Cultura commestibile 248

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Numero

3 febbraio 2018

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Oświęcim

L’espressione ‘campi polacchi’ riferita ai lager nazisti è una spregevole diffamazione” che “danneggia il buon nome e gli interessi della Polonia Donald Tusk, ex premier polacco

Con la cultura non si mangia Giulio Tremonti (apocrifo)

Maschietto Editore


NY City, 1969

La prima

immagine Eccoci al Central Park, una coppia di giovani si appresta a far levare mi volo un piccolo aquilone. Central Park è un luogo decisamente importante per gli abitanti in cerca di aria migliore e relax. E’ un polmone verde per la città e un punto di aggregazione per tutti quelli che sono alla ricerca di uno spazio umanamente accettabile in questa grande megalopoli. Qui si avverte di nuovo il senso delle cose, il verde, l’acqua, il tempo che sembra riacquistare dei ritmi umani in mezzo alla abituale frenesia della “commercial and business area” del Downtown. Ho fatto loro alcuni scatti ed abbiamo scambiato quattro chiacchiere. Cose banali ci verrebbe da dire, ma in realtà da queste parti, almeno per quello che sono i miei ricordi, in quel periodo non era poi così scontato avere delle reazioni simili a quelle a cui eravamo abituati qui in Italia. Il silenzio, la pace, i gesti consueti di queste due persone mi misero subito di buon umore. I tempi hanno poi dimostrato che adesso anche da noi, si è imboccata una strada molto stretta e molto simile.

dall’archivio di Maurizio Berlincioni


Numero

3 febbraio 2018

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Riunione di famiglia Tesseramenti Le Sorelle Marx

Habemus Razzi Lo Zio di Trotzky

Un po’ di qui, un po’ di là I Cugini Engels

Die Genossin Bosken I biscugini di Otto Bauer

In questo numero Ciao Pupino di Susanna Cressati

L’arte fa incontrare di Valentino Moradei Gabbrielli

Gonfienti addio1 di Giuseppe Alberto Centauro

Mappe di percezione: San Francisco di Andrea Ponsi

Questione di ironia di Laura Monaldi

Romano Cagnoni testimone del tempo di Danilo Cecchi

I professionisti del fundraiser di Roberto Giacinti

La verità secondo lo stato polacco di Paolo Marini

La tortura di Bugigatto di Fabrizio Pettinelli

Chiamami da un telefono pubblico di Claudio Cosma

L’ incredibile caos di Caro e Jeunet di Simonetta Zanuccoli

Cecchini, il giardiniere ineffabile di Mariangela Arnavas

Il cromatismo emotivo di Guo Xiyu di Vanessa Costantini

Dalla mela al buco nero di Gianni Bechelli

e Remo Fattorini, Alessandro Michelucci, Fiorella Ilario, Cristina Pucci...

Direttore Simone Siliani

Illustrazione di Lido Contemori, Massimo Cavezzali

Redazione Progetto Grafico Mariangela Arnavas, Gianni Biagi, Sara Chiarello, Emiliano Bacci Susanna Cressati, Carlo Cuppini, Remo Fattorini, Aldo Frangioni, Francesca Merz, Michele Morrocchi, Sara Nocentini, Sandra Salvato, Barbara Setti

Editore Maschietto Editore via del Rosso Fiorentino, 2/D - 50142 Firenze tel/fax +39 055 701111

Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012

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di Susanna Cressati Per gli amanti del genere “accesa-disputa-tra-letterati”, la presentazione del Meridiano dedicato al poeta perugino Sandro Penna (“Poesie, prose e diari” a cura di Roberto Deidier, cronologia di Elio Pecora, Mondadori 2017) è stata una ghiotta occasione. I presentatori Roberto Galaverni, Anna Dolfi e Elena Gurrieri, e segnatamente Dolfi e Gurrieri, hanno infatti incrociato le lame intorno ai criteri con cui il volume tanto atteso è stato costruito, stimolando così il curatore presente in sala a una lunga e dettagliata spiegazione del perchè e del percome ha abbracciato la sua scelta. Tutto ha “girato” intorno al fatto che nel volume, a quanto pare, è scomparsa la suddivisione “canonica” in raccolte già pubblicate, a vantaggio di un diverso ordinamento, teso a risolvere quanto possibile le impervie difficoltà della datazione delle composizioni. Tuttavia, al di là delle garbate ma ferme schermaglie a cui ha assistito un pubblico attento e con non poche venature giovanili, per gli amanti della poesia, per gli ingenui innamorati lettori della poesia l’uscita del Meridiano rappresenta un vero evento: tutto Penna sottomano, perbacco! E perfino senza il clamoroso refuso (ricordato da Galaverni) che orna la terza pagina dell’antologia Garzanti del 1973 (replicata nella collana Gli elefanti poesia del 1989 con prefazione di Cesare Garboli) a sfregio della poesia di Penna più citata e considerata il suo “manifesto”. Cito dalla mia edizione: “La vita...è ricordarsi di un risveglio/triste in un treno all’alba: aver veduto/fuori la luce incetta...”. InceTTa? Ma certo che no. InceRta, incerta è la luce che illumina l’azzurro e il bianco della divisa del giovane marinaio, efebo amato in uno sguardo, il monotematico oggetto del desiderio di Penna. Accogliamo dunque per una volta l’invito di Galaverni ad abbandonarci alla semplice lettura di un poeta che è stato variamente definito: un fiore senza gambo, il poeta della grazia e della leggerezza, antiermetico, fuori dalla storia, eterno fanciullo che desidera fanciulli. E, nonostante i pochi versi lasciati, il più “inespugnabile” del Novecento. Si è anche detto che il Meridiano così concepito, e giunto già alla sua terza edizione a testimonianza di un interesse diffuso e perdurante, libera Penna dall’assenza di canzoniere e, offrendo il corpus completo della sua produzione analizzato

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Ciao Pupino

sotto l’aspetto cronologico, filologico e dei riferimenti culturali, lo riscatta da mitologie deleterie, false e da certe facilonerie che hanno accompagnato per lunghi anni il personaggio. Ora, grazie al lavoro di Deidier e dell’amico poeta Elio Pecora, meno “smaltato” e “imprendibile” di prima. I ricordi di Pecora, intervenuto al Vieusseux, hanno contribuito a gettare una luce di verità su Penna personaggio. Una luce un po’ cruda, come quella della nuda lampadina che ha illuminato per lungo tempo la casa romana della sua volontaria


Sandro Penna

Felice chi è diverso essendo egli diverso. Ma guai a chi è diverso essendo egli comune. ** Il mare è tutto azzurro. Il mare è tutto calmo. Nel cuore è quasi un urlo di gioia. E tutto è calmo. ** Il giorno ha gli occhi di un fanciullo. Chiara la sera pare una ragazza altera. Ma la notte ha il mio buio colore, il colore di un cupo splendore. ** La vita è… ricordarsi di un risveglio triste in un treno all’alba: aver veduto fuori la luce incerta: aver sentito nel corpo rotto la malinconia vergine e aspra dell’aria pungente. Ma ricordarsi la liberazione improvvisa è più dolce: a me vicino un marinaio giovane: l’azzurro e il bianco della sua divisa, e fuori un mare tutto fresco di colore. ** Nel sonno incerto dormo ancora un poco. È forse giorno. Dalla strada il fischio di un pescatore e la sua voce calda. A lui risponde una voce assonnata. Trasalire dei sensi – con le vele, fuori, nel vento? – Io sogno ancora un poco.

reclusione. “Un immondezzaio pieno di tesori” ha ricordato Pecora, che per amicizia e amore della poesia ha messo le mani in quel ciarpame prima che, alla morte del’inquilino, il padrone di casa, il Comune, mandasse i facchini a sbaraccare tutto, impedendo così che ogni briciola di quella vita paradossalmente libera andasse perduta. Stimolati dall’evento al Vieusseux turba non poco rivedere oggi su youtube gli incerti fotogrammi filmati in quella casa da Mario Schifano, amico del poeta, per il

docu-film “Umano non Umano” del 1972. “Poesie non ne scrivo più da dieci anni... la poesia non si vende” dice Penna lamentoso, “sto molto male, non vedo nessuno”. Intanto mostra i quadri degli amici di cui faceva commercio per vivere accumulati nella camera dove aveva abitato suo madre. Il poeta è vestito dignitosamente, seduto sul letto legge le sue poesie, belle come brillanti, sfogliando un quaderno. Accanto, sul comodino, un telefono bianco con la cornetta grande di altri tempi squilla all’improvviso: “Ciao pupino!”.

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Le Sorelle Marx

Tesseramenti

La scelta dei candidati alle elezioni politiche di marzo è stata un’impresa defatigante per i partiti e la nostra incondizionata solidarietà va ai selezionatori, cacciatori di teste, che hanno dovuto fare il lavoro sporco. In particolare a quelli del Movimento 5 Stelle che si sono affidati ad una audizione stile teatro, naturalmente in streaming. Così si è arrivati a scegliere Nicola Cecchi per contrastare Renzi in Toscana. Ecco

I Cugini Engels

Un po’ di qui, un po’ di là

Candidati colti e tutti d’un pezzo, a questo giro, signore e signori. C’è solo l’imbarazzo della scelta e noi, oggi, ci concentriamo sul loro campioneo: Mancini Giacomo nipote. Giacomino, candidato per il Pd (al momento) nel collegio di Cosenza alla Camera, non può che essere un grande

Lo Zio di Trotzky

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appassionato di opera, in particolare di Verdi. È Rigoletto senz’altro il suo pezzo forte: destra o sinistra per me pari sono a quant’altre d’intorno, d’intorno mi vedo…”. Infatti, Mancini jr.ha una estensione vocale impressionante, capace di saltare l’ottava in un battibaleno. Nel 2001 parlamentare dei Ds, nel 2006 rieletto ma nel 2008, alla caduta di Prodi, fa il primo cambio d’ottava, e passa con Berlusconi; ma poi, folgorato sulla via di Rignano, si innamora di Matteo. Si tratta di una relazione adulte-

Habemus Razzi

Laudate Dominum omnes gentes Laudate eum, omnes populi Quoniam confirmata est Super nos Razzium eius, Con Wolfgang Amadaus Mozart annunciamo a tutti voi che Antonio Razzi è ancora fra noi: Lodate il Signore, tutti. Lodatelo, tutti gli uomini. Perché egli ha consolidato il Razzi fra di noi. Antonio è stato ripescato e, siccome è fine diplomatico, esperto di cose internazionali, Berlusconi l’ha candidato nella Circoscrizione Estero, tornando così alle sue origini quan-

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la sintesi del colloquio alla fine del quale Nicola è stato impalmato. “ Avanti un altro. Nome, cognome, dati significativi” “ Buongiorno, sono Cecchi Nicola, avvocato, vice presidente assemblea “ Toscani nel mondo”, 55 anni” “ Senta, qui ci risulta che lei sia stato iscritto al Pd…” “eh, ma un secolo fa… un peccato di gioventù…” “Sì, col cavolo, la tessera è del 2016 e poi ha fatto campagna per il Sì al referendum costituzionale: non è proprio la nostra linea” “e vabbé, quante storie… non si può cambiare

do fu eletto nel 2006 con l’Italia dei Valori di Antonio Di Pietro. Amando alla follia Silvio Berlusconi, cui resta fedele nei secoli come un maresciallo dell’Arma, Antonio non ha potuto dire di no. Ma si è lamentato di avere “poco tempo per prepararmi”. Ma ha dovuto fare di necessità virtù e si è iscritto al British Institute per imparare i rudimenti dell’inglese e, strategicamente, al Mao Tse-Tung Institute per un corso intensivo di cinese e al Maori Language Institute caso mai fosse destinato alla Circoscrizione Oceania. E’ uomo Antonio che non lascia niente al caso. Ma per un grande che torna, una stella che tramonta. E’ quella della Sara Manfuso cui

idea? Rivendico questo diritto…” “Oh, calmino eh! Non faccia tanto l’azzeccagarbugli; non siamo mica in tribunale qui! E caso mai lei è l’imputato! E come la mettiamo con le sue spiritosaggini su Facebook circa l’arresto di Marra che sarebbe stata la nostra entrata in politica?” “via, su, e si scherza… sui social ci si sta per quello. E poi ho cambiato idea…” “ Senta, ci spiega perché dovremmo candidare uno come lei, così… così… così voltagabbana?” “ Guardi, mettiamola così: io sono anche presidente della Camera di Commercio italo-cubana, e quindi ho un certo giro, diciamo così, di cosette interessanti… rhum, musicisti, ballerine… e potrei…” “Basta così: preso, abile e arruolato… a Beppe l’isola interessa!” rina perché Giacomino aveva una cotta da anni per Denis (Verdini che, dice, frequentava casa del nonno, senza però che gli s’attaccasse niente, diciamo noi). Nel 2010 altro salto d’ottava perché fa l’assessore calabrese del centrodestra. Regione dove, alle brutte, potrebbe comunque approdare sempre per il centrodestra se non andasse bene l’avventura elettorale di marzo con il centrosinistra: infatti, Giacomino potrebbe subentrare in quanto primo dei non eletti di Forza Italia, al consigliere che lo ha preceduto che è candidato al Parlamento in un collegio blindato per Fratelli d’Italia.“Tutti mi chiedono, tutti mi vogliono, donne, ragazzi, vecchi, fanciulle”… Largo al factotum della città. nel marzo scorso preconizzato un radioso futuro nel cielo renziano. E, infatti, ne presentava tutte le caratteristiche: “Noi ci vogliamo porre in discontinuità con le figure del passato e le cariatidi politiche“, ebbe a dichiarare alla Stampa. Ma la Sara ha fatto un passo indietro, dice lei per rispetto del suo ex Alfredo D’Attorre nonché padre di sua figlia che “non merita - come me - la strumentalizzazione della competizione da un certo inevitabile para-giornalismo”. Noi del “para-giornalismo” ce ne doliamo perché la Manfuso prometteva bene, accidenti! Non sappiamo se trattasi di una versione politica della favola di Esopo, la volpe e l’uva; però siamo dispiaciuti perché la Sara ci avrebbe dato lavoro e soddisfazioni. Ma la ragazza “si farà, anche se ha le spalle strette” e potrà giocare presto, ci scommetto, con la maglia numero sette.


Nel migliore dei Lidi possibili

Il fascino estremo del salto nel buio

Die Genossin Bosken

disegno di Lido Contemori

Fedele alla descrizione che ne faceva Matteo Renzi, quando allora sconosciuta ai più la presentava mentre scendeva dal camper, Maria Elena Boschi si è messa a studiare di gran lena per la nuova sfida che la attende nel collegio alto atesino di Bolzano. Catapultata là per meriti turistici (“mi sono trovata bene qui in vacanza”) la Boschi ha chiesto di voler conoscere tutto delle terre nordiche delle quali con tutta probabilità diverrà rappresentante. Dunque la composizione sociale, la storia, le tensioni tra gruppi etnici, l’autonomia. Quell’autonomia che si è premurata subito di affermare lei ha sempre voluto, anche se pare che dal palco della Leopolda, ai bei tempi in cui indossava ancora decolleté leopardati, avesse detto di volerla rivedere. Ma si sa l’esperienza di ministro delle riforme le ha fatto sicuramente cambiare idea e il collegio di Bolzano ha tolto ogni possibile residuale dubbio. Tuttavia anche la studiosa Boschi si è trovata di fronte un problema di non semplice soluzione, soprattutto nel misero tempo di una campagna elettorale: siccome se vuol passare la dovranno votare in gran massa i sudtirolesi di lingua tedesca, qualche parola di tedesco la dovrà imparare. Volitiva com’è però si è messa subito ad imparare le prime parole della nuova lingua che, si dice, siano state proprio Vater e Spaarkasse.

didascalia di Aldo Frangioni

Segnali di fumo di Remo Fattorini Forse. Forse ho capito perché i partiti politici, tutti, non si preoccupano più di tanto del fenomeno dell’astensione. Eppure tutti i sondaggi ci confermano che quell’area è in crescita, e coinvolge ormai quasi la metà del paese. Ricordo che nel 2013 il non-voto superò di ben 3milioni il consenso ottenuto dal principale partito. Le ragioni sono arcinote: distacco degli elettori dalla politica e dalle istituzioni; elettori delusi e disillusi, amareggiati e arrabbiati, persino indifferenti verso una politica di cui

I biscugini di Otto Bauer

non capiscono più il senso. In effetti chi sceglie di non votare esprime una protesta, un dissenso, persino un disgusto verso l’attuale classe politica fino all’indifferenza nei confronti delle sorti del proprio paese. Fenomeno, solo qualche decennio fa, quasi inesistente. Basti pensare che negli anni ’80 l’affluenza sfiorava il 90%, che nel 2008 si recarono alle urne l’81% degli elettori, ma che solo qualche anno fa, nel 2013, i votanti si fermarono al 75%, il dato più basso dal dopoguerra. Pure in Toscana, terra di grande partecipazione civile e politica (tanto che nel 2013 l’affluenza era ancora 4 punti sopra le media nazionale), alle regionali di due anni si presentarono alle urne solo il 48% dei toscani: più della metà rimasero a casa. Insomma ci sarebbe di che preoccuparsi. I partiti invece non lo sembrano affatto. Anzi, ed ecco la novità, per loro non c’è nulla di cui preoccuparsi, si tratta di un fenomeno fisiologico dicono - in linea con quanto accade in giro per il mondo. In realtà l’elettorato d’opinione non

è più un bacino elettorale di grande interesse. In fondo, più rimane a casa, più si occupa di qualcos’altro meglio è. La ragione è semplice: l’elettorato d’opinione è alimentato da quella parte di italiani più esigente, da coloro che continuano a seguire le vicende della comunità, che si interessano, si tengono aggiornati e, soprattutto, da coloro che continuano a cercare risposte convincenti e un’offerta politica credibile. Tutto troppo complicato e impegnativo nell’era della banalizzazione. Risultato: se si continua a demotivare l’elettorato d’opinione alle urne andranno soltanto i fedelissimi, gli amici, gli amici degli amici, i cerchi magici, le camarille e i grovigli virtuosi. Insomma coloro che pensano solo al proprio interesse. Ecco perché il 4 marzo andrò a votare. Convinto come sono che l’astensionismo sia un’arma spuntata: serve solo ad accendere il disco verde a chi non se lo merita. Non solo è inutile ma è anche dannoso.

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di Laura Monaldi

Questione di ironia

Oltre il normale modo di concepire la prassi estetica è chiaro che dipingere non significa solo dar vita a immagini o sondare i campi sterminati dell’immaginario; come, allo stesso modo, scolpire non significa solo dar vita alla materia plasmandola nella sua tridimensionalità: operare in campo artistico significa mutare i canoni e sperimentare laddove nessun altro artista si è mosso, procedendo verso una ricerca capace di unire i diversi linguaggi che si presentano agli occhi del demiurgo contemporaneo in tutta la loro complessità ed infinita possibilità. Lo studio di Giampiero Poggiali Berlinghieri è un mondo ironico e favolistico da scoprire e dal

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quale rimanere meravigliati nella gioia che sprigionano le forme variegate e i multi-cromatismi che si presentano alla vista; è un luogo di personaggi, macchine e animali nel quale immergersi per scoprire una poetica della materia e dell’oggetto che dalla banalità e dall’insignificante porta alla visione di una storia infinita fatta di ironia e di immaginazione, dove le nuove creature si muovono e vivono fra artigianalità e tecnologia, fra tecnica e ingegno fra concettualismo, astrattismo e materiali poveri. Quadri, pittosculture, oggetti interattivi muovono dalla presa di coscienza dell’artista che non esista limite alla creazione e alla possibilità di creare opere d’arte, poiché è solo at-

traverso l’intuizione primaria e l’intenzionalità che la mano estetica, plasmando e colorando, può giungere all’autenticità e alla purezza di un prodotto in grado di musealizzare lo spazio più angusto di questo mondo. Nella prassi di Giampiero Poggiali Berlinghieri v’è la volontà di operare una sintesi concettuale fra ciò che il materiale estetico può far scaturire nell’immaginario e ciò che la tecnica può realizzare, nella consapevolezza che il ludus è prima di tutto un piacere che da estetico si fa contemplativo e porta a perdersi e a fantasticare ancora, oltre i limiti di una realtà sempre più ottusa e costringente. Il linguaggio di Giampiero Poggiali Berlinghieri gioca fra l’ironia e la purezza dell’idea che creare significa spingersi oltre, rimanendo sempre fedeli a se stessi e alla propria poetica, dando allo spettatore la chiara sensazione di trovarsi al centro di un meraviglioso mondo da esplorare.


vetrine d’arte vetrine d’autore

di Vittoria Maschietto “Vorrei esprimere a voi - e a Monsieur Picasso - gli stupori e lo spleen che instancabilmente provoca in me il blu domenicale a bianchi astragali dell’acrobata incompreso, che danza come se rivolgesse dei rimproveri a Dio”. Queste sono le parole che Marcel Proust rivolgeva a Jean Cocteau in una lettera datata 1917. Me lo immagino seduto in disparte, dietro a una folla di spettatori, che osserva il volteggiare instancabile dell’acrobata sotto un cielo di corde, nastri e trapezi. E senza mai spostare lo sguardo dal palcoscenico fa scorrere la penna su un taccuino. Più tardi, riaprendolo, vi troverà soltanto una grafia disordinata e poche frasi incomprensibili da reindirizzare all’amico in forma di quesito, per trovarne il senso. Di quello stupore, di quel groviglio di acrobazie su sfondo blu, io leggo adesso per la prima volta, mentre le pagine de “La Maschera e L’artista”. E’ un libro sulle maschere del Carnevale, nel quale le parole di Proust compaiono all’inizio, come introduzione al tema. Sotto gli occhi increduli di Proust si alza il sipario sulle maschere del Novecento: tanti Arlecchino, Pulcinella e Pierrot che, con i loro tratti deformati dalle maschere, danno voce alla drammatica storia del XX secolo. Agenti

di pathos avanzano verso di me dalle pagine del libro, con la stessa minacciosa andatura di un coro tragico. Nessun Edipo re però, nessun Agamennone o Clitemnestra alla fine del paragrafo. Sotto gli occhi non ho altro che lo spettacolo del Carnevale. Quello che per quattro domeniche (e un martedì) all’anno, si fa largo tra le folle del lungomare di Viareggio, sopra carri di cartapesta. Del resto, per me che sono nata a Pietrasanta il Carnevale è soltanto quello. E adesso che sono passati cinque anni dall’ultima volta che ho partecipato al corso (e almeno sette dall’ultima volta che sono salita su un carro) ne sento tremendamente la mancanza. Forse per questo ritrovo tra le pagine de “La Maschera e l’artista” il mio Carnevale ubriaco di stupore e di mare. E per la stessa ragione c’è qualcosa della frase di Proust che mi ha riportata esattamente lì, sul lungo mare del corso, tra i giganti di cartapesta che procedono agitando contro il cielo i loro arti meccanici. Mi viene in mente che ormai, sul lungomare di Viareggio, saranno sempre meno i Pierrot, i Pulcinella o gli Arlecchino, rimpiazzati da Maschietto Editore – Libri d’Arte via del Rosso Fiorentino, 2/D - 50142 Firenze tel/fax +39 055 701111

tante Fate Turchine, Harry Potter e Peter Parker con il volto coperto dalla ragnatela. Eppure pare che un gigantesco Pulcinella sia tornato proprio quest’anno a sfilare sulla scena del corso. Un enorme Pulcinella in sedia a rotelle che si batte contro insormontabili barriere architettoniche. Giro pagina e l’occhio mi cade su un titoletto in basso a sinistra, a fianco della colonna di testo. Dice: “Pierrot dandy sulla luna”. Ecco, penso: mentre Pulcinella leva al cielo il suo rimprovero dietro a una smorfia di incredulo stupore, c’è un suo compagno che lo guarda dall’alto e si gode la scena ridendo come un folle, e siede accanto a Dio, fasciato nel candore della sua tunica bianca: Pierrot. Il Carnevale siede lì, a metà strada tra il viaggio dell’astronauta nell’universo, e il sogno di un Astolfo ariostesco, giunto in cielo in sella a un ippogrifo per recuperare il senno perduto di Orlando. La sua voce è l’invettiva che si innalza come un braccio contro la crudeltà di Dio; il suo passo è la danza dell’acrobata incompreso di Proust. Oppure il Carnevale è una semplice parata, ma cammina con il tempo ineluttabile di un coro greco, per restituire a una voce o a una danza la sua perduta saggezza.

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di Vanessa Costantini Il lavoro artistico di Xiyu è ancora inevitabilmente immerso in quella fertile e vivace fase sperimentale tipica degli anni di formazione in Accademia. Tuttavia, nonostante la sua giovanissima età, questo artista mostra già una certa maturità che si rivela in una padronanza tecnica mai fine a se stessa. È evidente, difatti, come la forte necessità di apprendere e approfondire si accompagnino costantemente a una interessante e personale interpretazione delle possibilità offerte dal mezzo pittorico. Dall’eterogeneità del suo lavoro emerge una marcata sensibilità per il colore che si traduce in una freschezza espressiva in grado di sovrastare e quasi annullare le diverse caratteristiche intrinseche di ogni tecnica. Che si tratti di acquerello o di colore a olio, difatti, la pennellata, sensibilmente indefinita, crea un analogo senso aleatorio di leggerezza e sospensione, in cui il tempo pare immortalarsi nell’attimo dell’emozione. Sia i paesaggi che i ritratti di Xiyu sono avvolti da un’atmosfera intensa, fatta della materia impalpabile del suo microcosmo interiore. Protagonisti delle tele e delle carte esposte in questa mostra, infatti, non sono tanto i soggetti rappresentati, quanto il “carattere” della luce e dell’aria, a cui l’artista conferisce un colore, una sfumatura, un peso, e una connotazione interiore/intima accentuata. La trasparenza dell’etere assume così nei suoi dipinti la consistenza evanescente di uno stato d’animo corposo e complesso, di cui si tinge confusamente anche il silenzio. La figura, più o meno definita a seconda di ogni lavoro, perde a tratti i suoi confini per (con)fondersi nei cromatismi di una pennellata più “astratta”, in cui l’artista sembra voler trasferire la vivace vibrazione dei suoi moti interiori. Xiyu trova nella pittura una sua dimensione di pace, un’oasi dove rifugiarsi dalla pesantezza dei pensieri, da lui sfumati e diluiti assieme al colore, nel tentativo di annacquare e forse far scivolare via emozioni troppo sature e dense. La particolare luce del sole che caratterizza il paesaggio fiesolano rappresenta per lui un significativo stimolo visivo per illuminare anche le ombre del suo mondo interiore. Ne emerge una sensibilità analitica che gli consente di ritrarre i suoi soggetti umani cogliendoli nella loro intima connessione con se stessi, e di tracciare un personale percorso artistico improntato a un’originale ricerca cromatica e formale.

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Il cromatismo emotivo di Guo Xiyu


Musica

Maestro

Un’altra Africa

di Alessandro Michelucci La musica “colta” (termine orribile, che usiamo per convenzione) di derivazione europea ha influenzato in vario modo i compositori di altri continenti. Pensiamo all’azera Franghiz Ali-Zadeh; a giapponesi come Toru Takemitsu e Ryuichi Sakamoto; a numerosi compositori statunitensi, canadesi e australiani. Il continente che generalmente rimane al di fuori da questo panorama è l’Africa, che associamo al blues, al jazz o al ricco patrimonio musicale indigeno, dove il ritmo svolge un ruolo determinante. Naturalmente non è questa la sede per discutere sull’eventuale razzismo insito in tale opinione, ma è un dato di fatto che ai nostri occhi un pianista classico di colore è molto più insolito di un jazzista o di un coro gospel. Eppure, se esploriamo con cura, potremo andare oltre un simile stereotipo. Un punto di partenza può essere il CD A Celebration of African Composers for Piano (AMP, 2016). Nel disco il pianista Peter Henderson propone alcune composizioni di quattro compositori africani, tutti viventi tranne l’egiziano Gamal Abdel-Rahim (1924-1988). Il disco si apre con “Scenes from Traditional Life”, tre brevi brani dodecafonici composti da

Akin Euba (1935-), yoruba nigeriano. Molto attivo anche come etnomusicologo, negli anni Sessanta Euba ha sviluppato il concetto di un “pianismo africano” nettamente sganciato dal linguaggio jazzistico e da quello classico privilegiando l’anima ritmica dello strumento. Successivamente ha proseguito questa indagine insieme ad Halim El-Dabh (1921-2017), un grande compositore egiziano del quale parleremo meglio prossimamente. Joseph Hanson Kwabena Nketia (1921-), ashanti del Ghana, viene considerato il massimo etnomusicologo africano. A lui si devono molti libri fondamentali, fra i quali The Music of Africa (W. W. Norton, 1974). A lui Henderson dedica lo spazio maggiore proponendo 12 brevi composizioni. Ritmo e melodia si intrecciano e si sovrappongono con effetti insoliti e accattivanti. Le “Variations on an Egyptian Folksong” di Gamal Abdel Rahim si compongono di un breve tema seguito da numerose variazioni. Chiudono il disco sette brevi composizioni di Fred Onovwerosuoke (1960-), il più giovane dei quattro compositori, che è anche il fondatore dell’etichetta AMP. Si tratta di studi che mettono in evidenza la carica ritmica del piano, dimostrando che esiste una musica contempo-

ranea capace di rielaborare le influenze europee innestandole in un contesto pienamente africano. Chi vuole approfondire la conoscenza di questo universo musicale dispone di diversi strumenti. Il libro di Earl Ofari Hutchinson It’s Our Music Too: The Black Experience in Classical Music (Middle Passage Press, 2016) offre una sintesi agile della materia. Il blog Africassical (http://africlassical.blogspot.it) è una miniera di aggiornamenti discografici e librari. A livello accademico, invece, spicca la collana Bayreuth African Studies, fondata da Eckhard Breitinger nel 1984. Un centinaio di libri dedicati agli aspetti più vari delle culture africane: cinema, letteratura, musica, teatro, etc. Negli ultimi anni questo universo musicale dimenticato ha stimolato l’interesse di Fabrizio Ottaviucci, pianista sensibile e raffinato, che ha proposto le musiche di alcuni compositori africani in varie occasioni. Sarebbe bello se questo impegno prezioso venisse documentato da un disco

Eisbolé all’Affratellamento Chi subisce le violenze di guerre e conflitti di qualsiasi natura e non è solo profugo, immigrato, povero, è una persona con progetti, desideri, affetti, emozioni, diritti. Sul palco due donne. A Giusi Salis il compito di districare le difficili trame dei perchè, un racconto quasi giornalistico che col leggero distacco dell’ironia fa vivere la mappa di Peters. Fiamma Negri interpreta tre personaggi, tre punti di vista: Nur siriana, Kimpa l’archetipo della donna africana, Amanda, di nazionalità indefinita, donna d’affari senza cuore. Sabato 10 e sabato 17 febbraio, ore 21.00 Circolo Teatro Affratellamento, Firenze Fa.R.M. e Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo presentano: “Eisbolé, invasioni,-

strappi, visioni”, una carta geografica che parla e diventa teatro. Saranno presenti i partner: Paola Galgani, Segretaria generale Camera del lavoro Metropolitana Firenze, Eugenio Giani, Presidente Consiglio regionale della Toscana (patrocinio), Maurizio Brotini, Segretario generale CGIL Toscana, Simone Siliani, Direttore Fondazione Finanza Etica, Vania Bagni, Presidente coordinamento ANPI Toscana, Fausto Ferruzza, Presidente Legambiente Toscana, Jacopo Forconi, Presidente ARCI Firenze, Si ringrazia anche lo SPI CGIL, e EXFILA info e prenotazioni: fabbricaraccontimemoria@gmail.com

11 3 FEBBRAIO 2018


di Giuseppe Alberto Centauro Nell’ottobre 2006, le belle parole conclusive del convegno “Dalle Emergenze alle Eccellenze” avevano aperto la strada ad una speranza per l’interesse dimostrato a livello regionale per l’area archeologica di Gonfienti, come del resto lo era stato solo un anno prima, a livello nazionale, col Disegno di Legge depositato alla Camera dei Deputati, poi ritirato, che andava sotto il titolo di “Norme per la tutela ed il recupero del percorso dall’antica strada transappenniniFig. 1 - L’ area archeologica di Gonfienti prima dell’ampliamento dell’Interporto (Foto dell’autore, 2006) ca, detta “Via dei Santuari, o Via Etrusca Bisentina”, e l’istituzione del Parco Geo-Archeologico” che avrebbe legato la città degli Etruschi sul Bisenzio ai Monti della Calvana e a Marzabotto (fig. 1). Il risveglio, solo un mese più tardi, fu però molto duro da digerire, a dir poco traumatico per le sorti alle quali sarebbero dita” di ampie porzioni a monte sforandate incontro di lì a poco le “poste” tunatamente “mal ubicate” a ridosso archeologiche di Gonfienti. Mutuando un aforisma ricorrente nel restaudel piazzale (fig. 3), in prossimità di ro archeologico anche per Gonfienti un’area già in tutela interessata da varrà infatti il sistema della «doppia stratigrafie d’epoca romana, ma soprattutto sparì una vasta necropoli verità» (da una parte dichiarazioni di d’epoca micenea, con decine di fosrispetto e di conservazione rigorosa, se camerali ricche di corredi funebri. dall’altra, dopo le documentate ricerche stratigrafiche, gestioni a dir poco Per giustificare quel provvedimento sommarie dei contesti con “deoggetsi addusse come motivazione printivazione” dei siti). Veniamo ai fatti: il cipale il fatto che, per i reperti del 29 novembre 2006, la SBAT concede Bronzo, in tutta l’area fiorentina e sestese, già da 25 anni, era stata questa anche nelle aree di interesse archeologico il nulla osta per il rilascio del Fig. 2 – Decumano etrusco (Foto dell’autore, 2006) la prassi consolidata. Prima di cedere i terreni per l‘edificazione si scava, permesso di costruire alla Società Interporto per l’ampliamento dello scasi documenta, semmai si recupera il lo merci e la realizzazione della nuorecuperabile, per poi riconsegnare va piattaforma ferroviaria (per le cui il cantiere ai legittimi proprietari. E opere infrastrutturali erano già stati così, il 25 luglio 2007, si registra con erogati circa 25 milioni di euro tramil’avvio dei lavori di ampliamento te finanziamenti europei). Di fronte del terminale intermodale, la contestuale dismissione di ogni scavo a tali interessi in gioco anche l’albero archeologico. Una situazione questa delle eccellenze archeologiche toscane si era dunque piegato fino a spezche determinerà nei 10 anni succeszare qualche ramo maestro. Questo sivi, venendo meno le risorse private brusco ritorno alla realtà, ad un mese e con esse le “buone pratiche” non dalla dichiarazione di straordinario senza contraddizioni nella gestione del sito, una totale sospensione valore che aveva inorgoglito la città, delle ricerche sul campo. In questa ci mostra in realtà quanto possa esser Fig. 3 – Area destinata allo scalo merci (Foto dell’autore, 2006) situazione di perdurante stallo solo “volatile” la valorizzazione dei beni culturali. Entro il 3 agosto 2007 si sarebbero tina (fig. 2). Più delle parole valgono i dati: ai la centesima parte della “Gonfienti etrusca” aperti i cantieri interportuali e scaduti i termi- 12 ettari perduti per l’ampliamento dello sca- rimarrà alla luce del sole, con l’incuria e l’abni temporali, assai stretti, per gli archeologi per lo merci e ai 30.000 mq di binari aggiuntivi, si bandono che, per lunghi mesi, prenderanno completare le perlustrazioni in corso e proce- sommano i 200.000 mc del nuovo volume sorto inevitabilmente il sopravvento. Cosicché tutti dere rapidamente all’interramento di quanto a servizio della nuova piattaforma ferroviaria: i sedimi archeologici, ancorché vincolati, risulemerso. Sotto il cemento spariscono alcune una struttura inusitata per massa, altezza e for- tano ad oggi interrati, ad esclusione del grande strutture già dichiarate “reperti strutturati”, te impatto paesaggistico. Per dar corso ai lavori complesso strutturato del Lotto 14, identificato ad esempio la grande arteria glareata d’epoca si dovette procedere ad un’immane “bonifica” come la domus, messo parzialmente in sicurezorientalizzante, già identificata, prendendo a archeologica, un vero e proprio “sminamento” za ma non fruibile al pubblico se non per la diprestito la terminologia dalle centurie romane, di reperti da condurre velocemente in pochi sponibilità della Soprintendenza, protetto dalle come il decumano etrusco della piana fioren- mesi. Questa operazione coincise con la “per- recinzioni “videosorvegliate” dell’Interporto.

Gonfienti addio!

12 3 FEBBRAIO 2018


L’arte fa incontrare di Valentino Moradei Gabbrielli Nel tempo libero che mi restava dopo una visita medica, percorrevo Borgo Pinti riflettendo su una conversazione avuta con il pittore Lorenzo, riguardo alla difficoltà di definire oggi ciò che è arte e ciò che non lo è. Volendomi dare risposta e transitando a fianco del Convento e Chiesa di Santa Maria Maddalena dei Pazzi, ho pensato che se dovessi spiegare a qualcuno che cosa è l’arte, probabilmente lo condurrei qui. Uno spazio architettonico o meglio un “pensiero”, che a mio parere migliore di ogni altro linguaggio sa informare e partecipare il senso dell’arte. Nel corso di questa breve riflessione, ho raggiunto l’ingresso alla chiesa. E abbandonato in queste riflessioni, mi sono condotto nel portico, dove sono stato immediatamente fagocitato dal verde incorniciato dalla pietra del prato antistante al tempio. Avanzavo lentamente forse barcollante, in preda ad una sorta di estasi straordinaria che nel silenzio e nella luce contenuta dal porticato mi abbracciava dandomi conforto e restituiva quell’equilibrio interno che il mio deambulare ondeggiante negava. Riuscivo a malapena a intravedere una sagoma di uomo, che unica presenza veniva nella direzione da cui provenivo. La sagoma che già mi aveva superato, all’improvviso mi chiama e svegliato da un piacevole stordimento, ho messo a fuoco la fisionomia di una persona che nel frattempo mi chiedeva di riconoscerla. Solo quando mi ha detto: “Sono Mario! Non mi riconosci?”, mortificato, mi sono scusato confessando il mio piacere sincero nell’incontrarlo. L’incontro inaspettato, era stato auspicato e programmato da ciascuno di noi, ma per mesi rimandato per ragioni diverse. Mi ha detto: “Stavo girando per lavoro, ma passando da qui ho sentito il bisogno di entrare.” Ci siamo scambiati delle opinioni sul significato che ha l’arte e, la necessità che ha dell’arte l’umanità. Nello stesso momento in cui Mario mi consegnava un invito per una mostra che s’inaugurerà presso la galleria d’arte per la quale lavora, è entrato Alessandro giovane designer che ho salutato velocemente con l’intento di raggiungerlo poco dopo in chiesa. Più tardi, Alessandro mi ha confessato candidamente: “In verità dovrei essere al lavoro, ma ero molto stanco, ed ho preso un giorno di malattia. Sono entrato perché non avevo mai visitato questo luogo nei miei cinque anni di soggiorno fiorentino”. Insieme abbiamo goduto la pacata ricchezza di quello spazio an-

cora fuori dalle rotte del turismo. Quando ci siamo salutati, gli ho indicato caldeggiandola la visita alla crocifissione del Perugino, gioiello nascosto in questa isola fortunata.

Il Teatro Delusio al Puccini di Annamaria M. Piccinini Spesso si dimentica, con tutto il parlare e il gridare del cinema e della TV; le manipolazioni del classico e le audacie, spesso ripetitive, del contemporaneo, che cosa sia veramente il teatro. Il teatro è fatto di poco e di tantissimo. E’ tenere la scena con un solo personaggio, come sapeva fare Dario Fo. O come fanno, anche senza parole, con il solo linguaggio del corpo e con l’aiuto di travestimenti e maschere, i tre attori dello straordinario spettacolo “Teatro Delusio”, un’opera di “Familie Floz” dell’Arena Berlin e del Theaterhaus Stuttgart, che il Teatro Puccini ha ospitato per tre giorni senza nessun particolare clamore. Eppure la presenza della Compagnia tedesca, nota internazionalmente, a partire dagli spettacoli dati ad Edimburgo già qualche anno fa, avrebbe meritato ben più attenzione. Si è trattato di uno spettacolo di grandissima suggestione, certo non facile, ma godibile a vari livelli di comprensione. Nel modo più immediato, un spettacolo del genere “clownerie”, con maschere di forte espressionismo, tipicamente tedesco, senza parole, tutto legato al linguaggio dei corpi e ai loro movimenti i più strampalati, come sacchi che si afflosciano, o che saltellano, che fanno ridere grandi e piccini. Ma, a un li-

vello di maggiore consapevolezza, in quelle maschere, che ricordano da vicino le deformazioni dei volti di Francis Bacon; e in quel palcoscenico diviso in due da una parete, aldilà della quale avviene il vero lavoro e la vera trasformazione della realtà in finzione, si coglie la volontà di creare una sorta di teatro nel teatro. Infatti i vari personaggi ne escono fuori a momenti, a mimare varie situazioni e personificazioni nelle quali prevale una continua parodia del teatro e delle sue manifestazioni, passate e contemporanee, piuttosto chesituazioni esistenziali, che pure a queste s’intrecciano, come nel personaggio del letterato o del comico e patetico violinista. Si susseguono satire che colpiscono il manierato teatro settecentesco e il drammatico teatro d’opera ottocentesco, con musiche, maschere e costumi imitativi di grande comicità e ironia, senza risparmiare, nel finale, le rockstars contemporanee. Comunque la verità stessa del teatro, in quanto tale, è messa in dubbio, poiché il personaggio-maschera che più rappresenta e difende il teatro stesso nel suo farsi ed esibirsi, alla fine cade morto, come un sacco sgonfiato. E i tre attori, che hanno fatto tutte le parti con tutti i loro travestimenti, si ripresentano ,come all’inizio, tecnici e operatori di quella medesima scena

13 3 FEBBRAIO 2018


di Mariangela Arnavas L’inaugurazione della mostra temporanea The ineffabile Gardener di Loris Cecchini e Monadas di Elisabet Cervino sabato 20 gennaio scorso ha costituito per me la prima occasione di visita alle strutture di Galleriacontinua a S. Gimignano: un’ impresa di grande rilievo culturale e artistico, cominciata negli anni ‘90 come l’avventura di tre ragazzi, Mario, Maurizio e Lorenzo, che è riuscita a espandersi con successo nel mondo: a Beijing in Cina dal 2005, a Les Moulins in Francia dal 2007 e all’Avana, in un cinema abbandonato del Barrio Chino dal 2014. Un bellissimo esempio di intelligenza e intraprendenza toscana e anche della capacità di mantenere l’orgoglio e l’attaccamento alle proprie origini, perché S. Gimignano, il luogo di provenienza degli allora ragazzi e ormai più che affermati galleristi nonché di inizio del percorso, non è mai stato abbandonato o trascurato, né tradita l’impostazione fondamentale della creazione dei luoghi espositivi; si parte da un vecchio cinema di S.Gimignano, chiuso da tredici anni che, con pochi ma significativi adattamenti diventa il cuore espositivo dell’arte contemporanea nel territorio e si arriva nel 2014 all’Avana, di nuovo in un cinema dismesso e abbandonato nel Barrio Chino. Un esempio luminoso da un punto di vista culturale e di recupero del territorio, quando, purtroppo invece anche la Toscana è disseminata di cinema/teatri dismessi che sono diventati supermercati o parcheggi o semplicemente lasciati in abbandono. Così come non viene mai trascurata l’esigenza di attivare sinergie con gli abitanti dei luoghi dove si vanno a calare le esposizioni; infatti, per esempio, la cena al termine dell’inaugurazione della mostra di sabato si è tenuta nella sala espositiva centrale dell’ex-cinema dove si trova l’opera più imponente di Loris Cecchini, una scultura modulare in acciaio con le ramificazioni della quale l’”ineffabile giardiniere“ evoca immagini di DNA e di catene proteiche ma anche di foreste incantate, era un buffet toscano aperto a tutti, non solo ad artisti, critici e galleristi, nonché visitatori , ma anche agli abitanti del luogo e i molti bambini presenti, sfioravano passando e facevano muovere come per una brezza leggera le articolazioni metalliche appese al soffitto con fili trasparenti; il catering da casa del popolo si mescolava con semplicità e in piena armonia con l’estrema raffinatezza di questo artista contemporaneo. Se si riflette sulla diffusa e pesante ignoranza che caratterizza il nostro paese nel campo della storia dell’arte in generale e più ancora in quello dell’arte contemporanea, non per responsabilità degli italiani, ma per un’impostazione del sistema scolastico che, caparbiamente, a dispetto delle numerose riforme, mantiene l’insegnamen-

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Cecchini, il giardiniere ineffabile to delle materie artistiche e della storia dell’arte confinato in poche ore marginali e in pochi istituti scolastici quasi sempre scollegate dall’intero contesto di studio quando il patrimonio naturale e artistico del nostro paese è una delle maggiori risorse a disposizione, si può comprendere quanto sia preziosa l’impostazione data a Galleriacontinua e la coerenza con cui viene protratta nel tempo, e quale pregio abbia la completa assenza in questa esperienza di quel provincialismo snob che affligge e deturpa tanti ambiti della cultura italiana. Sono numerosi e di grandissimo rilievo gli artisti che si sono avvicendati in questi anni negli spazi di S. Gimignano, in particolare questa mostra di Loris Cecchini, The Ineffable Gardener, è stata concepita appositamente per l’intero cinema/teatro di S. Gimignano e si compone di un nutrito numero di opere, strutturalmente molto diverse tra loro: dalle grandi strutture modulari in acciaio, dagli “alberi” in legno e metallo, alcuni illuminati, ai delicatissimi diari in acquerello e matita, incapsulati in sottovuoto trasparenti, variamente deformati in escrescenze di plastica; la perfezione asimmetrica delle architetture microscopiche naturali si espande in architettura di paesaggio e di interni. Al centro dell’opera di Loris Cecchini c’è una nuova lettura della spazialità: lo spazio fisico viene interpretato come qualcosa di biologico, organico, vitale, ma allo stesso tempo razionalmente strutturato, meccanicamente prodotto, perfettamente artificiale e tuttavia dotato di una funzionalità di matrice organico-strutturale, come illustra Silvia Pichini, responsabile della comunicazione per Galleriacontinua nel comunicato stampa della mostra. Lo stesso Loris Cecchini ci racconta in una recente intervista:” Ho sviluppato il mio linguaggio creativo intorno alle idee di oggetto, modello, architettura. Spesso il lavoro si riferisce in diversi modi all’idea di abitare lo spazio. Oggi perseguo lo spazio della scultura e dell’installazione ambientale seguendo un’idea di parcellizzazione della materia , quasi una forma di deflagrazione molecolare della scultura, in cui la fenomenologia scientifica diviene intima struttura e tramite per la visione. Questo avviene dopo avere per molti anni compiuto un’indagine basata sul rapporto umano con lo spazio curvo, uno spazio dove l’angolo retto e il paradigma eu-

clideo cedono alla deformazione organica, pervadendo il senso della forma. Quello che realizzo di volta in volta sono serie di lavori sviluppati attraverso diversi media dall’acquerello alla fotografia, dalla grande installazione ambientale alla micro scultura, uno spazio che viene percorso e completato dallo spettatore stesso, mantenendo costante l’idea di “doppio paesaggio”, in cui la fisicità dei materiali rimanda ad una progettazione virtuale e viceversa”. Sappiamo che gli sviluppi della fisica moderna, anche se cominciati con Einstein nel secolo scorso, non sono affatto diventati patrimonio del senso comune diffuso, che rimane ancorato ad una concezione newtoniana, geometrica dello spazio/tempo; trovo di grandissimo interesse, oltre al valore estetico, che un artista contemporaneo riesca a fornire intuitivamente a chi guarda le sue opere l’idea che lo spazio sia dimensione interna e non esterna alla materia. Le opere di Elisabet Cervino, nell’altra esposizione collegata, intitolata “Monadas”, le strutture fondamentali dell’essere di leibniziana memoria , si collega ad una mostra precedente “Na”, dedicata all’artista nella sede cubana di Galleriacontinua, in occasione della quale l’artista ha dipinto interamente di bianco la strada davanti alla Galleria del Barrio Chino all’Avana. Pervasi da un’intima religiosita’, di carattere vasto e non esclusivo, i lavori dell’artista si concretizzano attraverso forme diverse: quadri, performance, versi o installazioni, la cui coerenza stilistica è data dalla particolare sensibilità dell’artista che, alla ricerca di un significato intimo della realtà, tende a togliere e a rimuovere più che ad aggiungere materia. Molto intensa e significativa, in particolare, l’installazione, perfettamente collocata nella torre di S.Gimignano, dove al centro di una stanza buia un cerchio di luce con un piccolo centro scuro si espande e riduce impercettibilmente al ritmo di un respiro, ritmato in onde lunghe dal suono rituale, cadenzato e amplificato di una goccia d’acqua che cade. Il tutto è completato da un’esposizione collettiva di grande interesse di altri artisti cubani, tra cui Carlo Garaicoa, in altra struttura sempre di Galleriacontinua nella piazza centrale di S.Gimignano; tanti buoni motivi, dunque, per una visita alla bellissima cittadina toscana, prima del 28 aprile.


di Simonetta Zanuccoli Entrare nella stanza rotonda, tutta rivestita di nero e appena illuminata, è come immergersi in un immaginario inverosimile: un’enorme alieno tutto bianco aspetta in agguato dietro un angolo, poco più avanti Irvin, il cervello che parla nella Città dei bambini perduti è accanto al grande modello di barca dello stesso film, attaccata al muro l’insegna del maiale e il grembiule da macellaio di Delicatesse e tante altre cose.... compreso il nano tutto colorato e le foto Polaroid del Favoloso mondo di Amelie. Personaggi e oggetti che percepisci familiari ma l’assoluta mancanza di un testo di accompagnamento li rende sconosciuti compagni di un viaggio di emozioni. A Le halle Saint Pierre in rue Ronsard 2, ai piedi della scalinata di Montmartre, ex mercato ottocentesco in ferro e vetro che propone sempre esposizioni di arte e artisti (spesso pazzi o visionari) fuori da qualsiasi canone tradizionale, si può vedere fino al 31 luglio in mostra l’incredibile universo di Marc Caro e Jean-Pierre Jeunet, sceneggiatori, disegnatori, registi, e amici da oltre quaranta anni. Si incontrarono infatti, appena ventenni, al Cinema Internazionale di Nancy nel 1974, Caro divoratore delle opere di Jules Verne, dei romanzi di fantascienza di HG Wells e dei film di Karel Zeman che filtrava attraverso i suoi mentali specchi deformanti e Jeunet che fin dall’infanzia trasformava in oggetti e modelli misteriosi i racconti e le leggende che leggeva. Si scoprirono entrambi appassionati del cinema visivo e d’animazione e di mondi immaginari.

L’ incredibile caos di Caro e Jeunet Molti degli oggetti feticci, disegni, foto, costumi, storyboard... presentati alla mostra fanno parte della collezione personale di Jeunet che affolla, in un incredibile caos, il suo studio a pochi passi dal Halle Saint Pierre. Sono esposti senza ordine cronologico né cartelli di spiegazione sostituiti da video che consentono di scoprire in che modo ciò che è presentato è stato utilizzato all’interno del film. Dice Jean-Pierre quello che odio nelle mostre è quando c’è troppo da leggere e niente da guardare. Questa è una mostra da guardare tranne nella piccola sezione dei film che non sono stati mai realizzati in cui abbiamo messo un breve testo per spiegare perchè. Il loro primo cortometraggio insieme, L’e-

vasion, è del 1978. Tutto è miniaturizzato. Il prigioniero, il modello del carcere, i guardiani in uniforme, i mobili, la minuscola ghigliottina. Una specie di gioco dove la successione di fotogrammi dava l’illusione di movimento. Nel 1980 con Le manége dove Jeunet, armato di trapano e viti costruisce scheletri metallici articolati e Caro modella i corpi e le teste, vincono il César per il miglior film d’animazione. Di nuovo, nel 1991, ottengono 4 César con Delicatessen, un lungometraggio la cui produzione stessa, dicono, non capiva cosa stessimo facendo. Per vent’anni formano un duo non classificabile e non prevedibile che lascia spazio però anche a opere individuali. Dice Caro... quando lavoriamo insieme mettiamo nel piatto comune ciò che sappiamo interessare all’altro e ciò che è più intimo lo mettiamo da parte. Quindi, a un certo punto, ognuno di noi sente l’esigenza di esplorare questo lato personale in piena indipendenza. Questi geniali adulti-bambini hanno ancora tanti sogni da realizzare per continuare a meravigliare e meravigliarsi. Quello a cui tiene di più Caro. confessato in un’intervista, è aprire un negozio di giocattoli e dolcetti a Montparnasse.

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I professionisti del fundraiser di Roberto Giacinti Sono poche, ma importanti, le organizzazioni non profit che organizzano in modo non occasionale le campagne di raccolta fondi. Le sollecitazioni ai donatori, si tratti di persone fisiche, imprese o enti, sono ormai ritenute una fonte primaria per l’incremento delle entrate e, in molte realtà, soprattutto di piccole o medie dimensioni, prevalgono sui fondi di natura pubblica, che si vanno via via restringendo. Ma se molto si conosce sul peso del fundraising nei bilanci del Terzo settore, ben poco si sa sui professionisti che svolgono questa attività, sul ruolo che occupano negli organigrammi degli enti, sul loro livello di esperienza e sull’inquadramento contrattuale. E’ vasta la platea dei fundraiser, ma non quella di chi lo fa a tempo pieno. Prevalgono i giovani e le donne che hanno una buona predisposizione nell’instaurare relazioni sociali, ma anche per la loro capacità di conciliare tempi di vita con quelli di lavoro. I fundraiser professionali prevalgono nella cooperazione e solidarietà internazionale, nell’assistenza sociale e nella sanità; la maggioranza ha un fisso retributivo, altri ricevono compensi variabili solo per i fondi raccolti. Molte organizzazioni non riescono a professionale la raccolta dei fondi, per esse sarebbe utile fare rete tra soggetti pubblici e privati per cercare volontari che vogliono entrare nel mondo della solidarietà, entrando direttamente in contatto con le organizzazioni che operano sul territorio. www.volontariperungiorno.it, ad esempio, è una piattaforma per l’accesso a esperienze di cittadinanza attiva che mette in contatto i potenziali volontari con le associazioni e, soprattutto, con i progetti per la comunità. Nata come iniziativa sperimentale di innovazione sociale a Milano e provincia oggi è una realtà presente su tutto il territorio nazionale, in continua crescita e conta oltre 15.000 volontari, 450 enti e 130 imprese. È un risultato particolarmente significativo alla luce del fatto che, ogni volta che un’associazione richiede volontari per un progetto, la ricerca riparte da zero. Partecipare o meno a questa realtà o replicarla può essere una scelta, ma da questa

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esperienza emerge che occorre unirsi ad altri soggetti e che si può garantire la sopravvivenza dell’ente solo avviando un approccio professionale nelle attività di marketing. Affrontare una campagna di fund raising in modo strategico significa chiarire la missione, stabilire obiettivi pre-definiti, attribuire ai donatori ed ai volontari un riconoscimento per il loro contributo alla fine di ogni campagna.

Se negli anni ottanta e novanta fare fund raising significava sostanzialmente impostare una corretta ed efficace strategia basata sulle metodologie e le tecniche del marketing diretto e interattivo (direct mail, telemarketing, ecc.) oggi la situazione è completamente mutata. Il fund raiser deve operare in un mercato altamente competitivo da affrontare con competenze di marketing e PR, conoscenza e padronanza delle nuove tecnologie informatiche e informative, così come dei nuovi ambienti, media e strumenti di comunicazione e gestione: database relazionale, web site, social media, tutti approcci in grado, anche, di migliorare la fidelizzazione dei donatori.

Morto Stalin, se ne fa un altro di Francesco Cusa C’è molto, troppo Kaurismaki in questo film di Armando Iannucci. Oserei dire inutilmente, perché il film, grazie anche al pregevole cast, ha dei notevoli spunti creativi e gode di una discreta sceneggiatura. E c’è poco, pochissimo Monty Python, a dispetto della presenza del mitico Michael Palin nei panni di Molotov. Il risultato è una specie di ibrido tra racconto storico e commedia surreale che non dà mai la sensazione di graffiare veramente, in quanto tutti gli elementi corali paiono amalgamarsi male insieme, forse proprio a causa di questo senso di indeterminatezza che solo pochi registi - su tutti Wes Anderson

- possono concedersi. Non conosco la graphic novel di Fabien Nury e Thierry Robin da cui è tratto il film, per cui non posso cogliere magari le sfumature e i riferimenti specifici. Il mio giudizio è dunque ovviamente limitato alla visione della pellicola. Insomma, a me pare che “Morto Stalin, se ne fa un altro” rappresenti l’ennesima occasione perduta nonostante le feconde premesse. Non sono riuscito a sintonizzarmi sulle frequenze da “black comedy” senza sospirare per la sgradevole sensazione di “deja vu”, né a modulare con le palesi caratteristiche da “pièce” dell’opera che pare sfocarsi costantemente negli obiettivi e nei propositi. Pochi lampi nel grigiore.


di botte, appeso per i piedi e poi tagliato a pezzi; pare che il pezzo più grande fosse un piede rimasto appeso alla forca. Nei giorni successivi Michele di Lando, pur drammaticamente ignaro di politica, assunse delle decisioni importanti; fra l’altro, e in primis, costituì tre nuove Arti: quella dei “minori” dell’Arte della Lana (scardassieri, pettinatori etc.) che ebbe come insegna un angelo con la spada, quella dei tintori e quella dei sarti (semplifico, ma le professioni contenute nelle nuove Arti erano molteplici). Ma promulgò anche provvedimenti contradditori, che sembravano favorire il “popolo grasso”, tant’è che non fu rieletto alla fine d’agosto. Nel giro di poco fu ripristinato lo stato quo-ante, cancellate le nuove Arti ed eliminata tutta la leadership del Ciompi, con l’eccezione di Michele che non se la passava male come Capitano del Popolo a Volterra, carica alla quale era stato nominato grazie ai buoni uffici dei Priori delle Arti Maggiori fiorentine. A pensar male si fa peccato…

Via Michele Di Lando

La tortura di Bugigatto di Fabrizio Pettinelli

Viveva a Firenze tale Simone della Piazza, soprannominato Bugigatto, che era uno dei personaggi di spicco dei Ciompi, i salariati di più infimo rango delle Arti (in particolare quella della Lana, che ne contava molte migliaia), che nella seconda metà del ‘300 si preparavano a guidare l’insurrezione del “popolo minuto” contro il “popolo grasso”. Bugigatto si era evidentemente dato tanto daffare che alla fine gli sgherri della Signoria lo agguantarono e, direttamente con le cattive, provarono a fargli confessare i nomi degli altri caporioni della rivolta: lo attaccarono per i polsi in Piazza della Signoria e iniziarono a dargli dei tratti di corda. Il povero Bugigatto cominciò a strillare come un’aquila; caso volle che in quel momento sulla torre di Palazzo Vecchio un altro capo dei Ciompi, Niccolò da San Frediano, stesse sistemando l’orologio e potesse quindi assistere al supplizio da posizione privilegiata. Scese precipitosamente e corse in Santo Spirito dando l’allarme e facendo suonare a martello le campane della basilica. Presto fecero eco le campane di San Lorenzo e di San Pier Maggiore e, nel giro di poco, si radunarono oltre seimila popolani; non è dato sapere che fine facesse Bugigatto, ma i Ciompi pensarono comunque di vendicarlo dando fuoco alle abitazioni di molti maggiorenti cittadini: bruciarono le case dei Ridolfi e dei Guicciardini, dei Corsini e dei Peruzzi e di tanti altri. Dopo tre giorni di rivolta, il 22 luglio 1378, i Ciompi sferrarono l’attacco decisivo a Palazzo Vecchio e fu, pare casualmente, tale Michele di Lando (al quale è dedicata questa strada), scardassiere di lana, il primo a entrare nelle stanze del potere e ad essere acclamato, seduta stante, nuovo gonfaloniere della città. Nonostante le buone intenzioni e gli appelli alla moderazione di Michele, le prime ore dopo la presa del potere furono sanguinose; la sorte peggiore toccò a Nuto Pieri, ex-capo della polizia segreta: riconosciuto sotto travestimento in Via Vinegia, fu massacrato

Verso i 600 anni dai primi lavori della Cupola Il Consiglio dell’Opera di Santa Maria del Fiore, in vista dell’anniversario dei 600 anni dall’inizio della costruzione della Cupola del Brunelleschi del Duomo di Firenze, che ricorrerà nel 2020, ha deciso di costituire al suo interno una commissione che si occuperà e coordinerà le iniziative che saranno realizzate per l’anniversario. Della commissione fanno parte i consiglieri: Sergio Givone, Domenico Mugnaini, Antonio Natali e Vincenzo Vaccaro. L’obiettivo è quello di realizzare un programma di livello internazionale che valorizzi il celebre monumento, simbolo di Firenze nel mondo. La commissione accoglierà e vaglierà anche le proposte che arriveranno dall’esterno. Per contatti inviare una email a: cupola2020@operaduomo.firenze.it. La Cupola di Brunelleschi rimane ancora oggi la più grande in muratura mai costruita. A base ottagonale, il suo diametro esterno è di 54,8 metri mentre quello interno di 45,5. Con questo capolavoro inizia, convenzionalmente, la grande stagione dell’Umanesimo e del Rinascimento. La Cupola è innanzitutto il simbolo dell’Universo, del suo ordine e della sua bellezza. Per i cristiani parla di Dio e del suo ricongiungimento con gli uomini. Leon

Battista Alberti fu tra i primi ammiratori della grandiosa opera di Filippo Brunelleschi. Gli apprezzamenti e gli studi sulla Cupola brunelleschiana non hanno mai avuto pause. Tale è il suo fascino che da generazioni la passione per capire e spiegare la ‘macchina’ della Cupola, continua a suscitare vivaci dibattiti fra gli specialisti. Il problema del “voltar la cupola” si pose all’Opera di Santa Maria del Fiore fin dal 1418: si fecero inviti, gare e si chiesero consulenze, coscienti della complessa natura della costruzione. Si trattava di dare soluzione all’ottagono del tamburo (l’imposta della Cupola), ereditato dal Talenti, Benci di Cione, Giovanni d’Ambrogio e altri, e di risolvere il più grande problema tecnico dell’Occidente di quei decenni. Finalmente nel 1420 la scelta cadde su Filippo Brunelleschi. Il 7 agosto di quell’anno i lavori di costruzione della Cupola ebbero inizio per terminare, fino alla base della lanterna, il primo agosto del 1436. La lanterna con copertura a cono, su disegno del Brunelleschi, fu realizzata, solo dopo la morte dell’artista (1446) e la palla di rame dorato con la croce, opera d’Andrea del Verrocchio, contenente reliquie sacre, fu collocata nel 1466.

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Mappe di percezione

San Francisco

di Andrea Ponsi Market Street

Se San Francisco fosse solo una valle e non una città, Market Street sarebbe il fiume principale verso cui convergono i suoi affluenti maggiori. Quelli di destra: tutte le “streets” dalla First alla 17th, oltre Guerrero, Dolores, Castro ecc. Quelli di sinistra: Divisadero, Fillmore e cento altre strade tra cui California Street. Se Market Street è il Mississipi , California Street è il suo Missouri, un fiume che scende verso valle segnato dalle scie delle rotaie dei tram a cavo , le cable cars. Market Street è un fiume largo, capiente, che taglia la città in diagonale. La sorgente è sull’alture di Twin Peaks e il suo corso è costellato di negozi, case, uffici, palmette, lampioni in stile. Verso l’estuario diventa un gorgo sprofondato in un canyon di grattacieli. Lì raccoglie oro e fango, businessmen e straccioni col carrello e masserizie . Lì finisce la sua corsa il cable car di Powell Street mentre scorre sotterranea la corrente carsica della metropolitana Bay Area Rapid Transit. Alla fine del suo corso Market Street non riesce a defluire nelle acque della baia. Trova una diga: il Ferry Building. La sua torre dell’orologio, da quando il terremoto ha eliminato la freeway che la nascondeva, è di nuovo il fuoco visivo della grande strada diagonale. Homeless

Un vecchio accovacciato lungo Market Street tiene in mano un pezzo di cartone con scritto a mano “homeless - help”. E’ appoggiato ad una rete dietro la quale si apre un enorme scavo nel terreno. “Smith General Contractors” indica il grande cartello, con la sua bella grafica stampata. Qui verranno costruite varie torri di almeno trenta piani: “360° views”, “ luxury penthouses”, “centro fitness” e altre amenità. Forse il vecchio accovacciato se ne andrà da un’altra parte domattina, quando riprenderanno a lavorare bulldozer e scavatrici. Tenderloin

Il quartiere del peccato: vagabondi senza casa, travestiti, cheap hotels, strani bar, neon polve-

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rosi. Tenderloin è un muscolo vitale, proprio nel centro della città, a un passo da downtown e la ricca zona del Pacific Heights. Tenderloin è letteralmente un taglio di carne prelibato, ma qui è flaccido, molle, un po’ avariato. Proprio per questa sua identità derelitta può ispirare interesse, curiosità , ribrezzo o una tenera pietà. South of Market

South of Market, SoMa come si dice, potrebbe essere un generico quartiere di ogni generica città americana: freeways che l’attraversano sospese su immensi piloni sotto i quali si allineano squadrati edifici-magazzini; vecchie costruzioni in mattoni con ancora scritte dipinte a mano sbiadite dal tempo; impronte di vecchie rotaie imbevute da nuovi asfalti; saracinesche, grandi finestre di ferro verniciato, pali di legno con attaccati matasse di cavi elettrici, carrelli appoggiati alle rampe che entrano nei loft. Ma South of Market, come ogni zona industriale urbana americana sta cambiando, è già cambiata. Prima gli studi degli artisti, poi gli showrooms di arredamento e i nuovi loft residenziali arredati con cucine e caminetti di design. La ruspa ha fatto il suo lavoro. Sono

stati tanti gli edifici a venire giù. Ottime occasioni per i giovani architetti di sperimentare nuove finestrature in vetro, griglie in alluminio, balaustre in acciaio corten. Cosi sono cresciuti nuovi palazzi a due o tre piani, spesso stilisticamente memori della vecchia estetica industriale. Ma allo stesso tempo avanza la downtown. Arrivano i giganti! I veri simboli del progresso americano, che, esaurito il terreno fertile del centro cittadino, come mandrie nei pascoli montani, cercano nuove terre per piantarvi fondazioni. La strada è stata aperta una ventina di anni fa dai primi grattacieli proprio accanto a Market Street. Poi è arrivato il Convention Center, il Museum of Modern Art, lo stadio e qualche altra shopping mall. E con essi i grattacieli. Anni addietro erano nati comitati per impedire la cosi detta Manhattization di San Francisco. Non so se ancora esistono. Comunque sembra che la battaglia abbia avuto un duplice esito. Quello di scoraggiare l’avanzata del downtown verso North Beach o Russian Hill, e , all’opposto, di straripare con grattacieli di ogni tipo nell’altra direzione, quella di SoMa. Ormai tutte le città tendono a somigliarsi. Tutte le città sono copie di Manhattan. Perché non San Francisco?


di Paolo Marini Negli scorsi giorni abbiamo appreso (fonte Rainews) che la Camera bassa del Parlamento polacco ha approvato norme che sanzionano penalmente, finanche col carcere, coloro che “pubblicamente e contro i fatti attribuiscono alla nazione polacca o allo stato polacco la responsabilità o la corresponsabilità di crimini compiuti dal Terzo Reich tedesco oppure i crimini contro l’umanità, contro la pace nonché altri crimini durante la guerra”. Sanzioni sono previste per i tentativi “evidenti di sminuire la responsabilità dei reali autori di questi crimini” nonché per l’uso dell’espressione “campi polacchi della morte” (come Auschwitz). Vedremo se queste norme diventeranno legge. Su un altro fronte - per un verso speculare ma non opposto, poiché della stessa indole è la pretesa di punire penalmente coloro che esprimano pubblicamente idee cosiddette ‘negazioniste’. In Italia la legge n. 115 del 16 giugno 2016 ha introdotto per la verità una versione ridotta - rispetto a tale pretesa -, perché consistente non in una fattispecie autonoma di reato, bensì in una circostanza aggravante dei delitti di propaganda razzista, di istigazione e di incitamento di atti di discriminazione commessi per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi. In questa sede non interessa se lo Stato polacco sia stato o meno complice dello sterminio attuato nei campi di concentramento tedeschi, ovvero se sia corretto parlare di “campi polacchi della morte”; non interessa neppure un giudizio circa il pensiero o l’idea che nega che negli anni del secondo conflitto mondiale, nel cuore della vecchia Europa, il regime nazista abbia pianificato e attuato una politica di deportazione e di eliminazione di milioni di persone, in particolare di religione/famiglia ebraica. Qui interessa esclusivamente la questione della legittimità di norme come quelle citate. Lo Stato reclama il monopolio dell’interpretazione storica. Stabilisce con legge che c’è una verità che tutti debbono riconoscere e rispettare e coloro che formulano ipotesi o teorie contrarie meritano una sanzione penale: esempio chiarissimo dell’approccio della democrazia moderna al problema della libertà individuale e della libertà di manifestazione del pensiero. Così, i reati di opinione sembrano destinati a una nuova fortuna e questa è una brutta notizia, per ciascuno di noi. Un mix di incompetenza, di insulsaggine, di demagogia e di autoritarismo è il brodo di coltura in cui – variamente mescolati, i citati ingredienti, in virtù degli specifici contesti – maturano odierne scelleratezze.

La verità secondo lo stato polacco

Va ribadito: non è della legge il compito di stabilire verità o falsità storiche, che cosa sia giusto o non giusto ritenere. La scelta di una certa lettura storica, ancorché frutto di ideologia e/o priva di fondamento, è individuale e lo Stato non deve in alcun modo interessarsene. Era ed è corretta l’analisi di Frederick von Hayek, quando teorizzava la sussistenza di un minimo comune denominatore tra regimi totalitari, autoritari e democratici, riassumibile nel termine “collettivismo”. La cultura collettivista è geneticamente antitetica a quella della libertà e le nostre democrazie ne sono fisiologicamente permeate. Il primato della libertà è, correlativamente, una sfida permanente e sempre assai lontana dall’essere vinta. Né pensino, coloro che invocano una legge per chiudere la bocca ai sostenitori di tesi comunemente ritenute insostenibili, che il problema riguardi esclusivamente quei consociati che ne verrebbero/verranno eventualmente condizionati/colpiti. Tutti dovrebbero preferire il rischio di sentir circolare un’idea che reputano finanche odiosa e inaccettabile, piuttosto che di vivere in un ordinamento che impone la galera (o qualsiasi altra sanzione) a chi professa certe opinioni. Seguendo quest’ultima traccia, nell’imprevedibile ruota o giro di vite della storia, la galera potrebbe, un giorno, toccare a chiunque.

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di M. Cristina François Sono quattro, furono benedette con l’Acqua Santa, incensate, consacrate col Crisma, secondo il Cerimoniale dei Vescovi dell’epoca e chiamate con un proprio nome: Felicita, Benedetta, Raffaella e Geltrude. Ognuna, come una persona, ha il suo tono di ‘voce’: rispettivamente in FA, in SOL, in LA e in SI. Tutte insieme, dall’alto dei 28 m. della loro cella, in cima alla Torre che già fu dei ghibellini Fifanti, concertano il loro suono per diffondere tutt’intorno benedizioni. Nel corso dei secoli, grazie alla loro funzione apotropaica, hanno parlato agli uomini di questo Popolo per farli partecipi di gioia, mestizia, preghiera, dolore, serena letizia, annunci di pace, di guerra, di pericolo incombente, protezione dai mali. Quasi il Signore si servisse delle loro voci per trasmettere e condividere i Suoi messaggi inviati agli uomini. Per scrivere delle campane che suonano ancor oggi dalla Torre della Chiesa di S.Felicita, devo soprattutto tornare al ricordo di quello che mi disse Alvaro F., indimenticabile Sagrestano di questa chiesa dal 1948 al 2002 e ultimo Campanaro negli anni ’50. Mi rammentava che ai tempi suoi le campane suonavano “a morto” non solo per funerali, anniversari, esequie, ma pure quando c’era in Parrocchia un morente, durante il trasporto del Viatico, e venivano dette “campane dell’agonia”; alla morte di un bimbo, invece, suonavano “a festa” insieme agli Angeli che accompagnavano la piccola anima in Cielo. Poi c’era il silenzio delle “campane legate”: tacevano - proprio come persone - perché il dolore è muto, dal Gloria del Giovedì Santo al Gloria del Sabato Santo e, allora, scattava il momento gioioso di “slegarle” per la Pasqua del Signore. S.Felicita, essendo Chiesa considerata “fra le principali di Firenze”, faceva sentire i rintocchi del principio del Digiuno quaresimale, come pure era la prima - nel quartiere di qua d’Arno - che slegava il suono festoso del Sabato Santo, mentre “le altre, Chiese minori” aspettavano alcuni secondi per farle da eco. Era il tempo in cui si suonava durante “l’uscita” di tutte le Processioni, in quelle “sere di vigilia” che precedevano il giorno festivo per annunciarne così la liturgia speciale, e al momento in cui si intonava il Te Deum, il Veni Creator Spiritus nonché al Gloria per Natale, Pasqua e Pentecoste. Infine, quando un Vescovo in Visita Pastorale celebrava in S.Felicita, si suonava “un doppio a festa” all’“Introibo”. Prima del Sagrestano Alvaro F., depositario

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Le campane di Santa Felicita

identità sonora

di questi suoi “dialoghi” con le campane così lui li chiamava - c’era un Campanaro che veniva affiancato al Sacrista e a cui era affidato soltanto tale compito: aveva una stanzina alla base della Torre con un assito per giaciglio quando doveva aspettare per suonar “notturni”. Ho tratto poi altre notizie per questo articolo dalle seguenti fonti manoscritte dell’Archivio Storico Parrocchiale di Santa Felicita (A.S.P.S.F.): Ms.720 redatto nel 1589, Ms.735 iniziato nel 1626, Ms.728 redatto nel 1819, Ms.729 del 1860, Ms.730 iniziato nel 1868; inoltre, “Illustrazione dell’I. e R. Chiesa Parrocchiale di S. Felicita che può servire di Guida all’Osservatore” (1828), del Priore G.Balocchi. Il Curato Ganci nei Mss.729 e 730 - riferendosi alla Torre campanaria - scrive che era “senza veruna bellezza […] e con pareti rozzissime […] informe ed’ incomoda” e chiude augurandosi che “un qualche zelante Ope-

rajo di nostra chiesa negli anni avvenire demolisse così brutto e così incomodo campanile (giacché per suonar le campane fa’ d’uopo ogni volta salire 72 scalini)”. Nel Trecento, le campane di S.Felicita “si suonavano di dietro l’altar maggiore, cadevano cioè le funi delle medesime nel Coro, inconveniente che poi venne tolto nel 1395” perché disturbavano l’Officiante, col penzolar delle corde: le Benedettine in quell’anno “vi fecero costruire una stanza dietro il coro nella quale vi fecero scendere anche le funi. Nell’anno poi 1744 essendo Badessa in questo Monastero Donna Rosa Vittoria di Francesco Altoviti [così Ms.719 a c.141] tolse ancora questo mezzo non poco difficoltoso per suonar le campane, per non essere i buchi delle funi in linea retta con le campane, ove ne aggiunse un altro, facendo fabbricare l’attuale scala a chiocciola per portarsi a suonarle sopra il piano del coro”.


Egli parla poi di “due campane più piccole”: la Benedetta e la Raffaella. Quella che guarda verso sud e che presenta un alto fregio decorato con una matrona seduta (S. Felicita), un Santo (S.Benedetto) e dei festoni, risale al 1775. L’altra, un po’ più grande della Benedetta e che reca impressi una Sacra Famiglia, l’Arcangelo Raffaello con Tobiolo, e S.Benedetto, è datata 1725 ed è lavoro di Andrea Moreni da Pescia e Figli. Questa famiglia di Maestri fonditori è originaria di Castelvecchio. I loro manufatti sono documentati dal XV al XIX secolo. I Moreni si trasferirono a Lucca e a Pescia. Fu in un’officina di quest’ultima città che venne fusa la Raffaella in onore dell’Arcangelo Raffaele apparso nel Monastero Benedettino di S.Felicita nel 1424. La presenza di due Santi benedettini (S.Benedetto impresso su di una campana [fig.1] e S. Scolastica, sorella del Santo, impressa

sull’altra), nonché dello stemma del Monastero di S.Felicita su entrambe, fa supporre che fossero state fuse a spese dello stesso Convento. Sempre il Curato Ganci cita “una campana grande”, Felicita. Meno antica delle campane medie, reca lo stemma della famiglia Mannelli che la commissionò (questa famiglia ghibellina aveva come stemma tre pugnali in sbarra e al capo la croce del Popolo fiorentino); nello stemma impresso sulla campana manca la croce del Popolo, ma vi compare una corona a sei punte. Questa campana grande che vide il Curato Ganci e che pure oggi suona anche da sola, “a morto”, fu ottenuta dalla fusione di una campana più antica, fusione eseguita per ordine della Badessa nel 1744. La piccola campana Gertrude fu fatta fondere dal Priore Balocchi e dai signori “Operaj dell’Opera di S.Felicita” nel 1821 come si legge scritto dal Curato: “Salito io stesso un

tal giorno sul nostro Campanile, potei verificare che la più piccola delle quattro campane era di un’epoca molto prossima a noi, poiché dal labbro della medesima leggesi che fu fatta sotto il Priore di questa Chiesa Giuseppe Balocchi nell’anno 1821”. Tutte e quattro queste campane, poco dopo il 1950, furono liberate dalle funi perché vennero azionate con un meccanismo elettrico, oggi elettronico. Esistevano ancora due campane, ricordate solo dal Sagrestano Alvaro F.: una campana di minori dimensioni, diremmo una campanella, collegata a una fune che correva esternamente alla parete est della Torre. Gli “erri” con i relativi anelli di scorrimento per la fune sono tuttora visibili: con questa campanella si annunciava verso Boboli, l’entrata e l’uscita di ogni Messa. L’altra campanella di cui mi disse il Sagrestano era quella che un tempo “chiamava a Capitolo” le Monache ed era appesa in alto a destra della vetrata nel lato nord del chiostro. Una volta staccata, Alvaro F. la spostò nella Stanza della Guardaroba perché, essendo fuori della sua sede, non andasse dispersa. Tutte campane, quelle di S.Felicita, che furono “battezzate” secondo il Rituale Romano, ma che non portano però inciso il loro nome del battesimo che si ricava dai documenti d’Archivio. Esisteva, poi, una campana datata “A.S. MDCCCXXVI” [fig.2], alta mezzo metro, che, mi riferì il Sagrestano Alvaro F., fu tolta da un locale della Canonica - dov’era depositata per essere trasferita nella Chiesa dell’Assunta a Vicoferaldi. Quest’ultima campana, oltre le tipiche modanature, presenta tutt’intorno un tralcio di vite (simbolo Eucaristico) e ai due lati la figura di S.Benedetto con in una mano la Croce e nell’altra il Libro della Regola. Ricordo, infine, altre due campanine esterne, dal destino meno glorioso: la campanella del campanilino a vela della Chiesa dell’Orto delle Monache che, disturbando la “quiete dei Sovrani a Palazzo”, venne ridotta al silenzio, e quella di un altro campanilino eretto a sud sull’ultimo finestrone della Chiesa e in seguito demolito poiché il suono si disperdeva verso monte senza giungere ai parrocchiani. Felicita, Benedetta, Raffaella e Gertrude - come persone - per secoli hanno colloquiato tra loro, talvolta monologato da sole, o sono rimaste mute. A tu per tu con il Campanaro e il Sagrestano, con le loro voci diverse ma intonate, hanno dialogato a distanza con gli abitanti di un quartiere sempre meno quartiere, sempre meno in ascolto, dall’identità laica e religiosa compromesse.

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di Cristina Pucci Le formiche che si arrampicano lungo la superficie squadrettata di un “nastro di Moebius”, simile al simbolo dell’infinito, e che infinitamente sembrano affaticarvisi senza mai uscire nè arrivare da nessuna parte, opera di Maurits Cornelius Escher, correda spesso articoli e pagine di Manuali di Psichiatria dedicati al Pensiero ossessivo. Simboleggia perfettamente infatti il carattere ripetitivo, senza soluzione nè libertà, di questo disturbo... i pensieri soliti, come inutili formiche, girano e girano e ritornano da capo e ancora girano e girano. Forse è da qui che ho approfondito conoscenza e passione per questo straordinario artista. A Pisa, Palazzo Blu, è in corso una mostra di 100 opere di Escher, bella, esauriente, ben organizzata, integrata con pannelli, audiovisivi e gradevoli narrazioni. La suddivisione in 9 sezioni, ognuna delle quali raggruppa incisioni, disegni, litografie di un tema specifico, risulta davvero indovinata. Nella prima, “Volti”, opere giovanili, spicca un ritratto della moglie Jetta, delicatamente attraversato da regolari e geometriche fasce. Significative del suo essere uomo, anima, mente ed artista, alcune sue frasi, dalla iniziale “il mio lavoro è un gioco , un gioco molto serio”, alla successiva, verissima, “io non cresco , dentro di me c’è sempre il bambino della mia infanzia” che prelude ed accompagna la sezione “Riflessi e specchiature” e quella “ Geometrie e ritmi” di sapore arabeggiante, ispirate da un viaggio a Granada. Io ho davvero ammirato le Metamorfosi I e II, quest’ultima è formata dall’assemblaggio di una sequenza di tavole che costituiscono una striscia lunghissima nella quale, disegni perfettissimi si susseguono in una continua trasformazione di geometrie in figure anche eccezionalmente realistiche e queste a loro volta in altre e diverse geometrie. Inizia con una serie di piastrelle in bianco e nero che evolvono in salamandre e poi in larghe ranocchie che si stirano in perfetti esagoni al cui interno prendono vita da un piccolo, inizialmente impercettibile punto, dei bruchi grassocci che si traformano in api, bellissime e dalle ali trasparenti, e queste poi in uccelli neri che volano, gli spazi bianchi fra loro rapidamente diventano pesci e poi ucceli, parallelepipedi, case con tetti rossi aggrappate ad un costone e via e via fino a ritornare agli iniziali scacchi. Molto possibile percepire, in tutte le sue numerose proposte di “trasformazioni”, un bambino che gioca e modifica, oltre il possibile

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Il mio lavoro è un gioco, un gioco molto serio

ed a suo piacimento, la realtà circostante ed anche una interiorità che può affermare che “mentre disegno mi sento come un medium controllato dalle creature che sto evocando... come se esse stesse scegliessero le forme in cui apparire”. Non conoscevo i suoi paesaggi, frutto dell’amore per l’Italia, dove visse per 12, molto felici, anni, del suo peregrinavi alla ricerca di borghi e scorci di mirabolante meraviglia. La Costiera Amalfitana e non solo, S. Gimignano che, dice,”mi appare come un miraggio miracoloso” e altri dirupi e gruppi di case abbarbicate su qualche vetta a strapiombo sul mare. La sua abilità di disegnatore è stratosferica e afferma “ credo che produrre immagini come faccio io sia quasi esclusivamente questione di volerlo fare veramente bene”! Fosse vero,

sai quanto mi sarebbe piaciuto! Omaggia due mani che disegnano “la mano è uno strumento miracolosamente raffinato, l’intermediario fra lo spirito e il soggetto”. I suoi capolavori raffiguranti architetture impossibili, fantastiche e relative, e geometrie, sono famosissimi. “Non una volta mi diedero la sufficienza in matematica...La cosa buffa è che, a quanto pare, io utilizzo teorie matematiche senza saperlo... adesso i matematici illustrano i loro libri con i miei quadri... Non riescono neppure a immaginarsi che io non ne capisco nulla!” Rifiutò sdegnato la richiesta di un disegno per la copertina di un disco fattagli da Mick Jagger. Concludo con l’occhio che ha, al fondo della pupilla, un teschio. “Chi sa cercare scopre che la meraviglia è dentro di sè”.


di Danilo Cecchi Il 30 gennaio scorso, nella sua casa di Pietrasanta, si è spento il fotografo Romano Cagnoni (1935-2018), dopo una lunga vita spesa in giro per il mondo, a partire dai primissimi anni Sessanta, a registrare avvenimenti, fatti, guerre, disordini, sommosse, rivolte, rivoluzioni, trasformazioni politiche, economiche e sociali, ed i diversi modi di gioire e di soffrire, di vivere e di morire. La sua carriera professionale inizia presto, quando abbandona l’Italia per Londra, dove rimane a vivere per oltre trent’anni, ed è piena di episodi notevoli, di servizi fotografici esclusivi, di collaborazioni di altissimo livello con le testate giornalistiche più prestigiose del mondo. Nonostante i riconoscimenti internazionali ottenuti e le attestazioni di altissima professionalità ricevute, Romano Cagnoni si è sempre considerato semplicemente un fotografo, un onesto testimone del proprio tempo, curioso ed interessato a tutto quanto accade nel mondo, attento a raccontare le cose senza esprimere giudizi, senza schierarsi, senza prendere posizione, anche nei momenti più drammatici, nelle situazioni più difficili e nelle condizioni più disperate. “Non posso permettermi di giudicare, di tirare delle conclusioni affrettate, di fare delle scelte ideologiche. Ho imparato solo ad essere dappertutto, istintivamente dalla parte del più debole”. L’elenco dei paesi visitati e delle zone “calde” che ha attraversato sarebbe lunghissimo, così come l’elenco delle sue immagini che sono diventate delle “icone” e dei “simboli”, immagini che hanno rivelato al mondo drammi sconosciuti, guerre nascoste, tragedie taciute. Profondo conoscitore dei meccanismi che regolano il mercato della stampa periodica di informazione, Romano Cagnoni pianificava i suoi progetti, sceglieva i suoi campi di azione e si muoveva verso quei punti della terra in cui sapeva che vi erano delle situazioni potenzialmente drammatiche, degli stati di tensione, di attrito e di contrasto. Sempre informato, sempre disposto a rimettersi in gioco, pur di smuovere la coltre di indifferenza e di apatia verso gli avvenimenti del mondo, Romano Cagnoni non nascondeva la sua preoccupazione principale, davanti ad una professione che rischiava di dissolversi nell’abitudine e nell’assuefazione. “Il dramma del fotogiornalismo è quello di vivere delle situazioni ripetitive. Se si torna sempre sugli stessi temi senza un briciolo di curiosità intellettuale, si rischia di diventare solo dei robot insensibili.” Ciò che distingue le immagini di Romano Cagnoni non è la spettacolarizzazione dei fatti, l’enfasi del racconto o la ricerca di punti di vista insoliti, è la profondità dell’analisi, la scelta di punti di vista soggettivi,

l’estrema capacità di sintetizzare una situazione complessa in poche immagini significative. La sua capacità di cogliere il momento saliente degli avvenimenti è il frutto di una lunga abitudine all’osservazione, alla pazienza di seguire gli avvenimenti nel loro svolgimento. La sua capacità di approfondimento è il frutto della vicinanza con i personaggi raffigurati, della partecipazione emotiva, della identificazione

con le altre persone. La sua capacità di organizzare l’immagine è il frutto di scelte rigorose, della ricerca incessante di forme elementari, di accostamenti immediati e di contrasti significativi. Ma al di sopra di tutto, le immagini drammatiche e toccanti di Romano Cagnoni sono il frutto di una abilità innata e sempre più rara, quella di saper vedere, di saper capire, e nello stesso tempo di saper raccontare.

Romano Cagnoni testimone del tempo

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di Gianni Bechelli La galassia di Andromeda ci corre incontro a 120 km al secondo e molto probabilmente si scontrerà con la via Lattea fra quattro miliardi di anni, creando una super galassia. In tempi abbastanza simili il Sole si espanderà fino ad inghiottire la Terra e bruciare tutto al dintorno. Non resteranno nemmeno i ruderi della nostra civiltà e tutto prodotto dalla stessa forza che ha fatto cadere la mela di Newton a terra. E queste catastrofi hanno al centro la stessa forza che ha creato le galassie, le stelle e i pianeti: la gravità. E la gravità che da nubi di gas e polvere crea strutture gigantesche nel vortice di forze che appena si formano producono calore e pressione, in contrasto con la gravità, che ha sua volta aumenta, via via che la materia si addensa, fino a raggiungere quell’equilibrio che permette ad un sistema di stabilizzarsi sia pure in un precario equilibrio di forze. Se ciò che si forma è una stella ( futura supernova) di massa molto più grande del nostro sole (destinato prima a divenire una gigante rossa e poi una nana bianca) quando la pressione diminuirà perchè starà finendo il carburante di idrogeno e poi elio, la gravità avrà un sopravvento drammatico da far esplodere la stella in pochi istanti producendo un‘energia inimmaginabile che darà vita o ad una stella a neutroni o a un buco nero. La stella a neutroni è in effetti un oggetto assai curioso, con una densità miliardi di volte maggiore che sulla Terra, una manciata pesa centinaia di tonnellate, e gira vorticosamente su sé stessa, alcune stelle per centinaia di volte in un secondo, emettendo onde radio ritmicamente come un faro (pulsar); oppure può produrre un buco nero. E in quegli istanti di esplosione e fine della stella super nova che si producono alcune materiali che poi consentono la formazione della vita almeno come noi la conosciamo. Il materiale espulso poi si riaddenserà riproducendo stelle e pianeti in un ciclo (quasi) infinito. Noi stessi siamo dunque il prodotto del materiale dell’esplosione di una supernova, che ha preceduto la formazione del sole e del suo sistema di pianeti ed orbite, ne portiamo le componenti create nel nostro corpo, anzi è la vita stessa che viene prodotta col carbonio, il ferro etc... È la gravità che in massima parte produce attrazione fra stelle binarie cioè che si girano intorno con orbite sempre più vorticose, comprese le stelle a neutroni o i buchi neri che, quando si congiungono, producono un‘energia

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Dalla mela al buco nero

e una forza tale da comprimere lo spazio e il tempo nelle cosiddette “onde gravitazionali” recentemente registrate e divenute famose dopo decenni che erano state teorizzate. Sono il risultato appunto, in questo caso, di uno scontro/incontro fra due buchi neri a tre miliardi di anni luce da noi. E’ nel buco nero che appare come definitiva la vittoria della gravità. Questi si formano con le esplosioni delle supernove ma non solo, quasi certamente tutte le galassie ne hanno uno al proprio centro. La loro forza di attrazione è incredibile, assorbono tutto quello che passa nelle vicinanze di un confine definito orizzonte degli eventi oltre il quale non è più possibile tornare indietro per nessuna cosa. Qui il tempo rallenta e se potessimo sostare qualche secondo sul suo bordo (orizzonte degli eventi), per il resto dell’universo sarebbero passati milioni di anni. Il vortice interno è di una tale inten-

sità che non solo non esce nemmeno il fotone della luce ma qui cominciano a finire le leggi della fisica così come noi le conosciamo. Siamo dentro un vortice che deforma indefinitamente lo stesso spazio tempo. Difficile dire cosa accade esattamente; ora sappiamo che almeno parte del materiale, una volta inghiottito, “evapora” come in una sorta di difficile digestione. Ma il resto dove va? Qualche risposta arriva dalla fisica quantistica, e molte teorie si esercitano. Esce in un altro universo? Trasformandosi in un “buco bianco”? crea addirittura altri universi? Sparisce nel Nulla, che poi un vero nulla non è mai? si mantengono le informazioni dell’oggetto scomparso? difficile dare risposte definite e definitive laddove le leggi della fisica nota non funzionano e ogni teoria può avere un suo spazio d’interesse e anche qualche margine di verità ma anche di tanta fantasia.


di Claudio Cosma Questa richiesta oggi può sembrare stravagante, anzi i “nativi digitali” forse non saprebbero dire cos’è un telefono pubblico o una cabina telefonica. Nel periodo nel quale è stato realizzato questo collage invece tutti sapevamo cosa fosse e ce ne servivamo quando non se ne poteva fare a meno. A me mancava sempre il gettone necessario e poi in virtù dell’astio permanente del popolo italiano nei confronti delle cose pubbliche, queste cabine telefoniche erano sempre male in arnese e vandalizzate. Nell’opera in questione invece si trova in ottimo stato e dal centro della composizione lancia un invitante messaggio di piaceri da scoprire. Infatti la pin up fluttuante al suo ingresso lascia intendere che rimarrà a disposizione di chi riuscirà a chiamarla. In oriente le cabine telefoniche erano costellate di foto con telefono di offerte di tutti i tipi, per lo più a sfondo sessuale. L’artista è un giovane thailandese della capitale, dal nome di Sethapong Povathong, che con surreale capacità combinatoria, accosta improbabili stili, epoche e culture. Una frammistione di oriente e occidente è comune agli artisti orientali in quanto il linguaggio dell’arte contemporanea europea ed americana tende ad influenzare questo e anche altri ambiti culturali e sociali, tendendo ad una omogeneizzazione globale. Dunque il nostro artista, che attinge le sue idee creative dai fumetti, dai film di James Bond, di cui è grande ammiratore, dalla televisione e in generale dalla cultura pop, mette a difesa di questo telefono e all’integrità della modella svariate barriere che come in un gioco dell’oca dovranno essere superate. Un centurione romano, un varano, un coccodrillo, due donne che lottano, un aereo, una foresta tropicale, una nativa americana, due pesci, forse dei prigionieri di guerra, di quale guerra non si sa. Inoltre una palla, un fuoco, una sagoma umana con evidenziato il sistema circolatorio, un merlo e varie altre cosette. L’effetto e giocoso, ma a guardare meglio si tratta di una specie di inferno parodisticamente simile alla nostra umana vita quotidiana. Come sempre il piacere rimane un’illusione, il mondo è diviso fra una natura selvaggia in via di sparizione ed un mondo litigioso e violento, al cui centro risuona un perpetuo squillo di telefono al quale saremmo matti a rispondere.

Chiamami da un telefono pubblico 25 3 FEBBRAIO 2018


di Fiorella Ilario Vuole salvare una vita umana? A rivolgere per strada questa domanda capitale a passanti frettolosi e indifferenti, è forse la volontaria di una non meglio specificata associazione umanitaria, in una delle prime scene di The Square, il ricercato e irriverente film dello svedese Ruben Östlund, premiato con la Palma d’oro all’ultimo Festival del Cinema di Cannes e diventato in pochi mesi una specie di breviario di fenomenologia realista. Uno scanzonato compendio denso di suggestioni sottotraccia, di una straniante estetica post ideologica (o neo ideologica?) e ultra politica. In un’era di transizioni epocali che tardano ad essere risolte e interpretate- forse per un andamento vorticoso che piuttosto che progredire (e far progredire) sembra programmato per il loop di un flusso precipitevole dove l’arrivo coincide con la partenza, senza realizzarsi in reale avanzamento (se non quello ovviamente della accelerazione tecnologica, spesso inversamente proporzionale a quella culturale e umana) e che ha come unico saldo ancoraggio il neo liberismo del mercato universale e la mercificazione in ogni ambito della esperienza umana, la pellicola diventa un ironico manifesto di resistenza liquida e appunto trans culturale, sullo sfondo dello spesso vanaglorioso e autoreferenziale universo dell’Arte contemporanea. Le périmétre de sécurité è quadrato. Ovvero il titolo rimanda a quello dell’istallazione della artista argentina Lola Arias, che consiste in uno spazio fisico quadrangolare (quattro metri per quattro) tracciato sul selciato antistante un autorevole museo di arte contemporanea ospitato a Stoccolma nell’ormai disabitato Palazzo Reale e che delimita una astratta zona franca, un ristretto luogo di intangibilità di virtuoso altruismo di disinteressato amore e vagheggiata fiducia. Lì dentro tutti avranno stessi diritti e uguali doveri. Tutti potranno essere ascoltati assistiti accolti. Ma un imprevisto furto di portafogli e cellulare ai danni del protagonista, Christian, direttore artistico del museo in questione, appena un tantino spregiudicato e flâneur (un suo stretto collaboratore lo esorta a non essere “così svedese”) diventa un plot point decisivo e innescherà e svelerà dinamiche molto meno nobili di quelle che l’opera (di cui è anche curatore) dovrebbe ispirare. Così in un intrigante intreccio di individui e condizioni sociali e culturali sideralmente distanti le une dalle altre, si attraversa fischiettando una sorta di snodo storico-antropologico cruciale. Ma perché proprio il direttore di un museo per rappresentare l’individuo contemporaneo? Cosa ci si aspetta da lui

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e cosa rappresenta? Per le caretteristiche personali (nessuna delle quali di allarmante stra-ordinarietà) e dunque per età aspetto educazione cultura sensibilità, tutte rassicurantemente nella media del suo status e persino per adattabilità professionale (dopotutto non sarà poi troppo “svedese” quando si tratterà di riammucchiare i cumuli di cenere esposti in una sala, dell’opera intitolata “You have nothing” spazzati via da un addetto alle pulizie) Christian è il globalizzato esemplare di una società della seduzione di massa. L’emblema del candidato ideale per posizioni di potere (a volte più che di sapere) in cui alla domanda ormai planetaria e socializzata di seduzione (intesa non solo come passione conscia o inconscia delle apparenze, ma pure come trionfante metalinguaggio della partecipazione) occorre una efficace risposta di appagamento del desiderio. Tutti i personaggi anche quelli minori, persino i mendicanti che tornano spesso sullo sfondo come muta retroguardia, sono funzionali a un modello di simulazione della seduzione. Laddove l’atto del sedurre, o meglio la sua intrinseca e ormai quasi involontaria strategia, copre un decifit identitario e di logos e prende “la forma del linguaggio quando non ha più niente da dire”. Esplicativa e quasi comica l’intervista che concede alla inesperta giornalista americana, almeno quanto la goffa conversazione su sesso e potere a cui lei lo costringe dopo la notte passata insieme (anticipando senza volere i tempi del #MeToo?) Ma pure magistrale, nel segno della implosione di senso, la performance dell’uomo scimmia, che come negli zoo umani della fine dell’ottocento, interpreta il primitivo e il sauvage per un pubblico emancipato e inorridito, a cui dopotutto spaventa meno avere una scimmia vera come coinquilina, piuttosto che un artista non ancora addomesticato e atrocemente imbestialito. “Nell’

arte quando più niente può colpirci, toccarci veramente, non si attende più la trovata geniale l’originalità sorprendente ma unicamente l’incidente, la catastrofe della finalità.” (Virilio) Dunque il simulacro deformato della seduzione circola e si diffonde anche come qualcosa che ha a che fare con il panico. Così come per gli Dei greci che si servivano del loro potere per sedurre gli uomini e ne venivano a loro volta sedotti, Christian finisce col perdere ogni padronanza, catturato nei suoi stessi lacci non avendo calcolato il potere reversibile della seduzione, la sua fascinazione distruttiva- che non attiene più ad un ordine della rappresentazione, tanto meno della riflessione, ma a qualcosa che riguarda “la derealizzazione dell’arte di vedere e di sapere” (Virilio) E dunque si comprende anche perché il film ci abbia dal primo fotogramma introdotti in un museo –divenuto ormai l’attrattivo monumento della memoria di una cultura da divorare. Laddove la conservazione e la valorizza-

L’ultimo museo


zione è tallonata dalla innovazione in una ossessiva ricerca di progresso dell’eccesso e “la seduzione non è più che un valore di scambio” (Baudrillard). E’ curioso che due recenti notizie di cronaca nostrana sembrino quasi essere state anticipate dal film. La prima è quella di un video diffuso sui social che ha in pratica paralizzato i centralini del Museo egizio di Torino (come pure accade, seppure naturalmente per motivi diversi, per il museo del film) Migliaia di telefonate per protestare contro una campagna di biglietti scontati riservata a visitatori con passaporto arabo. Senza voler entrare nel merito di possibili scopi pre elettorali (che si commenterebbero da soli) scappa però da chiedersi: ma un museo dedicato ad una antica e lontana civiltà non dovrebbe ispirare proprio alla conoscenza e al rispetto di culture diverse? Possibile che quell’offerta di due ingressi pagandone uno soltanto, abbia fatto reclamare scompostamente i visitatori con passaporto italiano, nemmeno avessero perso il coupon omaggio di un ipermercato (quello della cultura?) “La gente ha voglia di prendere tutto, di azzannare tutto, di abbuffarsi di tutto, di manipolare tutto. Vedere decifrare imparare non la emoziona. La sola emozione massiccia di massa è quella della manipolazione” (Baudrillard) Dunque non dovrebbero forse anche gli stessi musei ripensare se non serva educare alla visione prima, molto prima di entrare in un museo- rinunciando a un rovinoso eccesso di prestazioni, riaffermando la incomparabile vocazione del “mostrare” e abdicando ad altri enti l’arduo compito di preparare? La seconda notizia è quella del bando indetto da un Museo di Firenze e comunicato dal loro portale anche attraverso un email che testualmente

recita: ”Il Museo Marino Marini di Firenze lancia una call per tutti i creativi e visionari capaci di immaginare il museo del futuro con idee che possano ripensare la connessione tra le persone, le opere e il concetto di museo nella sua accezione più ampia. Ogni suggestione che sia portatrice di innovazione, immaginazione fuori dagli schemi, modalità di connessione tra i visitatori e i musei, tecnologia e creatività, gioco e sperimentazione potrà partecipare alla call internazionale con un grant di 10.000 euro e il supporto per l’implementazione del progetto. Una commissione di esperti a livello internazionale, provenienti da istituzioni prestigiose italiane e straniere, valuterà le idee e selezionerà il vincitore (,,,) L’unico limite è la propria immaginazione.” Il tratto sorprendente di questo invito (senza addentrarsi nelle peculiarità linguistiche del testo, che pure meriterebbero attenzione perchè per dirla con Benjamin “solo il linguaggio può assumere su di sé la struttura enigmatica delle immagini e del tempo” consiste forse nell’aver coniugato con spregiudicata semplificazione due ordini di merito, invertendo per così dire delle gerarchie di valore del reale. Non è più l’istituzione museale a proporre nuove e diverse prospettive di valorizzazione e fruizione del proprio patrimonio al visitatore/utente (come vale, solo per citarne uno, per l’eccelso esempio della Centrale Montemartini, a Roma dove le statue antiche sono esposte tra macchinari industriali) ma si offre al cittadino comune, inteso come individuo con le più svariate competenze (anche in museologia?) la possibilità di proporre un modello, un’idea, una suggestione purché fantasiosa e innovativa, purché ingegnosa e funzionale al “servizio” (ovviamente nella sua accezione più am-

pia…) La portata di questo rovesciamento è chiarita dal richiamo ad una immaginazione “senza limiti” (anche se con l’avvertimento che sarà poi ovviamente “controllata” da esperti). Dunque qui non si tratta, malgrado la evochi, della “immaginazione al potere” degli slogan sessantottini, ma della immaginazione per il potere- quello frenetico della circolazione orbitale del contemporaneo e quello inteso come establishment, della seducente e pseudo egualitaria “accessibilità”, che reclutando arditamente chiunque, pare piuttosto smascherare il climax di una impresa di globalizzazione della emozione pubblica. “Dietro uno scenario da museo, che serve solo a salvare la finzione umanistica della cultura, vi si compie in realtà un vero e proprio lavoro di morte della cultura e le masse sono gioiosamente invitate. Per la prima volta hanno l’occasione di partecipare massicciamente all’immenso lavoro di lutto di una cultura che esse, in fondo, hanno sempre detestato.” (Baudrillard) In effetti anche nel film, Christian affiderà a due giovani creativi il lancio della mostra che dovrà promuovere il progetto di The Square- in quel caso la loro “immaginazione fuori dagli schemi” seppure incontrovertibilmente visionaria e iper connessa si rivelerà un filino morbosa e gli esiti non saranno esattamente felicissimi, ma dopotutto non avevano una commissione di esperti internazionali a valutarli e l’incauto curatore era distratto da altri guai e da diverse “periferiche” paure. “Ovunque, in qualsiasi campo, politico, psicologico, mediatico, in cui non possa più essere mantenuta la distinzione di due poli, si entra nella simulazione e dunque nella manipolazione assoluta – non la passività, ma l’indistinzione dell’attivo e del passivo- una nebulosa indecifrabile nei suoi elementi, indecifrabile nella sua verità” (Baudrillard). Nella finzione cinematografica, la sciagurata collaborazione pubblicitari / museo produrrà una irreparabile perdita. Per Christian non soltanto del posto di lavoro, ma anche di una illesa, privilegiata, quasi adolescenziale percezione della vita. Un danno che però coinciderà nel finale con la riconquista di una coscienza individuale e allora malgrado tutto, si potrebbe quasi definirlo un post lieto fine (o neo lieto fine??) Per completezza di informazione va detto che naturalmente sul sito del Museo che lancia il bando si possono trovare più puntuali ed esaustivi ragguagli e persino utili suggerimenti sui temi da trattare nelle proposte dei futuri “apprendisti stregoni” – uno per tutti, testuale: “Rendere gli spazi del museo vivi, gioiosi e luoghi portatori di felicità” … Ma forse questo era un altro film.

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