riflessioni in quanto il Cardinale Orazio Capponi - inserendo nella Cappella il monumento a S.Carlo - riconoscerà implicitamente un programma teologico Tridentino dipinto ‘ante litteram’. Va sottolineato che il pensiero teologico e spirituale del Concilio soggiaceva in seno alla Chiesa Romana e che non si cominciò a edificare il suo gigantesco e vigilante costrutto soltanto a partire dal 1545 (anno dell’apertura conciliare): infatti la Riforma Cattolica si annunciava già da prima del 1517 (anno della Pubblicazione delle 95 Tesi di Lutero); certi punti fermi che verranno raggiunti dal Concilio erano stati posti in anticipo dal Savonarola: “l’insegnamento del Frate si palesa fecondissimo sul piano etico e religioso, molto oltre la morte di lui […]; l’incarnazione e la passione di Cristo aprono all’anima la porta della felicità eterna” (in “Aspetti della Controriforma a Firenze”, di A.D’Addario, ed. Ministero dell’Interno, Roma, 1972, pp.27-28). Lo stesso esempio di A.Del Sarto si rivelò fin dal 1523 “del tutto attuale nell’età della Riforma cattolica […] conoscendo poi […] la sua inclinazione per la spiritualità severa del Savonarola” (A.Natali, “Il Cinquecento a Firenze”, ed. Mandragora, Firenze, 2017, p.89). Una Riforma Cattolica è dunque in precoce movimento essendo i suoi effetti ‘retroattivi’ o, se si preferisce, ‘anticipatori’. Anche nell’opera del Pontormo in S.Felicita (1525-1528) si palesa questa anteprima controriformata. I Capponi dimostrano con il Cardinale Orazio che l’inserimento cent’anni dopo del pur tanto discusso (allora come ora) monumento a S.Carlo Borromeo (1620) conferma come ancora icono-

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Tra Pontormo

Cappella Capponi: Monumento a San Carlo Borromeo (1620)

graficamente valido il pensiero Tridentino soggiacente alla macchina architettonica e pittorica della Cappella, sottolineando così il legame anticipato e a distanza dell’opera del Pontormo con lo spirito del Concilio. Il cenotafio del Santo permette di leggere simbolicamente i dipinti del Pontormo nell’ottica rovesciata dei valori conciliari: prova ne è, ad esempio, che il vaso con i tre gigli - allusivi alla “sempre Vergine Maria” - cancellato dal monumento nella parete dell’Annunciazione, viene ‘recuperato’ in pietre dure sull’apice del cenotafio stesso come “vaso più piccolo, ma di gioie” (cfr. B.Pao-

lozzi Strozzi, “Di un ramo di gigli del Pontormo”, Kunst, gennaio 2000, p.63). Fatte queste premesse sarà possibile anche riconoscere nel nuovo assetto voluto dai Capponi i riflessi anticipati del “Catechismo Liturgico Tridentino” e, implicitamente di S. Carlo Borromeo. Infatti il Santo presule collaborò largamente alla stesura del Catechismus Romanus che poi giungerà, quasi immutato, alla versione del “Catechismo Liturgico” del Padre Barin (1934) dal quale sono tratte tutte le mie successive citazioni relative alla lettura della Cappella e dei suoi dipinti, lettura che mi accingo ora a


e San Carlo fare (CATECHISMO LITURGICO, I vol., Sac. Luigi Rodolfo Barin, Ed. Istituto Padano, Rovigo, V ed.1945). Cominciamo dall’ALTARE che da sempre custodisce la doppia valenza di “mensa” e di “sepolcro”: il “Catechismo” stigmatizza questi due significati e vi si legge che “Nei primi secoli i primi altari furono sul modello della tavola” perché “per il culto erano obbligati a radunarsi in case private” (p.210). “Nell’Occidente si mantenne qua e là l’uso degli altari-tavola fino all’XI sec.”. Invece per l’altare-sepolcro il “Catechismo” fa riferimento a S.Agostino il quale “ci parla (“De Civitate Dei”, VIII, 27) di un Altare costruito sopra il corpo di un martire” (pp.210211); [è questa una tipologia] che risale all’uso dei primi cristiani rifugiati nelle catacombe per le adunanze liturgiche e che celebravano sopra la tomba di un martire”. Come pure a Roma, più tardi, “le sacre reliquie furono racchiuse in quelle preziose vasche di granito, di porfido, o di basalto, che avevano servito alle terme […] l’altare così era bello e pronto in una forma di tomba. L’altare a tomba fu abbandonato allora che non si potevano avere corpi interi […] e minuscole reliquie trovavano posto sotto le pietre sagrate” (col rito segnato dal Pontificale) e quindi l’altare “si presentava o massiccio o in forma di tavolo”. “L’Altare ricorda quello descrittoci nell’Apocalisse (VI,9) sotto il quale si odono le voci di coloro che vennero uccisi per la Fede; per questo nella sua consacrazione si esigono reliquie di Santi Martiri”, p.212. Si mantenne così la relazione tra il sepolcro dei martiri e l’altare che prendeva la forma di tomba: nella Cappella del Pontormo il “Martire” per eccellenza è Cristo, Agnello sacrificale, già più volte descritto da A.Natali. Si ricorda che l’altare sottostante la pala del Pontormo fu più tardi distaccato dal muro, ma in origine era - come richiederà formalmente il “Catechismo Liturgico” - “ex murum confectum”, p.218 (Decreto 3162); inoltre le parti che lo compongono non devono essere disgiunte tra di loro e dal sostegno”, p.219 (Decreto 3497) e “la lastra che serve da mensa deve essere tutta di un pezzo (Decreto 2862)” , infine “ ‘altare debet esse lapideum’ (Miss. Rubr. Ge. Tit. XX), regola che deve essere

intesa in senso rigoroso (Decreti 2862, 3674, 3962) […]. La mensa deve essere sostenuta da colonnine oppure da un ripieno di marmo o di laterizi, dando all’altare col primo modo la figura di tavola, col secondo quella di sarcofago o tomba”, p. 215. Oggi, purtroppo, vediamo questo altare Capponi nella versione ottocentesca che si è rivelata poco rispettosa di queste regole a causa di interventi postumi (vedi il mio articolo in “Cultura commestibile”, n.224, p.13). La TOVAGLIA: “La materia per la tovaglia è il lino, e, dove questo non si potesse avere, la canapa […] e [le tovaglie] devono essere benedette” pp.224-225 (Decreto 2600). “Misticamente rappresentano il sudario per il Volto e gli altri lini con cui fu involto il corpo del Salvatore” (ibidem). “Secondo il ‘Pontificale’ (Ord. Subdiac.) esse significano ‘membra Christi’ (ibidem)”. Dunque, in sintonia col “Catechismo liturgico”, dice bene chi sostiene che il tessuto raffigurato dal Pontormo per deporre sull’altare il Corpo di Cristo, il tessuto che avvolse il Suo Corpo straziato (la Sindone) diventa simbolicamente tovaglia nel momento in cui il celebrante dice Messa e il Corpo di Cristo si transustanzia. I CANDELABRI: il Catechismo recita che sugli altari laterali i candelieri possono essere 4 o 2 (Decreto 3137), ma “non possono essere suppliti da candelieri a più bracci”, p.235 (ibidem). Prima del Concilio di Trento, “dal sec.X al XVI, come risulta dagli Inventari delle Chiese […] due soli erano i candelabri, anche sull’altare maggiore” (p.236). Così fu per la Cappella Capponi e due candelabri con inciso lo stemma familiare sono conservati ancor oggi in S. Felicita. A parer mio, nella pala del Pontormo i due candelabri sono raffigurati, dai due Angeli in primo piano: basti ricordare a questo proposito le innumerevoli raffigurazioni di Angeli reggi-candelabro, sia in pittura (per es. di Rosso Fiorentino, “Cristo morto fra gli Angeli” oggi a Boston) che in scultura (per es. “l’Angelo reggi-candelabro” in marmo eseguito da Michelangelo, Arca di S. Domenico, Bologna). Sempre due Angeli, perché sostituiscono i due candelieri di rito durante la Messa. Il “Catechismo Liturgico” ricorda in proposito che prima, e cioè fino al sec XVI, i candelieri

“erano sostenuti da accoliti ai lati dell’altare durante le sacre cerimonie”, p.234. La LAMPADA: per gli altari laterali il “Cerimoniale dei Vescovi” (I vol., cap.XIII, 17) prescrive che la lampada dovesse essere una e sempre accesa durante le Messe (Decreto 2890), (p.237). Una sola lampada d’argento è documentata infatti in questa Cappella, ma non più reperibile. L’ANTEPENDIUM o PALIOTTO dovrà essere di materia “ne rugosa, aut sinuosa, sed extensa et explicata”, p.225 (“Cerimoniale dei Vescovi”, I vol., cap.XII, 11). Se ne farà uso solo negli “altari a mensa” e non in quelli “a sarcofago”: è questo il caso dell’altare Capponi che ebbe un suo paliotto fisso facente parte del programma iconografico dell’insieme. È assai possibile che fosse da identificarsi con il noto “tondo” (poi ovale) custodito presso Palazzo Capponi delle Rovinate, raffigurante la “Madonna col Bambino”. Questo Mistero dell’Incarnazione del Signore e di Maria Deipara, dipinto su di un paliotto, è così ben esemplificato nel quadro di Santi di Tito - opera giustamente più volte citata da A. Natali (“Bene scripsisti de me Thoma”, Uffizi, 1595) - da essere a mio avviso emblematico così da potersi riferire iconograficamente al paliotto della Cappella Capponi. La CROCE: considerando che “non sono permesse sull’altare più immagini dello stesso titolo”, p.214 (Decreto 3732), nella pala di Pontormo la Croce non compare perché si tratta di un dipinto simbolico il cui messaggio non passava attraverso una rappresentazione storico/narrativa, bensì teologica. Questa credo sia la logica che sottende alla mancanza di riferimenti materiali e contestuali, come la Croce. L’unico riferimento materiale, una scala sul Golgota appena accennata in un bozzetto, che fu poi ‘ripensata’ e sostituita dalla Nube (per il significato teologico della Nube, vedi il mio articolo in “Cultura Commestibile”, n.240, p.19). Sull’altare stava di regola una Croce perché “si vuole che ogni altare [la] abbia qual primario ornamento”, anche se “non è dato di precisare il tempo in cui fu reso obbligatorio l’uso di essa”, pp.226-227. Vorrei concludere questo testo con la lettura simbolica del bianco tessuto svolto e tenuto fra le mani dalla pia donna posta al vertice del dipinto: per il fatto che si tratta di un lino (?) bianco, quasi luminoso, come intatto e posto nel punto più alto vicino al Cielo, penserei che esso alludesse alla veste bianca della Trasfigurazione o alla Resurrezione stessa annunciata da un Angelo “vestito bianco come neve” (Mat. 28,3).

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di Cristina Pucci Dopo avere intervistato collezionisti di bambole antiche, di giocattoli di latta, di Pinocchi e dopo aver dedicato attenzione alle vecchie bizzarrie oggettistiche di Rossano, una mostra che si chiama “La trottola e il robot”, Tra Balla Casorati e Capogrossi e che espone antichi giocattoli e opere d’arte in tema, mi sembra assolutamente da non perdere. Si trova al Palazzo Pretorio di Pontedera , paesone fra Firenze e Pisa, che oltre a questa Istituzione che propone interessanti Mostre temporanee, possiede il Museo della Piaggo, la cui fabbrica principale qui si trovava e si trova, e un Teatro dal programma di tutto rispetto. La collezione di giocattoli d’epoca esposta appartiene al Comune di Roma, quadri e sculture e simili hanno la più varia, e spesso privata, provenienza. Sono sei le sezioni tematiche “La Casa” ,”Giochi all’esterno”, “L’Educazione “, “Teatro Maschere e Circo”, “Giochi senza età” ed “Automi”. Nella prima sezione, quella della casa, oltre a deliziose e più o meno semplici case per bambole, in una di esse, in una stanza, solo minuscolissimi cappelli, c’è una vera cameretta color giallo paglierino decorata ad opera del celeberrimo Mussino con personaggi e scene di Pinocchio che compaiono su spalliera del letto, sedia, ante dell’armadio e del comodino, tavolino, il lampadario è formato da un girotondo di pinocchietti di legno che tengono le lampadine. Nella sala campeggia un grande ritratto, (A. Noci) , di una bella bambina con in collo un cane. I giocattoli che si vedono sono non solo molto belli, ma anche disposti in modo da poterseli imma-

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La trottola e il robot ginare all’opera, c’è una bellissima bambola superelegante su un triciclo, vari cavalli a dondolo, più o meno antichi, uno grande e nero, uno bianco, perfetto, alcuni più piccoli, tutti splendenti, un dondolo di metallo dall’aria vintage, i quadri ci mostrano bambini che si dondolano , che fanno il girotondo, che saltano la corda, che giocano con i birilli, che vanno al circo. In casa si studia pure e molti quadri raffigurano eleganti ra-

gazzini che leggono, suonano, si impegnano in attività didattiche. I trenini e i pupazzetti di latta che saltano o comunque eseguono qualche piccolo movimento, così come i giochi da tavolo, sono perfettamenti conservati e come consapevoli del proprio valore e della loro età , dialogano sereni con noi, direttamente dal secolo passato. Il gioco è attività creativa per eccellenza vi regnano fantasia ed immaginazione, ma anche regole ed imitazione della realtà circostante. Ogni bambino è un po’ come un artista in fieri e ogni artista, che osserva l’ordinario con sguardo staordinario, è un adulto che ha conservato in sè il bambino che è stato. In questa bella ed originale mostra ci sono molte opere di Fortunato Depero, a me piace molto la fantasmagoria dei suoi colori e la sua prorompente ed originalissima creatività che nemmeno le linee rigidamente geometriche che predilige riescono ad imbrigliare. Dopo aver scritto insieme a Balla un documento titolato “Ricostruzione futurista dell’Universo” nel quale teorizzano di occuparsi di ogni campo ed attività comprese moda, arredamento, scenografie e costume teatrale, inventò il “complesso plastico”, un equivalente polimaterico in salsa futurista della scultura da utilizzarsi anche nelle rappresentazioni e nei balletti. Non sfondò come collaboratore e realizzatore di scenografie per altri e ideò uno spettacolo tutto suo e di cui curò regia ,scenografia, costumi e realizzazione dei protagonisti, animaletti di legno deliziosi. Erano i “Balli Plastici” , 5 brevi pièces ricche di humour grottesco e bizzarissima fantasia. Possiamo qui ammirarne una intera scena abitata dai suoi animali stilizzati e coloratissimi, superbi direi.


di Danilo Cecchi Si dice che le donne, comprese le fotografe, abbiano la visione periferica più sviluppata degli uomini, compresi i fotografi. Non esiste una prova scientifica di questa teoria, mentre sembra facilmente dimostrabile che molte delle donne fotografe hanno, ed hanno avuto, un tipo di visione più penetrante e più attenta di quella di molti fotografi uomini, soprattutto in quel genere di fotografia di strada che viene comunemente indicata come fotografia “sociale”. Il lavoro di molte fotografe, messe a contatto con la realtà sociale, con situazioni precarie e con problematiche difficili, rivela la loro maggiore disponibilità all’avvicinamento ed all’empatia, e dimostra come i personaggi fotografati dalle donne siano in genere meno propensi ad erigere barriere, a trincerarsi dietro una maschera, a nascondere pensieri ed emozioni. Fra i lavori di documentazione sociale realizzati dalle molte donne fotografe che hanno affrontato questo genere, non va trascurato quello di Erika Stone, nata in Germania nel 1924 da una famiglia ebrea rifugiata in America nel 1936, e cresciuta nella New York degli anni Quaranta e Cinquanta, praticando la fotografia da giovanissima, dapprima con la Leica del padre, poi come membro della famosa Photo League, una libera associazione inserita nel 1947 nella lista nera del ministero della Giustizia in quanto considerata “sovversiva”, e sciolta nel 1951. Erika continua a studiare fotografia nella New School of Social Research con Berenice Abbott e George Tice, nel 1951 vince il concorso per giovani fotografi di Life Magazine, pubblica le proprie immagini sul prestigioso U.S. Camera Annual nel 1952 e poi negli anni 1954, 1955 e 1956, e lavora come fotogiornalista per riviste come Time e Der Spiegel fino al 1960, per dedicarsi poi alla famiglia ed ai due figli, cambiando del tutto genere fotografico. Se per le riviste illustrate firma numerosi servizi e fotografa molti personaggi celebri, la parte più interessante della sua opera viene realizzata nel tempo libero, nelle strade di New York, fotografando la gente comune, la vita di ogni giorno. Soprattutto frequenta i quartieri popolari, quelli multietnici, in cui si affollano i vecchi ed i nuovi immigrati, in cui la vita è più difficile, al limite della sopravvivenza, in cui la strada è l’elemento che accomuna tutti, il luogo in cui la vita scorre più prepotente, in cui ci si incontra e ci si scontra. Lavorando per le riviste ha avuto modo di visitare anche l’Europa ed altri paesi, riportandone immagini paragonabili a quelle prese a New York. In una recente intervista, alla soglia dei novant’anni, Erika ha dichiarato: “Di solito prendevo un pomeriggio alla settimana, mio marito curava i

figli, e io andavo a fare fotografie ed a camminare. Ero sempre interessata a fare con le mie fotografie qualcosa che potesse migliorare il mondo. Ho provato a fotografare la natura, ma non ne è uscito niente di buono. Non sono interessata alla natura, perché sono interessata agli esseri umani e alle loro storie. Tanti soggetti mi ispirano, ma soprattutto è la gente che mi ispira. La fotografia è la mia vita, è la ragione per cui vivo. Amo parlare alla gente delle loro vite, delle loro storie di vita. Ecco perché la mia macchina fotografica le cercherà sempre.” Del suo lavoro hanno detto: “La capacità unica di Erika di catturare lo spirito umano è potente e va dritta al cuore. Ci ricorda che ogni persona ha una storia unica da condividere e le fotografie di Erika sono quei

momenti speciali. Queste iconiche fotografie in bianco e nero catturano la semplicità del soggetto, il soggetto preferito di Erika: le persone. Ciò che rende il lavoro di Erika così straordinario è il modo in cui usa la sua macchina fotografica, sia nei suoi primi anni come fotografa di strada ad Harlem, sia in Bowery quando ha focalizzato il suo obiettivo sul trionfo dello spirito umano, o quando ha fotografato gli immigrati a Ellis Island, o quando ha fotografato un transessuale che documenta il suo viaggio, Erika ha sempre avvicinato i suoi soggetti con dignità, compassione e completa obiettività “. Nel 1982 Erika Stone è stata una delle venti donne fotografe il cui lavoro è stato pubblicato nell’antologia “Women of Vision”.

Erika Stone fotografa sociale

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di Gianni Bechelli Sant’Agostino rispondeva, a chi gli chiedeva cosa facesse Dio prima della creazione del mondo, che preparava l’inferno a chi faceva questo tipo di domande. Ed è in fondo il tipo di domanda che ci facciamo anche oggi: che c’era prima del mitico Big Bang? Meno minacciosamente oggi possiamo rispondere che il Big Bang non è nato nel tempo e nello spazio ma col tempo e lo spazio, non c’è un prima. I nostri parametri logici, da cui scaturisce questo tipo di domanda nascono dopo, anch’essi nel tempo e nello spazio. Del resto oggi sappiamo che i nostri concetti di spazio e tempo perdono il significato da noi conosciuto nel vortice di un buco nero o nell’infinitamente piccolo oltre la cosiddetta costante di Plank. E sappiamo che circa 14miliardi di anni fa una quantità inimmaginabile di energia è scaturita dal “nulla” e ha prodotto centinaia di miliardi di galassie, ognuna con centinaia di miliardi di stelle che ancor oggi corrono a velocità crescente allontanandosi l’una dall’altra. I resti di quella esplosione sono presenti nella radiazione elettromagnetica di fondo, scoperta per caso negli anni 60, che permea tutto il cosmo e la velocità di fuga delle galassie è calcolabile ed è imprevedibilmente e illogicamente in continuo aumento in proporzione alla distanza. Un bel cambiamento per chi pensava ancora poco tempo fa ad un Universo fondato sulla sola via Lattea ed in sostanziale equilibrio. Il grande Einstein dovette inventarsi la costante cosmologica per giustificare un universo in equilibrio a controbilanciare la forza distruttiva della gravità (ovviamente anche su questo poi ha avuto ragione, solo che quella forza avrà altra e più larga funzione e spiegazione ed altro nome si chiamerà energia oscura e ne parleremo). Invece molti eminenti scienziati hanno pensato perfino ad una vittoria finale della gravità tale da riportare indietro le galassie in corsa fino al punto di partenza, come un film al rovescio, fino all’esplosione successiva in una sorta di ciclo eterno di rinascite, alla maniera orientale solo, che qui rinasce e si rincarna l’universo e non il singolo individuo. Non è così. Tutto almeno oggi sembra dire che l’Universo corre allontanando tutte le galassie ed espandendosi a velocità crescente e fra miliardi di anni la sua corsa finirà disintegrando stelle e galassie e a prevalere sarà il buio e il gelo e il nulla. Certo tra mi-

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Prima del Big Bang non c’era un prima

liardi di anni, ma diciamolo, un po’ inquieta questa apocalittica fine del mondo, più di quanto la sia pur poco gradevole prospettiva di un sole gigante rosso che inghiottirà ancor prima la Terra. Niente in realtà è definitivo, considerando che siamo a conoscenza forse del 10% di ciò che c’è davvero nell’universo di cui abbiamo nozione, il più ci sfugge e quindi tutto può essere. Intanto, non sapendo cos’è questa energia oscura che ci attrae inesorabilmente e altrettanto cos’è la materia oscura che sappiamo esistere per la sua forza attrattiva, che tiene insieme le galassie altrimenti destinate a spappolarsi per la forza della sola materia “chiara”, possiamo tuttavia sperare in un concetto di Infinito diverso da quello di Universo e Cosmo regolato. Non sono la stessa cosa, o almeno non lo sono necessariamente. Questo Infinito è l’indescrivibile degli infiniti mon-

di di Giordano Bruno, mai adeguatamente apprezzato per le sue intuizioni sconvolgenti anche per la teologia, ma è anche ciò a cui sembrano portare per strade diverse alcune delle varie attuali attività scientifiche e non solo nel campo della fisica dell’astrofisica e della fisica quantistica. Tutto questo potrebbe riaprire la partita in modi imprevedibili e anche un po’ fantasiosi. Ma la scienza ci abitua sempre più alla meraviglia. E la meraviglia, sosteneva già Aristotele, è ciò che ci rende attraente la conoscenza e la scienza. Questa torsione, che porta la fisica vicina ai limiti della metafisica (“l’altro” da sempre per la scienza moderna) ha vari nemici tra i fisici abituati a misurarsi con le cose e le teorie e la loro concreta verificabilità, e tuttavia per la prima volta ,da secoli, il tema dello sconfinamento tra i due campi si pone concretamente e si cercano nuove risposte.


Da Piero e da Alberto, rivisitazioni di Annamaria M. Piccinini Da Arezzo a Sansepolcro per vedere Piero, a Città di Castello per vedere Burri, si traversano secoli. Sul profilo delle stesse colline, sullo scabro delle stesse terre, sui cretti.-.perfino.-. che il tempo ha fatto scoppiare sull’intonaco e sulle tavole dell’uno, apparentandolo, ancor più, all’altro. L’ occhio che si posa sulle stesure consunte e sulle geometrie di San Francesco non fa fatica a passare sulle trame lise o sulle sabbie di certi “cellotex” delle pareti dei “Seccatoi”. Non si sa che aspetto avesse Piero; possiamo solo immaginare quanto fossero luminose le pareti della Basilica appena dipinte da lui. La cattedrale di Burri, invece, è negli ex capannoni della Fattoria Tabacchi di Città di Castello. Un luogo, una cattedrale di oggi, riattivata dall’Artista che l’ha fatta sua con le pareti ‘affrescate’ dalle sue opere a raccontare un’unica, eterna avventura: quella della materia, della luce, del colore e della loro misura. Burri era medico e della scienza medica aveva conservato il gusto per la dissezione, per l’impietoso scavo della realtà. ”Gli uomini sono cattivi”.-.diceva.-.”Vede com’è crudele la natura; e gli uomini ne fanno parte. Ci vogliono millenni per arrivare a un po’ di civiltà. Perciò non ci si può permettere di compiere atti barbari.-.parlo di pittura.-. e poi far finta che siano capolavori. L’arte, la verità della pittura, sono cose difficilissime ed esigono tutto”. Burri ha costruito il suo tempio, che nella dignità e spogliatezza delle sue architetture, non è inferiore a quelli del passato. L’ha voluto con la sua azione solitaria e caparbia. E ora i suoi cretti, le sue plastiche schiantate e bruciate, i suoi monocolori in elegantissime sequenze in nero, sono lì a testimoniare le tragedie di un secolo, con un linguaggio omologo fino all’estremo, dalla seconda guerra mondiale alla guerra del Vietnam. Tutto questo confermando la difficilissima parola di Burri: che la materia, pur restando tale, può trasformarsi in arte oggi.-.quando è autentica.-.come cinquecento anni fa .

Valentino Moradei Gabbrielli

Art-è sponsor? Visitando il Museo degli Uffizi, ho notato l’impegno profuso dalla Fondazione Friends of Florence, da gli Amici degli Uffizi e da altre figure per il restauro delle opere esposte e, conservazione e riorganizzazione degli spazi

museali. Il percorso, è costellato di targhe che accompagnano le opere quasi senza soluzione di continuità. Nei corridoi, come nell’interno delle sale più importanti e meno. Una presenza quella degli sponsor, costante nel tempo che parla di sensibilità e generosità. Una presenza sempre più presente, sempre più generosa, sempre più visibile. Leggendo con attenzione le targhe, ho osservato che le indicazioni riguardanti i donatori presenti nelle didascalie, con il passare degli anni, siano diventate sempre più grandi nelle dimensioni e importanti. Se nel 1993, le targhette di dimensioni di circa 13 cm x 18 cm riportavano per intero le indicazioni descriventi l’opera: il titolo, il materiale, l’epoca ecc. e in coda compariva il nome di chi aveva contribuito al restauro, negli anni recenti, le targhette sono diventate delle targhe di circa 30 cm x 30 cm tanto grandi da abbisognare di una base autonoma per il loro supporto, con una descrizione dell’opera ridotta al titolo e un esteso ringraziamento alle persone o aziende che hanno offerto il restauro e, ampio spazio per il logo della fondazione. Nei casi in cui il restauro non abbia investito soltanto le opere, ma anche l’allestimento delle sale, sono stati fissati alle pareti grandi pannelli di dimensioni superiori ai 150 cm x 150 cm dedicati esclusivamente ai donatori e donatrici. Mi pare che siamo lontani dai principi che imponevano il cappuccio ai giornanti della Confraternita di Misericordia, affinchè le loro opere non fossero riconducibili alle persone.

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di Monica Innocenti Come è facile intuire, l’agenda di Mimmo D’Alessandro, nel periodo in cui il Summer Festival 2018 prende forma è fitta di impegni; questo non gli ha impedito di trovare il tempo per questa intervista e di presentarsi puntualissimo al nostro appuntamento in un caffè del centro di Lucca. Non a caso disponibilità e schiettezza nei rapporti con le persone, sono tratti distintivi che ho riscontrato in molti autorevoli personaggi che ho avuto la fortuna di intervistare per libri e articoli. Fin dalle prime parole si percepisce con chiarezza l’importanza che la musica ha nella sua vita: anche solo parlarne, gli provoca una gioia profonda e genuina. Pare che diventare musicista fosse il suo grande sogno di ragazzo e il suo rapporto con la musica, al di là delle ovvie implicazione professionali, sia sempre stato molto stretto, viscerale: ce lo può raccontare? Sono nato a Napoli e chi nasce a Napoli ha la musica dentro. Tutti i ragazzini hanno questo sogno; tutti i miei amici (Bennato, Pino Daniele, Teresa De Sio, Enzo Avitabile) suonavano (era la prima cosa che ci univa) e questo volevo fare, fino a che mi sono reso conto che non era la mia strada. Ho fatto altre cose, sempre guidato dalla passione e dall’amore per la musica: produttore discografico e televisivo, gestore d’importanti locali, manager di artisti come Giorgia, Pino Daniele e altri. Amore e passione sono alla base della filosofia con la quale mi avvicino a tutto quello che faccio. Da musicista a produttore e organizzatore di eventi, con la musica sempre al centro della scena: quali sono state le tappe principali di questo percorso? Sono moltissime ed elencarle tutte porterebbe via tutto il pomeriggio. Sono cresciuto con il mito della Bussola; il locale del grande Sergio Bernardini dove passavano tutte le star era il mio “sogno americano”, così, quando mi sono trasferito a Viareggio, la prima cosa che ho fatto è stato entrare in quel locale. Ho cominciato da lì, anche se avevo già fatto qualcosa a Napoli e ho vissuto tutti i cambiamenti che hanno caratterizzato questo mestiere fino a oggi, quando ci si trova a combattere con un nemico implacabile: la burocrazia. Quella con la burocrazia è davvero una lotta che sfinisce e toglie energie che potrebbero essere usate per scopi molto più utili. E’ vero che a farle scoprire Lucca, fu nientemeno che Joan Baez? Verissimo. Lei mi faceva una testa così sulle bellezze della città e mi vergognavo a confessarle che, pur vivendo a 20 chilometri, conoscevo Lucca solo superficialmente. Dopo il concerto

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di Joan alla Bussola l’ho accompagnata in centro (mi ero fatto dare delle dritte da un amico) e lei, alle 2 di notte, completamente rapita dall’atmosfera, si mise a cantare a cappella in piazza Anfiteatro. Sono rimasto senza fiato ed è andata a finire che ho comprato casa in quella piazza! Poi è arrivato il Summer Festival! L’allora presidente della Provincia di Lucca, grande appassionato di musica, mi telefonò chiedendomi se fossi interessato a proporre dei concerti in città. Ne discutemmo, cominciai a lavorare al progetto e il 6 luglio 1998 Bob Dylan suonò in piazza Napoleone: la grande avventura era cominciata! Il Summer è diventato parte integrante della vita (e dell’economia) di Lucca, ma il rapporto con alcune componenti della città e delle sue istituzioni è stato, nel corso degli anni, un po’ tormentato: ce ne può parlare? E’ stata una corsa a ostacoli, ma mi ha caricato moltissimo. Credo che quando sei convinto di fare la cosa giusta, niente ti deve spaventare. Ho seguito la mia strada e ancora oggi quando, dopo vent’anni, non mi sento completamente accettato, beh: me ne sbatto se mi passa la frase. Il Summer Festival è ormai un brand che ha una notorietà mondiale e da Lucca è passata la storia della musica: ho realizzato un libro fotografico sul festival e quando scorro le pagine e leggo i nomi, quasi non ci credo nemmeno io. E comunque credo che i lucchesi, anche quelli che ci criticano, apprezzino che il nome della loro città faccia il giro del mondo: che una piccola città sia entrata nel grande giro della musica internazionale dalla porta principale ha dell’incredibile! Secondo me anche Puccini è felice, perché Puccini è rock! Nell’edizione del ventennale c’è stata anche l’incredibile novità del mega evento sugli spalti delle mura: è stato più complicato convincere chi di dovere della bontà e della fattibilità del progetto o i Rolling Stones a suonare in quella

che era, probabilmente, la città più piccola dove si esibivano dai tempi del liceo? Portare gli Stones a Lucca è stato meno complicato di quanto pensassi perché, sulla mia strada, ho trovato solo persone intelligenti. Ho faticato un po’ a convincere il gruppo, ma quando metti in campo, in rapida successione, Italia, Toscana e Lucca, schieri una squadra vincente, non c’è storia! A Lucca ho trovato un personaggio alla Sovrintendenza, il professor Luigi Ficacci, che non esito a definire un fuoriclasse: la città è fortunata ad avere personaggi di questo spessore. Ha compreso il progetto da subito e mi ha supportato in ogni modo. E alla fine, dopo qualche titubanza iniziale, anche l’Amministrazione Comunale ha fatto la sua parte. L’unica nota stonata sono i rosiconi di professione e in malafede ma, semplicemente, li compiango. Se l’edizione del ventennale è stata indimenticabile, quella del 2018, con Roger Waters come evento speciale e una serie di concerti davvero straordinari, non sarà da meno. Il Summer è un figlio maggiorenne da un bel po’: quali sono state le emozioni più grandi e quali i ricordi incancellabili? Mi ero detto che il giorno in cui sarei riuscito a portare Steve Wonder a Lucca avrei raggiunto il massimo e avrei potuto smettere: mi sbagliavo! Eric Clapton, Leonard Cohen che era sparito dalle scene da vent’anni, un musicista a cui sono molto legato come Paco De Lucia, fino ad arrivare al momento da brividi in cui si sono spente le luci e gli Stones sono saliti sul palco: sono innumerevoli le incredibili emozioni che ho provato e che voglio continuare a provare, perché quando non mi emozionerò più, allora sarà il momento di smettere sul serio! E forse l’emozione più grande è vedere il pubblico felice di quello che sta vivendo e pensare che sono stato un ingranaggio che ha contribuito a far funzionare quello straordinario meccanismo dispensatore di felicità che è la musica. Nei mesi invernali, il Summer ritroverà un parente stretto, il Winter Festival: ci sono anticipazioni su questo progetto? Sono molto legato al Winter, perché credo abbia un potenziale incredibile e portare grandi artisti come James Taylor, Nash, De Gregori o Fiorella Mannoia in un teatro da 600 posti è un’altra, grandissima emozione. L’anticipazione è quella che, ancora una volta, proveremo a vincere la scommessa di proporre qualcosa all’altezza di ciò che lo ha preceduto, capace di emozionare e farsi amare allo stesso modo.

Il Summer di Mimmo


di Valerio Dehò Si può viaggiare nel tempo e nello spazio. Questo ci dicono i lavori di Giampaolo Di Cocco che formano una mostra polifonica e ben articolata, scandita in tre gruppi di opere. Le carte sono delle mappe oppure delle antiche scritture riversate nel mondo attuale attraverso un’operazione di recupero metastorico. Configurano racconti che provengono da paesi immaginari, mettono insieme luoghi e città forse legati dal niente o da oscure connessioni. La cartografia di Giampaolo Di Cocco offre poche certezze, compaiono linguaggi di popoli sconosciuti, simboli di difficile interpretazione, monumenti limpidi come giornate lustrali. Ma vi sono anche delle presenze animali che consentono di navigare tra le immagini come in un arcipelago fantastico. Oppure potrebbe essere che le carte non sono mappe, ma scritture figurate, testi di una civiltà abbandonata dalla storia e ai margini della geografia. I lavori chiamati “Tempio delle barche” infatti mettono in scena in viaggio. La nave porta in una direzione spirituale, gli specchi moltiplicano l’immagine dell’uomo in un gioco riflessivo in cui il movimento è statico: è puro pensiero. La “nave nel tempio” è un ossimoro, ma ricorda l’etimologia delle navate, il simbolismo di una salvezza a cui l’arca offre i suoi servigi e l’uomo

Foto di

Pasquale Comegna

Corpi di marmo Gian Lorenzo Bernini Museo Borghese

Viaggi straordinari i suoi pensieri. Navigare necesse est, vivere non est necesse. I marmi graficamente scarnificati con l’acido, presentano invece un tempo che collassa sul presente. I decori pompeiani entrano in contatto con le silhouette di bottiglie del Campari soda o della Coca cola, in una sorta di elogio del tempo. Tutto converge verso una artisticità che

non può esimersi dal confrontarsi con il consumo, con lo specchio dei tempi. Le bevande inebrianti dei nostri tempi sono lontane dalle coppe del Falerno. Di Cocco mette insieme grafica e scultura, passato e presente, rivelandoci un mondo senza età verso cui viaggiare con gli strumenti che abbiamo a disposizione, la mente e la cultura innanzi tutto.

Il Battistero a ingresso gratuito per i fiorentini

Da lunedì 8 gennaio 2018 l’ingresso al Battistero di Firenze diventa gratuito per i fiorentini e per tutti i residenti della Provincia di Firenze, lo ha annunciato il Presidente dell’Opera di Santa Maria del Fiore, Luca Bagnoli, in conclusione del discorso tenuto in occasione della Cavalcata dei Magi. “In accordo con l’arcivescovo cardinale Giuseppe Betori - ha spiegato Bagnoli - l’Opera di Santa Maria del Fiore ha deciso di rendere accessibile anche questo luogo di culto, oltre alla Cattedrale, ai fiorentini e a tutti i residenti della provincia. L’obiettivo dell’Opera è di essere un’istituzione sempre più vicina alle esigenze delle persone e della città”.

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di Susanna Cressati Se “tenete” per la Tebaldi lasciate perdere questo libro. Per un fan della soprano pesarese, infatti, sfogliare “Il melomane domestico” di Alessandro Duranti (Ronzani Editore, Vicenza 2017) presentato nei giorni scorsi al Gabinetto Vieusseux, sarebbe come per un suiveur di Coppi infliggersi masochisticamente l’elogio di Bartali (e viceversa). Infatti nel primo e più lungo dei saggi raccolti nel volumetto (versioni ampiamente rielaborate di altrettanti scritti usciti tra il 1981 e il 2007 su altre pubblicazioni) il professore fiorentino di Letteratura italiana all’Università di Firenze non fa che confessare con le formule più appassionate e convinte il suo amore, musicale s’intende, per la “divina” Callas, quella Anna Maria Cecilia Sophia Kalogeropoulos, soprano drammatico d’agilità, di cui nell’anno appena trascorso ricorreva il quarantennale della morte. Duranti è intrattenitore competente, analista acuminato, non privo di una rinfrescante cattiveria. Dice quello che pensa, con spontaneità, “a caldo”, non lesina sberleffi o stoccate irriverenti quando gli sembrano meritate: ai tenori imbolsiti e mai domi, alla “torva musa verista” di Mascagni & c, alla razza detestabile e becera dei loggionisti, ad alcune trovate registiche contemporanee (la Sonnambula con il nuovo finale è per lui una “trovatina da supermercato”). Ma nelle sue pagine Callas, oh Callas si erge, letteralmente, come una furia della natura, non solo per pienezza e onnipotenza di una voce dall’estensione e uguaglianza fuori del comune, ma soprattutto per intelligenza da stratega, di potenza e aggressività mostruose. Un fulgore e una pienezza irripetibili, sovrumane, una voce spavalda e onnipotente, unica nello sfrontato coraggio, fiammeggiante, portentosa, aggressiva, ubriacante, marziana. Un indimenticabile filo d’oro. Tanto entusiasmo, del resto ampiamente motivato, ha qualcosa di commovente, se si pensa che il professor Duranti (un po’ per età un po’ per l’atteggiamento descritto nel titolo del libro) non ha mai visto e ascoltato la Callas dal vivo e che questa trascinante passione se la porta dietro dalla nascita, da quando cioè suo padre nel 1948, folgorato dalla edizione fiorentina di Norma, acquistò un disco con una selezione da La forza del destino. Un amore il suo, quindi, tutto coltivato da lontano, cesellato tra i fruscii dei vecchi vinili, le registrazioni lacunose, i ricordi narrati “a veglia” circa le meraviglio-

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Storia di un melomane se performance di un mito. Così leggendo queste abili pagine si viene come rassicurati. Quanti amanti del melodramma e del bel canto hanno oggi sentito mai la Callas cantare dal vivo? E quanti hanno sentito dal vivo altri nomi di spicco del mondo operistico? L’evoluzione tecnologica, che restituisce versioni più fedeli (anche se forse più piatte) delle esecuzioni in teatro, consegna tanto più oggi tutti coloro che raramente o anche mai possono attingere alle esperienze di una prima della Scala o del Maggio allo stesso rango di coloro che, invece, possono farlo. Il libro si dipana divertente anche nei saggetti successivi dedicati rispettivamente: ad una analisi della capacità di Giuseppe Verdi di “cambiar maniera”; ad una tagliente galoppata tra i “nemici della musica” (i veristi, fatto salvo Puccini); ad una rispettosa considerazione di Puccini a dispetto della sua “facile commestibilità”; allo stile di Toscanini (compresa la sua “disastrosa rigidità” nel dirigere Mozart); alle discutibili cronache musicali del baritono mancato Eugenio Montale. Ultimo ma non disprezzabile merito di Duranti quello di essere riuscito a contenere la pratica della laudatio temporis acti, così frequente a Firenze e nel suo mondo culturale (ma non solo).


1982 Carlo Cantini a New York di Carlo Cantini

Passeggiando sulla Quinta Avenue

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