Numero
17 febbraio 2018
317
250
Con la cultura non si mangia Giulio Tremonti (apocrifo)
Figura da poponi Maschietto Editore
NY City, 1969
La prima
immagine Una visione del Downtown della metropoli visto dall’alto che rende molto bene l’idea della sua pulsante verticalità. Queste immagini le avevo viste solo al cinema e vederle dal vivo con i miei occhi mi dava una specie di scarica elettrica. Cercavo di immaginarmi tutto il brulichio di centinaia di migliaia di formichine impazzite che animavano questo vortice continuo fino al tardo pomeriggio quando, con la chiusura degli uffici, si spalancavano le porte del fuggi fuggi generale e tutti i “commuters” se ne tornavano a casa. Questo è stato il rituale quotidiano delle mie settimane di lavoro. Camminare, osservare e registrare il tutto in modo quasi maniacale.
dall’archivio di Maurizio Berlincioni
Numero
17 febbraio 2018
Salva la vita Nardella Le Sorelle Marx
Il sonno della ragione Lo Zio di Trotzky
Niente sesso, siamo australiani I Cugini Engels
317
250
Riunione di famiglia
In questo numero La prigione di Alekos e Giancarlo di Simone Siliani
La visione di Zeno di Susanna Cressati
“Le do un consiglio, non si occupi di Gonfienti” di Maila Ermini
Mappe di percezione: San Francisco di Andrea Ponsi
Rammendi urbani di Giuseppe Alberto Centauro
Sensazione e percezione in fotografia di Danilo Cecchi
Arte e fortuna di Valentino Moradei Gabbrielli
Alla memoria serve la conoscenza più che la ricorrenza di Paolo Marini
I ragazzi delle baby gang di Anna Lanzetta
Pagine di pietra in Santa Felicita di M.Cristina François
Les Bouquinistes di Simonetta Zanuccoli
Keyla La Rossa di Mariangela Arnavas
Riccardo Massai, da Ronconi a Proust di Cristina Pucci
L’Universo dei quanti di Gianni Bechelli
e Remo Fattorini, Alessandro Michelucci...
Direttore Simone Siliani
Illustrazione di Lido Contemori
Redazione Progetto Grafico Mariangela Arnavas, Gianni Biagi, Sara Chiarello, Emiliano Bacci Susanna Cressati, Carlo Cuppini, Remo Fattorini, Aldo Frangioni, Francesca Merz, Michele Morrocchi, Sara Nocentini, Sandra Salvato, Barbara Setti
Editore Maschietto Editore via del Rosso Fiorentino, 2/D - 50142 Firenze tel/fax +39 055 701111
Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012
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di Simone Siliani Giancarlo Cauteruccio approda al Teatro Niccolini di Firenze mettendo in scena il testo di Sergio Casesi (vincitore del Premio Pergola per la nuova drammaturgia), Prigionia di Alekos”, ispirato dalla figura di Alexandros ‘Alekos’ Panagulis, poeta in lotta contro la dittatura dei colonnelli in Grecia negli anni ‘70, di cui narrò Oriana Fallaci nel suo “Un uomo”. Una vicenda tragica e al contempo grandiosa, di un eroe piegato dalla tortura e dalla violenza, ma trionfante sul male per la poesia. Abbiamo incontrato a parlato con il regista Giancarlo Cauteruccio di questo suo ritorno a teatro con una regia dopo due anni d lontananza dai palcoscenici, ma non dal teatro. Un lavoro che ho realizzato dopo un fermo di due anni e di assenza dai palcoscenici. Io ho lavorato molto negli spazi non teatrali, da Santa Verdiana a piazza SS. Annunziata, alla Fortezza di Alghero: ho fatto un percorso in cui ho recuperato molto il mio teatro-architettura, ma avevo abbandonato in qualche modo la scena del palcoscenico. Questo ritorno per me doveva assumere il significato di mettere in relazione la tradizione e l’innovazione. Quindi l’operazione che ho voluto compiere al teatro Niccolini è stata proprio quella di frantumare, come credo non sia mai stato fatto in quel teatro,i confini tra il palcoscenico e la platea. L’occasione era quella di mettere in scena un testo molto complesso, vincitore del premio di drammaturgia contemporanea della Pergola, che come sapete non si porta dietro una conoscenza, una tradizione, un rapporto con il pubblico trattandosi di un autore nuovo: questo ti pone il problema di restituirlo in una maniera che lo conduca dentro il sistema del teatro. Questo è il primo problema che si affronta. L’altro è quello di dare spessore ad una scrittura che, naturalmente, è realizzata da un giovane e si porta dietro una serie di elementi che sono l’agitazione, l’invenzione immaginaria; anche la definizione di una scrittura che fa i conti con la quotidianità. Questo pone al regista un problema di poco conto. Devo dire che a giudicare dal successo della prima nazionale di sabato scorso, credo che si possa dire che la sfida è stata vinta. Un giovane autore che si avventura in un terreno complesso, marchiato dal libro di Oriana Fallaci “Un uomo” e che affronta la figura di un poeta impegnato, prigioniero nelle carceri dei colonnelli greci, come Alekos Panagulis, uno che scriveva le poesie con il proprio sangue delle ferite della tortura. Questo ci dice che c’è speranza ancora per il teatro? Direi che ci dà speranza per la società, prima
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ancora che per il teatro. Certo è che Panagulis, che nel 1967 in maniera molto “giovanilista” tenta di far saltare in aria i colonnelli con un ordigno veramente rudimentale che per l’appunto non fa male a nessuno dopo la sua esplosione, ci fa capire quanto in quel momento che anticipa il ‘68, i giovani avessero una forte appartenenza all’idea di libertà, al pensiero, al nuovo. E il fatto che noi mettiamo in scena questo spettacolo nel 2018, a cinquant’annni dal ‘68, mi sembra un segnale importante. Ma è importante anche che questo spettacolo abbia debuttato nei giorni in cui questi rigurgiti fascisti si sono assaggiati in Italia, e non solo, che ci pongono il problema di dare al teatro un senso di utilità per aggiungere qualche tassello attraverso l’arte alle questioni più drammatiche che ci pongono interrogativi seri. Con questo spettacolo potremmo dire che si tenta di dare una piccola risposta, un piccolo contributo dichiarando che la cultura e l’arte sono strumenti che in questi
La prigione di Alekos e Giancarlo
Foto di Filippo Manzini
momenti diventano veramente necessari. D’altra parte, lo stesso Panagulis ha dimostrato che il pensiero, l’immaginazione, la poesia possono inceppare il sistema. Così è stato appunto nel suo caso perché i colonnelli che lo avevano condannato alla fucilazione hanno dovuto ricredersi, tornare indietro perché era esploso un caso internazionale. Così come Oriana Fallaci con “Un uomo” dimostra raccontando la storia di questo giovane. Quindi possiamo dire che è stata sicuramente più letale per la dittatura dei colonenlli e per il fascismo, la poesia di Panagulis (e la cultura più in generale) che non la sua bomba? E questo ha un significato anche per noi oggi. Assolutamente sì. L’autore Casesi compie un’operazione molto interessante: in qualche modo tiene la politica in disparte e punta tutto sull’immaginario, su questa forza estrema di grande volontà, quella per cui Panagulis – attraverso l’immaginario – riesce a sopportare le torture fisiche che subisce. Questa cosa diventa l’elemento cardine dello spettacolo. Casesi inventa in qualche modo i personaggi. Due
personaggi appartengono alla realtà: Hazizikis, il capo della polizia greca che lo tortura psicologicamente insieme ad altri due che lo torturano fisicamente, e il medico che prende il nome di Caledonio che è chiamato a guarirlo per renderlo di nuovo disponibile alle torture. Questo sistema della guarigione finalizzata di nuovo alla tortura è un aspetto molto forte, assurda della violenza umana. Però l’autore ha bisogno di ricorrere al mito e ai suooi personaggi. Quindi avremo questo sdoppiamento in uno scarafaggio-uomo, che inevitabilmente richiama Kafka, ma anche l’arte vera perché guardando lo scarafaggio vero e i suoi baffi, lo chiamerà Dalì proprio per portarsi dietro l’arte visiva del grande artista. Poi ci sono altri due personaggi immaginari: un vecchio cieco, un Tiresia metropolitano, e un Caronte che dopo una violentissima tortura, andando in coma, entra in una dimensione di discesa verso gli inferi. Tutto questo riporta ad una origine che si può intuire facilmente, in quanto Alekos – nell’idea dell’autore – diventa una sorta di Prometeo, portatore del fuoco rivoluzionario, che
viene beccato dall’aquila-esercito quando lui è incatenato. Questo si ritrova nella scena iniziale, quando il pubblico stesso viene in qualche modo seviziato da quattro militari con le teste di aquila. In questo lavoro poni anche l’attenzione sul tema della scrittura per il teatro: una evoluzione anche nella drammaturgia e nella scrittura teatrale che è un tema che ti ha sempre interessato molto. Sì, devo dire che io non amo il teatro scritto, quello drammaturgicamente parlato; amo piuttosto il teatro di poesia, dalla drammaturgia beckettiana che lavora molto sull’io monologante, su una condizione del testo che è più metafisico. Qui invece mi ritrovo di fronte ai dialoghi, al meccanismo narrativo abbastanza tradizionale. Allora devo pormi il problema di scardinarlo, caratterizzando i personaggi, rompendo spesso il filtro della narrazione in favore dell’atto poetico del teatro. Però l’esercizio mi ha coinvolto. Certo avere Shakespeare o avere un classico greco in mano è tutt’altro affare perché ti dà la possibilità di un’invenzione più libera. Qui hai la costrizione della drammaturgia tradizionale come impostazione. E questa è una tendenza dei giovani, quella di rifarsi ai grandi maestri e di riproporli, in qualche modo, in una forma di scrittura rinnovata ma sempre legata al loro insegnamento. Terminiamo con ciò con cui abbiamo iniziato: l’approdo al teatro Niccolini, uno spazio scenico tradizionale. Come funziona il teatro e questa opera al suo interno? Proprio ieri Francesco Gurrieri mi ha mandato una sua nota a seguito della “prima”, con delle considerazioni molto interessanti: la cosa che emerge da questo lavoro al teatro Niccolini è il fatto che esso è come se aprisse un nuovo territorio d’indagine proprio sulla possibilità della relazione che può effettivamente instaurarsi fra la tradizione del teatro e l’innovazione. Questo fatto credo che sia importante perché il Niccolini ha fino ad ora proposto opere prevalentemente monologhi o che comunque considerassero il palcoscenico – che è uno spazio abbastanza piccolo rispetto al teatro della Pergola che è invece molto grande e offre quindi maggiori possibilità di lavoro – come spazio concluso. Qui ho avuto l’impressione di aver creato un salto che può aprire un nuovo percorso di modificazione dello spazio tradizionale per il teatro futuro, che appartenga di più ai giovani e ad un rinnovamento percettivo. Questo primo tentativo potrebbe, e spero lo faccia, aprire un nuovo percorso progettuale in questa direzione, perché quando la sperimentazione si fa matura può davvero misurarsi con gli spazi della tradizione in maniera consapevole.
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Le Sorelle Marx
Salva la vita Nardella
Ieri abbiamo ricevuto una telefonata importante, di quelle che ti salvano la vita. Sollevata la cornetta, ecco la voce squillante del nostro giovine sindaco Nardella: “Pronto? Sono il sindaco Dario Nardella.” “Oh, signor sindaco, quale onor...” “e vi chiamo per una comunicazione molto importante: state attenti, quando attraversate la strada...” “Ma certo, signor sindaco! Che uomo genti-
I Cugini Engels
Niente sesso, siamo australiani
Il mondo politico australiano è scosso da un nuovo scandalo sessuale: il vicepremier Barnaby Joyce ha lasciato la moglie e i suoi 4 figli per la giovane addetta stampa, l’avvenente Vikki Campion da cui attende il quinto figlio. Nazionalista, sostenitore della famiglia tradizionale, la vicenda di Barnaby ha messo in ambasce il primo ministro conservatore Malcolm Turnbull (trad. Gira-toro). Il quale per affrontare il problema che si va diffondendo nella politica australiana, ha guardato all’Italia, paese di solide tradizioni cattoliche eppure terre di grandi amatori. Ha, dunque, mandato un quesito ai maggiori leader politici del nostro paese chiedendo a ciascuno di loro come gestire le relazioni sessuali fra politici e impiegati dei loro uffici. Ecco le risposte che gli sono giunte: Salvini: “Ciao Malcolm, se hai bisogno veniamo ad aiutarti a casa vostra” Renzi: “L’importante è evitare di passare da bischero, espressione difficilmente traducibile. I Bischeri erano una nobile famiglia fiorentina che si ritrovò rovinata per alcuni errori strategici. Diciamo che devi evitare di tirarti la zappa sui piedi, di segnare un autogol. Perché se passi da bischero non hai diritto neanche alla compassione che in genere un popolo dotato di umanità come il nostro riserva agli sconfitti. Se te la sei cerca-
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le e premuros...” “Stiamo facendo le prove della tramvia e potreste essere investiti” “Sì, ma a noi sembra più pericoloso attraversare la strada con tutti i sensi di marcia che avete invertito e...” “E sia chiaro, lo dico perché tutti quelli che incontro mi dicono che non capiscono più cosa significhi destra e sinistra: la tramvia viene da sinistra, la vostra sinistra. Guardate bene prima di attraversare le rotaie”
ta, affari tuoi: sei passato da bischero. ??” Di Maio: “Beh, basta stabilire che se ministri o parlamentari hanno una relazione con i propri assistenti debbano pagare una multa di 100.000 $ al partito e tu ti fai ricco!” Grasso: “Beh, noi siamo Libberi, Libberi, Libberi... ma non esageriamo.” Lorenzin: “L’importante è che siano vaccinati. Hai fatto il richiamo?” Meloni: “Aò, Giro li tori, che stiamo a fa’? Me stai a piglia’ p’er culo? Se sei un toro, allora vacci giù duro, no?” Bonino: “In Europa queste cose non succedono! Se aveste anche voi più Europa sareste al sicuro... oddio, a parte il caso di Yves Cochet, eurodeputato Verde francese di 71 anni che se la faceva con l’assistente parlamentare di 25... mah... chissà?... forse...” Michela Vittoria Brambilla: “Per me possono pure farlo fra consanguinei e pure in gruppo; l’importante è che lascino stare gli animali. A proposito, non è che Barnaby se la fa con un canguro? In tal caso, tagliagli pure la testa” Berlusconi: “Uè Malcolm, mandami qua la Vikki che ghe pensi mì: organizzo una bella cena elegante e vedrai che le passa la fregola per Barnaby” Turnbull ha deciso di tagliare la testa al toro (sic!): “Niente sesso, siamo australiani”
“Ma, veramente, per noi sinistra e destra hanno significati molto precisi; sa, con le nostre ascendenze paterne...” “E voglio anche chiarire che non ho mai detto che avrei pagato cena a tutti i fiorentini se la tramvia non fosse stata terminata entro febbraio” “Beh, per la verità, qualcosa del genere noi lo avevamo inteso, ma se preferisce può venire a cena a casa nostra che un brodino di pollo leggero leggero glielo offriamo volentieri” “Io sono una persona seria e di parola e soprattutto amo Firenze! Quindi occhio ad attraversare che passa la tramvia!” “Sì, ma quando??? Oggi sul giornale c’era scritto agosto...” “Buona giornata. Viva Fiorenza!! click
Lo Zio di Trotzky Il sonno della ragione Stiamo assistendo, probabilmente, alla campagna elettorale più brutta della storia della Repubblica, contenuti scarsi, tante promesse roboanti ed un livello di polemica decisamente basso. Tra bonifici revocati, saldi di indennità non pagate, appare l’immagine di una politica tutta ripiegata su se stessa incapace di parlare alla mitica gente. Deve essere questo il pensiero che soggiace ai creativi di Matteo Renzi News, pagine non ufficiale del PD ma gestita comunque da fedelissimi del leader di Rignano. Ecco dunque spuntare il post sul Bonus cultura ai diciottenni (ennesimo bonus del governo dei mille gionri) dove un anonimo adolescente ringrazia il magnanimo governo grazie al quale ha coronato il sogno di una vita: assistere ad un concerto della Pausini. Non sta a noi indagare che razza di sogni abbia questo giovanotto, né domandarci se l’idea di un bonus cultura per una generazione allergica a libri e teatro spendibile in playstation e concerti pop sia una buona idea. Quello che ci colpisce è invece il fatto che il bonus esiste dal 2017 e Laura Pausini non fa un concerto dal 2016, dunque agli zelanti manutentori della pagina consigliamo di trovare un diciottenne, costringerlo a spendere almeno parte del bonus in un corso di navigazione internet e metterlo a controllare almeno il concerto giusto.
Nel migliore dei Lidi possibili disegno di Lido Contemori didascalia di Aldo Frangioni
Nel marzo del 2018 si svolse, come si può vedere dai documenti ancora conservati, un sereno e tranquillo confronto elettorale. Nessuno poteva prevedere quello che sarebbe successo dopo.
Segnali di fumo di Remo Fattorini Incomprensibile e imbarazzante. Mi riferisco al ritorno sulla scena politica di Silvo. Presente ovunque, in tutte le ore, in tutte le reti, in tanti programmi e in tutte le Tv. Poi radio, quotidiani, settimanali. Persino nel simbolo di Forza Italia, dove compare la scritta “Berlusconi Presidente”. Eppure tutti sanno, o dovrebbero sapere, che il Cavaliere è incandidabile, condannato com’è per frode fiscale e via di seguito. Tuttavia è lui che presenta e racconta, in tutte le sedi e in tutte le salse, il programma di Forza Italia. Ed è sem-
pre lui che promette di tutto e di più. Basti dare un occhio al lungo elenco delle proposte lanciate in queste settimane. Si parte con il taglio all’imposta sulle donazioni, poi quello sulle successioni, per finire con meno tasse sui risparmi. A cui aggiunge il rilancio degli investimenti per infrastrutture e sviluppo industriale nel Mezzogiorno, compreso un piano straordinario per le zone terremotate. Ancora. Promette lotta dura alla povertà assoluta, che, a suo dire, deve essere azzerata. C’è poi il capitolo sulle pensioni. E qui si è proprio scatenato, promettendo l’aumento di quelle minime, più una pensione per le mamme, il raddoppio delle pensioni minime di invalidità e un maggiore sostegno per le persone disabili, compreso gli incentivi per l’inserimento nel mondo del lavoro. Sulla Fornero per ora è prudente: occorre - dice - una riforma economicamente e socialmente sostenibile. Ma non è finita. Visto che l’Italia è un paese di vecchi, Silvio promette di estendere le prestazioni sanitarie. Poi ha pensato ad un piano, sempre
straordinario, per incoraggiare la natalità con tanto di asili nido gratuiti e l’aumento degli assegni familiari in base al numero dei figli. E, da buon imprenditore quale è, il Cavaliere promette un altro piano straordinario, questa volta per riqualificare le periferie. Infine, si fa per dire, un altro piano, questa volta di mini Bot con cui finanziare i debiti della pubblica amministrazione. Poche sere fa nel salotto di Vespa ha firmato un nuovo contratto con gli italiani, garantendo di portare la disoccupazione, soprattutto quella giovanile, sotto la media europea. Su come finanziare tutto questo ha detto di aver trovato 270 miliardi, di cui 175 cancellando bonus, detrazione, sconti e deduzioni (peccato che l’uff di bilancio ha stimato di recuperarne solo 54), e gli altri tra la Flat Tax e la spending review (Cottarelli dice che al massimo se ne può recuperare 20). Il bello è che il Cavaliere viene presentato, un po’ da tutti, come affidabile e capace; come un credibile argine al populismo. Roba da matti!
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I ragazzi delle baby gang di Anna Lanzetta È così bella la nostra Napoli, è come una donna dai mille volti che ad ogni angolo ne svela uno. Città di storia, di cultura, di tradizioni, una città dal cuore grande ma che purtroppo ha anche le sue negatività. Mai come in questo periodo, stiamo assistendo ad una escalation di violenza che investe anche i ragazzi, le così dette “baby gang”, i cui componenti assaltano, rubano, feriscono e si rendono protagonisti di atti efferati. Questo clima di violenza offusca le bellezze della città e provoca dolore e paura; dolore per ciò che siamo diventati, paura perché artefici sono essenzialmente i ragazzi. Basta guardarsi intorno per rendersi conto che la violenza ci sovrasta, una violenza sia fisica che verbale che si acuisce di giorno in giorno e che sembra non avere argini. Le baby gang che infieriscono e feriscono la città, sono un duro colpo per l’intera società che non riesce a contrapporsi con strumenti adeguati. Non c’è nulla di più raccapricciante che vedere questi ragazzi avulsi dal contesto sociale e immersi in un mondo a parte, che emergono alla cronaca quando una ferita da coltello o l’aggressione a un coetaneo ne tracciano il comportamento malsano. Atteggiamenti che mettono in luce le loro fragilità e il bisogno di
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rendersi protagonisti. Pensano che la violenza sia il loro riscatto, che solo attraverso la violenza possano diventare qualcuno e imporsi all’attenzione senza capire che sono soltanto vittime e facili prede. Tale fenomeno che sta assumendo contorni inquietanti è indice di un disagio esistenziale che investe ragazzi e adulti nei quali appare nullo il rapporto di identità, di responsabilità, di dignità, di autostima, di rispetto verso gli altri ma essenzialmente verso se stessi. È mutato il clima del nostro Paese che appare sempre più diviso tra chi ha e chi non ha e Napoli paga un prezzo troppo alto con un degrado che investe le fasce più deboli. I ragazzi scelgono l’illegalità per avere tutto e in fretta e allontanandosi sempre più dalla scuola, privano se stessi degli strumenti educativi e formativi e di una prospettiva di vita sana e consapevole. La dispersione scolastica è un problema molto grave che rende questi ragazzi prede del guadagno facile, di false illusioni e li deruba dei tempi della propria crescita, del gioco, della creatività, del senso più sano della vita e dei suoi valori. Questi ragazzi, nella difficile fase dell’adolescenza che ne acuisce i pericoli, sono facili prede di gente senza scrupoli, specialmente quando non hanno alle spalle chi li sostiene e insegni loro i valori della vita. Essi nascondono dietro la loro apparente spavalderia il desiderio
di amore e di affettività da parte degli adulti, che nei diversi settori della vita sociale si prendano cura di loro, capaci di ascoltare, di dialogare, di capire e di aggregare i gruppi contro la solitudine. Le baby gang sono una sfida alla società e alla legalità. L’attenzione e l’inserimento devono diventare deterrenti contro la ghettizzazione e l’abbandono. Bisogna affrontare il problema alla radice, aprendoci alle famiglie di questi ragazzi e attraverso la comunicazione e l’informazione far capire loro che c’è la possibilità di una prospettiva di vita diversa per sé e per i propri figli. Nessun ragazzo nasce cattivo e violento, sono le circostanze a renderlo tale. Se abbandonati nel proprio entourage, questi ragazzi conosceranno solo la devianza e mai la possibilità di programmare la propria vita con regole e obiettivi. Elogiabili tutte le iniziative e le Associazioni che operano sul territorio ma è molto importante che la scuola, la famiglia, gli oratori, le strutture sociali operino strettamente uniti specialmente sul piano dell’inserimento. Compito non facile ma possibile se saremo animati tutti da spirito di volontà. È necessario l’apporto delle Istituzioni che devono farsi carico di tale problematica e affrontarla a largo raggio con un sostegno economico continuo. Di fronte a un problema di tale gravità dobbiamo capire che i soldi spesi per i ragazzi sono il nostro migliore investimento per definirci poi paese civile. È dovere di tutti adoprarci per sottrarre questi ragazzi ai malavitosi e incominciarne il recupero che si prospetta lento e faticoso ma non impossibile. Questi ragazzi non sono diversi dagli altri, sono soltanto nati in contesti caratterizzati da varie problematiche e da comportamenti poco consoni alla loro crescita. Eppure se ascoltati e guidati, si scopre facilmente che posseggono al pari degli altri coetanei un mondo fatto di creatività, di curiosità, di bellezza e di estro che aspetta solo la nostra cura. Siamo stati ciechi per molto tempo e i problemi si sono ingigantiti, ma questi ragazzi hanno diritto a un’opportunità di vita. Non potremo chiamarci civili fino a quando ci saranno in molti quartieri e in molti luoghi del nostro paese: miseria, abbandono, speculazione e facili profitti di chi opera senza scrupoli; facciamo in modo che la solidarietà agisca in sintonia col cuore. Qualcuno ha dimostrato che con la cultura si può vincere e sconfiggere carcere e devianze. Ogni ragazzo recuperato sarà una vittoria di tutti e una ferita in meno per il nostro paese.
di Vittoria Maschietto Qualche giorno fa sono incappata in una storia che non leggevo da anni. Una storia bellissima, che risale al tempo in cui ogni storia conteneva al suo interno centinaia di altre storie. Aristofane la racconta nel Simposio di Platone per introdurre il suo elogio a Eros. In origine, narra, gli esseri umani non apparivano così come li conosciamo oggi. Allora c’erano il maschio e la femmina, e c’era l’androgino, che conteneva in sé i caratteri di entrambi gli altri due. Inoltre gli uomini avevano due braccia e due gambe, e due volti disegnati sul cranio, saldati insieme su un collo perfettamente rotondo. Sapevano camminare, ma a differenza nostra potevano anche andare avanti e indietro a seconda del loro piacimento, senza doversi girare. E quando volevano affrettarsi o correre, facevano la ruota come fanno i saltimbanchi, e rotolavano con la stessa agilità di una palla. Insomma, erano perfetti. Così perfetti da risultare terribilmente forti e vigorosi. E immensi nell’orgoglio. Così immensi, così tronfi e fieri di sé, che gli dei cominciarono ad odiarli e a pensare: “un giorno scaleranno il cielo e si avventeranno su di noi”. No, non potevano tollerare quella smisurata arroganza. Dovevano agire prima che fosse tardi. Perciò Zeus decise di punirli: li divise in due parti e incaricò Apollo di girare i loro volti in modo che guardassero frontalmente. Gli esseri umani così ridotti non si davano pace. Ciascuna delle due parti desiderava
solo ricongiungersi all’altra. Dice Aristofane che “si abbracciavano e si sforzavano in tutti i modi di formare un solo essere. E così morivano di fame e d’inazione, perché ciascuna parte nulla desiderava che di ricongiungersi all’altra”. Fu per evitare che il genere umano si estinguesse nel tentativo vano di riunirsi con la propria metà mancante, che Zeus inventò l’unione sessuale. E beninteso, inventò la procreazione della specie e stabilì che avvenisse dall’incontro di maschio e femmina. Ma il suo scopo principale era unicamente quello di saziare il desiderio degli uomini perché potessero tornare al lavoro e a gli uffici importanti della vita, come quello di onorare gli dei e di fare sacrifici verso di loro. E per questo bastava l’unione reciproca tra i sessi, che si trattasse di due donne, due uomini, o di sessi opposti. Del resto, il ricordo del dolore che ci è stato inflitto è equivalente nei maschi e nelle femmine, né si è mai estinto in alcuno di noi. E sembra quasi inesauribile il desiderio d’amore che ci portiamo addosso. Tanto che solo ricreando l’unità perduta possiamo soddisfarlo. Dopo quest’ultima constatazione, il racconto di Aristofane pone un un quesito che è forse l’apice del suo discorso. E’ il momento che preferisco. Cosa pensano - domanda - di sé, quegli uomini che sono riusciti a ritrovare la loro perduta unione? E cosa desiderano l’uno dall’altro? Potrebbero mai accontentarsi di credere che l’unica forza che li attrae reciprocamente sia quella del far l’amore? Qualche giorno fa, uscita dal Cinema Odeon dopo aver visto l’ultimo film di Guadagnino, mi sono ricordata del Simposio di Platone, e sono corsa a ricercare il discorso di Aristofane. Cosa desiderano gli uomini l’uno dall’altro? - Pensavo fissando lo schermo durante i titoli di coda, quando il volto di Elio, bagnato di lacrime e contratto in una smorfia di dolore, si distende, proprio alla fine, in una specie
di sorriso. Che il protagonista di Guadagnino sia riuscito a rispondere alla domanda di Aristofane? Non lo so. Temo che anche a distanza di centinaia di anni, ancora nessuno ci sia riuscito. Di certo, posso solo sconsigliarvi di proseguire la lettura della mia riflessione se non avete ancora visto il film. Se l’avete visto, invece, converrete con me che il sorriso di Elio aggiunge qualcosa all’interrogativo di Aristofane. Non risponde, è vero. Ma ci insegna che se non possiamo giustificare o spiegare fino in fondo l’unione tra due corpi, possiamo almeno conservarne il valore attraverso la perdita. Possiamo comprendere quanto sia vano il desiderio di cancellare la nostra ferita; quanto inutile sia lo sforzo di appiattire il nostro dolore. Perché è lì - nella piaga dell’abbandono - che risiede la nostra ricchezza. Soffochiamo così tanto di noi per guarire più in fretta dalla perdita del nostro amore. “Così tanto - dice a Elio suo padre - che a trent’anni siamo già prosciugati e ogni volta che ricominciamo una nuova storia diamo sempre di meno”. Ma renderci insensibili e desiderare di non provare niente: questo è il vero sbaglio che facciamo. Dovremmo chiederci invece sempre cosa cerchiamo, cosa desideriamo dal nostro amore. E trattenere tutto di lui, della sua assenza, del dolore che ci resta dalla sua perdita. Ciascuno di noi è un contrassegno, dice Aristofane, un contrassegno d’uomo. La ferita, dunque, è il nostro marchio. E in essa risiede la nostra identità. Perciò, forse, quando lasciamo andare un amore dovremmo prima accertarci che ci abbia lasciato una traccia, un solco, abbastanza profondo da non rimarginarsi mai. E prima di restare soli con la nostra ferita, potremo fare al nostro amore un’ultima domanda: chiedergli di chiamarci con il suo nome.
Tra Guadagnino e Platone, qual è il nome dell’amore 9 17 FEBBRAIO 2018
di Susanna Cressati Gli scrittori sono dei visionari? A volte. Leggete questo brano: “Quando i gas velenosi non basteranno più, un uomo fatto come tutti gli altri, nel segreto di una stanza di questo mondo, inventerà un esplosivo incomparabile, in confronto al quale gli esplosivi attualmente esistenti saranno considerati quali innocui giocattoli. Ed un altro uomo fatto anche lui come tutti gli altri, ma degli altri un po’ più ammalato, ruberà tale esplosivo e s’arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto ove il suo effetto potrà essere il massimo. Ci sarà un’esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie”. Era il 1923, diversi anni prima dello sviluppo militare delle ricerche sulla reazione nucleare, quando Aron Hector Schmitz, uno “scrittore della domenica” già più che sessantenne, che per lavoro si occupava del commercio di vernici sottomarine, immaginava la catastrofe atomica e con essa coronava il suo libro più famoso, La coscienza di Zeno. Questo tratto di Italo Svevo, ricordato da Mauro Covacich agli studenti del liceo fiorentino Rodolico e al pubblico diversamente giovane raccolto nella sala Ferri del Gabinetto Vieusseux per la ripresa del fortunato ciclo “Scrittori raccontano scrittori”, colpisce (e rivela) non poco. Non era infatti Svevo uomo particolarmente impegnato e immerso nelle problematiche storico-politiche del suo tempo. Aveva scritto, molti anni prima, due romanzi senza successo, Una vita e Senilità, e si era quindi dedicato ai commerci, accantonando la letteratura. Eppure...Evidentemente non bisogna fidarsi mai delle apparenze. La narrazione che Covacich ha offerto al Vieusseux intorno a Svevo ha toccato un punto che, forse, può servire a indagare questo aspetto del romanziere: Trieste. Per farsi capire Covacich ha addirittura usato un disegno, tratteggiando su un grande foglio bianco la Venezia Giulia e la sua capitale, collocandola (come lo era al tempo di Svevo) al centro di una sorta di “uragano” storico, una “faglia”, una frattura che divide masse geografiche e storiche e nello stesso tempo, con lievi o profonde frizioni, le mette in comunicazione e talvolta in tumultuoso conflitto. Fino al 1918 Trieste è la terza città più importante dell’impegno austroungarico. Qui si esercita, anche sotto il profilo letterario (Slataper, Stuparich, oltre a Oberdan) un irredentismo che non tocca
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La visione di Zeno però il figlio ebreo della locale borghesia, serenamente biculturale, come indica il “nom de plume”. Su quella “città faglia” (che Covacich conosce bene, essendoci a sua volta nato) premono culture e infuriano pensieri che vengono da lontano, da nord, da Praga, da est, dalla Russia, mentre in porto attraccano carichi profumati di Mediterraneo. In questa città basta un attimo per sentire parlare sloveno, tedesco o greco. Un punto di osservazione dell’umanità a dir poco privilegiato. Ma nel ‘23 a chi interessa l’inetto Zeno, perennemente alle prese con il vizio del fumo (U.S.) e con i fantasmi della psicanalisi, un vecchio bugiardo che racconta la sua insulsa vita perchè il dottor S. (Sigmund? Stra-
namore?) gli ha consigliato in via terapeutica di scrivere la sua biografia? Pfui, che biografia poi: dopo una prefazione e un preambolo si legge del vizio del fumo (U.S.), della finta zoppìa, della morte del padre, di un matrimonio e di una relazione amorosa, della gelosia nei confronti del cognato, la storia di una associazione commerciale. Su tutto l’ironica alzata di spalle dell’antica canzonetta: “Ma chi bazila* mori, no steme tormentar!” e, a contrasto, l’incubo nucleare! Figurarsi. Infatti all’inizio il romanzo fu un nuovo tonfo, come i precedenti (tutti pubblicati a spese dell’autore), tranne che dopo pochi anni la fama di Svevo decollò, complici personaggi come un giovane Eugenio Montale, Bobi Bazlen, James Joyce, Benjamin Crémieux che ne intuirono la clamorosa novità e la filigrana culturale che metteva lo scrittore triestino in dialogo con Proust, Kafka, Mann. Però rimane un dubbio: chissà che cosa avrebbe detto Svevo-Zeno se avesse scritto in triestino. Perchè in realtà Svevo parlava dialetto, la lingua veicolare della Trieste di allora (“veicolare” è una lingua utilizzata, all’interno di un paese, di un territorio o di una comunità internazionale, come mezzo di comunicazione tra parlanti di cui non è la lingua madre). All’amico James Joyce, che gli insegnava l’inglese necessario ai suoi affari, scriveva in dialetto e l’irlandese gli rispondeva in dialetto. La vita avrebbe tutt’altro aspetto se fosse scritta in dialetto, Svevo ne era cosciente perchè aveva imparato l’italiano sui libri di scuola. Qualcosa di simile l’ha suggerito Gilles Deleuze riferendosi a Kafka, un praghese che scriveva tedesco, sposando un uso minoritario di una lingua maggiore, nazionale. Un uso intrinsecamente sovversivo. Questo aspetto linguistico di Svevo – ha detto Covacich - è molto interessante ma poco approfondito, non a caso sottolineato in sede di analisi critica da uno scrittore sudafricano, John Maxwell Coetzee, che si è a sua volta dibattuto in una foresta linguistica tra olandese, inglese e afrikaans. Svevo mette in tensione l’italiano. Lo usa come se fosse una lingua straniera. Aggiunge spaesamento linguistico a spaesamento psicologico. Una confessione fatta da me in italiano, dice Svevo-Zeno, non potrebbe essere completa né sincera. Ma la vita, eh la vita, è vero che a differenza delle altre malattie è sempre esiziale, ma “chi bazila mori, no steme tormentar!” (Bazilar: preoccuparsi, affannarsi).
Musica
Maestro
Dal Tamigi al Danubio
di Alessandro Michelucci Il chitarrista Steve Hackett (a destra nella foto) lascia i Genesis nell’ottobre del 1977, pochi giorni prima che esca il 33 giri dal vivo Seconds Out. In questo modo il celebre gruppo inglese, che due anni prima ha perduto Peter Gabriel, si avvia verso un declino lento ma inarrestabile. Hackett ha già all’attivo un disco solista, Voyage of the Acolyte (1975). La sua parabola artistica prosegue, da una parte infuenzata dall’esperienza recente, dall’altra aperta a nuovi stimoli e a nuove collaborazioni. Rilegge vari brani del vecchio gruppo in Genesis Revisited I (1996) e Genesis Revisited II (2012). Legato al retaggio classico, incide Sketches of Satie (2000) insieme al fratello John, flautista, e Tribute (2007), con omaggi a Bach, Segovia e altri autori. Il chitarrista guadagna un largo seguito anche in Italia: i suoi concerti attraggono un pubblico numeroso; Mario Giammetti gli dedica la biografia Steve Hackett. The Defector (Segno, 2005); il pianista romano Marco Lo Muscio lo ospita nel disco The Book of Bilbo and Gandalf (2010). Nel 1999 il compositore conosce Attila Égerházy, fondatore dell’etichetta ungherese Gramy, che comincia a distribuire i suoi dischi. Égerházy è anche il chitarrista di Djabe, un gruppo jazz-rock ungherese che sta guadagnando una certa fama in patria e nei paesi vicini. L’incontro dei due musicisti segna l’inizio di una simbiosi artistica che diventerà sempre più profonda. Dal 2003 al 2017 Hackett e il gruppo ungherese collaborano a più riprese, realizzando numerosi CD in studio e dal vivo. I più recenti sono Summer Storms and Rocking Rivers (2017), già uscito in LP nel 2013, e Life is a Journey: The Sardinia Tapes (2017). Il primo, registrato dal vivo, propone una quarantina di brani vari: alcuni di Hackett, altri del gruppo ungherese, altri ancora tratti dal repertorio dei Genesis. Questi ultimi vengono riletti in modo molto personale, grazie anche all’uso di tromba e violino, mai usati dal gruppo inglese. Un lavoro molto interessante che conferma la piena sintonia fra Hackett e gli amici ungheresi. Life is a Journey: The Sardinia Tapes, del quale
parleremo meglio più avanti, è una lunga improvvisazione registrata in una chiesa sarda. Nella storia musicale di Steve Hackett ricorre spesso il riferimento all’orizzonte. “Horizons” è il delicato brano acustico che apre il secondo lato di Foxtrot (1972). Hungarian Horizons è il disco registrato dal vivo a Budapest nel
2002, che si apre col brano suddetto. Beyond the Shrouded Horizon è il titolo del CD che il chitarrista realizza nel 2011. Oggi, dopo tanti anni di collaborazione con Djabe, questo musicista nato sulle rive del Tamigi sembra aver trovato un nuovo orizzonte – quasi una seconda patria - su quelle del Danubio.
Foto di
Pasquale Comegna
Corpi di marmo
Musei Vaticani
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di Maila Ermini Mi occupo di Gonfienti da più di dieci anni. E non solo con denunce, camminate, sit-in e agit-prop, ma anche col mio lavoro artistico, il teatro, a partire dal debutto di Laris Pulenas nel 2008. Grazie alla collaborazione di alcune associazioni e a Gianfelice D’Accolti che accettò di recitare con me senza compenso, fu possibile rappresentare il dramma etrusco a Poggio Castiglioni sulla Calvana, nel tardo pomeriggio di luglio, col sole declinante. Questa è stata la prima significativa azione civile affinché il sito archeologico non venisse travolto dalla costruzione dell’Interporto della Toscana Centrale. Data d’inizio della mia battaglia. Qui però voglio ricordare un colloquio di lavoro, che dà la misura di quello che è accaduto in questi anni, e che accade ancora, per cui, proprio a causa dell’azione politica che ho portato avanti per la Città Etrusca sul Bisenzio, sono stata concretamente danneggiata nel mio lavoro. Il dialogo che riporto ebbe luogo nel settembre del 2011 fra me (che indico in tondo) e una direttrice di un circuito teatrale (in corsivo); non ne possiedo una registrazione sonora , tuttavia l’ho potuto ricostruire in modo aderente a come si svolse grazie ad alcuni appunti. Mi recai nell’ufficio della direttrice per presentare il mio lavoro. Mentre ero seduta in attesa, la funzionaria spuntò da un’altra stanza, accigliata e infastidita. Subito mi comunicò il disappunto della presidente per certe mie lettere; era chiaro che si riferiva al mio blog, Primavera di Prato, e alla attività politica. Mi trovai del tutto impreparata a questo attacco. Buongiorno. Mi spiega cos’è Gonfienti? E’ un borgo di Prato vicino al quale è stata trovata una…città etrusca. Ma che c’entra Gonfienti? Io sono qui per presentare il mio lavoro. Ha messo in scena uno spettacolo a favore di questa città etrusca, mi è stato detto... Scusi, io non ne so nulla, non sono di qua; mi vuole spie-
“Le do un consiglio, non si occupi di Gonfienti”
gare? Sì, le spiego certamente ma, ripeto, io sono qui solo come professionista, e vorrei che si considerasse il mio lavoro da un punto di vista teatrale e basta. Però lei utilizza questo spettacolo politicamente. Sì, certo, l’ho fatto. Laris Pulenas debuttò nel luglio del 2008 per sensibilizzare sullo stato di abbandono dell’area archeologica, scoperta durante la costruzione dell’Interporto a Prato; ma non solo; ho scritto un libro, Gonfienti, storia di una battaglia; ho girato un documentario che ha partecipato al Festival del Cinema Archeologico di Rovereto, Gonfienti addio, e c’è anche molto altro, ma ripeto, ora sono qui solo per presentare il mio lavoro. So anche che organizzerete una rassegna di teatro che vuole valorizzare alcuni siti archeologici in collaborazione con la Soprintendenza, e Laris Pulenas sarebbe adatto per l’occasione. Lo replicheremo a breve; vuol venire a vederlo? Non so se potrò. Questa attività politica nuoce alla sua arte. Le do un consiglio: non si occupi
di Gonfienti, pensi al teatro e basta. Tra l’altro è già difficile per noi immettere nel circuito artisti che non sono famosi; dobbiamo portare avanti un teatro generalista, altrimenti rischiamo di essere spazzati via; se Lei, a queste difficoltà oggettive, aggiunge anche l’attività politica… Le ho scritto, e anche detto, che il mio teatro è anche civile. E teatro civile significa portare in scena tematiche di attualità politica e sociale. Be’, oggi il teatro cosiddetto politico non interessa più a nessuno. A parte qualche caso sporadico. A teatro la gente vuole ridere. Il mio è solo un consiglio, poi faccia Lei: non si perda in questioni lontane dal teatro, e forse potrà avere la possibilità di essere inserita nelle programmazioni ufficiali. Altrimenti, faccia pure politica, ma non chieda di entrare nei circuiti. Ma io pago le tasse, tasse che finanziano anche i circuiti teatrali, e vivo inserita nel contesto sociale ed economico in modo totalmente legale, e quindi non vedo perché con le mie opere non dovrei o non potrei chiedere di far parte di una programmazione teatrale. D’altronde Laris Pulenas è un dramma storico, non parla direttamente di Gonfienti, il suo tema principale è la corruzione politica… Nessuno dei miei spettacoli è mai stato inserito in quel circuito teatrale. Anche pochi mesi fa, dopo che erano stati presi precisi accordi verbali per rappresentare Laris Pulenas a una “Festa Etrusca”, la data è stata annullata, probabilmente per evitare fastidi da parte di una politica che non mostra alcun concreto interesse per le aree archeologiche, ma sì invece per i capannoni da costruire e affittare.
24 febbraio 2007 Esplode la rabbia dei comitati cittadini per l’annunciato interramento degli scavi di Giuseppe Alberto Centauro Dopo l’annuncio dato dall’Amministrazione Comunale di Prato per l’attuazione del nuovo Piano di Utilizzo dalla Società Interporto della Toscana SpA, la società civile pratese ebbe una forte reazione soprattutto attraverso l’azione del Coordinamento dei Comitati per la salute della piana (CCC), le associazioni e molti singoli cittadini. A fronte di una ritrovata coscienza sulla rilevanza culturale, oltreché storica e ambientale, dell’area archeologica di Gonfienti, messa rischio dai provvedimenti annunciati con la sospensione degli scavi e il definitivo (non più preventivo) interramento di ampie zone di specifico interesse archeologico, fu organizzata. giusto 10 anni or sono, una significativa manifestazione pubblica, assai
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partecipata. Un corteo pubblico attraversò il centro cittadino per sensibilizzare sul caso Gonfienti, occupando piazze e monumenti, distribuendo volantini. Le richieste allora avanzate rimasero tuttavia senza risposta da parte delle autorità, ed ancora si attende la formazione di un parco archeologico dedicato agli Etruschi della piana.
Mariangela Arnavas Yarmy un Keyle è il titolo originale del romanzo pubblicato da Adelphi nella traduzione di Caterina Morpurgo , curatrice Elisabetta Zevi; apparso con cadenza bisettimanale tra il 9 Dicembre 1976 e il 7 Ottobre 1977 sul Forvert, storico quotidiano yiddish di New York, non era mai stato pubblicato dall’autore , che pure aveva curato personalmente con l’aiuto di traduttrici e traduttori tutte le altre pubblicazioni in inglese dei suoi romanzi, che chiamava “i miei secondi originali”. E’ da segnalare una circostanza temporale forse significativa: Singer interrompe la pubblicazione a puntate del romanzo poco tempo prima di ricevere il Nobel, lasciandolo così incompiuto e inedito; le motivazioni di questo arresto nella narrazione non sono note. Talvolta un autore decide di interrompere o non rendere note le sue opere semplicemente quando la sua coscienza critica gli segnala che così è opportuno perché “quandoquidem dormitat divus Homerus” e a volte Omero se ne accorge; ma non sembra il caso di questo bel romanzo che gli eredi di Singer hanno concesso alla pubblicazione di Adelphi; plausibile invece la riluttanza a pubblicare quasi in contemporanea con l’assegnazione del Nobel (1978) una narrazione che affronta almeno un paio di argomenti tabù: la tratta in Sudamerica di ragazze giovanissime dall’Est Europa ad opera di malavitosi ebrei e l’”ignominia” di un ebreo che va a letto sia con donne con uomini. Adelphi annuncia con questa pubblicazione
Keyla La Rossa l’avvio di un progetto editoriale importante ovvero la pubblicazione di un nucleo di opere di Isaac Bashevis Singer finora inedite in Italia, di cui Keyla La Rossa è solo l’inizio e un bell’inizio. Cinque personaggi attraversano gli anni cruciali di inizio del’900 tra il ghetto di Varsavia e New York, nel l’orizzonte temporale tra assolutismo , antisemitismo, primordi della rivoluzione russa e capitalismo americano , sempre in bilico tra la miseria, la fame e la possibilità di sopravvivenza; di questi personaggi, quattro sono costantemente sospinti come le anime dantesche nel girone dei lussuriosi da venti di tempesta incessanti , tormentati dai contrasti tra l’aspirazione all’assoluto e la realtà concreta della passione e della difficoltà del vivere: Yarme, il piccolo delinquente e mezzano che però viene travolto dalla passione , Solcha, la giovane anarchica , combattente ostinata e teorica del libero amore ma platonicamente innamorata, Bunem , come Singer, figlio di un rabbino, giovane studioso sballottato tra l’amore carnale e quello spirituale e infine Keyla , la prostituta , in perenne lotta contro se stessa , ossessionata dalla perdita della purezza, vittima del suo stesso fascino, inesorabilmente attratta dalla vita e quasi contemporaneamente dalla morte , con una formidabile e felice capacità di sopravvivenza che va aldilà di se stessa. Il quinto personaggio, Max Lo Storpio, è al tempo stesso il motore della storia e il lucido interprete delle vicende degli altri. Il tutto
sullo sfondo di due città lontane e vicine al tempo stesso nella vita dei personaggi e probabilmente dello stesso Singer che visse davvero a Varsavia nella via Krochmalna e davvero emigrò negli Stati Uniti dove è morto nel 1991; nel ghetto “quando gli ebrei salutavano la fine dello Shabbat , la Piazza si riempiva di una folla fitta quanto i semi di papavero su un panino. C’era un gran baccano. Attraverso le finestre aperte i grammofoni suonavano arie di operette americane, canti sinagogali; a New York invece “Di giorno Keyla aveva spesso la sensazione di essere ancora a bordo della nave. La città rumoreggiava come un mare in tempesta. Le finestre tremavano per il passaggio dei camion e dei carri per le consegne , sovraccarichi di merci. Vibrava tutto, le pareti, il pavimento, il soffitto. Di frequente si udiva la campanella dei vigili del fuoco o la sirena di un’ambulanza”. Una narrazione intensa , da cui è difficile staccarsi, anche perché ogni volta che sembra arrivata ad un punto morto, fa una svolta o una capriola e ti sorprende proprio come a volte fa la vita vera ed è piena di odori e profumi come quelli dei panini kosher che Keyla vende con il suo cesto per strada , con un finale che rimane in sospeso perché non si sa bene ma forse solo perché comunque la vita va avanti; una narrazione che ha per oggetto altre narrazioni, perché le notti d’amore di Keyla con Yarme prima e con Bunet poi sono anche notti di racconti, intercalati con il piacere in un tessuto che costituisce la gioia dello stare insieme.
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di Giuseppe Alberto Centauro L’arte contemporanea è il tratto distintivo del progetto architettonico della piazza/ giardino inaugurata nei giorni scorsi a Prato, proseguendo una tradizione, ormai consolidata a partire, nel 2004, con la sistemazione della piazza sant’Agostino “la genesi della città” sviluppata sulle installazioni di Salvatore Cipolla e la rinnovata pavimentazione ed illuminazione della monumentale piazza di S. M. delle Carceri in faccia al Castello dell’Imperatore. Con il suggestivo ed evocativo appellativo di “Rammendi” si è definitivamente saldato anche visivamente il rapporto tra la Prato di antica formazione e quella della contemporaneità, sancendo un principio fondamentale per il restauro urbano, ovvero quello del riconoscimento della specificità delle opere di arredo urbano del XXI secolo, propria dei linguaggi postmoderni nell’accrescimento delle valenze dei giacimenti culturali condotta senza steccati ideologici e improprie falsificazioni nel reciproco rispetto e valorizzazione dei caratteri testimoniali di ciascuna epoca storica. Il portale (progetto dell’arch. Alessandro Malvizzo) realizzato nella nuova Piazza Landini (Sindaco di Prato dal 1965 al 1995), a ridosso della cinta muraria trecentesca, completa un articolato intervento di recupero architettonico attivato dal Comune di Prato in oltre 20 anni, incentrato sulla trasformazione della ex cimatoria Campolmi in polo culturale sede del Museo del Tessuto e della Biblioteca Lazzerini. L’esecuzione di questi lavori ha consentito di riportare alla vista un’ampia prospettiva interna della cinta magistrale, contestualmente interessata da un articolato intervento di restauro conservativo che permette di apprezzare adeguatamente le caratteristiche architettoniche e costruttive dell’antico manufatto. Per completare il recupero di questa estesa porzione del centro storico, rimaneva da realizzare soltanto il sistema dei percorsi e delle relazioni urbane fra le varie parti del contesto circostante. Questi interventi sono avvenuti per step successivi, il primo si è incentrato sulla realizzazione di un collegamento ciclopedonale fra la via Pomeria e via del Melograno che ha utilizzato un varco già presente nelle mura, con l’inserimento sul lato esterno della cortina di una passerella in ferro corten atta a colmare l’originario dislivello corrispondente presumibilmente al fossa-
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Rammendi urbani to e enfatizzazione della piccola postierla esistente. L’ultima fase ha riguardato la definizione funzionale dello spazio pubblico interno alle mura che risultava però architettonicamente frammentato dalla demolizione del manufatto produttivo che precedentemente inglobava la ciminiera, conferendo a questo reperto di archeologia industriale un aspetto incompiuto. Il notevole flusso pedonale che quotidianamente attraversa la nuova porta in direzione del centro cittadino e della biblioteca ha indirizzato le scelte progettuali verso la realizzazione di un nuovo spazio urbano caratterizzato come un giardino, dove fosse possibile sostare e intrattenersi durante tutto l’anno. La vicinanza della cortina fortificata sconsigliava la piantumazione di alberature di medio alto fusto, pertanto si è optato per aiuole verdi rialzate da terra con un disegno a forma di anfiteatro nelle quali trovano collocazione delle sedute semicircolari corredate di un pergolato e l’installazione di arbusti della varietà “osmantus” collocati in vaso per equilibrare la diffusione visiva del verde. L’unico albero installato è un gelso di qualità sterile, come quelli messi a dimora nella su citata piazza di sant’Agostino, a corredo di una pedana lignea sulla quale si può sdraiarsi o sostare in modo libero durante la buona stagione. Il fulcro del nuovo progetto
è in ogni caso costituito dall’inserimento di un telaio di longarine metalliche HEB 220 rivestite in lamiera corten, in coerenza con le altre nuove opere eseguite per realizzare il portale d’ingresso dalle mura. La funzione di questo secondo portale che ricorda dimensionalmente l’involucro che inglobava la ciminiera è quella di ricostituire con un linguaggio minimalista un rapporto visivo e di relazione fra il manufatto e lo spazio circostante senza compromettere la vista prospettica delle mura. Il portale diviene anche strumento visuale per riproporre all’attenzione dei passanti la memoria della funzione produttiva che il luogo aveva precedentemente; il disegno è infatti ispirato alla trama e all’ordito della tessitura ma rappresentata in maniera più libera e meno schematica. I fili dell’intreccio realizzati con tondino di ferro da 1 cm. rispettano infatti un ordine geometrico preciso, in quanto il bordo interno del telaio strutturale è suddiviso con una partizione costante e con la condizione che ad ogni punto dello schema si congiunge soltanto una barra con un risultato estetico che non palesa il criterio compositivo. L’opera è completata da una serie di lastre in vetro basamentali che oltre a delimitare l’attraversamento del portale con le loro differenti sagome poligonali evocano una frattura che si ricompone con una libertà compositiva precedentemente assente.
di Simonetta Zanuccoli Si estendono per un chilometro e mezzo sulla rive droite fino al Quai du Louvre e per due chilometri sulla rive gauche fino a Port Royal, sono le scatole verdi che, aperte, offrono libri e riviste usati, stampe, cartoline nuove o da collezione, qualche dipinto di poco valore e, oggi, souvenir vari. Nel 1762 il loro nome entra per la prima volta nel Dizionario dell’Accademia Francese che definisce la parola Bouquiniste come “colui che compra e vende libri usati” (bouquin in francese). La loro origine è antichissima: si ha menzione di un’attività simile già nel XIII secolo quando i commercianti, responsabili della vendita di manoscritti sotto il controllo dell’Università di Parigi, una volta l’anno esponevano la loro merce all’aperto vicino alla Senna su piccole bancarelle. La tradizione poi continuò a lungo e nel XVI secolo era facile imbattersi in venditori ambulanti che esponevano libri provvisoriamente stesi per terra o portati in giro dentro una cassetta di legno, che ricorda molto quelle attuali, trattenuta da una cinghia di cuoio attorno al collo in maniera da poter sfuggire meglio ai controlli della censura del tempo. La loro merce era infatti composta soprattutto di materiale proibito: opuscoli e gazzette sugli scandali politici e religiosi e le famose Mazarinate con disegni e poesie cinici e triviali che parodiavano i fatti importanti del momento e che in seguito contribuirono non poco a trasformare le masse scontente in rivoluzionari. Addosso ai bouquiniste, venditori ambulanti di controcultura, si scagliarono la Chiesa e il Re con scomuniche, editti e sentenze. Un giudizio reale del 1577 li incluse tra i ladri e i corruttori. Ma nonostante un regolamento imposto dai “veri” librai, quelli con le botteghe nelle strade vicine, che vietava l’esposizione di libri sul Pont Neuf appena inaugurato (1605) per la dignità della loro professione, quello diventò il luogo prescelto per questo tipo di commercio. Anzi i bouquiniste, in risposta ai librai con permesso e bottega che avevano come emblema una spada, ne adottarono uno simile ma con l’aggiunta di una lucertola, simbolo di chi è sempre alla ricerca di un posto al sole. Anche il secolo dopo, nonostante la crescente diffusione, li vide perseguitati. Un decreto di Luigi XV proibì questo tipo di commercio e molti finirono in prigione. La svolta avvenne durante la Rivoluzione, quando, proprio per il tipo di materiale stampato che vendevano, la loro attività cominciò a prosperare. A metà 800 fu riconosciuto ufficialmente questo commercio e concesso a ogni bouquiniste uno spazio di 10 metri che poi nel 1891 diventerà fisso con le scatole aperte a guisa di ban-
Les Bouquinistes
carella staffate ai parapetti della Senna, come siamo abituati a vederle ora. Questo porterà a un loro incremento fino ad arrivare a 200 agli inizi del 900 per Expo Mondiale. Oggi sono solo una quarantina. Nonostante siano ormai considerate inseparabili dal paesaggio parigino tanto da essere state inserite nel 1991 nel patrimonio mondiale dell’Unesco, le bancarelle dei bouquiniste, che per decreto legge devono essere tinteggiate di verde come altri storici arredi urbani (le fontane Wallance, le prime fermate di metro...), non sono più luogo d’incontro di personalità letterate, di letture pubbliche improvvisate, di fortunate scoperte di libri rari o di stampe preziose. Degli otto metri, massimo concesso, divisi in quattro scatole di due metri ciascuna, una parte sempre più grande è dedicata alla vendita dei soliti souvenir (portachiavi con la Tour Eiffel, lucchetti per innamorati, poster Belle Epoque...), concessione ai nuovi
clienti, i turisti, e nonostante il controllo del Consiglio Comunale per non tradire la loro caratteristica storica, le bancarelle verdi sembrano sempre di più un mercato di cianfrusaglie. La procedura per acquistare una postazione sul lungo Senna, rinnovabile di anno in anno, è piuttosto semplice, un modulo da compilare e nessuna richiesta di competenza specifica. Al bouquiniste non viene richiesto l’affitto del pezzo di marciapiede occupato ma ha l’obbligo di aprire almeno quattro giorni la settimana, indipendentemente dalle condizioni metereologiche, e se in caso di forza maggiore questo non fosse possibile, c’è l’obbligo di informare per iscritto il Comune di Parigi. Forse i pochi coraggiosi che sono rimasti accanto alle loro boites, sfidando il freddo d’inverno e l’inquinamento tutto l’anno rimpiangono il tempo che potevano scegliersi, pur fra mille rischi, un posto al sole come le lucertole.
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di Valentino Moradei Gabbrielli “Ascolterete adesso, una composizione di Mozart non conforme a quel formalismo e razionalità consuete all’autore e, per questa ragione, da considerarsi a mio avviso, come un pezzo improvvisato che per nostra fortuna, da lui o da altri è stato in seguito trascritto su spartito.” A parlare il pianista Michele Campanella in occasione del suo concerto al Teatro Verdi di Firenze del 30 Gennaio 2018. Qualche giorno prima ascoltando Radio Toscana Classica ho sentito lo speaker parlare del musicista Tomaso Albinoni, appartenente a ricca famiglia borghese veneziana di elevato rango sociale, musicista per passione, che per propria ambizione e piacere aveva edito a sue spese le proprie composizioni. Grazie forse anche a questo fatto, la sua successiva fortuna. Qualche anno prima: un film: “Fail safe” (A prova di errore) 1964. Un regista: Sidney Lumet. Un altro film: “Dr. Strangelove or: how I learned to stop worryng and love the bomb” (Il dottor Stranamore) 1964. Un altro regista: Stanley Kubrick. Due sceneggiature che affrontano la stessa problematica. Due case produttrici, una sola casa di distribuzione, la Columbia Pictures. Il primo film e il primo regista, conosciuti oggi soltanto dai cultori del cinema, il secondo film e il secondo regista idolatrati dal grande pubblico. I due film sono stati girati ambedue nel 1963 e affrontano in modo molto similare la problematica allora molto attuale de “La guerra fredda” tra gli Stati Uniti d’America e l’Unione Sovietica. Girati quasi in contemporanea, e, prodotti da due diverse case produttrici cinematografiche, con investimenti economici e finalità di mercato molto diverse. La prima attenta a contenere i costi destinando il prodotto a un pubblico ristretto, la seconda, potendo contare su una vasta rete di distribuzione garantita dalla Columbia Pictures investendo molto denaro immaginando un prodotto per il grande pubblico con un ritorno economico diluito anche nel tempo. I film dovevano uscire in contemporanea, ma la Columbia Pictures (stimolata dagli stessi sceneggiatori e il regista del film “Dr. Strangelove”), venuta a conoscere il progetto parallelo, decise di acquistare il film concorrente e ritardarne l’uscita nelle sale cinematografiche di quasi un anno, per non penalizzare la sua produzione. Il risultato di quest’operazione di marketing è stato che: “Dr. Strangelove” è assurto a “Film Cult”, e il regista Stanley Kubrick grazie a questo film si è conquistato un posto nell’O-
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limpo della storia del cinema. Il regista Sidney Lumet, un posto di rispetto tra i cultori del cinema, il suo film appena conosciuto e ancor meno visto dal pubblico delle sale cinematografiche.
Arte fortuna e
Sum ergo cogito a cura di Roberto Gramiccia Allo Studio Arte Fuori Centro, via Ercole Bombelli 22 (Roma) 21 febbraio si inaugura la mostra di Ennio Calabria “Sum ergo Cogito”. L’esposizione rimarrà aperta fino al 9 marzo secondo il seguente orario: dal martedì al venerdì dalle 17,00 alle 20,00, altri orari su appuntamento. Con quella di Ennio Calabria inizia il ciclo di quattro mostre che Roberto Gramiccia curerà su richiesta dell’Associazione culturale “Fuori Centro”. A Calabria seguiranno nell’ordine: Valeria Cademartori, Paolo Assenza e Nicola Rotiroti. L’insieme delle quattro mostre, pensato come un unicum, prende il titolo di Pittori, pittori. Tutti e quattro gli artisti ritrovano, infatti, nella pittura il loro strumento espressivo di elezione. Scrive il curatore: “Non nascondo che nella scelta di questo titolo - Pittori, pittori - si incastoni una mia “non celata” predilezione per un mezzo espressivo che, negli ultimi decenni, ha dovuto subire i colpi e le violenze di una temperie iper-concettuale e ipertecnologica che ha preteso di ridimensionare lo specifico della pittura, purtroppo riuscendo a strappare qualche temporanea vittoria di Pirro. Ma, appunto, si tratta di vittorie di Pirro perché la pittura, come la poesia, come la musica, non muoiono fin quando si evita la barbarie. Chi più e meglio di Ennio Calabria poteva battezzare un ciclo di mostre con questo titolo? Semmai la cosa da rimarcare è la semplicità e la gene-
rosità con la quale un maestro assoluto, come lui, ha accettato di affiancare la sua proposta a quella di artisti tanto più giovani e meno carichi di glorie. Gli otto dipinti che Ennio Calabria presenta allo Studio Arte Fuori Centro esprimono una straordinaria forza di impatto, una tempesta che attira su di sé un’attenzione totale. Con effetti che in qualche modo sono preannunciati da un lavoro del 2009 ripreso e ultimato in questi giorni: Studio per “Parlamento: vento imprevisto”. Seguono poi i ritratti di Marcel Proust, Jorge Luis Borges, Hector Berlioz, Mahmud Ahmadinejdad e di se stesso e altri due veri e propri capolavori: Garrula morte (2012) e La luce dei telefonini (2015).
di Paolo Marini Anche quest’anno, se Dio vuole, abbiamo superato la Giornata della Memoria (27 gennaio) e il Giorno del Ricordo (10 febbraio). Una differenza tra le due ricorrenze è che la prima è stata voluta a livello internazionale, mentre la seconda è stata istituita con legge italiana. La sensazione è che entrambe - lungi dall’essere occasioni di approfondimenti, di acquisizioni di ulteriori conoscenze, se del caso con la passione ‘spassionata’ che hanno gli storici (non già gli spacciatori di ricostruzioni ideologiche) o il sentimento di pietà che si addice, semplicemente, agli uomini in quanto tali – per non pochi si limitano a rappresentare, banalmente, una festa di sinistra e una festa di destra. Questa è una forma persistente di patologia: a distanza di oltre 7 decenni, gli strascichi di quella che fu anche una guerra civile sono ancora presenti, infiammano gli animi e danno fiato a giustificazionismi, riduzionismi o negazionismi di varia ed alterna imbecillità (di cui proprio su queste pagine ho nondimeno difeso il ‘diritto di cittadinanza’ nel dibattito). Se si aggiunge che quest’anno le ricorrenze si sono collocate in una campagna elettorale già nel vivo (del suo squallore), beh, ecco spiegati anche degli accostamenti atti ad alterare e probabilmente ad offendere la memoria delle vittime dei crimini trascorsi (tale è, per esempio, la similitudine che taluno ha instaurato tra il trattamento riservato dai nazisti alle persone di religione/famiglia ebraica e quello odierno degli italiani verso i migranti). Insomma, è sempre meno chiaro se queste giornate servano concretamente alla memoria di quello fu, a comprendere con la storia anche qualcosa di più di noi stessi, ovvero se siano lì a giustificare le cerimonie istituzionali e a dare ossigeno a ventate di propaganda da opposte trincee, in un confronto degradato, miserrimo, che ha come orizzonte la contesa politica del momento. Qualcuno ha osservato che quanto è accaduto ieri, in un passato tutto sommato non lontano, potrebbe accadere di nuovo, se non si presta attenzione. C’è del vero: la storia non procede unidirezionalmente, nel senso delle “magnifiche sorti e progressive”. Si può ‘tornare indietro’, pur in modalità o con forme nuove, inedite. Se c’è un antidoto a questo - da elaborare ed applicare a partire dalla sfera individuale e, quindi, da suggerire soprattutto a chi è giovane - forse è proprio la premura di sgombrare la politica (non importa se ‘alta’ (...) o malridotta
Alla memoria serve la conoscenza più che la ricorrenza com’è oggi) dal tavolo della storia; amare, perseguire la ricerca della verità, delle distinzioni, dei dettagli, senza rispetto di qualsivoglia ideologia o istanza politica, in spregiudicata libertà. La storia tramanda che milioni di uomini si sono lasciati condurre dentro le peggiori carneficine, per far prevalere idee e ideologie diversamente disumane; quando le carneficine sono finite, molti tra coloro che si trovavano nel mezzo e sono, malgrado tutto, sopravvissuti, non sono più tornati gli stessi perché hanno capito la lezione: hanno compreso di aver servito aberranti logiche di potere, delle cricche al potere. Forse, per questo, hanno acquisito una mentalità profondamente scettica, hanno adottato una distanza di sicurezza, in quanto uomini liberi, dalle illusioni e dagli inganni che gli interessi degli Stati (e cioè dei gruppi politici che ne hanno o ne pretendono il controllo) hanno sparso e – variamente rielaborati,
trattati o ridimensionati – spargono e sempre spargeranno. Anche se non sempre è facile, anche se non sempre è la ragione a prevalere, bisogna evitare di cadere in certe trappole o, se del caso, sapere uscire dalle barricate, costruite e alimentate ad arte, ad uso di qualcun altro. Ingaggiarsi nella fatica della ricerca e della conoscenza dei fatti (che è speculare e opposta a quella degli spacciatori di ideologie, che piegano quei fatti agli imperativi o interessi prescelti) è cosa nobile ma anzitutto necessaria: promessa di autonomia individuale, costruzione graduale di una solida coscienza, di capacità e vigilanza critica voglio aggiungere e, così, concludere - per trecentosessantacinque giorni: ben oltre e perfino senza le ricorrenze/solennità istituzionali e le contingenti bassezze di cui quelle talora diventano – proprio malgrado – palcoscenico o motivo.
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di Danilo Cecchi I termini “sensazione” e “percezione” indicano rispettivamente i due momenti della relazione dell’io con il mondo esterno, attraverso il contatto con le cose e successivamente attraverso l’organizzazione dei dati recepiti in tale contatto. Le sensazione è una modificazione della coscienza provocata da stimoli sensoriali, ma è anche un aspetto della conoscenza legato a queste modificazioni. La percezione è un processo psichico complesso che assegna alle sensazioni un significato, è il processo di organizzazione ed elaborazione delle informazioni sensoriali e porta alla conoscenza ed alla valutazione dei fenomeni. Di fronte ad un oggetto, ad una persona, o ad una situazione, da cui invariabilmente riceve degli impulsi sensoriali, l’individuo elabora una serie di giudizi che stanno alla base del suo comportamento e che oscillano in base a coppie contrapposte: interesse / disinteresse, attrazione / repulsione, piacere / dolore, buono / cattivo, bello / brutto, e così via, in maniera sempre più raffinata ed elaborata, in base al numero ed alla qualità degli stimoli ricevuti. Questo atteggiamento di tipo “estetico” si arricchisce e si sviluppa costantemente, fino ad originare una serie di modelli o categorie, tali da influenzare, in situazioni analoghe, i giudizi successivi. Essendo la vista, fra tutti i sensi, quello che offre il maggior numero di stimoli, l’estetica della visione è il campo che più di tutti viene indagato e preso in considerazione, e le arti visive sono quelle che vengono maggiormente coltivate. La contrapposizione fra “immagine” visiva e “concetto” mentale rispecchia il contrasto esistente fra visione e parola, ma quello delle immagini visive è un linguaggio dotato di una propria autonomia, molto distante dal linguaggio parlato, e rispetto ai linguaggi parlati vanta la prerogativa di essere universale, non limitato da barriere linguistiche, ma soggetto, come tutti i linguaggi, alle barriere di tipo culturale. La percezione visiva permette la scomposizione dell’opera nelle sue componenti strutturali (linee, masse, colori, etc.) e nella separazione fra figure e sfondo, mentre la ricerca dei significati viene affidata ad una elaborazione mentale e culturale, stimolando i diversi livelli della coscienza, dal conscio fino al subconscio. L’estetica delle immagini fotografiche si articola su due sole dimensioni fisiche, lunghezza e larghezza, che vengono interpretate anche come alto e basso o destra e sinistra, ma escludono la “profondità” come dimensione fisica, relegandola al livello psicologico o illusionistico. Dal punto di vista delle sensazioni, la differenza principale fra le immagini pittoriche, frutto di invenzione, e le
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immagini fotografiche, frutto della presa diretta, si risolve nel rapporto fortemente vincolante dell’immagine fotografica con il suo referente. A livello della semplice “lettura”, di fronte ad immagini pittoriche o fotografiche, entrano in gioco quasi gli stessi meccanismi, legati alle interpretazioni “soggettive” dell’osservatore, al suo bagaglio culturale ed al suo stato d’animo, ed alla sua capacità di interpretazione. Pittura e fotografia sono ambedue capaci di “dire” molte cose, ma soprattutto di dire nello stesso tempo cose diverse. Le immagini fotografiche si caratterizzano tuttavia per una fondamentale ambiguità, si riferiscono contemporaneamente al mondo reale ed al mondo ideale, attraverso il ritaglio operato nello spazio, nascondono più che mostrare, attraverso il ritaglio nel tempo possono congelare in una sola scena un intero
racconto, fanno apparire straordinario il banale e banale lo straordinario, si riferiscono al mondo dell’arte, con il quale confinano e con il quale spesso si confondono, pur rimanendo il referente principale di se stesse. Poiché il mondo è in continuo cambiamento, ogni immagine fotografica diventa per questo unica ed irripetibile, rappresenta situazioni temporanee, oggetti effimeri, rapporti destinati a mutare, persone destinate ad invecchiare ed a scomparire, ma diventa unica anche per il modo in cui l’oggetto viene avvicinato, inquadrato e registrato, in quelle particolari condizioni e sotto quella particolare angolazione ed illuminazione. Pur rimanendo escluse dalle categorie estetiche tradizionali, le immagini fotografiche gettano fino da sempre, che lo si riconosca o meno, le basi di una nuova estetica.
Sensazione e percezione in fotografia
di M.Cristina François Il ‘Lapidarium’ di S.Felicita è stato raccolto in due specchi a parete nel Vestibolo del fianco esterno della Chiesa, dal lato che guarda a meridione. Entro il primo specchio furono murate le epigrafi sepolcrali rinvenute nel corso degli scavi che avevano interessato la Basilica Cimiteriale Paleocristiana del IV-V sec. a seguito dei lavori di ristrutturazione della Chiesa eseguiti da Ferdinando Ruggeri tra il 1736 e il 1739. All’interno del secondo specchio si trovano, invece, gli stemmi tolti nel corso di questi stessi lavori dai monumenti funerari che in quegli anni furono eliminati o ‘rimodernati’. Curò la sistemazione di queste pietre lo storico e antiquario Domenico Maria Manni che, in collaborazione con altri eruditi, realizzò il ‘Lapidarium’ fra il 1749 e il 1750 per le Monache Benedettine del Monastero annesso alla Chiesa. In passato erano assai pochi i visitatori che, usciti da S.Felicita, entravano al numero civico 3 dell’omonima Piazza e accedevano al Vestibolo per vedere lapidi e stemmi. Oggi, però, questo ‘Lapidarium’ è sempre più preso in considerazione da guide di gruppi italiani e stranieri, insegnanti con scolaresche e visitatori autonomi. In questa sede parleremo del secondo specchio, cioè degli stemmi che ricoprono un arco cronologico tra il XIV e il XVII sec.. Nel succinto elenco che segue propongo, laddove ancora possibile, l’identificazione di queste “pagine di pietra”. Dei trentuno pezzi affissi in questo secondo specchio il n.30 (vedi foto) non è più in situ essendo stato rubato. Quanto al reperto lapideo n.20 è da interpretarsi come fram-
Pagine di pietra in Santa Felicita
mento di ‘Chrismon’ circolare paleocristiano, e perciò pertinente all’altro specchio del ‘Lapidarium’, e non, come risulta da alcuni ‘Inventari’, quale “stemma medievale non identificato”. I primi tre stemmi nobiliari furono murati esternamente allo specchio e figurano al centro della parete del Vesti-
bolo: 1 Ser Niccolò Faffi (XIV-XV sec.) - 2 Ser Guasparri Cigoli e Madonna Ginevra Dati (a.1477?) - 3 Famiglia Guicciardini (XVI sec.). All’interno dello specchio, seguendo la mia legenda, si trovano inoltre: 4 Famiglia Macchiavelli (XVII sec.) - 5 Ser Amato di Ser Tinco Chese (?) (XV sec.) - 6 Stemma bipartito: Prosperi e altra famiglia? (XVII sec.) - 7 Ser D’Agnolo d’Antonio Sozio (XV-XVI sec.) - 8 Famiglia Segni (XVI sec.) - 9 Famiglia Barbadori (ante 1478) - 10 Ser Zanobi di Fruosino Velluti (XV sec.) - 11 Ser Jacopo Naddi de’ Prosperi (XV sec.) - 12 Ser Vanni di Fornaino De Rossi (XV-XVI sec.) - 13 Famiglia Badii, Poli, Cioli e Poltri (XVII sec.) - 14 Famiglia Canigiani (XVII sec.) - 15 Famiglia Delle Colombe (XVII sec.) - 16 Ser Tommaso di Messer Loteringho De’ Rossi (XIV-XV sec.) - 17 Ser Niccolò di Luca Spinelli orefice (a.1422) - 18 Famiglia De’ Rossi (XVI sec.) - 19 Stemma a testa di cavallo, illeggibile (XVII ? sec.) - 20 ‘Chrismon’ circolare spezzato (IV-V sec.), proveniente dalla Basilica Cimiteriale Paleocristiana di S.Felicita - 21 Ser Domenico di Marco Antonio Commendatore (XV-XVI sec.) - 22 Ser Antonio di Matteo Manni (XV-XVI sec.) 23 Ser Michele Giachi (XV-XVI sec.) - 24 Ser Matteo di Domenico Chelli (XVI-XVII sec.) - 25 Stemma illeggibile, simile a quello dei Barbadori? (XV sec.) - 26 Famiglia Barbadori (ante 1487) - 27 Piero di Gherardo del Mangano (a.1360) - 28 Ser Benedetto di Niccolò [d’Antonio?] Ridolfi (XVII sec.) 29 Ser De Gabbrielli (a.1544) - 30 Stemma lapideo rubato nell’agosto del 1988 appartenente al sepolcro di Ser Bonaccorso di Vanni orafo (XV sec.) [vedi scheda cartacea a.1980 della Sovrintendenza n.445] - 31 Ser [?] di Antonio Speziale (XIV-XV sec.). Vista l’importanza di queste insostituibili “pagine di pietra”, negli anni ’90 del secolo scorso gli Operai dell’Opera di S.Felicita d’intesa con il loro Presidente e con la Sovrintendenza avevano progettato l’installazione di un cancello di sicurezza all’accesso del Vestibolo la cui realizzazione è tuttora augurabile.
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Riccardo Massai, da Ronconi a Proust di Cristina Pucci Colpita dalla messa in scena della Lettura dell’Opera di Proust “A’ la recherche du temps perdu” al Teatro di Antella, chiedo al suo ideatore, Riccardo Massai, di poterlo intervistare. Con pronta e gentile disponibilità mi da un appuntamento, là al Teatro di Antella, periferico come collocazione spaziale, centrale in questo, come in molti altri momenti, per la capacità di proporre Cultura, con la “C” maiuscola. Riccardo Massai è Direttore Artistico di questo Teatro dal 2003, prima di ogni altra cosa mi dice che la via maestra è la qualità, è questa infatti che può far piacere, a lui per primo. Si è sottratto rapidamente alla logica di scelte commerciali e scambi con altri Teatri che finivano per stilare programmi che non gli erano propri e che, a suo avviso, avrebbero contribuito alla progressiva disaffezione del pubblico. “Chi dirige un Ente, deve sentire il dovere di promuovere alta Cultura”. Come dargli torto! “Le idee sono figlie degli Dei, ogni tanto ne lasciano cadere qualcuna” , dice di fronte alla mia ammirazione per questa originalissima ed inedita lettura totale, sia pure ed ovviamente a pezzi, della Recherche. Il successo sorprendente di questa iniziativa evoca quello della straordinaria lettura della Antologia di Spoon River nel Cimitero di Antella. Era il 2006, prepararono 300 biglietti, immaginando che ne sarebbero stati suffcienti più o meno un centinaio, di fronte alla Biglietteria del Teatro che li vendeva si formarono rapidamente lunghissime e poco immaginabili code... entrarono 1000 spettatori paganti nel Cimitero! Lo spettacolo fu comprato dal Comune di Firenze che lo replicò, gratis, alle Porte Sante con un ancora più grandioso successo. Ricordo come molto affascinante quel passeggiare fra le tombe coperte dalla patina del tempo e i muschiosi monumenti funebri punteggiato dalle voci di valenti attori e non solo che raccontavano le storie di un qualche “morto”. Le repliche, ad ingresso gratuito, in altri 4 Cimiteri Monumentali Toscani, finanziate dalla Regione, permisero di raggiungere
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la ragguardevole cifra di 10.000 spettatori! Una bella soddisfazione direi, un grande premio per una idea davvero geniale. Fra le molte regie e “cose” fantastiche realizzate che Massai mi elenca, un “Amuleto” di Bolaño, interpretato da Maria Paiato, che ha girato tutta Italia. Ha collaborato per 7 anni con Luca Ronconi, gli ultimi della sua vita , quelli della malattia, in cui era particolarmente severo e selettivo. Il Piccolo e Ronconi, i suoi miti giovanili. Lo aveva conosciuto al Laboratorio di Progettazione Teatrale di Prato . Nel 2006 decise di fare l’assistente volontario al Comunale di Firenze dove Ronconi preparava Falstaff, anche se un volontario non ha mai rapporti diretti con il regista forse fu notato...L’anno successivo pensò di chiedergli se poteva fare l’assistente al Piccolo di Milano, il sì che ebbe in risposta non vide però attuazione in quanto l’iniziale periodo di presenza, concordato e pianificato, fu modificato e venne a cadere nel pieno della stagione dell’Antella dove Massai era già Direttore Artistico. L’anno dopo Ronconi lo richiamò, per i successivi anni, fino alla sua morte, ebbe modo di assistere e collaborare a messinscene straordinarie. Il lavoro al Piccolo è da lui ricordato come una esperienza formativa di ricchezza ed importanza impareggiabili. Stare vicino ad un grande Maestro permette di abbeverarsi al suo genio e capire in profondità come funzionano le cose. Mi racconta di avere lavorato molti anni con i ciechi, altrettanti con pazienti psicotici e quattro anni in un Carcere Minorile, esperienze che affinano sensibilità necessariamente già ricche e presenti. Nessuna esibita vanità, qualche giustificata fierezza per i tanti debutti e i tanti attori portati ad Antella in una basilare modestia, tipica, a mio avviso, delle persone semplicemente brave. Poi parlerò della lettura della Recherche.
di Andrea Ponsi Dintorni
Berkeley: un campanile bianco, Oakland: grattacieli e freeways Sausalito, Belvedere e Tiburon: Portofini sulla baia Daly City: la backyard di San Francisco San Josè: invisibile da qui .
Mappe di percezione
Sulla baia
Il mare si mescola alle nuvole, le nuvole diventano isole bianche, le isole nuvole verdi, la terra cielo azzurro, il mare si confonde con la nebbia e il cielo si trasforma in acqua smeraldo. Marea
L’acqua della baia si ritira , lasciando affiorare una spiaggia melmosa, due o tre volte più estesa della spiaggia vera. E’ la bassa marea delle 9 di mattina . Analogo effetto avrà quella delle 6 del pomeriggio. Ogni giorno la baia dimostra, a chi voglia porle un poco di attenzione, che la terra è viva , respira; che, proprio come diceva Leonardo, è un corpo vitale, con i suoi ritmi autonomi, i suoi polmoni, cuore, sangue, ossa, pelle, peli. Colori
San Francisco è bianca, verde e grigia. Bianca come le case che scintillano nel sole quando si scorge la città da Sausalito o dal monte Tamalpais. Verde come i boschi umidi di nebbia del Presidio, i prati luminosi di Dolores, le acque della baia nel vento teso. Grigia come la nebbia che la avvolge, la raffredda, la nasconde.
San Francisco Da Berkeley
Vista da Berkeley la città è un profilo appena percettibile di grattacieli, uno ziggurat che emerge dal groviglio ferreo del Bay Bridge. Vista da qui San Francisco è una città in controluce, non bianca e luminosa come appare da Sausalito o Tiburon, ma grigia e metallica come il ponte e le freeways che la raggiungono. Da qui i monti di Marin sono lontani e ancora più lontano e invisibile è l’oceano, le sue brezze fredde, la sua nebbia.
Foghorn
Forse ero già sveglio o forse era nel sogno che ho udito la sirena della nave. Un sibilo ripetuto, lento, quasi il lamento di un animale disperato, un suono cupo, denso, profondo, strascicato. Poi il silenzio. Poi il sibilo di nuovo. E’una nave immensa che attraversa, lenta, la nebbia della baia. Un gigante che non veduto va, dopo l’oceano, verso il suo molo.
Houseboats
Houseboats, come quelle piccole, fluttuanti sull’acque basse della baia davanti a Sausalito: ben ordinate come le case in una lottizzazione sono invece anarchiche nel loro aspetto individuale. Condonate o ammesse come nuove costruzioni hanno poco a che fare con quelle primitive degli hippies. Ora sono fornite di tutte le comodità, tv via cavo e dischi a parabola. Oltre la baia si scorge l’houseboat più grande, la city-boat di San Francisco: decine di edifici, magazzini, pontili, case di legno allineate su strade in salita. Anch’essa, l’intera città, è un’houseboat che sembra galleggiare sull’acque della baia quando le cime dei grattacieli spuntano appena dalla nebbia che li avvolge.
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di Gianni Bechelli Una domanda che assilla da sempre la filosofia e che al senso comune appare assurda oltreché alla logica e all’esperienza è: ma se non ci fossimo noi essere viventi che osserviamo, riflettiamo sull’universo questo ci sarebbe ugualmente? Noi sappiamo per certo che c’è una storia del cosmo ed un‘evoluzione della vita, prima della nostra presenza di pensiero intelligente e dunque come si può pensare ad un‘esistenza condizionata dal nostro essere viventi e pensanti? eppure l’idealismo soggettivista negava già una realtà fuori dal pensiero e un ‘esistenza che è tale solo se percepisce o può essere percepita (Esse est percepi di Berkley) altrimenti perde il proprio senso e la propria stessa esistenza. Fin qui si poteva pensarla come una singolare posizione filosofica che si può permettere divagazioni da ogni sano realismo. Oggi è la scienza che ci pone un problema simile fuori da ogni speculazione teorica, ma come risultato di osservazioni che fanno pensare ad un universo, come dire, inverato solo dal suo essere osservato. Ed è la conseguenza più spettacolare della fisica quantistica che esplora la materia nell’infinitamente piccolo, fondamentale per capire l’esistenza e l’evoluzione dell’infinitamente grande. Il punto non è, almeno io credo, che creiamo la realtà osservandola o misurandola, ma probabilmente selezioniamo la realtà per la quale siamo programmati nelle stesse leggi fisiche che fanno coincidere osservatore ed
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L’Universo dei quanti
osservato nello stesso schema di essere e di apprendimento e possibilità di essere appreso. Del resto sappiamo già che ciò che osserviamo e che fa diretta esperienza con i nostri sensi è nemmeno la decima parte di quello che c’è là fuori in termini di energia oscura e materia oscura. Ma com’è possibile comunque che selezioniamo una realtà? Tutto parte dall’osservazione quantistica e cioè della parte più piccola di quantità di energia che non si esprime, come presumibile, in continuum uguali ma appunto in porzione di quanti di energia e che inoltre fonda l’idea che il mondo delle particelle si manifesti contemporaneamente come un‘onda d’energia e contemporaneamente come una singola particella. Si sa già che, in fondo, materia ed energia sono la stessa cosa in forme diverse. Ma come è possibile
la dualità contemporanea? E cioè può una particella specifica di materia, per quanto piccola, essere contemporaneamente un‘onda? Il famoso sperimento della doppia fenditura, che non starò qui a raccontare, ha dimostrato e dimostra inequivocabilmente che è proprio così, per quanto possa apparirci impossibile. Ma ancora più incredibile: questa duplicità si manifesta solo al momento dell’osservazione del ricercatore, solo allora la particella appare come tale, fa “collassare” la cosiddetta funzione d’onda’, ed è come se il semplice fatto di osservarla desse consistenza alla sua possibilità di esistere entro l’onda di energia. Se cessa l’osservazione e misurazione cessa anche il suo stato di essere particella e ritorna ad essere onda. Prima non c’era dunque che come possibilità, dentro un insieme di altre possibilità, una sovrapposizione di stati tutti probabilmente e potenzialmente e realmente esistenti dentro specifiche leggi fisiche e forse di forme e di percezioni diverse. Probabilmente quello stato che vediamo si invera e diventa realtà nelle infinite possibilità esistenti nell’”onda”. La particella può fare tutti i percorsi fra due punti ed io posso sceglierne solo uno? La realtà acquista fisicità solo al momento della sua osservazione e prima non esiste che in potenza. Lo so, siamo ai limiti di quella che conosciamo come fantascienza, eppure mi sono tenuto ai dati di fatto senza voler estremizzare nessuna delle conseguenze possibili, per il rischio della metafisica che è sicuramente presente o di un idealismo soggettivista molto astratto. Ma la fisica quantistica non è pura teoria o speculazione astratta, ha trovato e trova numerose applicazioni nella tecnologia moderna e sempre più ne troverà in futuro.
Tappeti, pesci, porcòdio e quadrettature, il pop paradossale di Mondino a cura di Aldo Frangioni Opere di uno dei più importanti artisti italiani contemporanei, Aldo Mondino, verranno presente sabato 24 febbraio alla Galleria Il Ponte e alla Galleria Santo Ficara in occasione dell’apertura della nuova sede. Si tratta di Quadrettature, Monocromi, Casorati, Onde, che rappresentano, attraverso il suo laterale avvicinamento alla Pop, la prima grande grande rivelazione dell’artista, che nel 1964 espone proprio con queste opere alla Galleria Gian Enzo Sperone di Torino e alla Galleria La Salita di Gian Tomaso Liverani. L’artista torinese si interroga sul significato recondito dell’immagine cogliendone la natura inconscia, senza rinunciare a una rappresentazione autenticamente decorativa in base a quell’idea che di decorazione aveva Henry Matisse. Nessuna deroga nei confronti delle mode, nessuna tentazione concettuale, nessuna necessità di aderire ad un modello estetico. Ma è bene non dimenticare l’elemento di fondo che sta alla base di tutta la ricerca di Mondino: il paradosso. Aldo Mondino nasce a Torino nel 1938, dove muore nel 2005. Nel 1959 si trasferisce a Parigi dove segue i corsi di Hayter all’Atelier 17 e all’Ecole du Louvre, oltre al corso di mosaico all’accademia con Severini e il suo assistente, Licata. Importanti per la sua formazione si rivelano l’amicizia con Tancredi, le frequentazioni con Jou Roy, Errò, Lebel, e con i famosi
maestri Matta e Lam. La prima esposizione avviene alla Galerie Bellechasse, nel 1960, con quadri di accento surrealista. Nel 1961 torna in Italia e alla Galleria L’Immagine espone la sua prima personale, con quadri di influenza ancora parigina. Nel 1962, Enrico Crispolti organizza una mostra a Venezia nella Galleria Alpha. L’incontro con Gian Enzo Sperone, direttore della Galleria Il Punto, si rivela un momento molto importante. Espone la serie delle Tavole anatomiche. Contemporaneamente elabora, attraverso il suo lavoro, l’idea che il pubblico non sia più spettatore passivo, ma partecipe attivo dell’opera. Nel 1966 espone alla Galleria Marconi di Milano. Poi la personale presso Lia Rumma a Napoli. Nel 1969, ancora all’Arco d’Alibert, con
l’Ittiodromo mostra dei pesci veri con sangue. Realizza Mamma, Agnelli e Porcòdio, presentati a Roma; dopo essere stato esposto in una galleria di Brescia, quest’ultimo viene sequestrato e l’artista condannato a pagare una multa per blasfemia. Nel 1972 ritorna a Parigi lavorandovi dalla fine del 1973 al 1980, è presente alla Biennale di Venezia del 1976. Da Sperone Westwater a New York nel 1990 espone una serie che “ritrae” trentasei Sultani (vissuti tra il 1200 e il 1920. Nel filone orientale si inseriscono anche I tappeti, sovrapposti in composizioni a parete, con colori vivaci. Tra il 2000 e il 2001 Santo Ficara presenta a Firenze una prima retrospettiva. Nel 2004, anno prima di morire espone alla Galleria de’ Foscherari di Bologna.
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a cura di Aldo Frangioni Alla galleria Rosenfeld Porcini di Londra, in parallelo a Giorgio Morandi e di Fausto Melotti, espone le sue opere Riccardo Guarneri, fiorentino, uno dei più noti astrattisti italiani. Nonostante che Morandi fosse un pittore figurativo e Melotti uno scultore, le loro sensibilità poetiche presentano similitudini all’astrazione di Guarneri. Quest’ultimo si è imposto come artista indipendente e precursore delle tendenze pittoriche astratte degli anni 70’. Fin dagli anni 60’, ha sperimento l’armonia tra segno, colore e luce, inventando un’originale linguaggio lirico. Guarneri è anche musicista e il suo intero repertorio comprende strutture geometriche ma anche segni colorati più caldi ed organici, che possono essere intesi come un’ode all’ascolto. Guarneri ha centrato la sua ricerca intorno all’estetica del segno e della luce, senza però cedere al dogma concettuale caro al minimalismo. Quadrati e linee perdono plasticità a favore di vibrazioni cromatiche: la contemplazione prolungata dei dipinti rivela infatti un’asimmetria nelle figure geometriche. Calligrafie a matita, prive di significato semantico, ma visualmente sostanziali, accentuano il gioco di sfumature e di trasparenze luminose. Alcuni critici hanno sottolineato un’assonanza tra l’opera di Guarneri e le semplificazioni cromatiche dei pittori Color Field. Il riferimento con Agnes Martin sembra il più adatto. Come nei lavori della pittrice canadese-americana, le linee di Guarneri trasmettono l’illusione di essere definitive, i colori pastello esprimono dolcezza e, dissolvendosi l’uno nel altro, rinforzano il sentimento di confini irresoluti. Riccardo Guarneri, nasce a Firenze nel 1933, dove vive e lavora. Inizia a dipingere nel 1953, alternando la pittura all’attività musicale. Dal 1962 intraprende una ricerca fondata sul segno e sulla luce che diventano suoi principali oggetti di studio all’interno di un impianto geometrico minimale. Prima personale all’Aja nel 1960. Nel ‘66 partecipa alla Biennale di Venezia con Agostino Bonalumi e Paolo Scheggi e alla Kunstalle di Berna. Nel 1967 è invitato alla Biennale di Parigi nella sezione “Nuove Proposte”. Nel 1972 tiene la prima antologica al Westfalischer Kunstverein di Münster. Partecipa alle Quadriennali di Roma del 1973 e del 1986. Nel 1981 al Palazzo delle Esposizioni di Roma espone a Linee della ricerca artistica in Italia 1960-1980,
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A Londra l’astrattismo lirico di Guarneri mostra che nel 1997 viene riproposta alla Kunsthalle di Colonia Abstrakte Kunst Italiens ’60/’90. Nel 2007 partecipa a Pittura Analitica, anni ’70 al Palazzo della Permanente di Milano. Nel 2008 è tra gli artisti della mostra Pittura Aniconica presso la Casa del Mantegna di Mantova. Ha insegnato pittura nelle Accademie di Belle Arti di Carrara, Bari, Venezia e Firenze. Nel 2017 partecipa alla 57a Biennale di Venezia, Viva Arte Viva.
1982 Carlo Cantini a New York
di Carlo Cantini
25 17 FEBBRAIO 2018