Numero
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Con la cultura non si mangia Giulio Tremonti (apocrifo)
Silvio Berlusconi ha incontrato il capogruppo del Ppe di Strasburgo Manfred Weber presso la sede del partito Forza Italia a Roma. Al momento dei saluti, mentre si scattava la foto di gruppo, Berlusconi si è lasciato andare a una battuta proprio durante la stretta di mano con Weber e alla presenza di alcuni parlamentari di Forza Italia: “Alzate tutti le mani in alto! Chi è che mi tocca il culo?”.
Voto per alzata di mano Maschietto Editore
NY City, 1969
La prima
immagine Dalla ripresa a volo d’uccello della settimana scorsa, quì ci ritroviamo per le strade del Downtown con lo scorcio di un autobus urbano strapieno fino all’inverosimile di persone che, finito l’orario di lavoro si apprestano a rientrare a casa in una delle tante zone periferiche della città. Non so quante volte mi sono chiesto perché non li ho seguiti fino a destinazione. Molto probabilmente solo per pigrizia o per non urtare la suscettibilità delle persone che all’epoca mi ospitavano e mi aspettavano per la cena. Sono certo di essermi perso alcune situazioni interessanti, ma a questo punto credo sia inutile piangere sul latte versato.
dall’archivio di Maurizio Berlincioni
Numero
24 febbraio 2018
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Riunione di famiglia Sgarbi ortolano Le Sorelle Marx
L’eterogenesi dei fini o dello spot del PD Lo Zio di Trotzky
Il Vangelo del Pd I Cugini Engels
In questo numero Sulla razza 1 di Ugo Caffaz
Suoni proibiti di Alessandro Michelucci
Sulla razza 2 di Gabriele Valle
Mappe di percezione: San Francisco di Andrea Ponsi
Emozioni attraverso il Colore di Letizia Magnolfi
Fotografia e quanti di Danilo Cecchi
Refoli azzurri di Susanna Cressati
Luci e ombre di una critica appassionata all’art system di Paolo Marini
Il misterioso moto delle cose di Sandra Salvato
Racconto di una camerista di M.Cristina François
L’orizzonte del leggere di Gabriella Fiori
Gonfienti e la via etrusca del ferro di Gianfranco Bracci
Ascoltando la Recherche di Cristina Pucci
La legge di indeterminazione di Heisenberg e altre stranezze di Gianni Bechelli
e Remo Fattorini, Simone Siliani, Claudio Cosma...
Direttore Simone Siliani
Illustrazione di Lido Contemori
Redazione Progetto Grafico Mariangela Arnavas, Gianni Biagi, Sara Chiarello, Emiliano Bacci Susanna Cressati, Carlo Cuppini, Remo Fattorini, Aldo Frangioni, Francesca Merz, Michele Morrocchi, Sara Nocentini, Sandra Salvato, Barbara Setti
Editore Maschietto Editore via del Rosso Fiorentino, 2/D - 50142 Firenze tel/fax +39 055 701111
Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012
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di Ugo Caffaz Sono trascorsi quasi 80 anni dalla promulgazione delle cosiddette Leggi razziali, meglio sarebbe chiamarle leggi razziste. Il 5 Settembre 1938, infatti, Vittorio Emanuele III, sì proprio lui, firmò a San Rossore, provincia di Pisa, dove era in vacanza, il primo decreto contro gli ebrei, quello che espelleva studenti e insegnanti da “tutte le scuole del regno”. L’anno precedente un altro decreto vietava agli italiani di contrarre rapporti “indole coniugale con sudditi delle colonie. Una sorta di prova generale per la difesa della razza italiana. Nel Luglio il Giornale d’Italia pubblicava un Manifesto degli scienziati razzisti ,intitolato il Fascismo e il problema della razza. Anche la neonata rivista La difesa della Razza nell’Agosto pubblicava questo incredibile testo nel quale si affermava che esisteva una razza italiana e che gli Ebrei non vi appartenevano. Il direttore era tal Telesio Interlandi (successivamente il Segretario fu Giorgio Almirante). Sempre in Agosto fu indetto un censimento per mettere la dicitura sui documenti degli ebrei la loro appartenenza razziale. Ancora oggi negli estratti di nascita , giustamente dico io perché bene mantenere le “tracce”, compare tale scritta. Il 6 Ottobre il Gran Consiglio approvava una Dichiarazione sulla Razza, chiudendo così il cerchio. Successivamente la legislazione proseguì con l’espulsione degli Ebrei dal mondo del lavoro, dalle professioni .Nasceva così una sorta di apartheid che dal Settembre 1943 avrebbe favorito la loro deportazione. Gli ebrei in Italia erano allora 46.656 (37241 italiani e 9415 stranieri residenti) ,l’un per mille degli italiani. Vale la pena di segnalare che furono ritirate anche le licenze ai numerosi venditori ambulanti (sic) e fu persino proibito di allevare piccioni viaggiatori! In buona sostanza si voleva mettere in ginocchio questa minoranza per trovare un capro espiatorio su cui scaricare l’origine delle difficoltà che stava trovando il regime soprattutto nei confronti dei giovani : le cose vanno male? La colpa è degli ebrei la cui organizzazione internazionale, il complotto demo- pluto-giudaico-massonico ha come obbiettivo il possesso del mondo. Ho ricordato brevemente quel periodo incredibile per rispondere a coloro che oggi difendono il Fascismo con l’eccezione delle leggi razziali, come se queste fossero state estranee al percorso intrapreso da Mussolini il quale, come dimostra bene Giorgio
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Sulla razza Fabre nel suo Mussolini razzista (2005), non si improvvisò, appunto, razzista ma lo era fin dal 1919. E questa ricostruzione vale anche per chi sostiene ancora oggi che le Leggi Razziali furono approvate su ordine di Hitler. Furono invece organiche al processo anche in Italia di costruzione dell’uomo nuovo, in questo caso dell’appartenente alla razza italiana. Un po’ come ha sentenziato il candidato del centrodestra alla Regione Lombardia Attilio Fontana . Quindi ci sono ragioni molto attuali. Alcune forze politiche cercano di minimizzare i movimenti neofascisti dicendo che i paragoni non hanno senso o che combattere i gruppi organizzati rischia di favorirne l’espansione ecc. Quello che non si vuol vedere è il ripetersi dei meccanismi che conducono gli esseri umani a scegliere vie diverse dalla ragione a favore di soluzio-
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ni non democratiche e di egoismi suicidi. L’economia che va male, la debolezza della politica, la ricerca appunto di un colpevole, meglio se non riconoscibile fisicamente, a cui attribuire i motivi della crisi e quindi la ricerca di un capo, di un leader che risolva tutto eliminando i colpevoli che magari ha inventato proprio lui. Si dice anche da fonti autorevoli che non si possono fare paragoni con quel terribile passato, però i bambini figli di immigrati emarginati nelle scuole o che non possono giocare nei campionati di calcio richiamano in qualche modo alla mente i ragazzi ebrei respinti il primo giorno di scuola grazie al decreto sopra richiamato. Così come quando si legge, sempre con minor attenzione, quindi voltando la faccia dall’altra parte, dei bambini che con i loro corpi riempiono il Mar Mediterraneo non può non venire in mente il
colpevole silenzio della popolazione polacca di fronte alla realtà delle camere a gas e dei forni crematori dove appunto finivano i bambini a centinaia di migliaia al loro arrivo ad Aushwitz ,con buona pace del Governo polacco che in questi giorni definisce con legge che non si può parlare di campi di sterminio polacchi. Forse è bene ricordare ai governanti di quel paese che gli ebrei polacchi da tre milioni si ridussero a trentamila e che alcuni scampati dal lager furono assassinati dalla popolazione. Certo che il paragone è ingiusto e impossibile, ma sapere come si comincia, la discriminazione razziale, rende più facile capire cosa avviene nel mondo anche in quello cosiddetto civile. Certo le dimensioni non sono confrontabili, ma sapere che nel 2050 ci saranno duecentocinquanta milioni di emigranti per ragioni climatiche fa capi-
re quale problema ci troveremo di fronte. E questi come saranno considerati nella distinzione della destra: accettabili o no? La Sinistra sa come comportarsi e come affrontare il problema? Perchè la distinzione deve essere riconoscibile se vogliamo che nel mondo, e quindi anche in Italia, ci sia giustizia come ci ricorda la nostra Costituzione. Ma torniamo a quello che successe nel passato alla minoranza ebraica che risiedeva in Italia dal tempo dei Romani, che aveva subito i ghetti, l’ultimo dei quali fu quello della Roma papalina aperto solo nel 1870, e che per anni era stata oppressa e discriminata dal razzismo fascista, censita per essere meglio identificata. Circa 8000 persone furono deportate, il 90% non fece ritorno a casa. E’ vero che molti si salvarono grazie a quelli che oggi chiamiamo Giusti che furono pochi ma tanti, però questo non
può comunque consentire l’appellativo di Italiani “brava gente”. Ci furono coloro che invece collaborarono volentieri alla deportazione. Infatti almeno il settanta percento di questi poveri innocenti furono spinti sui terni della morte da mani italiane. E poi ci fu la maggioranza “silenziosa” che voltò la faccia dall’altra parte. Questo avviene anche oggi. Allora fu tutto in nome della razza. Ma anche oggi magari senza confessarlo molti pensano la stessa cosa, magari combattendo l’intolleranza per pulirsi la coscienza, anche se però è indubbiamente un passo avanti. Ma bisogna ricordare che anche la tolleranza stabilisce comunque un rapporto gerarchico fra il tollerante e il tollerato considerandolo quindi in qualche modo inferiore. Le razze non esistono, ma i razzisti sì, diceva Rita Levi Montalcini. Ma la storia non insegna mai nulla?
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di Gabriele Valle «Non esistono le razze», si dice spesso. Quelli che lo affermano, per precisare il loro pensiero, aggiungono di solito che «l’unica razza è quella umana». Sembra opportuno riflettere sull’argomento, che da qualche tempo ormai imprime acrimonia nel dibattito pubblico. Ciò che sosterremo qui è che intorno alla razza c’è una temibile confusione. La voce razza è attestata da oltre sette secoli. Si presume che derivi dall’antico francese haraz ‘allevamento di cavalli’, secondo la nota ipotesi avanzata, nel 1959, da un distinto filologo piemontese, Gianfranco Contini. Razza fa parte del lessico d’esportazione della lingua italiana: la voce ha seguìto un itinerario che ha condotto i suoi passi verso altre lingue occidentali, dando luogo al francese race, all’inglese race, al tedesco Rasse, allo spagnolo raza, al portoghese raça. Nella Genealogia della morale, Nietzsche, disquisendo sulle nozioni legate alla voce pena, avvertiva che essa, nel tempo, aveva sviluppato una varietà di accezioni che differivano l’una dall’altra talvolta in modo sottile. Concludeva il filosofo tedesco che «definibile è soltanto ciò che non ha storia». Ciò vuol dire che qualunque parola, per volere della comunità che la adopera, può rendersi feconda mediante una ramificazione imprevedibile di sensi, non sempre limitati allo stesso ambito. Le parole più usate, si sa, acquisiscono fisiologicamente sensi nuovi, il che rende interminabile il compito di delimitare la loro estensione. Razza ne è un esempio in quanto ha originato una serie di accezioni. Una cosa analoga è accaduta nelle lingue in cui il prestito lessicale ha gettato radici. Vediamo l’albero semantico dell’inglese race, in cui troveremo notevoli affinità con razza. Stando al Dizionario di Oxford in linea race è «ognuna delle grandi classi in cui è suddivisa l’umanità, contrassegnate da tratti fisici distintivi». Questa nozione è presente, in modo letterale o figurato, nelle accezioni derivate. Confrontiamole. Prima accezione: «il fatto di appartenere a un gruppo razziale; le qualità e le caratteristiche a esso associate» (es: le persone di razza mista vengono escluse dalla società e affrontano pregiudizi da un lato e dall’altro). Seconda: «gruppo di persone che condividono la stessa cultura, storia, lingua, eccetera; gruppo etnico» (es: può darsi che noi scozzesi siamo belli ma, in quanto razza, non siamo rinomati per la nostra statura). Terza: «insieme di persone o di cose aventi tratti comuni» (es: le classi alte credono di essere una razza a parte). Quarta: «(biologia) popolazione all’interno di una specie che si distingue in qualche modo,
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Sulla razza specialmente una sottospecie» (es: una accettata filogenesi considera Rheidae come una famiglia, con due specie e svariate razze). Quinta: «(uso non tecnico) ognuna delle classi maggiori degli esseri viventi» (es: un membro della razza umana; la razza degli uccelli). Sesta: «(letterario) gruppo umano che discende da antenati comuni» (es: un principe della razza di Salomone). Settima: «(arcaico) antenati». La chiarezza degli esempi riportati dai lessicografi oxoniensi mette in luce una varietà di sensi sorti nei secoli. Un fenomeno analogo si è riprodotto in altre lingue. Guidati dal nostro scopo, concentriamoci ora su uno di quei sensi. Nel Settecento, per esempio, una determinata concezione della specie umana permeava diverse lingue: alcuni naturalisti europei sostenevano che la nostra specie è composta da una pluralità di sottospecie contraddistinte da un grado disuguale di evoluzione, ordinate in una scala intermedia tra la scimmia e il Sapiens più evoluto. Quando, in questo contesto, ciascuno di essi, nella propria lingua, diceva razza, intendeva ‘sottospecie’. Tra gli studiosi che avallavano questa tesi si annoveravano il francese Jean-Baptiste Robinet, l’olandese Petrus Camper e lo svizzero Johann Lavater. Della fortuna di questa tesi dava testimonianza un loro contemporaneo, il filosofo Voltaire, che,
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sposandola, affermava il legame tra intelligenza e colore della pelle. Egli annotava impassibile, nel Saggio sui costumi, che l’intelligenza dei neri è inferiore. L’idea secondo la quale esistono sottospecie umane differenziate da una disparità evolutiva ha offerto un fertile terreno di coltura alle ideologie che, da allora innanzi, hanno preteso di giustificare la dominazione di un gruppo su un altro. Ne hanno tratto vantaggio coloro che hanno perpetrato le più atroci iniquità in nome di una convinzione, quella della «superiorità di una razza» sulle altre. Ma, a dir la verità, tale convinzione si è sempre insinuata tra gli uomini, nella storia e nella preistoria, migliaia di anni prima che fosse innalzato lo stendardo del naturalismo razzista. I tempi sono cambiati però. Ogni tentativo di classificazione razziale tra gli esseri umani è estraneo alla biologia moderna, per la quale non ci sono sottospecie umane. La scienza odierna ha quindi dissipato un mito che era stato fonte di confusione e che aveva alimentato politiche discriminatorie, segnatamente nel secolo XX. Ciò nondimeno il contributo degli scienziati, seppure illuminante e decisivo, non ha esaurito la questione della razza. La policromia di una tela non svanisce quando scompare uno dei suoi colori. Dal fatto che non ci sono sottospecie umane,
si può forse trarre la conclusione che non ci siano razze umane? No di certo. Il fatto che non esistano razze umane, intese come sottospecie, non permette di concludere che le razze non esistano sic et simpliciter. La risposta all’interrogativo dipende da ciò che intendiamo con il termine e, come si accennava prima, razza ha una molteplicità di sensi. Il discorso scientifico intorno alla razza non scalfisce affatto la legittimità dell’uso abituale del vocabolo. Il lessico della scienza prende sovente le mosse dal patrimonio corrente, ma nel contempo se ne discosta attraverso un lavoro di ridefinizione terminologica. Così forza, in fisica, ha un senso specifico che solo in parte coincide con quello, consueto, di ‘potenza muscolare’. Notazione, analogamente, ha un senso specifico in chimica; valore ne ha uno in economia; mediatore in antropologia; intelligenza in informatica. Anche la giurisprudenza opera in modo simile. In effetti, in ambito legale, il termine omicidio, per esempio, possiede un senso che non collima pienamente con quello dominante. Razza, nell’accezione più familiare del termine, è ‘serie di persone accomunate da tratti somatici comuni ed ereditari’. Dato che razza si è radicato nella lingua con questo significato, e considerato che, come sosteneva Orazio, l’uso è l’arbitro inappellabile della lingua, non
resta che riconoscere diritto di cittadinanza a un impiego sancito dalla massa parlante. E poiché razza, in senso comune, non in senso scientifico, ha il senso che ha, le voci che derivano da razza, come razziale, razzismo, razzista, tutte nate nel Novecento, rinviano inequivocabilmente a questo preciso concetto generale. Ecco perché si parla di odio razziale, di segregazione razziale, di crimine razziale, eccetera. Se la voce razza avesse solo il senso che la genetica le conferisce, allora tutte queste espressioni sarebbero assurde. Si sa che la voce razza, a causa della sua fosca storia, una storia punteggiata di discordia, disprezzo e malvagità, ha una cattiva reputazione. Perciò, per non fomentare ignobili sentimenti che possano generare ostilità, la società che ha subìto il flagello del razzismo tende a scagliare l’anatema contro l’uso della parola razza. In Italia c’è in atto una vigorosa campagna per bandire razza dall’espressione orale sorvegliata e dai testi ufficiali. A favore di questa campagna si sono schierati perfino alcuni illustri studiosi, che ripetono attraverso i media che non ci sono razze. Consapevoli della perturbante carica emotiva del vocabolo in questione, essi propongono di sostituirlo a vantaggio di altri termini, come etnia. Ma si sbagliano, perché razza rimanda, nella mag-
gior parte dei casi, al senso ordinario cui ci si è riferiti. Già nel primo decennio del Novecento Ferdinand de Saussure, uno dei padri della linguistica moderna, diceva che le differenze di razza tra due popoli non implicano differenze di lingua; le differenze di etnia, sì. Infatti la razza designa i tratti somatici degli individui; l’etnia, la loro appartenenza linguistica e culturale. Bisogna lodare senza riserve ogni tentativo di instaurare la fraternità tra gli uomini. Un modo di farlo è ripudiando gli atteggiamenti razzisti che spuntano nella società. Ma respingere, a tal fine, la realtà semantica della lingua non è segno di saggezza. È opinione comune tra gli psicoanalisti che ci siano diverse maniere di negare la realtà. La negazione pertinace è quella che cancella attivamente la percezione di una cosa che giace sotto gli occhi del negatore e ne turba l’equilibrio psichico. La negazione pertinace, in tutte le sue declinazioni, esibisce lo stesso tratto caratteristico: riconduce a una visione del mondo consona ai bisogni interni del soggetto. Ci si augura che il rifiuto del razzismo prenda piede nei cuori di tutti, ma non è auspicabile impetrare la vittoria attraverso una visione ingannevole dei fatti, linguistici in questo caso, percepiti come una minaccia alla nostra pace, interna ed esterna.
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Le Sorelle Marx
Sgarbi ortolano
Come i nostri più affezionati lettori ben sanno, noi abbiamo una stima sconfinata in Vittorio Sgarbi, che consideriamo da sempre raffinato uomo di coltura e, nonostante il nome, garbato gentiluomo, nonché fine conoscitore di cose di cielo e terra. Per questo abbiamo spesso scritto di lui su queste pagine per difenderlo da prodi-tori e provoca-tori attacchi alla di lui persona. Ma l’ultimo di questi è davvero assurdo: è stato accusato ad Alessandria di omofobia per aver espresso un giudizio estetico sul ponte di Richard Meier. Quando Vittorio ha detto che “Passeggiando lì sopra si diventa finocchi”, faceva – in tutta evidenza – riferimento agli ortaggi, non alle tendenze sessuali.
I Cugini Engels
Il Vangelo del Pd
Non è vero che la campagna elettorale italiana abbia toni troppo accesi e pochi riferimenti etici. E’ vero esattamente il contrario. Vorremmo dire che invece i riferimenti evangelici spiccano su tutti. Berlusconi, prima di tutto, si è riferito direttamente al Vangelo di Matteo: «Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi, e io vi darò riposo! ... il mio giogo è dolce e il mio carico è leggero”. Così, il Cavaliere parlando ai candidati grillini scomunicati da Papa Luigino I, spiegando che, una volta eletti, potrebbero tranquillamente traslocare verso Forza Italia dato che “saremmo molto convenienti per loro perché potrebbero incassare l’indennità parlamentare nella sua totalità”. Ma la palma del più evangelico la vince senz’altro il leader del Pd, Matteo Renzi. Più volte, infatti, il Vangelo di Matteo nel narrare la vita del Nazzareno richiama la virtù della coerenza, soprattutto stigmatizzando l’incoerenza degli scribi e dei farisei. E ai suoi discepoli insegna: “Sia invece il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno. (Mt
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Per rendersene conto basta ammirare lo skyline del ponte e chiunque può constatare l’assoluta somiglianza con il bianco ortaggio così gustoso in pinzimonio! Solo così si capisce la profondità del pensiero sgarbiano: “Sul ponte improvvisamente senti questa frescura che ti prende”: Pensate alla fresca e croccante insalata di finocchio; oppure alla rinfrescante e digestiva tisana di Foeniculum vulgare: ecco la sensazione di leggerezza di cui parlava Vittorio. Certo, è pure vero che alcuni suoi giudizi sull’opera di Meier potevano indurre nell’equivoco; tipo la considerazione sul sindaco che “...andrebbe arrestato a posteriori per aver distrutto il ponte per quella cagata che ha fatto quel
ladro di Meier”. Ma tutto dipende dal fatto che Sgarbi era afflitto da pesantezza di stomaco, non avendo ancora potuto beneficiare delle proprietà digestive, appunto, del finocchio. Infatti, anche così si spiegano le frasi non molto carine contro Cecilia Strada: “La figlia di Gino Strada può stare tranquilla: non troverà fascista che voglia fare sesso con lei, e tanto meno riprodursi in lei...”. Dopo l’infuso di finocchio sarebbe stato più tranquillo e rilassato.
Lo Zio di Trotzky L’eterogenesi dei fini o dello spot del PD
5, 17-37). E, infatti, Renzi nel 2012: “Ho un grande rispetto per un bolognese doc, ma a me di fare un accordo con Pierferdinando Casini non me ne frega nulla, non mi interessa. Ma che senso ha dire ‘abbiamo Casini perché almeno prende il voto dei moderati”. E nel 2018: “Casini è il candidato della coalizione, che mette insieme Casini con Bonino”. Sì sì, no no; via, stai bonino Matteo, sennò si fanno casini!
Lo spot è fatto bene. Ben scritto, recitato, punta sulle cose fatte, dà il senso di un’azione di governo che si è dispiegata per tanti, per tante categorie. Stiamo parlando dello spot elettorale del PD naturalmente. Quello della famiglia in auto, padre, madre e due figli, col marito che dichiara di non votare PD mentre gli altri famigliari gli rispondono con le varie iniziative che, nella legislatura, il governo a guida PD ha portato a compimento. Un bello spot elettorale, aldilà del giudizio che si può/vuole dare del PD e delle singole azioni di governo. Lo spot finisce col padre che si trova al finestrino aperto Renzi in bicicletta che gli chiede di pensarci. Ecco il finale, come ci insegna la psicologia da qualche decennio, svela l’inconscio e nel mostrare Renzi ricorda all’elettore larga parte dei motivi per cui, nonostante tutto, non voterà PD.
Nel migliore dei Lidi possibili disegno di Lido Contemori didascalia di Aldo Frangioni
Molestie verbali
Segnali di fumo di Remo Fattorini In viaggio nella “colonia” toscana in terra romagnola. Da tempo ero curioso di fare la conoscenza con questa isola nel cuore di un Appennino fuori mano, sconosciuto e abbandonato. Per raggiungere Ca’ Raffaello, la frazione più abitata di questa enclave, si scavalca il passo della Consuma, si percorre tutto il Casentino giù fino a Chiusi della Verna, poi si prosegue per vari saliscendi boscosi e disabitati fino a Pieve Santo Stefano. Da lì si risale lungo una strada tortuosa e poco trafficata fino al passo di Viamaggio, poco più di mille metri. Un luogo
magico dove l’unica compagnia è il silenzio e la solitudine. Poi si scende fino a Badia Prataglia, ultimo comune in terra di Toscana, al confine con Marche e Romagna. Lì si imbocca la strada della Valmarecchia e dopo pochi chilometri si sconfina in provincia di Rimini. Ancora qualche curva e si incontrano i primi agglomerati romagnoli: Gattara e Molino di Bascio. E poi, dopo altri 5-6 chilometri si entra nell’enclave Toscana, un’isola di 15 km quadrati in cui vivono 250 anime tra le frazioni di Ca’ Raffaello, Santa Sofia e Cicognaia, nel comune di Badia Petraglia, in provincia di Arezzo. E’ un pezzo di Toscana un po’ bastardo, dove si parla un accento romagnolo e con un pendolarismo tutto verso l’Adriatico, per la scuola, per gli acquisti, per la sanità, per il tempo libero e persino per le pratiche religiose. Del resto Rimini dista solo 45 km, mentre per raggiungere Arezzo ne devi percorrere almeno 75. Nonostante i segni evidenti di questo isolamento - spopolamento, carenza di servizi,
assenza di attività produttive e commerciali - Ca’ Raffaello è, e resta, stabilmente in Toscana. Proseguendo lungo la Valmarecchia si ritorna, questa volta in modo stabile, in Romagna ed è subito tutt’altra musica: moderni insediamenti produttivi, luoghi di ritrovo, negozi, trattorie, chiese, musei, ecc. Così è fin da Ponte Messa, il primo nucleo abitato dopo il confine regionale. Da lì con una breve deviazione in salita si entra nel borgo di Pennabilli. Qui il “divertimentificio” romagnolo non è ancora arrivato, ma in compenso si sono inventati il santuario dei pensieri, le strade delle meridiane, il museo del calcolo, l’orto dei frutti dimenticati e i luoghi dell’anima. Del resto a Pennabilli è nato Padre Orazio Olivieri e sempre qui è vissuto Tonino Guerra. Due personaggi che hanno segnato in profondità l’identità di questo piccolo e suggestivo borgo. Un breve soggiorno ricompensa ampiamente le fatiche del viaggio.
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Emozioni attraverso il colore di Letizia Magnolfi Il pratese Marco Visconti rivela le sue opere a Prato. E lo fa in un piccolo winebar della cittadina toscana, il Wired di via Pugliesi, dal 21 febbraio al 4 marzo. Classe ’82, laureato in Lettere e Filosofia, Marco lavora come ufficiale di navigazione su yatch a vela e motore. Autodidatta sin da quando era piccolo, la Natura e il Mare sono le sue principali passioni, fonte da cui ha tratto, e trae, ispirazione per la pittura. Scopriamo in questa intervista quello che si cela dietro le sue opere. Ciao Marco, parlaci un po’ di questa mostra: è la prima volta che esponi? A che epoca risalgono i tuoi dipinti? Sono passati ormai molti anni da quando le mie opere sono uscite dalle mura domestiche per la prima volta: erano gli anni dell’Università; dal 2001 al 2006 in collaborazione con “Associazione Arteriosa” ho prestato i dipinti per un paio di mostre collettive. Ultimamente ho ricominciato a disegnare, quindi ho colto l’occasione per dar un po’ di visibilità ai miei lavori. Le opere risalgono ai primi anni del 2000, mentre l’ultimo dipinto è di circa un mese fa. Cos’è per te dipingere? Un dipinto è un’immagine mai troppo nitida “trasportata” dal Non Reale al Reale; è
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un modo per esorcizzare le proprie fantasie, ancor di più se si tratta di opere astratte. Il mio è un gioco continuo tra l’improvvisazione e lo studio finalizzato a un risultato finale. Spesso il dipinto in molte parti si fa sa sé; per altri versi viene “costretto” in certe forme e in certe sfumature di colore. Emotivamente mi sento sospeso tra la Ragione che ricerca un determinato effetto pittorico e la parte più irrazionale, sulla quale il colore esercita il suo Potere. È il colore stesso che diventa emozione, rifuggendo dalle forme definite che esistono solo negli occhi di chi non vuole vedere oltre la letargia del quotidiano. I miei dipinti sono cangianti, liquidi, fluidi, prendono vita in chi li osserva. Parlaci della tecnica o delle tecniche che usi. Ho disegnato a carboncino, pennarello, tempera, olio, acrilico, smalto. Poi nello smalto ho spesso inserito foglie, pigmento, gesso, oggetti. Non importa quale tecnica è utilizzata, l’importante è l’equilibrio tra le aspettative prima di iniziare l’opera, e la soddisfazione nell’osservare il lavoro finito. Lo scopo è sempre di suscitare emozioni, nel mio caso il principale veicolo, come detto prima, è il colore. Per questo motivo preferisco utilizzare lo smalto, sia lucido che satinato, perché è il mezzo più luminoso di qualsiasi altro tipo di pittura. Definirei i tuoi dipinti tendenti all’astratti-
smo, con un occhio al materico e al figurativo… Anche se la maggior parte dei miei dipinti può definirsi di genere astratto, lo studio e l’effetto finale delle mie opere è incentrato su quella che io chiamo “ossatura”, delle linee guida in rilievo, una struttura, una colonna vertebrale, su cui il colore dato a varie mescole e più o meno diluito determina i vari strati emotivi. Le mie creazioni, scevre da ogni tipo di esercizio accademico, sono stratificazioni di smalti e pigmenti e oggetti più disparati, i quali creano pieni e vuoti nel senso di una tridimensionalità e una prospettiva astratta. Da cosa o chi trai ispirazione? Ciò che amo nel dipingere è la carica espressiva del colore, la sua estrema versatilità e la ricerca della plasticità e del senso del movimento. Per questo i miei riferimenti non possono che essere gli espressionisti più originali, da Schiele a Klee con un occhio verso i Fauves, e i più contemporanei come Pollock, Richter e Klein. Il mio vero tema ricorrente è l’acqua, il Mare nella sua mutevole Forma, mai uguale a se stessa. Progetti imminenti? Quando non sono imbarcato mi ritaglio il tempo per dipingere; sto iniziando ad utilizzare altri materiali come le resine, utilizzate nel mio lavoro sulle barche, riportate su tavola insieme agli smalti.
di Sandra Salvato Prosa e poesia. Ci muoviamo in una lingua che a sua volta si muove a vari livelli, formosintattici e di stile, e nell’ibridazione dei due generi ha visto farsi grande il Novecento letterario. Ricorrere ad un registro espressivo oppure ad un altro dipende da quello che vogliamo dire, ma soprattutto dal come, poiché nella più ampia libertà di scelta è possibile rivendicare quella di tornare a dialogare con gli autori del passato, utilizzare una lingua alta, pregna di senso e intrisa di lirismo. La lingua contemporanea non è certo un trono dal quale possiamo abdicare, è nel nostro quotidiano. Vi è, tuttavia, chi ha un’innata predisposizione alla lettura dei classici, ne apprezza il suono – la parola è suono – ed il percorso. Tra questi Giancarlo Pontiggia è certamente il poeta che più e meglio di altri si nutre di modelli destinati oramai al confino scolastico, e solo per la via di pochi eletti trovano il modo di armonizzarsi con la nostra realtà. Il risultato è uno scrigno di versi che si formano nel linguaggio corrente e nell’eleganza dei grandi poeti del passato. Nel suo ultimo libro, Il moto delle cose, uscito per la collana Lo Specchio di Mondadori e presentato alla libreria Feltrinelli di Firenze, l’autore convoca due grandi tradizioni, la poesia cosmologica classica di Lucrezio e quella cosmologica cristiana di Dante per derivarne non una verità o una prova scientifica, quanto per restituire il mondo nella sua perenne incertezza, nella illusorietà, caducità delle cose che si offre come contraltare alla nascita e dunque alla certezza delle stesse. Nota il filosofo Sergio Givone, che il poeta milanese le accompagna amorevolmente nel loro perdersi, senza necessità di restituirle al valore nominale come avrebbe voluto Rilke, le lascia “incavediarsi” per dire “a morire”, a chiudersi nel “cavedio”, luogo d’ombra e di paura. A spingere Pontiggia ad interrogarsi sul senso di questo perenne deflagrarsi degli eventi, un paradosso dei nostri tempi: nella società scientificamente avanzata, fede e dottrina epicurea, da cui le poetiche dantesca e lucreziana, non paiono più sufficienti a definire il mondo. Una visione alimentata sui libri di astrofisica che l’autore rivela, sono quelli del diletto fin dall’età dell’adolescenza e che oggi offrono un’ulteriore scintilla di riflessione. Più si conoscono le leggi che regolano il cosmo più questo si allontana da noi, sembra
imprendibile. E la poesia, che ha bisogno di certezze, non può fare affidamento su modelli che nel momento in cui vengono definiti sono già diventati altro. Così, lo spazio di felicità su cui è seduto il poeta, la casa giardino del primo libro Con parole remote, quel giardino di pensieri e di aranci, all’improvviso scricchia portando con sé un senso di inquietudine e dando inizio allo smarrimento – arco, stame/ sfinge. Da qui ha origine il libro, un libro colto, di rara sapienza, che sulla scia della catàbasi classica - ad esempio di Ulisse che scende nell’Ade e incontra la madre Anticlea, di Dante con Virgilio, per arrivare a toccare tradizioni poetiche novecentesche – sceglie il dialogo con una figura trapassata come appuntamento con la verità. Ma in Pontiggia, l’archetipo narrativo non serve in realtà alla rivelazione del destino. L’ombra di donna che fa la sua comparsa fin dalle prime pagine, chiede, non dice, e lo fa con violenza, senza alcun affetto. Ma lei: “di’ tu, piuttosto, di’/qualcosa che valga/ per me, per noi, che guardiamo ... di’, se sai, qualcosa che valga la pena, continua stridendo come una stupida/ ferraglia/ e fa cenno...a qualcosa che si cela, s’infima/in brividi, in onde/di niente, di poco”. Una domanda sofferta, dal valore esistenziale, che scorre sul binario dei sentimenti, spiega la poetessa Sonia Gentili, e nel prosieguo del testo vede brillare due sole certezze, “lo strazio elegiaco della perdita e il tormento della visione che tutto trasforma e deforma”. La poesia è il frutto di quello che si è vissuto e di molte letture, dice Giancarlo Pontiggia. Arriva non al termine ma durante il percorso di indagine, verso la conoscenza di sé e del cosmo che ci ospita per un certo lasso di tempo. Nelle sue pieghe, nel perenne moto delle cose, si tesse la grande avventura dell’esistenza.
Il misterioso moto delle cose 11 24 FEBBRAIO 2018
di Susanna Cressati Che a Trieste tiri la bora lo sanno anche i bambini. Ma quello che non sanno, e forse neanche si immaginavano gli studenti invitati dal Gabinetto Viusseux alla lezione di Federica Manzon su Umberto Saba, è che in altri tempi e letterariamente parlando, sulla “città di carta” (Claudio Magris) ha soffiato un altro vento, altrettanto impetuoso: il vento dell’est. Un’aria che su questa città cosmopolita affacciata sul mare arrivava direttamente dall’altra parte della “cortina di ferro”, dalle steppe russe. Aria che sapeva di ghiaccio, di bagliori azzurri rilessi sull’acqua di un grande fiume, dello spaesamento di grandi spazi urbani, del biancore di architetture neoclassiche. Gemella di Trieste – secondo Manzon - era ed è infatti San Pietroburgo, all’inizio del secolo scorso epicentro, come la capitale giulioveneta, di una vera e propria rivoluzione culturale. Trieste e San Pietroburgo azzure e limpide, come un’acqua attraverso cui è possibile scorgere l’ombra degli abissi, pervase entrambe da una luce indicibile, che fa riacquistare chiarezza a cose e parole. La brava scrittrice pordenonese si è spinta fino a un altro parallelismo: quello tra Umberto Saba e Sergéj Aleksándrovič Esénin. Le loro biografie (ha detto, ma con una certa forzatura) sono molto simili: la stessa infanzia tutto sommato felice, nonostante la lontananza dei genitori, e idealizzata; il continuo peregrinare lontano dalla terra natia tanto amata: per Saba il “ragazzaccio aspro e vorace con gli occhi azzurri”, per Esénin la “mite contrada” i “solchi diletti...belli nella tristezza”. L’amore per le donne, l’amore omosessuale, la compulsività del bere, il disagio psichico. Entrambi poeti più che solitari, anarchici, selvaggi, non voci di popolo o di idee, giocolieri di parole semplici, qualunque. Costretti a un continuo peregrinare, a una vita nomade che sempre li ha spinti verso un “altrove”. Trieste, crocicchio (non crogiuolo) di identità senza mescolanza, fu per Saba la città che si deve lasciare per diventare se stessi e nello stesso tempo la sola capace di esprimere una verità. Non Firenze, “morta e corrotta dai forestieri” e dove pure prosperava la comunità letteraria; non Milano, abitata da “persone spente” e dove “non è possibile sognare felicemente”, ma Trieste e solo Trieste. Che pure respinse Saba, lo sottovalutò. Nella città dove il più ignorante parlava quattro lingue, il poeta scrisse in un
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Refoli italiano aulico perchè ancora potente, colmo di significato, non ancora usurato. Una lingua contemporanea e trasparente, che rivela ancora oggi, come l’acqua più limpida, l’angoscia e le contraddizioni dell’uomo, di quel “povero diavolo spaventato” che Saba diceva di essere. P.S. Dalle lezioni del ciclo “Scrittori raccontano scrittori” si esce molto spesso con piacevoli suggestioni relative non soltanto agli autori affrontati. Per esempio il citato Esénin. Come accade, tornata a casa, sono andata allo scaffale della libreria e ho tirato fuori una antologia di poeti russi. Scartabellando tra i versi dello sfrenato marito di Isadora Duncan mi sono imbattuta nella ballata “Confessioni di un malandrino” e li ho riconosciuti subito come quelli messi in musica nel 1975 da un giovane Angelo Branduardi. Ne fece, il cantautore italiano, una memorabile versione nel 1979, a un concerto in onore di Demetrio Stratos. Da riascoltare.
azzurri
DISTACCO
Muta il destino lentamente, a un’ora precipita. Per lui dovrò lasciarti, mia città così aspra e maliosa, dove in fondo a una bigia via è il celeste mare. La tua scontrosa grazia saluterò, già vecchi amici e pietre bacerò – cuore fedele -; come piange il fanciullo sopra il seno amaro, a distaccarsene per sempre.
Musica
Maestro
Suoni proibiti
di Alessandro Michelucci La censura è una piaga che ha segnato la storia ovunque. Non è un fenomeno limitato al passato né ai paesi governati dalla dittatura o dalla teocrazia islamica. La censura esercitata nei confronti della musica, comunque, ha sempre avuto minore visibilità rispetto a quella che colpiva altre forme espressive, come la letteratura o il cinema. Pensiamo a quello che accadeva nell’Europa occidentale durante la guerra fredda: la limitazione della libertà d’espressione che colpiva scrittori come Aleksandr Solgenitsin e registi come Krzysztof Zanussi era ben nota, ma lo stesso non poteva dirsi di musicisti come Witold Lutoslawki e Sofia Gubaidulina. Negli ultimi tempi la situazione sta ulteriormente peggiorando in seguito all’attenzione sempre più scarsa per i diritti umani: le limitazioni che colpiscono i musicisti sono oggetto di un disinteresse quasi totale. Un antidoto contro questo fenomeno preoccupante è il libro The Oxford Handbook of Music Censorship (Oxford University Press, 2018). Patricia Hall, docente di Teoria musicale alla University of Michigan, ha riunito trenta esperti che hanno scandagliato la materia in termini temporali – dall’ottavo secolo a oggi – e geografici: dall’Unione Sovietica all’Iran, da Taiwan al Sudafrica. Senza risparmiare alcuni paesi “democratici” come Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti. Né Israele, dove le opere di Wagner sono state proibite fino a poco tempo fa per l’antisemitismo del celebre compositore tedesco. Un caso di oscurantismo culturale che alcuni musicisti ebrei, primo fra tutti Daniel Baremboim, hanno contrastato con coraggio e determinazione. Nonostante la mole (oltre 700 pagine) il libro non può esaurire la materia, che potrebbe essere trattata in modo completo soltanto con un’enciclopedia. Sorprende comunque l’assenza della Turchia, un paese che della censura (non solo musicale) ha fatto una pietra angolare fin dall’inizio. La recente condanna all’ergastolo di sei giornalisti conferma che il paese mediorientale continua risolutamente su questa strada.
Il volume si compone di sei parti tematiche, ciascuna delle quali contiene casi di censura indotti da motivazioni specifiche o da particolari contesti politici: dittature, governi transitori, razza, religione, sesso, etc. Particolarmente interessante la seconda parte, che si concentra su alcune opere teatrali europee censurate in pieno illuminismo: Don Giovanni, Fidelio e Le nozze di Figaro. Nel complesso, un’opera di grande interesse, ma soprattutto un testo che mancava. Un volume che ci stimola ad andare oltre le apparenze, ricordandoci che la malapianta della censura può crescere ovunque.
Foto di
Pasquale Comegna
Corpi di marmo
Museo Hendrix
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di Gianfranco Bracci Quando lessi l’articolo apparso sul Venerdì di Repubblica del 2004 che parlava di “una superstrada etrusca” ritrovata dall’archeologo Michelangelo Zecchini di Lucca (con cui saremmo diventati amici e co-fondatori dell’associazione omonima insieme a Giuseppe Centauro ed altri esperti), sobbalzai sulla sedia e mi si accese subito una lampadina nel cervello: avrei mai potuto ricostruire un’antichissima strada etrusca e renderla fruibile a chi vuole passare le vacanze camminando per più giorni? Un sogno che allora sembrava impossibile. La strada etrusca preparata e glareata, citata dallo storico greco Pseudo Scilace di Carianda nel VI sec. a. C., univa in soli tre giorni, i fiorenti porti di Spina (odierna Comacchio) e di Pisa, bagnati appunto dai due mari etruschi contrapposti. Era importante che questa arteria unisse le due città pede-appenniniche di Gonfienti e Marzabotto, quali punti nodali dell’intero percorso. Gonfienti, di cui non conosciamo il nome etrusco, fu la città principale. Marzabotto, Kainua (“città nuova” in lingua etrusca) non poteva che essere stata costruita che da coloro che già gestivano la “città primigenia”, cioè la stessa Gonfienti di Prato. Con carri e muli vi si conducevano merci di ogni genere, ma era soprattutto il ferro elbano, vero petrolio dell’epoca, ad esserne protagonista. L’isola d’Elba era dunque il nostro punto di partenza, a Marciana Marina fissammo la sede dell’associazione anche per meglio seguire le antiche rotte e studiare i siti etruschi alle pendici del Monte Capanne (fig. 1). Nel 2008/9 provai a studiarne i vari tratti e a percorrerla a ritroso, un po’ in bici e un po’ a piedi, dal porto di Spina a Pisa, perlustrando in particolare il tratto appenninico (Fig. 2). Poi, dopo aver conosciuto Marco Parlanti ed aver fatto con lui mille sopralluoghi “pensando come gli etruschi”, mettemmo a punto il progetto e percorremmo, nel giugno 2010, tutto l’itinerario da mare a mare. Da questo viaggio è nata una guida trekking (“La via etrusca del ferro”, 2011) e dalla nostra fantasia camminante, anche un romanzo (“I segreti della via etrusca”, 2016). Con questi due libri e le tante conferenze e presentazioni che abbiamo tenuto in giro per tutta l’Italia, pensiamo di aver dato un piccolo contributo alla conoscenza di Gonfienti, di una grande civiltà e una cultura che ha innescato quanto dopo di loro c’è stato, compreso il celebrato impero romano che tanto ha attinto dalla civiltà Etrusca. Chi cammina lungo il percorso intrapren-
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Gonfienti e la via etrusca del ferro de un viaggio fra terre fertili, verdi, dolci e ricche di acqua; paesaggi che convinsero i nostri progenitori a farne la loro casa, la loro grande Nazione retta da scambi di cultura e di merci invece che sottomessa ad un unico re e alla forza del suo esercito. Quelle stesse terre che offrivano una grande abbondanza di metalli, dono che permise loro di accumulare ricchezza, saggezza e organizzazione civile. Una vera “federazione” invece
che uno stato centrale, dove le singole città erano autonome ma collaboravano fra loro per gli scopi comuni. Città e villaggi grandi e piccoli su un territorio ben più esteso rispetto al classico e sorpassato concetto geografico ristretto: “fra il Tevere e l’Arno”: una delle più importanti era Gonfienti, o come l’abbiamo chiamata noi nel romanzo: Visenthia, la città principale della Via Etrusca del Ferro.
di Gabriella Fiori “L’alba dei libri-Quando Venezia ha fatto leggere il mondo.” di Alessandro Marzo Magno (Garzanti, gli Elefanti Storia). Su consiglio di Franca Bacchiega poetessa e per la passione dei libri, lo desiderai. Oggi lo vedo essenziale per scoprire la storia del libro che, nato nella Germania di Gutenberg (1452 -1455) crebbe nella prima parte del ‘500 a Venezia, dove “si stampava la metà di tutti i libri pubblicati in Europa”. Primato non solo quantitativo, per la bellezza dei volumi: senza il lavoro di quegli stampatori curato dall’umanista veneziano Pietro Bembo e poi dal “Michelangelo degli editori, Aldo Manuzio” non esisterebbero né il libro come lo conosciamo oggi né la lingua italiana come oggi la parliamo. La studiosa Maria Pertile mi presenta Alessandro Marzo Magno: “Veneziano autentico in equilibrio tra ironia e gentilezza, giornalista vero che trasfonde nei suoi libri profonda curiosità e documentata conoscenza facendosi vivo narratore; di grande simpatia personale nelle giacche pastello su abiti sgargianti e strabilianti cravatte sempre gradevoli e mai sbagliate, simili in certo senso ai suoi libri e viceversa. Mi è guida nella Venezia di mezzo millennio fa che, con Parigi e Napoli, aveva 150.000 abitanti. Dal fontego (magazzino ) dei Tedeschi ai piedi di Rialto a San Marco lungo i negozi delle Mercerie con i loro “tessuti splendidamente tinti di rosso”, pannelli cuoio sbalzati di foglia d’oro per le pareti interne dei palazzi, armi pregiate per ricconi di mezz’Europa e soprattutto decine e decine di botteghe librarie, a San Marco non si arriva mai. La bottega: su un paio di banchi esterni, i frontespizi (e solo quelli per scoraggiare i furti ) di classici latini prevalenti su quelli greci, di Bibbie o commentarii e stampe, vedute di luoghi sognati e figure d’uomini esotici. Libri in lingue remote come una Bibbia boema, un testo in glagolitico, alfabeto dell’antica Croazia, il primo Corano perduto e ritrovato oggi dopo mezzo millennio, e dato che il primo ghetto della storia è nato a Venezia (1516) molti volumi in ebraico. Le botteghe sono spesso anche “officine”, stamperie dei libri in vendita; catalogo sul banco esterno o appeso allo stipite della porta. Ivi il libro nasce in tre risme, 1500 fogli al giorno tirati dal torchio, così chiamato perché simile a quello usato per il vino; la carta, se bianca e liscia , incide il 50% sul costo del libro e il cartaio ne concede una risma (500 fogli) per volta. Costosissimi i caratteri, i punzoni sono opera di orafi (Gutenberg era un orefice): “punzoni in acciaio, matrici in rame, caratteri in piombo, stagno e antimonio”, da appaltare all’esterno. Nel 1540 Claude Garamond francese diviene il fornito-
re di caratteri elaborati su modello di Manuzio per quasi tutte le tipografie europee. I prezzi li decide la fiera di Francoforte. Al torchio 3 persone: compositore (il solo con una certa specializzazione), stampatore e torcoliere. Servi a spasso e studenti al verde sono aspiranti apprendisti ché, pur con un decimo del salario di un compositore hanno 3 anni di vitto e alloggio. Il compositore prende 3 ducati al mese, quanto un indispensabile ingegnere idraulico. Altro costo gravoso viene dal rapido usurarsi dei metalli; enorme il noleggio o l’acquisto di manoscritti per cui librai più ambiziosi assumono letterati di professione e correttori di bozze. Ma quella “vera e propria febbre del libro” è così forte da rischiare (seconda metà del ‘500) i sequestri e le condanne dell’Inquisizione. Nel 1495con una grammatica greca, gli Erotemata di Costantino Lascaris maestro di Pietro Bembo, apre l’officina di Aldo Manuzio (1450?-1515) forse la più importante di “tutta la storia dell’editoria europea” .Di origine laziale, si firma Aldo Romano; di “sensibilità quasi morbosa per l’accuratezza della grammatica e la correttezza della pronun-
L’orizzonte del leggere cia” scrive cinque grammatiche, inventa il punto e virgola, portandolo dal greco al latino al volgare, vi aggiunge apostrofi e accenti, il tondo aldino tuttora in uso e il corsivo (italic in inglese) preferito perché fa risparmiare carta e più simile alla scrittura. Il primo editore attento al contenuto dei manoscritti inventa il piacere di leggere con i suoi tascabili in ottavo. Nel 1501escono in ottavo Virgilio poi Tibullo, Catullo e Properzio che vanno a 3000 copie e poi Petrarca il suo primo libro in volgare che, non solo nella sua edizione arriva a 100.000 copie. Fra i suoi amici Pico della Mirandola ed Erasmo che gli affidò la sua traduzione di Euripide. Fra i suoi acquirenti, Lucrezia Borgia e Leone X. Christie’s Londra, nel 2010, ha venduto una copia del suo Polìfilo, “il più bel libro mai pubblicato” per oltre 356.000 euro.
Da non crederebberci!!! di Sergio Favilli Con l’approssimarsi del 4 marzo, tutte le cancellerie europee sono entrate in fibrillazione per le possibili conseguenze di una netta vittoria del Movimento 5 Stelle : che succederà ??? Che son forse preoccupati per la nostra politica economica e per chi la dirigerà?? No, certo che no, uno straccio di economista in cerca di visibilità lo si trova sempre e quindi un interlocutore minimamente acculturato non mancherà!! Che, forse, i nostri partners europei son preoccupati per la nostra difesa integrata sia nella Nato che in Europa?? Giammai!! Di generali abbiamo sempre abbondato e qualche quattro stellette in pensione pronto a dare i suoi servigi lo troveranno di sicuro, quindi anche da quel lato si potrà star tutti abbastanza tranquilli. Qualche addetto ai lavori è preoccupato per la politica estera, ma anche da questo lato non ci dovrebbe essere nulla da temere, di vecchie feluche l’Italia pullula, ce ne son di tutte le risme, filoamericane, filorusse, filoarabe, insomma una vastissima gamma nella quale poter scegliere!! Qualche
difficoltà maggiore la si potrebbe trovare per il Ministro degli Interni, un ruolo delicato per una persona decisa e navigata; viste le recenti aperture, qualcuno ipotizza la chiamata a sorpresa di Massimo D’Alema per ricoprire gli Interni nel prossimo Governo Di Maio Primo, la persona è decisa e, quanto ad esperienza nautica, non lo batte nessuno!! Per il Ministero della Salute si è fatta già avanti una militante NO VAX, la scelta appare un po’ azzardata anche perché la signora in questione ha il diploma di terza media e risulta essere stata in un recente passato una fervida sostenitrice delle teorie di mago Merlino e della sua Ars Sanitatem. Ma, allora, da dove deriva questo frenetico allarmismo che da Bruxelles si sta irradiando per tutta Europa??? Da notizie riservatissime, viste le difficoltà di affiliazione che i reggenti grillonzi stanno avendo nella ricerca di personalità alle quali affidare i vari ministeri, pare, dico, pare che il futuro Primo Ministro Luigi Di Maio intenda trattenere per se l’interim del Ministero della Cultura!!!!! NONCIPOSSOCREDERE!!!!!!!
15 24 FEBBRAIO 2018
di Paolo Marini “Contro le mostre”, redatto a quattro mani da Tomaso Montanari e Vincenzo Trione, è un pamphlet appassionato che può giovare alla comprensione non già dell’arte ma del mondo che vi ruota attorno. Nel primo capitolo (“Business Art”) si stigmatizza la tendenza “nazionalpopolare”, la logica “da cinepanettoni” che genera “mostre di cassetta, mostre blockbuster, mostre all inclusive”, dal cliché più che rodato: “si propongono i maestri universalmente più noti e mediaticamente più efficaci”, prevalendo “una filosofia di tipo quasi televisivo”, di spettacolarizzazione dell’arte, per la quale “si trasformano i visitatori di una mostra in consumatori o, peggio, in clienti” e si gonfiano i contenuti di “mostre inesistenti”, spinte da un “affarismo privo di moralità” e giungendo al virus delle “mostre senza opere” (dal quale io stesso, nel mio piccolo, ho preso le distanze, cfr “Gran Luna Park Van Gogh”, Cultura Commestibile 114). In “Rompere la gabbia” si passa immediatamente alla pars costruens con un decalogo pieno di buone intenzioni, a tratti viziato d’eccessi, come nel caso del requisito della “insostituibilità” della mostra con un articolo o con un libro (che, al limite, potrebbe interpretarsi come un de profundis per qualsiasi mostra). V’è poi la lamentata “rimozione del contesto” che, obiettivamente, non sembra rispondere a realtà sistemica degli eventi espositivi. Se poi l’alternativa è anche qui il “chilometro zero” (termine alquanto logoro), cioè l’abitudine a guardarsi intorno, là dove si vive, e a riscoprire “l’enorme patrimonio cui possiamo accedere gratuitamente”, il primo pensiero è che i proscenii esistenti non siano incompatibili con le esposizioni ‘costruite’. Interessante è il capitolo sulla “Biennalizzazione dell’arte”: la Biennale di Venezia sarebbe divenuta “il paradigma espositivo più sfruttato nel mondo”, “virus planetario” e “ritratto irrisolto della contemporaneità” (sul punto si leggano opinioni di segno anche contrario, come in Angela Vettese, “La Biennale porta frutti”, Domenicale, 19 febbraio 2017). E’ qui che si tratteggia con azzeccata ironia la figura del tipico curatore, uno che si serve delle opere per illustrare (o fantasticare) generiche teorie, senza mai fare i conti con facezie quali “come è fatta una determinata opera, con quali materiali, con quali tecniche, da quali ragioni è nata”. Quello del “ritorno al Vasari” è un (ottimo) richiamo, quasi strutturalista (nel senso del
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de Saussure), alla riscoperta del linguaggio dell’arte, dei connotati tecnici delle opere, per quel sottobosco di ‘addetti ai lavori’ che può apparire - e spesso magari è - animato e variopinto da cicalecci e protagonismi, associati però a sostanziale incompetenza. C’è del buono nel libro e vale la pena di scoprirlo e assaporarlo. Con eccezione, anzitutto, del fondo ‘ideologico’ del discorso, quello che instaura una inaccettabile similitudine tra “fascismo storico“ e “totalitarismo del mercato e dei consumi”, perché la reale tensione – anche nell’arte - non è tra mercato e cittadinanza bensì tra libertà e coercizione (o condizionamenti politico-istituzionali, da cui la condivisa ostilità verso la lottizzazione degli organismi scientifici e l’assunzione della cultura a “insegna ufficiale del turismo”, per non parlare dell’avversione nei confronti dell’estetica di Stato). Gli stessi Autori, quando deducono la circostanza che certi ‘eccessi’ di e con le mostre (di cui i visitatori non sono necessariamente recettori passivi e inintel-
ligenti) vivono un trend in discesa (“alcune deludenti performance sembrano dire che il pubblico è ormai stanco”), mostrano con ciò che anche questo mercato ha in sé meccanismi di riequilibrio; allora bisogna avere un rispetto sincero e definitivo verso gli individui, che hanno diritto di scegliere se con l’arte crescere o, semplicemente, intrattenersi. Del resto non esiste un modello uniforme di approccio alle cose, se non in una visione totalitaria. Anche la mostra più ‘commerciale’ (che forse a chi scrive, come agli Autori, non piacerà) può essere l’imprevedibile via per la quale altri prendono passione per un artista o per l’arte tutta. Infine: per molte imprese o iniziative culturali è impossibile l’emancipazione dagli aborriti “parametri neoliberisti” (con quanto di incomprensibile c’è nel riferimento al misconosciuto liberismo), cosucce come misura dei guadagni, impatto economico e numero di visitatori. Non se ne potrebbe svincolare del tutto neppure chi decidesse di fare mecenatismo o diventare benefattore. Per caso gli Autori vogliono farci credere che non chiederanno all’editore il conto delle vendite di “Contro le mostre”, misurando con ciò il gradimento del suo ‘mercato’ e, non ultimi, i diritti spettanti? E’ vera una quasi-banalità: che l’art-system è figlio del suo tempo, di questo tempo segnato dal trionfo di un pensiero debole (ove non di un non-pensiero). E se “l’’arte contemporanea’ è il racconto di un naufragio” (Jean Clair, “L’inverno della cultura”), agli artisti, agli imprenditori e a ciascuno di noi restano pur sempre rimessi l’onere e l’opportunità di nuovi approdi.
Luci e ombre di una critica appassionata all’art system
di Danilo Cecchi Nel numero di CuCo della scorsa settimana (Cuco n. 250) si sono incrociati, per una pura fatalità, l’articolo su “Senzazione e Percezione in Fotografia” ed il bellissimo articolo di Gianni Bechelli su “L’Universo dei Quanti”. L’occasione mi offre il pretesto per approfondire l’argomento, anche perché, a differenza di quanto possono pensare in molti, i due argomenti sono correlati abbastanza strettamente. Qual è il fotografo che non ha mai affrontato il dibattito sulla natura della luce (corpuscolare o ondulatoria), e qual è il fotografo che non ha mai affrontato il tema del rapporto fra la “forma” del mondo e quella della sua raffigurazione fotografica, vale a dire, fra realtà ed immagine? Ma c’è di più. Se non ci fossero i fotografi a raffigurare l’universo, questo ci sarebbe ugualmente? Prima della fotografia il mondo veniva raccontato a parole, al massimo con ideogrammi o disegni schematici, talvolta basati su osservazioni dirette, più spesso su descrizioni imprecise. In nessun caso esisteva un rapporto diretto e fisico fra il “referente” e la sua raffigurazione e non c’era troppa differenza fra il mondo percepito e quello immaginato. Dopo la fotografia tutto è cambiato, ma è rimasto il dubbio di fondo, quello sulla oggettività ed affidabilità della raffigurazione fotografica. Se la fotografia è “specchio” della realtà, che tipo di specchio è, quanto deformato e deformante, quanto distorto e distorcente? Se l’osservatore e l’azione di osservare provocano mutazioni nella realtà, quali mutazioni provocano il fotografo e l’azione di fotografare? Quanto le leggi fisiche (e sociali) vengono stravolte nell’atto fotografico? Se l’universo si invera solo dal suo essere osservato, tanto più esso si invera dall’essere fo-
tografato. Il fotografo che osserva il mondo e segue il suo divenire, scrutando ogni mutamento ed ogni accadimento, non diventa egli stesso causa del mutamento ed artefice dell’accadimento, lo stesso accadimento che viene registrato fotograficamente, non è esso provocato e causato dalla presenza del fotografo? Senza il fotografo, probabilmente, non vi sarebbe stato alcun accadimento. E’ un luogo comune quello di affermare che davanti alla fotocamera (o telecamera o cinepresa), il personaggio raffigurato cambia atteggiamento, cambia espressione, altera i suoi stessi lineamenti, diventa altro da sé. Lo stesso vale per ogni altro tipo di attività naturale. Quanti personaggi, fatti o eventi, non sarebbero mai esistiti o accaduti, senza la presenza della fotografia. Secondo Roland Barthes una delle poche certezze, parlando di fotografia, è che l’immagine fotografica è la prova che “ciò è stato”. In realtà l’immagine fotografica è la prova che “ciò è stato visto”. Una cosa non vista, non raccontata e non documentata, non è mai vera-
mente accaduta. Osservando e misurando la realtà, la selezioniamo in funzione dei nostri strumenti di osservazione e di misura. Fotografando selezioniamo la realtà, se non altro in termini di spazio e di tempo, ed introduciamo delle nuove variabili nel processo del divenire. Determinati fatti si verificano solo al momento dell’osservazione, altri solo al momento dello scatto. Il fotografo che decide di scattare o di non scattare si pone davanti ad un bivio, e può modificare il divenire in un senso piuttosto che in un altro. L’osservazione fa concretizzare ciò che esiste in potenza, la fotografia trasforma la potenzialità del reale in immagini concrete. In questo senso, è la fotografia (insieme alla scienza, alla filosofia ed all’arte) che genera la realtà. Citando ancora Gianni Bechelli, sembra fantascienza, ma è sufficiente puntare la fotocamera verso qualcosa, per vedere come la realtà inquadrata cambia forma e consistenza. Citando invece Wittgenstein dobbiamo convenire che, in fondo, “l’immagine è un modello della realtà”.
Fotografia e quanti 17 24 FEBBRAIO 2018
di M.Cristina François È il 12 ottobre 2010. Dopo la Messa vespertina, entrano in S.Felicita, per un sopralluogo al Coretto e al contiguo Camminamento Granducale adiacente al Vasariano, il Direttore degli Uffizi con il nostro Funzionario di Territorio. È per una visita finalizzata alla ripresa di un progetto museale precedentemente approvato. Sono inoltre presenti il Parroco ed io, nella mia qualità di Conservatrice dell’Archivio Storico annesso alla Chiesa. Il sopralluogo è densissimo di proposte e di scambi di idee e di informazioni da parte di ognuno che riassume in sé competenze diverse con diversi orizzonti d’attesa. Terminato l’incontro ci congediamo e, d’intesa con il Parroco, io rimango nel Presbiterio per alcune verifiche. Sono passate circa due ore e già penso di tornare a casa quando, a un tratto, mi sento distintamente chiamare per nome da una voce femminile proveniente dal Coretto granducale. Alzo lo sguardo e intravedo nella penombra una figura che si sporge dal parapetto con un lume in mano. Rimango perplessa. Soltanto un attimo dopo la donna mi invita a raggiungerla. Passo dall’intra muros e mi fermo sulla soglia d’accesso al Coretto. Una bella figura lungovestita mi si rivolge con movenze misurate, quasi di danza. Accenna un gesto elegante che intende significarmi di rimanere nel Corridoio, senza passare dentro il Balcone Granducale. È lei che mi raggiunge. Accenna col capo ad un saluto. Indica la scaletta di pietra che mette in comunicazione il Coretto delle Cameriste con quello dei Granduchi. Si presenta col mio stesso nome, cognome e titolo. Accenna poi in fretta, al chiarore del lume tremante, di avere poco tempo per mostrarmi il “Camminamento” voluto dai Serenissimi Granduchi Lorena e realizzato dall’architetto Giuseppe Ruggeri. Con una certa fierezza, aggiunge che tutto è arredato col sobrio gusto della Granduchessa e della Maggiordoma Maggiore Contessa Gabriella di Thurn. Là dove io ricordavo di aver visto da sempre un arco tamponato che separava il Vasariano dal “Camminamento intra muros”, mi si rivela dietro una portiera di pesante velluto un luminoso chiarore. Appaiono due giovani “Cammer Heizer” con torcetti in mano e accendono, alla parete di meridione, i bracci delle appliques in legno dorato. Il pallido volto incipriato della Marchesa prende colore e con lei tutto l’ambiente esce dalla penombra. Il lungo percorso si colora d’un bel “verde Lorena”. La sfumatura del colore è quella con cui il quadraturista ha dipinto
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Il camminamento granducale
Racconto di una camerista l’esterno del KaffeeHaus. Lungo le pareti riquadrate in verde corrono liste parallele, in alto e in basso, ombreggiate a pennello d’un marrone scuro che riprende toni dei mattoni del pavimento. Percorro con lo sguardo, in direzione est, il passaggio intra muros. Una porta bicroma con chiari toni di grigio e “color d’aria” conduce all’accesso della “scala nobile” che discende fino al transetto della Chiesa. Alla parete sinistra corrono in fuga le piccole finestre affacciate sulla Piazzetta De’ Rossi. Gli infissi dipinti sono dello stesso colore della porta di fondo. Sulla parete destra alcuni ritratti di Granduchi medicei e lorenesi pendono appesi a cordoni serici. Lei, sorridente e senza parlare, indica bacheche e vetrinette listate d’oro, poste sotto i quadri e dipinte coi toni chiari degli infissi. Mi invita con un segno indicativo a leggerne i cartellini. Solo in quel momento mi rendo conto che i Lorena hanno raccolto - nel percorso che li porta in Chiesa - i “donaria” offerti alle Monache del Monastero di S.Felicita dalle Granduchesse, benevole e pie frequentatrici
di quei chiostri. Sono i doni che la Badessa Suor Teresa Vittoria Del Nero ha permesso di esporre nel “Camminamento” in occasione di visite o eventi particolari. Penso che probabilmente l’intento della Superiora non è che un celato invito rivolto ai Sovrani Lorenesi a continuare quel generoso costume in uso fin dal periodo Mediceo. Mi ricordo, allora, delle due statue in legno dorato donate poi da Ferdinando III: un Apollo e una Dafne provenienti dalla Reggia di Pitti. Mi ricordo anche dei sontuosi lampadari di cristallo e del “Comod”, l’antico e sobrio inginocchiatoio in legno di noce che i Lorena si erano riservati nel Presbiterio per assistere al Catechismo e alle Prediche in tedesco dei Gesuiti P.Summantig e P.Kallingher. Sotto l’immagine dell’Elettrice Palatina vedo in mostra la scatola per i “Cordigli della Passione”, tutta dipinta a “découpages” e decorata col suo stemma. Sotto il ritratto della Gran Principessa Violante di Baviera troneggia il Leggio con l’Evangeliario in argento sbalzato, opera che so essere stata eseguita nel 1704 da Giorgio Majer. Accanto, la carabattola dorata con entro la Reliquia di S.Felicita “cum vase sanguinis” e “l’adorno fatto il 20 novembre 1709 da Giovanni Santini doratore”: mi sovvengo infatti del documento relativo, visto all’ASF. Al di sotto del ritratto della Serenissima Maria Maddalena d’Austria, “due reliquiari neri ad altarolo”, uno dei quali custodisce solo Santi Benedettini. Sotto la “Granduchessa Cristina di Lorena”, devotissima di S.Raffaele, il gruppo dell’Arcangelo e Tobiolo… all’improvviso un colpo secco rimbomba nella Chiesa vuota: l’organista è entrato per provare e ha rovesciato lo sgabello. Mi sveglio di sobbalzo. Non c’è dubbio: ho sognato. Maria Cristina François, la mia antenata Camerista di Corte, partita il 25 agosto 1765 da Innsbruck al seguito di Pietro Leopoldo e Maria Luisa, è svanita in un attimo e con lei l’allestimento di quegli spazi realizzato da me in sogno; proiezione onirica derivata dalla mia frequentazione di persone, architetture e cose rintracciate nei documenti d’Archivio, nonché dalle riflessioni fatte di concerto col Direttore degli Uffizi in quel 12 ottobre 2010.
Ascoltando la Recherche di Cristina Pucci Ascoltare qualcuno che legge a voce alta “A’ la recherche du temps perdu”... ascoltare pezzi scelti di ognuno dei 7 libri che la compongono...ascoltare voci diverse, tanti Narratori, varie Albertine, alcuni Charlus, diverse Verdurin ed Oriane, la Principessa di Guermantes, la Nonna, Françoise, Saint Loup, Swann, Odette, la dolce Gilberte... Parole echeggiano, parole belle, fantasiose, originali, ricche, lievi e pesanti, poetiche, parole che descrivono, spiegano, evocano immagini, parole inconsuete, precise, raffinate, parole che si rincorrono e definiscono luoghi, odori, sapori, persone, abiti, volti, anime e menti, parole che raccontano un mondo e immaginano tanti mondi, parole e ancora parole. Parole che testimoniano l’onnipotenza del pensiero umano, l’onnipotenza del pensiero e dei ricordi di Proust. Dice Riccardo Massai “parole talmente belle che sono piacevoli da ascoltare...” La lettura ad alta voce è sempre esperienza non solo affascinante, ma anche un pò magica in quanto ha, fra gli altri, il potere di riavvicinarci ai bambini meravigliati che eravamo, in ascolto di terrifiche fiabe per l’infanzia e dei racconti di vita e di guerra di mamme e nonne. Penso di interpretare un pò il pensiero dei vari “Proustiani”, qualcuno aggiungereb-
be fanatici, dicendo che ogni occasione che consente di riprendere in mano e riportare all’attenzione gli oggetti del nostro amore, Recherche e suo Autore, è sempre benvenuta. E quindi ammirata gratitudine a Riccardo Massai e alla sua decisione di non morire senza avere letto Proust! Venuto a capo di questo percorso, in soli 5 mesi, ne è rimasto affascinato e si è sentito spinto, dall’Autore stesso, alla decisione, del tutto originale e senza dubbio coraggiosa, di prepararne una Lettura, “totale”. Rileggerla e decidere quali parti di ciascun libro offrire al pubblico ha richiesto grande attenzione e un lavoro non indifferente. Altra fatica preparare le 14 serate, due per ogni libro, pensare quali attori, professori e personaggi di un qualche rilievo nella vita fiorentina attuale coinvolgere, una settantina in totale, contattarli, regolamen-
tarne le apparizioni, pensare a immagini da proiettare, musiche da far ascoltare, sostituzioni di malati e fuggitivi....I protagonisti ricevono il “copione” una settimana prima, una sola prova . Dalla paura di fare un buco nell’acqua è passato alla gioia di vedere seguita e molto complimentata questa sua idea e realizzazione, di certo mai tentata prima. Ha scoperto che esistono “Proustiani” fedeli, che conoscono l’opera, la apprezzano e la seguono con regolarità e volenteri. Articoli sui quotidiani, intervista al Tg, un gruppo di Pistoia che si rammarica di essere troppo lontano per poter partecipare. Primo risultato, già nelle prime serate,”Combray”, parte bellissima che definisce e contiene tutta l’opera, silenzio assoluto. Come peraltro sempre. Tossi permettendo. Io che posso dire di mio? Le Albertine viste hanno dato a questo sfuggente e non necessariamente simpatico personaggio, una valenza adolescenziale, un pò scherzosa, fatua, fino ad Eva Robbin’s, più seria, strutturalmente ambigua e con qualche valenza tragica. La principessa di Guermantes, nella serata della sua festa, è “letta” da una vera Principessa, Giorgiana Corsini, un vero scrittore, Marco Vichi , ci narra la morte dello scrittore Bergotte, sul maxischermo la famosa foto del volto di Proust sul letto funebre, notevole emozione direi. Un violinista suona, siamo alla festa Verdurin dove Charlus, che verrà cacciato, ha condotto Morel con il suo violino. Drusilla Foer, altera e distante, ci dardeggia con i motti di Oriane, Elena Stancanelli, malgrado un eccessivo ciuffo, rende bene l’arrogante sicumera della Padrona....Prosegue fino al 16 Marzo questa avventura, al Teatro dell’Antella. Il Tempo Ritrovato ce lo restituirà Maria Paiato, da sola. In foto “Rose”, come di Mme de Villeparisis, accompagnano il suo volto smagrito.
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di Andrea Ponsi L’Academy e il De Young
Il De Young Museum degli architetti svizzeri Herzog De Meuron e l’Academy of Sciences di Renzo Piano si fronteggiano l’un l’altro delimitando lo spazio del parco-piazzale preesistente, una sorta di Tuileries di San Francisco all’interno del Golden Gate Park. Il De Young Museum è una massa solida, un corpo rude, ma elegante, sfaccettato, ma compatto. L’Academy of Sciences è un edificio etereo, trasparente, un merletto di vetri e colonne sottilissime. Il De Young è un un blocco geologico, un corpo biologico, un animale di metallo. L’Academy è una macchina tecnologica, cartesiana, un parallelepipedo perfetto. Il De Young ha una pelle organica unica, uno strato di rame perforato, cangiante, mutevole nel tempo. L’Academy ha una pelle fatta a strati: cemento, vetro e ferro verniciato. Uguale nel tempo. Il De Young è scultoreo nella torre e nel grande aggetto della pensilina verso il parco. La sua geometria si gioca sul contrasto linea retta - linea inclinata. L’Academy è simmetrica, leggera e evanescente, uno spazio ortogonale solo interrotta dalla rotonda copertura artificiale organica. La sua è una geometria tutta giocata sul contrasto retta - curva Nel De Young l’entrata è bassa, orizzontale, un foro sulla facciata che dà su un cortile semichiuso semplice e scarno. Nell’Academy l’entrata è l’ elemento principale, il suo cuore, il centro, alto, trasparente e luminoso del complesso. Il De Young trasmette un senso di grandezza sovrumana, di uno spazio silenzioso e austero L’Academy è una fiera di suoni, giochi di luce, di corpi in movimento, una festa di vita e di colori. Eppure, forse proprio a causa di queste loro differenze, i due edifici si integrano bene tra loro e nel contesto generale. Semmai è il piazzale antistante che non ha la stessa forza. Il suo aspetto ottocentesco si relaziona solo con la grande esedra che lo chiude ad occidente. Per il resto, con i suoi vialetti, fontanelle e cerchi d’alberi ostacola piuttosto che aiutare il dialogo tra i due protagonisti. La crepa
La sottilissima crepa che accompagna fin dal suo ingresso sul piazzale chi entra al De Young Museum, è una metafora. Tra le pos-
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Mappe di percezione
San Francisco
sibili interpretazioni di questa scultura ambientale una prevale: questa è la crepa sulla quale si pone l’intero luogo, la sconnessione sottile che pervade la città, i suoi dintorni, la falda che minaccia l’intera California, la ferita che nasce dalle viscere della terra per affiorare silenziosa, pervasiva, ineluttabile alla superficie. La crepa dalla terra si trasferisce ai nostri corpi, ci entra nell’anima sconvolgendoci improvvisamente, come improvvisamente può scuotersi dal profondo quella forza che, viva e nascosta, non aspetta che il momento di colpire. Rame
La pelle di rame del De Young Museum si adatta perfettamente al contesto del Parco. Il museo è un animale che si mimetizza nel verde degli alberi, nelle radici contorte, nelle scorze dei tronchi sparse sulla terra umida. E’ un cetaceo uscito dal mare, un animale affiorato sul suolo al ritirarsi dell’acque di un diluvio, un mostro la cui bocca ancora respira l’ossigeno del bosco vicino. Sembrano tanti piccoli Giona quei corpi che sotto il tetto-palato stanno seduti alla cafeteria all’aperto. Come Moby Dick, diverso da ogni altro mostro marino per
il suo colore, il De Young, animale portentoso, ha una pelle diversa da ogni altra: butterata e per questo più resistente; perforata e per questo più variata e variabile; una pelle che cambia colore, che vive, che, come le scorze degli alberi, risponde al continuo mutare della luce, dell’aria, del tempo.
di Gianni Bechelli Se vi è sembrato giustamente strano e singolare il fatto che la semplice osservazione scientifica possa creare e/o modificare la realtà o meglio ancora selezionarla tra tante variabili, ancor più sorprendente vi apparirà il fenomeno cosiddetto entanglement (intreccio) che viola non solo alcune leggi fisiche fondamentali come la velocità della luce, che sta alla base della relatività ristretta e il principio cosiddetto di località, per cui due oggetti distanti non possono influenzarsi istantaneamente, ma anche il concetto dello spazio-tempo così come lo conosciamo intuitivamente. Questo fenomeno verificato sperimentalmente dal fisico Alain Aspect nel 1982 e dimostrato inequivocabilmente vero, è stato prima molto controverso per decenni nel mondo fisico e combattuto anche dallo stesso Einstein; per cui non meravigliatevi se vi lascerà perplessi, fa e farà lo stesso effetto anche dopo averlo riflettuto a lungo. In sostanza se due particelle fra loro connesse e correlate (due elettroni per esempio) vengono separate, saranno poi in grado di continuare a comunicare tra loro e lo faranno istantaneamente come se fossero rimaste la stessa cosa. Per chiarire meglio, se una particella A si separa da una B e un certo punto viene fatta deviare dal suo tragitto naturale o si modifica il suo spin (il senso in cui gira) l’altra particella B modificherà la sua traiettoria ed il suo spin, senza che niente di materiale avvenga nella comunicazione fra le due, ma, ancora più sorprendentemente, il tutto avviene istantaneamente qualunque sia la distanza fra le due, ossia ben più che la velocità della luce. E’ come se si entrasse in una dimensione in cui lo spazio-tempo sembra sparire o stringersi, e rivelarsi invece una specie di substrato in cui la materia e l’energia comunicano e si rapportano in modi per noi incomprensibili, almeno per ora. Il cosmo che vediamo così vasto e molteplice nelle sue manifestazioni risulterebbe così molto più connesso ed olistico di quanto possiamo immaginare. C’è dunque molto che ancora non conosciamo o comprendiamo, di più, forse nel mondo subatomico difficilmente riusciremo ad avere una spiegazione “ultima e definitiva e certa “perché valgono nella fisica quantistica sempre meno le leggi della fisica deterministica del meccanicismo, la certezza causale della scienza classica e vale molto di più l’atteggiamento probabi-
La legge di indeterminazione di Heisenberg e altre stranezze listico e la coscienza che alcuni valori rimangono indefiniti in “sé”. Così ci spiega la fondamentale legge di indeterminazione del fisico tedesco Werner Heisenberg, per cui maggiore è la specificazione della ricerca della posizione di una particella in un determinato momento, minore sarà la precisione con cui riusciamo a determinare la sua velocità e viceversa. E per essere chiari, non si tratta di un limite fisico della capacità dello strumento tecnico di ricerca, ma di un limite intrinseco all’oggetto osservato che non può possedere una posizione ed una velocità determinata in uno specifico momento. Per cui, se si cercherà la posizione di una particella, più si determinerà questa, minore sarà la capacità di definirne la velocità, fino al punto in cui questa cessa di esistere come velocità e/o viceversa.
Possiamo perciò riassumere che gli effetti della fisica quantistica comportano: 1) uno stato della materia non valido in sé ma dipendente dall’osservatore e da ciò che l’osservatore cerca. 2) una capacità delle particelle materiali di “comunicare” oltre lo spazio-tempo 3) un tessuto probabilmente” unitario” del mondo sub atomico 4) una concezione scientifica più legata alla probabilità che alla certezza. Non è poco e per di più tutto spinge a cercare qualcosa che spieghi sempre di più e meglio il cosmo visibile ed invisibile e che diradi magari le nebbie delle incertezze e spinga oltre le connessioni probabilistiche che, senza dare una spiegazione ultima, allargano tuttavia le nostre possibilità di conoscenza. E’ difficile accettare che forse una spiegazione ultima non c’è, secondo almeno i criteri tradizionali .
21 24 FEBBRAIO 2018
a cura di Claudio Cosma
Doppio Sensus
Kawita Vatanajyankur, The ice shaver, 2013, video
Sensus inaugura una doppia mostra con artisti della propria collezione, la prima: “Incontri straordinari, piccolo compendio di arte orientale”, con 20 artisti provenienti da Giappone, Thailandia, Malesia e Cina, tutti giovani emergenti a parte Araki Nobuyoshi e Yoshitomo Nara dei quali vengono esposti una polaroid e un toy di produzione illimitata. Gli altri sono: Mitsunori Kimura, Tan RuYi, Kawita Vatanajyankur, Imhathai Suwatthanasilp, Noon Passama, Srisakul Amnuaiporn, Methagod Thep, Naomi Futaki, Yuki Ichihashi, Maitree Siriboon, Yanyan Huang, Han Bing, Sethapong Povatong, Tada Hengsapkul, Orawan Arunrak, Akiko Chiba, Yuree Kensaku, Thaweesak Srithongdee. La seconda, che costituisce un esperimento, si intitola: “Antonio Borrani, Studio aperto” e vede l’artista usare lo spazio assegnatoli, separato dal resto della galleria e indipendente, come studio e atelier per lavorare, ricevere e mostrare il suo recente lavoro. Borrani userà lo studio fino ad ottobre. L’inaugurazione è il 2 marzo alle 18 e rimarrà aperta fino ad ottobre tutti i giovedì e i venerdì dalle 17 alla 19. Si visita anche su appuntamento email: info@sensusstorage.com Ispiratore della sezione orientale della col-
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Mitsunori Kimura, Above the horizon, 2013, installazione.
lezione è il critico indipendente Pier Luigi Tazzi con la mostra: Il Dio delle Piccole Cose” del 2010 al Musei di Casa Masaccio di S. Giovanni Val d’Arno. Molti dei lavori esposti a Sensus provengono proprio da lì. La mostra di Sensus costituisce un’occasione per conoscere uno spaccato attuale delle tematiche di lavoro di quei paesi poco rap-
presentati in Italia. Di loro Sensus espone, disegni, sculture, videos, collages e foto. Con la presenza in galleria di Antonio Borrani il pubblico potrà prendere parte al processo creativo di un’opera e dialogare con l’artista. Lo studio composto di due stanze ha una parte espositiva ed una propriamente di lavoro.
di Simone Siliani Un adolescente di oggi, in un liceo italiano, protesta contro i test Invalsi: strappa il codice a barre e scrive sul test: “io mi chiamo Giovanni Verdi e non sono un numero”; poi su un foglio bianco risponde alle domande del test, così da essere sicuro di invalidarlo ma di dimostrare che saprebbe rispondere a domande così generiche e si mette a leggere “Lettera a una professoressa” scritta nel 1967 dai ragazzi della scuola di Barbiana, con la regia di don Lorenzo Milani. Il professore che sorveglia l’andamento del test gli chiede conto di questo suo comportamento e il ragazzo risponde: “Perché questa di don Milani è la vera scuola, non l’Invalsi!”. Perché a distanza di mezzo secolo un giovane studente di oggi ancora considera la Lettera la vera – non la buona – scuola? Cosa c’è in quel libretto che ancora oggi lo fa sventolare come un manifesto di una scuola che un ragazzo del XXI secolo considera il simbolo di una scuola che aveva un senso, un contenuto vero, contrapposto ad una, quella che lui frequenta, che gli propone vuote e anonime crisalidi di forme senza contenuto? Ho cercato (e trovato) qualche risposta a questo interrogativo – che anche io mi sono trovato a sostenere nei miei anni di studente – leggendo il denso e appassionante libro di Vanessa Roghi, La lettera sovversiva. Da don Milani a De Mauro, il potere delle parole (Editori Laterza, Bari, 2017). Vanessa Roghi racconta (verbo corretto per un libro solidamente storico, eppure scritto con la potenza narrativa della regista di documentari) l’ambiente sociale, culturale, politico in cui affonda le radici la Lettera e il lavoro pedagogico di don Milani, da San Donato a Calenzano fino a Barbiana a Vicchio del Mugello. Sono gli anni che dal provvedimento del 17 dicembre 1947 che istituisce le scuole popolari per combattere l’analfabetismo degli adulti portano fino alla riforma della scuola media unica che entra in vigore il 1° ottobre 1963. L’autrice mostra e dimostra come, per quanto fisicamente isolato nella canonica sotto il Monte Giovi, l’esperimento educativo e la sua cristallizzazione nel testo di scrittura collettivo Lettera a una professoressa, fosse tutt’altro che isolato nel paese: esso si inserisce, forse anche con una consapevolezza limitata di ciò, in un movimento che dagli anni ‘50 (la prima proposta di riforma della scuola media unica ma divisa in tre indirizzi differenziati è del Ministro della Pubblica Istruzione Paolo Rossi, del 1956) fino ai ‘60 (pensiamo al Cipì di Mario Lodi) pone la questione della scuola al centro del dibattito pubblico italiano, in particolare sulla questione della lingua. E, in questo movimento, le esperienze o il pensiero eterodosso esiste, opera come un fiume carsico, viene certamente marginalizzato, come avvenne appunto con don Milani, ma scava, emerge, si inabissa e produce l’humus per i cambiamenti che poi verranno. Vanessa Roghi, nella seconda parte del libro, si concentra sulla fortuna
Lettera sovversiva postuma e, anche, sull’uso distorto della Lettera, dal ‘68 soprattutto, fino alla “repressione” degli anni ‘80. Ma torniamo all’attualità della Lettera: perché l’avvertiamo ancora così nostra? Perché ci parla ancora e non l’avvertiamo come un libro appartenente alla storia? Un pugno ancora attuale, l’ha definita Francuccio Gesualdi, uno dei ragazzi di Barbiana. Perché il fuoco vivo del libro – come ben spiega Vanessa Roghi – è non un metodo didattico seppur innovativo, bensì come costruire una scuola che garantisca a ciascuno il sapere di cui ha bisogno per diventare un cittadino sovrano. Si dirà: va beh, ma questo oggi è scontato; facciamo tanti corsi di informatica, di lingua, l’alternanza scuola-lavoro, finanche l’educazione civica rischia di tornare alla ribalta! Sì, ma poi arrivano quelli della Confindustria di Cuneo e scrivono alle famiglie dicendo che, per carità, sono liberi di scegliere per i loro figli la scuola che vogliono, ma sappiano che da loro c’è bisogno di operai, addetti agli impianti, tecnici e si fatica a trovarli. E poi, con paternalistico fare, ti dicono che spesso la scelta della scuola superiore “viene fatta dando più importanza ad aspetti emotivi e ideali, piuttosto che all’esame obiettivo della realtà”. Ecco, dunque, il “ricatto” del lavoro (sempre più destrutturato e vuoto di diritti e dignità; l’opposto di quello che insegnava don Milani per cui solo con una parità linguistica, di lessico, l’operaio poteva far valere i suoi diritti davanti al padrone), nello stesso modo in cui 50 anni prima la scuola operava con il ricatto e la minaccia della bocciatura. Confindustria di Cuneo pensa ad una scuola che produce esercito di riserva per le esigenze delle loro imprese, non certo cittadini sovrani. Naturalmente, oggi come allora, sempre con l’alibi di fare per il bene dei ragazzi. Ed è ancora qui l’attualità della Lettera e di don Milani che voleva mettere in grado i ragazzi di sapere e dire autonomamente cosa fosse bene per loro stessi. La Lettera è attuale perché ancora la scuola è orientata a giudicare non a educare. Ricordiamo la Ministra Gelmini nel luglio 2009 che in un comunicato stampa evidenziava la serietà della sua scuola perché era aumentato il numero dei ragazzi bocciati all’esame di maturità (3.000, pari al 3,1% del totale, mentre l’anno prima erano il 2,5%): la poveretta non aveva il minimo sospetto che una scuola che boccia di più (anche alle superiori, non solo nell’obbligo) è una scuola che ha fallito il suo compito, che denuncia il suo fallimento scambiandolo per successo! Uno dice: “Eh, ma la scuola è cambiata! E’ migliorata! Oggi non siamo mica più a Barbiana!”. “Vorrei ben dire! - rispondo – E’ trascorso mezzo secolo; è cambiato il mondo con
una velocità e profondità neppure immaginabile nei due secoli precedenti! Se anche la scuola non fosse cambiata saremmo Quarto Mondo!”. Ma riflettiamo su alcuni numeri e forse le vostre ottimistiche certezze ne risulteranno scosse. Dati MIUR, dunque ufficialissimi, sulla dispersione scolastica: l’Italia, per quanto abbia migliorato dal 2009 ad oggi, è ancora ben lontana dal raggiungere l’obiettivo di stare al di sotto del 10% dell’abbandono scolastico fra i 18 e i 24 anni, considerato l’obiettivo dell’Unione Europea per il 2020. Nel 2016 siamo ancora al 13,8%; dietro di noi soltanto Malta, Spagna Romania e Portogallo, ma davanti a noi paesi come la Bulgaria, l’Ungheria, Cipro, Grecia, Polonia, Slovacchia. Nell’anno scolastico 2016-2017 sono stati 14.258 gli alunni delle scuole medie inferiori che hanno abbandonato la scuola. E’ ancora attuale la domanda contenuta nell’incipit della Lettera: chi sono questi ragazzi? Dove vengono “respinti”, certo non più nei campi e nelle fabbriche, magari peggio nelle periferie degradate delle città. Per la Ministra e per l’Invalsi sono numeri e non ne conoscono nemmeno il nome. Ma volete sapere chi sono? Sono ragazzi del Sud, soprattutto: se la media italiana degli abbandoni nelle medie è 0,8%, in Sicilia è l’1,3%, in Campania e Calabria l’1%. Sono ragazzi stranieri (le Barbiane del mondo, diceva Ernesto Balducci): il 68% degli abbandoni sono nati fuori dai confini e se fra gli italiani il tasso di abbandono è lo 0,6%, fra gli stranieri è il 3,3%. Gli studenti italiani nati all’estero che non conseguono il diploma superiore è il 34,4%, mentre gli studenti nativi che non ce la fanno sono il 14,8%: ma in Europa i primi sono il 22,7% e i secondi l’11%. Allora, abbiamo o no un problema ancora vivo nella nostra scuola? Non è ancora una scuola che “respinge” i marginali? Ieri i figli dei montanari e dei contadini di Barbiana, oggi i figli di emigrati. Non è forse ancora una scuola che non riduce le disuguaglianze? Anzi per chi parte svantaggiato statisticamente la vita è più dura anche a scuola. Resta ancora attualissima la lettera che i ragazzi di Barbiana scrivono agli scolari di Mario Lodi nel 1963, Perché veniamo a scuola ora. La direzione è, oggi come allora, non ridurre il tempo-scuola, bensì aumentarlo; stare di più a scuola, non meno (come si fa con la sperimentazione del liceo in 4 anni); elevare l’obbligo a 18 anni e investire di più nella scuola perché quel tempo trascorso lì sia utile a formare il cittadino sovrano. Che saprà, proprio per questo, fare anche meglio l’operaio, il tecnico, l’agricoltore. In quella lettera ai ragazzi di Mario Lodi, quelli di Barbiana scrivevano che “questa scuola … ha appassionato ognuno di noi a venirci…. Il priore ci propone un ideale più alto: cercare il sapere solo per usarlo al servizio del prossimo. Per questo ci si schiera dalla parte dei più deboli: africani, asiatici, meridionali, italiani, operai”. “Ogni popolo ha la sua cultura e nessun popolo ce n’ha meno di un altro”, scrivono da Barbiana nella Lettera: volete qualcosa di più attuale di così, oggi? (da www.strisciarossa.it)
23 24 FEBBRAIO 2018
di Carlo Cantini
1982 Carlo Cantini a New York 24 24 FEBBRAIO 2018