Numero
3 marzo 2018
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Con la cultura non si mangia Giulio Tremonti (apocrifo)
Ha la bandiera turca in tasca. Se diventerĂ una martire, a Dio piacendo, la avvolgeremo con quella Recep Tayyip Erdogan
Premio Erode 2018
Maschietto Editore
NY City, 1969
La prima
immagine Una scena decisamente più che eloquente, un ammasso di persone che camminavano di fretta senza rivolgere mai lo sguardo attorno a loro. Non avevo mai visto una cosa del genere in vita mia. Cominciai subito a pensare che se qualcuno fosse caduto per terra avrebbe rischiato sul serio di fare una brutta fine. In seguito ho poi visto anche di peggio, specialmente nelle ore di punta, quelle famose “rush hours” quando tutti, o quasi tutti, staccano dal lavoro e si tuffano nella bolgia del ritorno. Mi sono chiesto spesso come sarebbe cambiata la mia vita se avessi dovuto confrontarmi con questa frenetica realtà. Mi resi subito conto che non avrei mai potuto adattarmi a simili ritmi di vita. Questo purtroppo è stato invece il “trend” che ha contagiato tutto il mondo ed anche moltissimi italiani si sono dovuti adattare a condizioni di lavoro sempre meno rispettose della dignità delle persone.
dall’archivio di Maurizio Berlincioni
Numero
3 marzo 2018
319
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Riunione di famiglia Sceneggiata napoletana (con neve) Le Sorelle Marx
Rotaie bollenti Lo Zio di Trotzky
Chiare lettere I Cugini Engels
Ultimi consigli elettorali Le nipotine di Bakunin
In questo numero Opera viva di Simone Siliani e Aldo Frangioni
Genio e delicatezza di Alessandro Michelucci
La Toxicità dell’arte di Laura Monaldi
Mappe di percezione: San Francisco di Andrea Ponsi
Quando l’Italia aveva l’Africa in casa di Simonetta Zanuccoli
Ricordo di Wladimiro Settimelli di Danilo Cecchi
Né Resistenza né amore di Susanna Cressati
Gli Etruschi nella valle dell’Arno di Mario Preti
Uno dei mestiere più belli di Biagio Guccione
Gli “anziani di palazzo”. Per una continuità della storia di M.Cristina François
Il filo nascosto ritrovato di Francesco Cusa
Gonfienti etrusca; sarebbe l’ora di valorizzare l’eccellenza di Michelangelo Zecchini
La mostra sospesa di Cristina Pucci
Il tutto e le stringhe di Gianni Bechelli
e Remo Fattorini, Mariangela Arnavas, Sergio Favilli...
Direttore Simone Siliani
Illustrazione di Lido Contemori
Redazione Progetto Grafico Mariangela Arnavas, Gianni Biagi, Sara Chiarello, Emiliano Bacci Susanna Cressati, Carlo Cuppini, Remo Fattorini, Aldo Frangioni, Francesca Merz, Michele Morrocchi, Sara Nocentini, Sandra Salvato, Barbara Setti
Editore Maschietto Editore via del Rosso Fiorentino, 2/D - 50142 Firenze tel/fax +39 055 701111
Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012
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di Simone Siliani e Aldo Frangioni La nostra intervista al presidente dell’Opera del Duomo di Firenze, Luca Bagnoli, cade nell’occasione del ritorno di uno dei capolavori dell’arte occidentale nel Museo dell’Opera: la Madonna di San Giorgio alla Costa di Giotto. Dopo i danni subiti a seguito dell’attentato mafioso di via dei Georgofili e a seguito del lungo restauro, l’opera torna nel suo luogo di elezione. E’ anche questo un segno tangibile di quella funzione di “servizio” alla città di cui Bagnoli parla nell’intervista. Quest’opera di Giotto si colloca propriamente nel contesto di un museo moderno che racconta la storia della Cattedrale e dei monumenti che ne compongono il complesso (Battistero, Cupola del Brunelleschi e Campanile di Giotto). L’opera viene datata al 1295, il periodo in cui a Firenze si stava definendo cosa fare della vecchia cattedrale di Santa Reparata. Giotto anticipa in quest’opera decorazioni e motivi pittorici che poi Arnolfo realizza sulla facciata della cattedrale. Siliani Partiamo dalla recente proposta avanzata dal Presidente Bagnoli per consentire l’ingresso gratuito ai residenti della Città Metropolitana di Firenze nel Battistero di San Giovanni: a quale logica risponde questa proposta? Forse a rendere i cittadini fiorentini più consapevoli del proprio patrimonio storico, culturale, di fronte ad una “aggressione” del turismo di massa? Bagnoli Anzitutto, più che di proposta si parla di una decisione unanime del Consiglio di Amministrazione dell’Opera. L’ingresso gratuito ai fiorentini risponde a più finalità, va inquadrato in una strategia più ampia: non si tratta di una tantum, ma rientra nella visione che questo Consiglio ha di ciò che dovrebbe essere, più di quello che oggi è, l’Opera. A marzo 2017, quando siamo entrati in carica, abbiamo trovato un ente cresciuto molto in breve tempo, presente nell’immaginario dei turisti e dei fiorentini anche grazie al nuovo e diverso museo; si ha l’impressione che si tratti di un ente percepito come importante ma lontano dai fiorentini; vissuto come una istituzione altera, ricca, forse un po’ polverosa, nella quale il cittadino comune spesso non si identifica. La maggior parte dei rapporti e dei contatti che abbiamo ereditato sono sostanzialmente riconducibili a richieste di sostegno economico. Del resto l’Opera è stata sino ad oggi giustamente gestita nell’ottica del risultato economico,
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Opera viva per dimostrare la capacità di sostenere la costruzione del nuovo museo e al contempo garantire la conservazione del patrimonio di monumenti. La scelta dei criteri contabili e la redazione del bilancio sono quindi avvenuti in logica imprenditoriale, sottolineando redditività e ricchezza più che la conseguente (per legge) e opportuna finalizzazione di tale ricchezza alla conservazione del complesso monumentale del Duomo. Insomma, un ente con una forte autonomia, capace di sostenersi, ma anche distante rispetto ai cittadini. Per questo ci siamo domandati cosa intraprendere per far tornare l’Opera ad essere dei fiorentini. Abbiamo iniziato un percorso, continuando l’iniziativa dei concerti, provando a raggiungere anche le periferie e cercando di essere più presenti a livello sociale sostenendo progetti per l’accessibilità, in senso lato, per ogni tipo di disagio. Ci siamo mossi per essere più vicini alle persone, tornando al senso stesso della nostra esistenza. Non istituzione assistenziale né soggetto erogatore di fondi, bensì ente nato con una legge la quale ci consegna la proprietà giuridica del Duomo e dei monumenti annessi e afferma che esistiamo per mantenerli attraverso interventi di restauro e conservazione. Peraltro, siamo fiscalmente agevolati proprio perché i denari di cui disponiamo devono essere impiegati per questa finalità. Se negli ultimi anni, complice la necessità di costruire il nuovo museo, questa funzione costitutiva è stata messa forse un po’ in secondo piano, ora va ripresa e valorizzata. Dunque, abbiamo deciso di rimettere
al centro non l’ente, ma i suoi monumenti, avviando una serie di progetti di restauro e conservazione molto importanti, tali da assorbire per intero le risorse generate. Ma, in definitiva, tutto questo avviene nell’interesse di Firenze. Ecco perché, accanto all’ingresso gratuito per tutti in cattedrale, era importante dare un segnale ai fiorentini affermando un principio fondamentale: i luoghi di culto di questo complesso devono essere per loro a accesso libero, non per un atto di liberalità, ma perché sono loro dal momento della nascita. Chi ne è formalmente proprietario, l’Opera, dovrà sempre riconoscere questo fatto, prima storico e quindi di giustizia sostanziale. Frangioni Ma questo libero accesso ai fiorentini, serve anche addolcire la pillola dell’aumento del biglietto? Bagnoli L’aumento del biglietto risponde ad una diversa serie di considerazioni e, soprattutto, non è correlato a questa maggiore apertura ai fiorentini. In un caso si parla del riconoscimento di un diritto, nell’altro di precise scelte gestionali legate a considerazioni che chiamerei di mercato. Anzitutto, abbiamo prezzi significativamente inferiori a realtà analoghe, considerando che l’Opera offre alla visita cinque monumenti (oltre alla Cupola, il Museo, il Campanile, il Battistero e Santa Reparata). Non è pensabile che una persona venga a Firenze per un giorno e se li possa vedere tutti. Nella comune ricerca di una più elevata qualità delle visite turistiche incentiviamo una maggiore permanenza attraverso l’allungamento della validità del biglietto da due a tre giorni. 72 ore anziché 48 per una visita
più consapevole, a fronte dell’aumento del costo del biglietto. Non vorrei essere frainteso, ben venga anche il turista meno impegnato, magari interessato solo alla Cupola quale esperienza da immortalare attraverso un selfie incorniciato dal panorama. Dovrà pagare il medesimo prezzo d’ingresso e questo, nei nostri auspici, magari lo convincerà a dedicare attenzione anche agli altri monumenti. Vi sono poi precise motivazioni di ordine economico: da una parte, una maggiore attenzione a conservazione e restauro, dall’altra il tema della sicurezza. Accanto al normale invecchiamento, la costante e notevole affluenza turistica impone un’attenzione crescente ai nostri monumenti, i quali non sono stati pensati per numeri così alti di visitatori. È allo studio del Consiglio, insieme ai responsabili dell’Opera, un significativo piano quinquennale di intervento il quale assorbirà ingenti risorse finanziarie. Per quanto riguarda il controllo degli accessi ai nostri luoghi, questo è divenuto, nell’attuale contesto storico, una esigenza imprescindibile. I controlli tutelano il visitatore, ben disposto in cambio a una maggiore attesa. Peraltro, purtroppo queste code sono state lette come un danno economico alla città, secondo l’equazione “turista in fila non spende nei negozi”. Insomma, un paradosso: pur essendo uno dei principali attrattori di visitatori siamo stati incolpati di far perdere risorse economiche al tessuto commercial-imprenditoriale della città. In aggiunta, il nuovo piano sicurezza nel solo 2018, tra investimenti e maggiori costi del personale, assorbirà risorse finanziarie per circa 400 mila euro. Mugnaini A questo proposito, ricordando ciò che Eike Schmidt ha detto nell’intervista a Cultura Commestibile (v. n°246) ossia che gli Uffizi sono un obiettivo sensibile, questo è possibile dirlo anche per la Cattedrale. Per questo, fin dal primo Consiglio, ci siamo posti questo problema e abbiamo iniziato a cercare soluzioni per migliorare la sicurezza senza limitare o condizionare troppo gli accessi. Allo stesso modo per noi è rilevante l’impegno sociale al quale ci ha richiamati il cardinale Betori nella sua omelia di Natale in Duomo, quando ha chiesto all’Opera di fare qualcosa per la città. Per questo abbiamo avviato il progetto per le periferie, che vorremmo far partire al più presto. Frangioni Ci interessa approfondire questo tema, perché vediamo che per ragioni
economico-turistiche, negli ultimi tempi, il centro della città si è rinserrato e gli interessi si sono di nuovo concentrati qui. Mugnaini Il nostro discorso riguarda non i turisti, ma la necessità di far sì che i fiorentini tutti percepiscano l’Opera del Duomo come un qualcosa che appartiene prima di tutto a loro, sia ai fiorentini che vivono in via de’ Servi, sia a quelli che abitano alle Piagge o a Campo di Marte. Bagnoli L’Opera persegue, per legge e statuto, due obiettivi di fondo: la tutela e conservazione dei monumenti, salvaguardandone le funzioni religiose, civili culturali e storiche; la promozione della cultura e dell’arte. Accanto al primo, di cui si è parlato, nel 2018 particolare attenzione sarà dedicata al secondo, quale strumento di avvicinamento alla città e ai fiorentini. Siliani L’impegno su restauro e conservazione del patrimonio artistico e architettonico delle chiese, su cui riversate le risorse derivanti dagli accessi, è importante anche per il secondo obiettivo. Infatti, dove è che possiamo comprendere la grandezza del Rinascimento – svuotato della stucchevole retorica sulla bellezza – se non qui? Se voglio capire come incide la prospettiva nella cultura del Rinascimento, devo andare in S.Maria Novella e contemplare la Trinità di Masaccio. Ma è impressionante ciò che ha rivelato un recente studio, cioè il fatto che una percentuale significativa di ragazzi della periferia fiorentina non è mai venuta in centro. Allora, forse, potrebbe essere interessante studiare strumenti per incentivare l’accesso ai monumenti e musei fiorentini da parte dei cittadini residenti. Penso, ad esempio, all’abbonamento annuale a tutti i musei e monumenti, ad un prezzo abbordabile, che consente l’accesso per tutto l’anno più volte, come è stato sperimentato con successo a Torino e in Piemonte. Bagnoli Appare urgente una riflessione sulla natura dell’ente e sulla capacità di incidere sulla consapevolezza dei turisti nel momento in cui diventano nostri visitatori. A ben vedere, siamo di fronte a un’Opera “viva” – mi ispiro al titolo di un libro del 2015 che racconta la fabbriceria attraverso le persone che vi lavorano - e non a un grande museo. Nei nostri luoghi, accanto a un Museo che di per sé racconta una storia, la costruzione del Duomo, e quindi fornisce una rappresentazione attiva, si svolge una quotidianità fondamentale. Anzitutto la funzione liturgica, tipica dei luoghi di culto e senz’altro di maggior rilevanza a livello cittadino. Inoltre, accanto ai servi-
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zi museali tipici (guardiania, guida, ecc.) funzionali anche ai momenti religiosi, ai quali si aggiungono le attività didattiche e di attenzione all’accessibilità, vive una struttura dedicata alla manutenzione dei monumenti. Basta pensare alla “Bottega” e agli scalpellini, maestri artigiani dal know how acquisito attraverso esperienze trentennali, o all’edilizia acrobatica che tanto successo ha avuto negli ultimi mesi sulla stampa internazionale. Una tegola da sostituire viene rifatta all’Impruneta secondo un metodo secolare, il marmo per ricostruire si acquista a Carrara come da tradizione. Siamo un’Opera viva perché la costruzione prosegue senza soluzione di continuità e attraverso la sezione didattica questo viene reso manifesto alle scuole, ai visitatori, insomma a tutti gli interessati. Mugnaini Per fare un esempio concreto alcune delle opere oggi utilizzate per il cd. percorso tattile, dedicato non solo ai non vedenti ma a chiunque voglia provare l’esperienza di toccare un’opera d’arte, sono state realizzate nella nostra bottega. Così come le copie delle statue sulla facciata della cattedrale, che avevano non pochi problemi, sono state realizzate dai nostri artigiani e dai nostri operai. Bagnoli In primavera i nostri tecnici andranno a Carrara a scegliere i marmi per rifare queste statue. Sarà un’esperienza straordinaria anche per noi del Consiglio, ci scopriamo parte di una cultura produttiva e, dunque, l’Opera non mostra semplicemente un quadro o una statua del passato, ma si muove, cresce e si rinnova. Questo rappresenta un aspetto fondamentale, se non la caratteristica più importante, e dovremo essere in grado di trasmettere questa consapevolezza a tutti i fiorentini. Siliani Parliamo anche del vostro rapporto con il resto del sistema museale e monumentale di Firenze: lo Stato con Uffizi, Accademia, Bargello, Pitti, ecc. e il Comune con Palazzo Vecchio e i suoi musei. Tutti dicono che c’è bisogno di una maggiore integrazione, ma poi quando si arriva a stringere le difficoltà prendono il sopravvento. Bagnoli C’è una difficoltà oggettiva data dalla diversa natura giuridica di questi enti. I rapporti sono ottimi. Ma quando tocchiamo gli aspetti operativi, noi siamo una istituzione privata e gli altri sono in maggioranza istituzioni pubbliche. Per questo noi abbiamo un diverso modo di operare rispetto agli altri enti e questo complica le possibilità di collaborazione. Esiste un importante strumento di coordinamento, la
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Intervista a Luca Bagnoli, presidente dell’Opera di S.Maria del Fiore, e a Domenico Mugnaini, membro del CdA dell’Opera Firenze Card, che cerca di far sì che i grandi attrattori possano aiutare i turisti a visitare le realtà meno conosciute con il biglietto unico. Si tratta di un aspetto che ci vede partecipi e interessati. Inoltre vorremmo svolgere un ruolo per favorire percorsi museali anche diversi. In ciò rientra l’accordo con la Misericordia di Firenze, consistente nella realizzazione di un biglietto unico per l’accesso ai musei dell’Opera e della Venerabile Confraternita. Ci auguriamo così di poter far maggiormente conoscere il Museo della Misericordia, un gioiello della nostra città che racconta la storia di questa istituzione, ai tanti turisti che visitano i nostri monumenti. Inoltre, vi è un progetto di rete dei musei della carità: S. Maria Nuova, lo Spedale degli Innocenti, Montedomini, la stessa Misericordia. In definitiva, i progetti concreti per sistema ci sono. Siliani Cosa potrebbe fare un sistema museale e culturale ben organizzato per destagionalizzare il turismo, renderlo un po’ meno intensivo e consumistico? Bagnoli Sulla destagionalizzazione del turismo ho una personale opinione: non sono molto d’accordo sulla necessità di incentivare un flusso turistico continuo in modo da riempire anche i momenti di bassa stagione. In una città d’arte come Firenze i nostri capolavori, pensa all’Opera e i suoi monumenti, hanno bisogno di periodi di riposo. I tempi per fare le necessarie manutenzioni, incidendo sulla liberà fruibilità dei luoghi, per esempio occupando piazza del Duomo con gli strumenti del mestiere della conservazione.
Frangioni Qual è la vostra idea di allargare le attività dell’Opera in un ambito di città metropolitana o dei Comuni contermini a Firenze e non solo nei suoi quartieri più periferici? Bagnoli Abbiamo molte idee in merito. Tutto rientra sotto il cappello dell’allargamento della possibilità di fruizione della cultura che promuoviamo (concerti, eventi). Sarà l’Opera a muoversi verso i fiorentini anche uscendo dai pur ampi confini della nostra piazza. Mugnaini … sperando poi che questo induca, o faccia venire voglia, ai cittadini dei vari Comuni di Impruneta, Scandicci, ecc. di venire a visitare i monumenti dell’Opera. Frangioni L’Opera nasce all’interno di uno sviluppo produttivo e finanziario della città... Bagnoli Sì, l’Opera nasce quale Ufficio Opere pubbliche dell’allora ente locale, finanziato dai cittadini e non dall’atto di liberalità di un mecenate. Frangioni Fino al ‘600 questo rapporto fra la produzione della ricchezza e la produzione artistica aveva queste caratteristiche. La realtà produttiva fiorentina, fatta oggi da diverse aree industriali perlopiù periferiche (Osmannoro, Scandicci, Sesto, ecc.), sembra essere più disinteressata al fenomeno culturale; e di conseguenza c’è un distacco fra le aziende che la costituiscono e il destino o la situazione dell’area centrale della città dove si concentrano i lasciti gloriosi del Rinascimento. Che rapporto esiste fra l’attività produttiva industriale e anche di ricerca e quella dell’Opera?
Bagnoli Vi è un forte rapporto fra la Firenze del Rinascimento e la Firenze di oggi, perché se la guardiamo con l’occhio dell’economista, in realtà non è vero che Firenze vive solo di turismo: gli ultimi rapporti Banca d’Italia sulla Toscana ci indicano che l’export è il comparto che cresce maggiormente, ci sono PMI e anche alcune grandi imprese sul territorio di grande eccellenza. Voglio pensare che questo sia il frutto di una sorta di capacità intrinseca del territorio che si è tramandata nei secoli e che fa sì che questo risulti un territorio particolare. Accanto alla rendita di posizione che il fiorentino sa sfruttare evidentemente molto bene (basti pensare all’esplosione del fenomeno AirBnB), c’è una cultura che trasmette nei secoli, certo modificandola, la capacità di produrre, di realizzare, ben diversa dalle efficienti standardizzazioni mitteleuropee, in cui il saper fare fa la differenza. Naturalmente questo non è merito dell’Opera del Duomo, ma essa è un esempio di continuità di questa cultura che dovremo essere capaci mantenere e che si trova qua, in questo territorio e non in altri. Questo è il patrimonio culturale-produttivo che identifica e distingue la nostra realtà e che, forse inconsapevolmente, trasmettiamo. Siliani Da economista qual è, secondo lei, il limite fra il lecito e l’illecito, l’opportuno e l’inopportuno nello sfruttamento economico di un monumento o di un’opera d’arte? Bagnoli Posso dire che non condivido la chiusura di un monumento pubblico alle persone perché qualcuno paga per utilizzarlo in esclusiva. Detto questo, se ci sono dei momenti, beninteso al di fuori della fruizione ordinaria, nei quali chi se lo può permettere chiede di poter vivere quel monumento in modo esclusivo e i denari che paga per ciò servono affinché anche tutti gli altri ne possano fruire, io questo non lo trovo censurabile. Mugnaini Sono d’accordo: la cultura deve essere disponibile, ma allo stesso tempo per mantenere disponibile la cultura occorre trovare le risorse per farlo. Quindi, ci vuole anche il giusto prezzo. Frangioni Ma è difficile definire un canone per l’utilizzo temporaneo in esclusiva di queste opere: il rischio è la mercificazione del patrimonio. Essa, però, almeno dovrebbe avere un suo livello di qualità, che è ben difficile da definire. Siliani Comunque, a proposito di “Opera viva”, voi avete dimostrato con il nuovo museo dell’Opera che anche una istituzione
“polverosa” può realizzare una istituzione culturale, un museo modernissimo, l’unico museo scenografico che esista a Firenze. E questo, forse, ha un po’ cambiato anche la percezione che i fiorentini e i visitatori hanno dell’Opera. Bagnoli Sì, si possono anche fare cose nuove nel rispetto della tradizione, ma con un’ottica di fruizione moderna. Su questo cercheremo nel 2018, anche per avvicinare culture diverse da quella europea, caratterizzata da una visione cristiana, di svolgere alcune analisi su come realtà culturalmente lontane percepiscono il nostro museo. In che modo mondi che storicamente si sviluppano al di fuori di una cultura cristiana vivono un museo religioso siffatto? Questo non solo nell’esposizione degli oggetti in sé, ma anche nei servizi (guide, schermi, percorsi touchable, ecc.). Un visitatore asiatico, piuttosto che africano come percepisce delle opere d’arte le quali per noi hanno un significato profondo legato alla nostra cultura di origine? Quanto di questo significato arriva a loro e quanto invece viene reinterpretato? Dobbiamo fare lo sforzo di osservarci anche con gli occhi degli altri, per capire se alla fine questo essere un museo nuovo lo è anche per i parametri del resto del mondo e non solo agli occhi del fiorentino che, forse, è abituato a tutta questa bellezza. Che naturalmente è un concetto relativo per quanto reale: dunque dobbiamo domandarci se chi viene dalla Cina, dalla Russia o dal Sud America e osserva per la prima volta la Maddalena di Donatello, abbia consapevolezza di cosa rappresenta quell’opera. Vorremmo essere capaci di valutare e comprendere se riusciamo a rispondere alle aspettative di queste diverse culture nel momento in cui visitano il Museo sia per le opere esposte sia per i servizi complementari. Mugnaini La scorsa settimana ho accompagnato alcune persone al Museo. La stanza più bella del Museo per me è quella che ospita tra le altre opere la Maddalena. Una delle persone che era con questo gruppo, una volta entrato nella sala ha esclamato “Ecco San Giovanni…. So bene che è la Maddalena, ma per me è San Giovanni”. Detto da un architetto, mi ha fatto riflettere sui diversi punti di vista, le diverse culture, i diversi occhi attraverso cui guardiamo la stessa opera d’arte. In realtà un dipinto, una statua, un affresco viene visto con gli occhi ma chi lo sa guardare con il cuore è colui che forse ha la visione migliore.
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Le Sorelle Marx
Sceneggiata napoletana (con neve)
In piazza del Plebiscito, qualche giorno fa, si è assistito ad una sceneggiata napoletana di quelle classiche. Interprete d’eccezione Giggi DeMa, al secolo Luigi De Magistris, sanguigno sindaco partenopeo. Il quale se l’è presa a morte con la Protezione Civile, rea di non averlo avvertito che sarebbe nevicato. DeMa è entrato come una furia nella sede della Prefettura, nell’ufficio della prefetta Carmela Pagano, urlando come un indemoniato: “Ué, ma ca’ è tutta chesta confusione? Quèll carògn ra’ Proteziòn Civilè nun ci hannò avvisatì. Cosà facevanò? Ballavàn
I Cugini Engels
Chiare lettere
Al palazzo del Quirinale, tarda mattina, tutto è tranquillo: Camere sciolte, attesa elettorale, ma senza particolari patemi, da arbitro tranquillo. Un consigliere entra trafelato nello studio del Presidente Mattarella, intento a compulsare le sentenze della Corte Costituzionale fra il 1956 e il 1958. “Presidente, ci giunge una email dal deputato Luigi Di Maio, indirizzata a Lei personalmente” “Dottor Augello, si esprima per favore in italiano corrente: cosa significa email?” “Presidente, è un messaggio di posta in formato digitale inviato attraverso Internet...” “Forse, vuole dire rete internazionale? Basta con questi modernismi anglosassoni! E cosa scrive questo deputato? Mi dia la lettera stampata” “Ecco, Presidente... c’è una lista di nomi, ma non so dire cosa possano significare...” “Dunque, vediamo... 18 nomi... Di Maio, Costa, Fioramonti, Tridico, Pace... ma cos’è? La formazione dell’Avellino? Ma gioca in serie B... Cosa me ne faccio?” “Presidente, l’on. Di Maio sostiene di farle
8 3 MARZO 2018
a’ tarantellà? o’ stavàn mangiànd o’ Babà e bevendò? Poi duje uagliune me hannò tiratò na’ pallà e’ nevè, chisti fetentì! Io chiamm l’’esercìt e li facciò accìrere tuttì! oterè o’ Popolò! sfogliatèll e babà ppe tuttì quantì” Ma la Pagano, donna volitiva, originaria del casertano, non si è fatta mettere i piedi in testa e ha prontamente replicato: “Carò Luigì, a me nun me piglia ppe o’ culò, capitò? Qui si c’’è qualcùn ca’ chiamà l’’esercitò, chella song io. E te facciò mettèr in prigiòn e gettò via a’ chiavè! Ca’ fusse nevicatò, o’ sapevà pure una cortesia inviandole in anteprima i nomi dei suoi ministri, così intanto Lei può portarsi avanti e far preparare i documenti per il giuramento...” Il Presidente perde il suo tradizionale aplomb e dà in escandescenze, addirittura cambiando il (mono)tono della voce: “Il giuramento? Gesto di cortesia??? Ma questo è completamente pazzo!!! Io con i suoi nomi mi ci pulisco... Presto dottor Augello mi porti penna d’oca, calamaio e pergamena che scrivo a questo Di Maio una lettera di fuoco!!!” “Ecco Presidente, mi ero permesso già di preparare il necessario” Il Presidente si siede alla scrivania, intinge la penna nel calamaio e inizia a vergare di proprio pugno una lettera al fulmicotone: “Egregio on. Di Maio, da questo calaMaio rispondo alla Sua pregiatissima missiva digitale, inviatami testé con modalità invero assai impropria avendo questa presidenza un archivio preminentemente cartaceo. Prendo atto della lista di eminenti personalità che la Signoria Vostra ha ritenuto di dovermi anticipare per le vie brevi, a Sua detta quale gesto di cortesia istituzionale. Tengo tuttavia a precisarLe, con il dovuto rispetto per la Sua alta figura istituzionale di vice presidente della Camera dei Deputati, che detta lista può... tranquillamente c...” omissis Solo i posteri potranno dirci se la lettera avrà sortito gli auspicati effetti.
o’ gattò. Sul nu’ deficiènt comm te potevà ignorarlò. Ma nun a’ guardì a’ televisionè? ievete e’ ca’ e tornà a suonàr o’ tamburèll e a recitàr Pulcinellà, cafonè!” Pare siano volati ancora gli stracci in Prefettura, fino a quando sono stati visti uscire a braccetto e si è sentito dire a DeMa: “jamme Carmelà a prendèrc na’ tazzulella e’ càffè. Poi te facciò na’ bellà serenàt cu o’ mandolinò. Attènt a nun scivolàr ncopp’o’ ghiacciò ca’ ha fatto mettèr chella carògn ra’ Proteziòn Civilè” Pace fatta sotto il Vesuvio, fino alla prossima nevicata.
Le nipotine di Bakunin Ultimi consigli elettorali Se questa campagna elettorale vi sembra la più brutta di sempre, se non avete più voglia neppure di accendere la tv, di leggere un giornale o di curiosare su internet, per capire se qualche partito politico ha un’idea intelligente e realizzabile, se siete ancora indecisi se domenica 4 marzo vi alzerete dal letto per andare a votare o per andare a sciare allora vi siete persi le idee di due partiti fondamentali per l’Italia. Uno è Il Partito Repubblicano, che ha ancora l’edera come simbolo (avvinti come l’edera....), che propone nientepopodimenoche un canale navigabile da Crotone a Gioa Tauro per snellire il traffico navale dallo Ionio al Tirreno senza dover circumnavigare la Calabria. L’altro è Il Popolo della Famiglia dove un pacioso Adinolfi propone l’imperdibile idea di obbligare i frequentatori di sexy shop a mostrare un documento di identità all’ingresso per scongiurare che l’inferno sia popolato di adolescenti ignari e vergini. Dite la verità ora finalmente avete le idee più chiare.
Nel migliore dei Lidi possibili
disegno di Lido Contemori
didascalia di Aldo Frangioni
Lo Zio di Trotzky
Rotaie bollenti
La sovranità spetta all’incertezza: voto di cuore, voto di cervello o voto di muscolo?
Pare che sia stato aperto un fascicolo alla procura della Corte dei Conti di Roma verso l’Amministratore delegato di Ferrovie dello Stato Renato Mazzoncini, per dispendio irregolare di denaro pubblico. Nell’audizione preliminare di fronte al magistrato che gli contestava spese immotivate per 10 milioni di euro, Mazzoncini si è fieramente difeso: “Egregio procuratore, ma lei ha un’idea di quanto siano importante le scandiglie? Siccome non ne abbiamo abbastanza per evitare il congelamento degli scambi ferroviari nel nodo di Roma Termini, io ho dovuto provvedere d’urgenza”. Il procuratore lo ha incalzato: “Ma guardi, 10 milioni di euro mi sembrano un po’ troppi per una ghiacciata, non le sembra?” Ma il Mazzoncini, determinato: “Ma sta scherzando? Qui incomincia a nevicare un po’ troppo spesso: nel 1956, nel 1985 e nel 2012: bisogna intervenire rapidamente. E questa scandiglie non sono una cosa marginale, costano troppo e consumano come un appartamento con un impianto da 3 kWh. Bisognava inventarsi qualcosa…” E il procuratore “sì, capisco, ma 10 milioni di affitto di animali da allevamento mi sembra un po’ troppo e soprattutto cosa c’entrano con la gelata?” Mazzoncini non si fa cogliere di sorpresa: “20.000 buoi e asinelli a riscaldare a fiato i deviatoi, mi sembra una genialata che solo a me, che ho contribuito a costruire la metropolitana automatica di Copenhagen poteva venire in mente. Via, me lo dica, che sono un genio!” Il procuratore chiudendo il fascicolo: “Guardi, signor Mazzoncini, le consiglio di prendersi urgentemente una consulente in materie giuridiche. Io potrei consigliarle la figlia di una nostra collega di Firenze che ha risolto tanti problemi al sindaco di quella città e prima ancora al sindaco Renzi. Vedrà che poi non avrà più problemi”.
9 3 MARZO 2018
di Laura Monaldi La Street Art è da sempre considerata un’intensa attività di espressione in cui forme e colori si addensano, creando sillogi d’immagini dal forte impatto visivo. Una forma riconosciuta di auto-affermazione e di creatività che, dall’atmosfera metropolitana e underground, si è mossa verso l’universo del Sistema delle Arti, in quanto messa in luce di un’artisticità dinamica, capace di superare i limiti dei canoni museali, rivendicando un’idea di immagine sempre più reale e interpretativa. In questa prospettiva Toxic - artista statunitense classe ‘65, oggi riconosciuto come un pioniere della street art al pari di Basquiat o Rammelzee - rende l’idea di un’Arte come pura forma espressiva di sensi e sensazioni del mondo contemporaneo. Una prassi artistica che unisce i ritmi underground a un lettering ricercato e poetico, in cui tutti le parti giocano un ruolo armonioso: scritture, colori, linee e segni rappresentano l’universo metropolitano di un graffitista che ha saputo oltrepassare i confini del “muro” per invadere gli spazi espositivi ed elevare una pratica - riconosciuta da pochi - a vera espressione estetica. All’idea di arte e di mondo si unisce la valenza espressiva mediatica e comunicativa delle sue opere, tese da sempre a mettere in luce che il legame fra arte e vita non è ancora giunto alla propria saturazione e che le pulsioni artistiche possono ancora essere in grado di dare voce e colore a un mondo cieco e a una cultura avvolta nel proprio silenzio. Al progresso del mondo della Storia umana l’artista dona la propria interpretazione, giorno per giorno, tela per tela,
10 3 MARZO 2018
La Toxicità dell’arte
con la necessaria volontà di far sentire la propria voce e il proprio pensiero, in un’epoca in cui l’aspetto culturale è sublimato e all’artista non resta altro che esprimersi direttamente nell’ambito sociale a lui più consono, passando dalla dimensione privata a quella pubblica e viceversa, colpendo il senso comune là dove l’artista ha la certezza di essere notato, ossia nei luoghi e negli ambienti tipici della quotidianità metropolitana. All’aspetto prettamente concettuale è stretta-
mente collegato quello sentimentale ed emozionale: per Toxic operare nel mondo dell’arte non significa solo esprimersi con la pittura spray, olio e acrilici, ma anche scendere nel profondo di sé alla scoperta dell’emozione pura da interpretare e far contemplare. Un segno intangibile che graffiti e street art nacquero dalle ceneri epocali di una rivincita primitiva dell’istinto più ancestrale dell’uomo: dare ai posteri un dono del passato come testimonianza espressiva del tempo socio-culturale che fu.
vetrine d’arte vetrine d’autore
Leonardo non era vegetariano, ma praticava il foraging
di Vittoria Maschietto Noi italiani viviamo per il cibo. È risaputo: noi pensiamo cibo a ogni ora del giorno, parliamo di cibo a tavola e quando siamo a ristorante parliamo di altri ristoranti. Per gli italiani il cibo è l’elemento fondante della famiglia, della casa e delle festività, delle ricorrenze e degli incontri. E il nostro è uno dei pochissimi paesi al mondo, forse addirittura l’unico, in cui le portate di un pasto sono due e non una. Ebbene sì, abbiamo fatto del cibo il nostro manifesto. Anzi, in un momento in cui la politica italiana vive un declino inarrestabile, credo che il cibo sia diventato più che mai una bandiera e un vanto. E’ come un buon segretario di partito. Anzi, a poche ore dalle elezioni, credo di poter ragionevolmente affermare che, mentre i politici hanno perso ogni tipo di credibilità e presa, l’unico leader sul quale sentiamo di poter ancora e sempre fare affidamento è lui: il cibo. Recentemente, però, sta accadendo qualcosa di preoccupante. Sembra che anche il nostro grande capo abbia perso colpi, e che anche la sua reputazione abbia iniziato a vacillare. Pare che siamo diventati ignoranti anche in materia alimentare. E che il qualunquismo della politica abbia contagiato anche le nostre tavole. La questione mi si è palesata con lapalissiana evidenza quando ho letto il tema che guiderà la prossima edizione del Taste a Firenze: foraging. Alzi la mano chi sa dirmi cos’è. Io non ne avevo idea. Quando l’ho scoperto, però, mi è tornato in mente il titolo di un libro: Leonardo non era Vegetariano. E sono arrivata a una conclusione ulteriore: forse Leonardo non era vegetariano, ma sicuramente era esperto di foraging. Secondo il libro in questione, l’uomo che con le sue intuizioni ha varcato tutti i campi dello scibile umano, anche ai fornelli non era da meno. Difatti, se al suo tempo fosse esistito un “Food Magazine” di tendenza, certamente avrebbe dedicato un paginone fotografico alla sua cucina hi-tech. Ma la sua abilità andava ben oltre la
costruzione di ingegnosi strumenti per la conservazione e la preparazione degli alimenti. Si racconta nel libro che Leonardo possedeva vigneti e oliveti, e produceva un ottimo vino. E non c’era erba aromatica che non avesse classificato, e bacca o frutto del quale non conoscesse le proprietà nascoste. Amava inoltre sfruttare queste sue conoscenze per arricchire i piatti, anche quelli più semplici, e trarre il meglio dalle pietanze che cucinava. Ora, poiché dicesi foraging la pratica di esplorare diversi ambienti naturali al fine di raccogliere erbe e ogni genere di prodotto che la terra generi spontaneamente, converrete con me che questa pratica quanto mai desueta e impraticabile al giorno d’oggi era senz’altro un’abitudine naturalissima per il nostro amato Leonardo. Ma vi farò una confidenza ancora più sorprendente. Leonardo non aveva seguito nessuno corso per aggiornarsi sulle novità del foraging,
né ebbe mai a sua disposizione alcun sito di cucina. Tutto quello che sapeva lo aveva imparato provando, mescolando, facendo intrugli o semplicemente facendo funzionare la fantasia. Che dire quindi? Che sulla politica, ormai, nessuno nutre grandi speranze? Con questa affermazione credo di aver raggiunto già la soglia ammissibile di tolleranza del luogo comune. Ma devo aggiungere una piccola puntualizzazione sul cibo. Noi che siamo tutti vegan-friendly e senza olio di palma, ma poi non sappiamo più apprezzare un sapore o un profumo che non venga dalla lista dei must eat dell’infuencer più seguito del momento o dalla confezione bio del green-market per eccellenza. Ricordiamoci di Leonardo. Del suo non essere vegetariano. E mentre sperimentiamo il foraging tra i padiglioni del Taste ricordiamoci che essere vegetariani non significa non essere ipocriti. Né rinunciare alla fantasia.
Maschietto Editore – Libri d’Arte via del Rosso Fiorentino, 2/D - 50142 Firenze tel/fax +39 055 701111
11 3 MARZO 2018
di Susanna Cressati Il diritto di rileggere, dice Daniel Pennac, è forse il più bello del suo ormai celebre decalogo, perchè quasi sempre la rilettura porta con sé una “scoperta non nuova, ma sicuramente diversa, vista sotto altra prospettiva e per questo più matura”. Può perfino accadere che una rilettura ascoltata, per esempio quella di Giorgio Vasta di “Una questione privata” di Beppe Fenoglio (al Vieusseux per il ciclo “Scrittori raccontano scrittori”) inviti a una rilettura personale che rivela ancora un’altra “piegatura” della stessa storia. Il libro, suggerisce Vasta, è come un ponte di corda lanciato ad oscillare sulla vertigine di una gravina. Lo scrittore siciliano ha ragione: il libro postumo di Fenoglio tutto è meno che quello per cui viene spesso proposto ai giovani, un esempio di letteratura resistenziale. Della Resistenza con la R maiuscola. Certo, di quel filone ha molte componenti e tematiche: la violenza della guerra, le nefandezze fasciste, la miseria e la grettezza di una civiltà contadina allo stremo, il coraggio dei ragazzi partigiani che si aggirano per i sentieri delle Langhe, “warriors for the working-day”, che però della mitologia resistenziale conservano poco più che i fantasiosi nomi di battaglia, i “nik name” di una volta. Ma tutto questo, invece di essere al centro della narrazione, fa da sfondo al cuore del racconto, che è una questione veramente privata, il dubbio che farà piombare il giovane combattente badogliano Milton, come il protagonista del poema del suo celebre omonimo, in un inferno fiammeggiante, in un dolore eterno. Il paradiso perduto del ragazzo partigiano è legato al sentimento che coltiva per Fulvia “splendore” e che si deforma orribilmente di fronte alla possibilità che la giovane, a cui ha acceso tante sigarette, con la quale ha ascoltato per decine di volte l’indimenticabile melensa Over the raimbow, che lo ha stuzzicato senza concessioni, gli abbia preferito l’amico Giorgio, anche lui partigiano. Di questa deformazione repentina (in quattro giorni) di un sentimento, di un uomo e di un corpo è testimone, e solo in parte complice, un mondo slabbrato, corrotto, fradicio marcio, più simile a una distopia post nucleare che a un ambiente reale, un territorio senza tempo, devastato da un pioggia selvaggia, da un diluvio senza remissione. I colori sono il grigiastro impenetrabile della nebbia che sale i dorsi delle colline come
12 3 MARZO 2018
Né Resistenza né amore un miasma di palude, il marrone dell’acqua dei torrenti. La consistenza quella di un fango spesso e putrido, nauseante e “tenace come un mastice”. Tormentato dall’ambiguità connaturata alle “questioni” umane, Milton diserta, si toglie la divisa e veste panni civili, abbandona i suoi compagni ai quali non lo legano né amicizia né considerazione, arriva a soffrire per la morte di un nemico che “gli serve” nella sua ricerca della verità, si immerge nella sua febbre e nel suo andirivieni senza fine. Esce dalla storia per cadere nel completo oblio di se stesso. Giorgio Vasta definisce il travaglio di Milton come frutto di un amore degno di un romanzo cavalleresco, “un amore cieco, incondizionato, il più bello”. Ma è davvero “amore” ciò che lo fa gridare nella pioggia alla donna lontana: “Tu non devi saper niente, solo che io ti amo. Io invece debbo
sapere, solo se io ho la tua anima...Lo sai che se cesso di pensarti, tu muori, istantaneamente?”. E’ davvero amore quello che lo accompagna nella sua pazza corsa per evitare le pallottole fasciste e lo spinge a una accusa assurda: “Sono vivo. Fulvia. Sono solo. Fulvia, a momenti mi ammazzi”? E’ amore o non somiglia piuttosto a un delirio di possesso esclusivo, alla stessa bramosia che spinge tanti uomini a aggredire le donne, a violarle, a ucciderle? Questa frenesia ingorda ed egocentrica degrada Milton anche fisicamente, fino alla bestialità come e più della fatica, della fame, della corsa a perdifiato: “Irruppe Milton, come un cavallo, gli occhi tutti bianchi, la bocca spalancata e schiumosa, a ogni batter di piede saettava fango dai fianchi”. La trasformazione è completa. La caduta all’inferno avvenuta. Questo libro non parla di Resistenza, ma nemmeno di amore. Provate a rileggerlo.
Musica
Maestro
Genio e delicatezza
di Alessandro Michelucci Situata nel distretto londinese di Islington, la Union Chapel è una chiesa protestante nota per l’impegno sociale e culturale, dove si tengono regolarmente concerti di ogni tipo. Quello dello scorso 11 dicembre era stato organizzato per ricordare Simon Jeffes, fondatore della Penguin Café Orchestra (PCO), morto per un male incurabile alla fine del 1997. Protagonista del concerto era il figlio di Simon, Arthur, leader del nuovo gruppo Penguin Cafe, che nel 2009 aveva raccolto l’eredità paterna proiettandola nel ventunesimo secolo. La formazione quasi omonima ha eseguito l’intero Union Café (1993), ultimo disco registrato in studio dal gruppo di Simon Jeffes, ristampato recentemente. Nata alla metà degli anni Settanta, la PCO seppe ritagliarsi uno spazio autonomo, lontano anni luce dalla rozzezza del punk nascente e dalla magniloquenza del prog in declino. Una musica geniale, delicata ma mai leziosa, un irripetibile mélange fatto di ambient music, echi classici, folk irlandese, pop, world music e melodie sghembe. Jeffes era abituato a collaborare coi musicisti più diversi, dalla Yellow Magic Orchestra di Ryuichi Sakamoto a Sid Vicious dei Sex Pistols (all’epoca già disciolti). Il primo LP della PCO, Music from the Penguin Café, fu pubblicato dall’etichetta Obscure Records di Brian Eno. Ma veniamo al gruppo odierno guidato da Arthur Jeffes. Il suo ultimo CD, The Imperfect Sea, è il terzo dopo A Matter of Life (2011) e The Red Book (2014, vedi numero 99). Il “mare imperfetto” evocato nel titolo indica i compromessi e le imperfezioni implicite nella realizzazione di qualsiasi progetto. Questi limiti, dice Jeffes, incidono sul processo creativo e possono determinare sviluppi imprevisti. Il nuovo disco segna l’esordio con l’etichetta londinese Erased Records. Fondata nel 2007 da Robert Raths, la casa discografica si concentra sulla musica d’avanguardia pubblicando i lavori di artisti come Ólafur Arnalds, Peter Broderick e Nils Frahm. Quest’ultimo ha appena inciso un CD con Arthur Jeffes: la scelta conferma che il giovane pianista, pur restando
fedele alla lezione paterna, è un musicista capace di spaziare altrove. Vive negli anni Dieci del terzo millennio e ne respira gli stimoli. Tornando a The Imperfect Sea, le nove composizioni confermano una sostanza fatta di genio e delicatezza che si muove in varie direzioni: il gusto vagamente rinascimentale di “Ricercar”, il minimalismo di “Cantorum”, il piano nostalgico di “Now Nothing”, i minuziosi intrecci
cameristici di “Rescue”. La ricca strumentazione include diversi strumenti insoliti, fra i quali celesta, harmonium e ukulele. Arthur Jeffes è influenzato dal padre e si richiama apertamente a lui, ma questo non gli impedisce di sviluppare una personalità artistica autonoma. Perché i figli, anche quando somigliano ai genitori, non sono mai la loro fotocopia vivente.
13 3 MARZO 2018
di Michelangelo Zecchini Nel 2006, a circa dieci anni dalla scoperta fortuita di un imprevisto insediamento etrusco a Gonfienti, un convegno istituzionale in quel di Prato dal titolo “Dalle Emergenze alle Eccellenze”, riaccese le speranze dei molti che avrebbero desiderato che le imponenti strutture dell’abitato, per l’appunto una delle tre eccellenze sotto esame e ormai giustamente riqualificato come “città degli Etruschi sul Bisenzio”, diventassero fruibili e fossero valorizzate come meritavano. Qualche parola sul perché Gonfienti è stata inserita – a buon diritto – fra le eccellenze archeologiche della Toscana insieme con Cortona e con le navi di Pisa. In estrema sintesi si può affermare che con il progredire degli scavi stratigrafici la città etrusca si sta qualificando come una delle più rilevanti realtà tardoarcaiche dell’Etruria settentrionale. Impostata urbanisticamente secondo ritmi modulari geometrici affini al tessuto a maglie ortogonali di Marzabotto, l’urbs bisentina, con la sua estensione che potrebbe superare i 40 ettari, sta assumendo i connotati di un grande fulcro internodale di smistamento transappenninico di metalli (in primis il ferro dell’Elba), di merci e di modelli culturali. Un po’, come disse il grande archeologo Guido Mansuelli riferendosi a Bologna, “un centro geografico del sistema con funzione di quadrivio” lungo quella via etrusca dei due mari (Tirreno e Adriatico) che secondo lo Pseudo Scylax (I, 17, 3), in soli tre giorni di cammino portava da Pisa a Spina e di cui fra il 2004 e il 2007 sono stati scoperti 300 metri al Frizzone di Capannori (Lucca). Il ciclo vitale dell’etrusca Gonfienti si dilunga per più di un secolo: fondata nella prima metà del VI sec. a. C., conosce un’akmé tra la fine del VI e la metà V secolo a. C. e, fra 450 e 400 a. C., subisce una crisi progressiva dovuta a un’avversa combinazione di eventi climatici e politici. Un riflesso della sua importanza nello scacchiere geopolitico dell’Etruria settentrionale proviene anche dai reperti recuperati, fra i quali spiccano sia le antefisse a nimbo baccellato sia un autentico capolavoro della ceramica attica a figure rosse, la kylix (fig. 1) dipinta da Douris nella fase tarda (intorno al 470 a. C.) della sua feconda attività artistica, allorché il Maestro, pur avendo perduto il segno sicuro delle opere giovanili, mantiene tuttavia una “inconfondibile poesia e tenerezza” (Enrico Paribeni). Vista la presenza di questi notevoli reperti, atteso che anche i piccoli abitati etruschi avevano i loro larari (luoghi di culto domestici), tenuta nel debito conto la singo-
14 3 MARZO 2018
Gonfienti etrusca
sarebbe l’ora di valorizzare l’eccellenza lare conformazione architettonica con porticato, c’è da chiedersi se la grande casa del Lotto 14, valutata in oltre 1400 mq e finora interpretata come una domus gentilizia, non debba essere piuttosto considerata come un luogo di culto pubblico. Nell’ambito del citato convegno di Prato, che avrebbe dovuto costituire un punto fermo per il futuro di Gonfienti, spicca – ed è del tutto condivisibile – l’intervento di Fausto Berti, direttore del Museo della Ceramica di Montelupo Fiorentino: “Spendiamo cifre importanti... per trasformare delle testimonianze (manufatti e oggetti mobili) in beni culturali: mettendoli nei musei e cercando di farli parlare. Manca invece la trasformazione da testimonianza a bene culturale di quelli che sono gli insediamenti, i luoghi stessi da dove questi oggetti provengono ... C’è effettivamente una discrasia che appare nettamente: le aree abbandonate e i musei spesso oggetto di una cura grandissima … io debbo pensare non solo alla conservazione
ma anche alla valorizzazione dei luoghi”. Non c’è che dire: i concetti espressi da Berti si attagliano alla perfezione alla condizione di Gonfienti. Dal canto suo l’allora presidente della Regione Toscana, Claudio Martini ebbe a sottolineare: “Bisogna però capire quand’è che un’emergenza diventa eccellenza e quando invece rimane solo emergenza”. Ebbene: osservando oggi, a 12 anni di distanza dalle parole di Martini e a 21 anni dal momento della scoperta, la situazione in cui versano le strutture murarie di questa straordinaria città etrusca, con un patrimonio di cui la comunità non fruisce che in minima parte, purtroppo non puoi fare a meno di lasciarti prendere dalla desolante constatazione che è ancora Madame l’Emergenza a farla da padrona. Cambiano i ministri, cambiano i funzionari, cambiano le politiche culturali: voglia il cielo che - spes ultima dea - cambino in meglio scelte e indirizzi anche per Gonfienti.
Fig. 1 – Medaglione centrale della kylix di Gonfienti (disegno di N.C. Grandin, 2009)
di Mario Preti L’abitato etrusco di Gonfienti non è un semplice reperto archeologico inanimato ma un tassello intelli-gente molto importante di un sistema territoriale etrusco integrato per la produzione agricola e, a scala maggiore, di una struttura logistica che metteva in comunicazione centri etruschi al di là dell’Appennino con quelli posti sulla costa. La comunità etrusca nella valle dell’Arno non era isolata e si riconosce fra quelle precoci, completamente matura già nel VII sac, perfettamente attiva nei settori tipici delle civiltà evolute, cioè infrastrutture, bonifiche agrarie, architetture, produzione e commercio di beni. Le capacità progettuali -elemento fondamentale di una civiltà- con il loro sapere erano alla base di questi sistemi. I grandi tumuli dello stesso VII sac (secolo avanti Cristo) della Montagnola e della Mula di Quinto Fiorenti-no e quello di Montefortini a Comeana, di circa 70 mt di diametro, sono architetture imponenti dove l’analisi dei progetti dimostra quanto matura fosse la conoscenza matematica dei costruttori e la loro ca-pacità tecnologica: la cupola a tholos della Mula, di 9,00 mt di diametro, è rimasta la più grande cupola su suolo europeo (per dire: sulla sponda occidentale del Mediterraneo) fino al tempo della Repubblica Romana, ma ancora è sconosciuta nei libri di storia dell’arte. L’area cimiteriale fra Quinto e Sesto doveva essere molto vasta se abbiamo notizie di più tumuli fino in epoca rinascimentale e soprattutto se osser-viamo che vi si trova collocato il Cimitero Monumentale di Sesto Fiorentino (per il principio della perma-nenza dei luoghi sacri). La rete fitta che teneva insieme la Valle dell’Arno con i suoi insediamenti era formata dalla divisione spaziale (poi chiamata “centuriazione” dai Romani) (fig.1). Questa pratica pianifi-catoria è antichissima e la troviamo in Mesopotamia da Uruk (metà del IV mac -millennio avanti Cristo) fino alle capitali assire del I mac. In Egitto, fino dal piano di Giza (metà III mac) e dalla straordinaria divi-sione spaziale di Waset-Tebe all’inizio del II mac (Karnak, Luxor, il viale delle Sfingi, i Templi Funerari occidentali, le valli dei Re e delle Regine con le loro tombe) . Le tecniche di divisione spaziale era-no patrimonio anche di popoli anatolici e mediorientali come gli Ittiti, i Micenei e i Cananei, nel II mac; dei Fenici e in parte dei Greci coloniali nel I mac in parallelo agli Etruschi. Ma quest’ultimi usavano proprio le tecniche mesopotamiche canoniche, differenziandosi dai loro contemporanei, e configurandosi come gli eredi diretti di questa pratica sul suolo europeo, usando perfino le medesime misure lineari e di superfi-cie, fra cui spicca lo Iugerum citato
dai letterati latini a proposito della fondazione di Roma. Le tecniche erano matematiche ed erano svolte in ambito sacro, tanto da definire la divisione spaziale etrusca una teo-pianificazione, al pari di quella mesopotamica e egiziana. Anche Gonfienti apparteneva alla divisione spaziale della piana dell’Arno, insieme ai tumuli, a Fiesole, ed altri siti minori, ed era una città del VII sac: già questa datazione ne indica l’importanza. Queste affermazioni apparentemente perentorie sono il risultato di un mio studio di più di vent’anni sull’architettura e l’urbanistica antiche, finalizzato alla comprensione del progetto architettonico, urbano e territoriale, che si intitola “La Ricerca di E”, ancora inedito. “E” è un pittogramma sumerico del IV mac (precedente alla scrittura cuneiforme) che significa “casa”, rappresentato da un quadrato. Fra i circa 500 pittogrammi ho trovato anche un rettangolo formato da due quadrati chiamato Bur (canale), corrispon-dente alla figura mesopotamica di 360x720 cubiti (pari a circa 180x360 mt), che è il rettangolo (formato da due quadrati)
Gli Etruschi nella valle dell’Arno base delle divisioni spaziali: esso dimostra che già nel IV mac esistevano le stesse mi-sure. Nel mio studio essa esce anche come la misura base delle centurie quadrate etrusche (360x360 mt= 2x180x360 mt) che a loro volta sono 1/4 della centuria romana (720x720 mt circa). Un estratto del mio studio è pubblicato sul sito www.mariopreti.it. Quanto ho descritto è solo uno degli strumenti innova-tivi con cui ho potuto analizzare con più efficacia il sito di Gonfienti, e che illustrerò in due articoli suc-cessivi. Fig. 1 -Divisione spaziale Piana Arno Tumuli di Quinto all’interno dei piccoli rettangoli Bur (180x360 mt) (CR Mario Preti)
15 3 MARZO 2018
di Mariangela Arnavas Il film di Guillermo Del Toro, vincitore del Leone d’oro a Venezia, evoca visivamente il simbolo onirico dell’anima, l’acqua appunto, la cui forma altro non può che essere l’amore ed è infatti un film da amare e in cui perdersi felicemente, recuperando quell’ansia ingenua che teneva inchiodati allo schermo negli anni ’60, con la paura che potessero non vincere i buoni. Ma non c’è niente di ingenuo nel film di Del Toro, perché l’evocazione degli anni ’60 , il film si svolge a Baltimora nel 1962, l’anno prima della morte di Kennedy, non è affatto casuale e quindi il richiamo emotivo che riesce perfettamente al regista facendoci recuperare una memoria proprio come la Madeleine di Proust ha un ruolo fondamentale nella storia: allora come oggi le disuguaglianze economiche e sociali in Occidente erano spaventose; allora come oggi classismo anche di genere e razzismo costituivano una vera minaccia ; allora come oggi le grandi potenze conducevano esperimenti scientifici all’insaputa dei popoli. Sembra che la differenza maggiore tra quella fase storica e l’attuale sia per noi contemporanei l’assenza di speranza, ma questa è una vicenda nella quale la realtà, sempre in agguato, insegue il sogno senza mai riuscire davvero a raggiungerlo , il che riesce a rendere lo spettatore leggermente euforico, con l’aiuto della perfezione estetica delle immagini, in cui ogni cosa assume una sfumatura turchese, anzi pallidamente turchese, come quella della Cadillac ovvero dell’auto , status symbol del dispotico Strickland, sadico burocrate, responsabile della creatura acquatica scoperta dagli scienziati americani . La creatura anfibia, ispirata al mostro del film Laguna Nera di Jack Arnold, si trasformerà , sotto i nostri occhi da vittima informe degli scienziati torturatori ad affascinante ballerino di Musical, un Fred Astair anfibio, fino ad assumere la statura di una vera e propria divinità senza mai cambiare sembianze, ma solo espressione, grazie all’amore di una perfetta Sally Hawkins, Elisa Esposito, donna delle pulizie muta che riesce ad entrare in comunicazione con lui, anche perché completamente ignorata dai burocrati della struttura top secret in cui l’alieno si trova prigioniero . È stato detto giustamente che il film è una celebrazione e al tempo stesso un riscatto della diversità, che ironicamente è elevata
16 3 MARZO 2018
all’ennesima potenza: Elisa è muta ma anche un’orfana abbandonata, il suo amico ,Richard Jenkins, è omosessuale ma anche incompreso è frustrato nel suo lavoro creativo, l’amica e collega, Octavia Spencer, è discriminata in quanto nera e in quanto donna. La chiave di lettura di questo riscatto narrativo sta nell’esaltazione della bellezza e della potenza della diversità in quanto tale; infatti, mentre nelle favole riecheggiate, soprattutto La bella e la bestia, ma anche Pinocchio se vogliamo, il riscatto è nella trasformazione finale in essere umano, qui invece la salvezza è nell’affidarsi all’acqua e nel rinascere attraverso l’amore, senza perdere la propria identità. Il film, che ha tredici candidature all’Oscar, è stato accusato di plagio da Paul Zindel, erede del premio Pulitzer; la vicenda avrà senz’altro risvolti economici, visto il successo ottenuto dal lungometraggio , ma mi permetto di dire che l’accusa non ha molto senso dato che la storia in se’, con la sua divisione manichea in buoni e cattivi non avrebbe granché fascino senza la poesia che sta nell’estetica simbolica dei dettagli
, come le scarpe rosse di Elisa , di cui solo una rimarrà al suo piede nell’acqua e non a caso, come la terribile torta al limone che l’amico di Elisa continua a comprare nella tavola calda che frequenta solo perché è innamorato non ricambiato del giovane gestore, di un verde lime emblematico del cibo plastificato degli anni ’60 e molto, molto altro ancora, compresa la favolosa Cadillac turchese pallido. Si potrebbe facilmente organizzare una gara tra cinefili a chi scopre più citazioni in questo film; per esempio , le sequenze iniziali ,squisitamente oniriche, della stanza immersa nell’acqua richiamano credo non a caso, le prime immagini di Inferno di Dario Argento, grande amico di Guillermo del Toro e padrino del film. C’è una dichiarata consapevolezza di questo nella regia perché i molteplici richiami attestano il grande amore per il cinema dell’autore e delle sue creature: infatti, quando il mostro protagonista fugge dalla casa riparo della sua amata è lì che si rifugia ed è lì che Elisa lo ritrova: in mezzo ad una sala cinematografica, ipnotizzato dalle immagini di un film.
La forma dell’acqua
di Danilo Cecchi Fra i pochi intellettuali italiani che si sono occupati seriamente di fotografia in tempi non sospetti, a partire dagli anni Sessanta in poi (oggi lo fanno quasi tutti, ma quasi sempre superficialmente), accanto ai nomi di Piero Racanicchi, Pietro Donzelli, Giuseppe Turroni, Italo Zannier e Renzo Chini, spicca il nome di Wladimiro Settimelli, nato nel 1934 a Lastra a Signa e spentosi pochi mesi fa nella sua casa di Zagarolo, vicino a Roma, alla fine di novembre del 2017. Accanto alla sua attività di giornalista politicamente impegnato, con le note collaborazioni con la redazione romana de “l’Unità”, organo del Partito Comunista, e con l’altra testata romana di sinistra “Paese Sera”, Wladimiro coltiva la passione per la fotografia, passione che lo spinge a tutta una serie di ricerche, soprattutto nei settori della lettura e della storia delle immagini fotografiche. Quando nel 1967 nasce la rivista “fotografare”, il fondatore e direttore Cesco Ciapanna gli affida la rubrica mensile “chi è” in cui Wladimiro presenta di volta in volta i diversi personaggi che hanno fatto la storia della fotografia. Nel 1969 la stessa casa editrice “fotografare” gli pubblica la prima “storia della fotografia” scritta da un autore italiano, che Ciapanna ribattezza malamente “Storia avventurosa della fotografia”. In questo libro, rieditato più volte, Wladimiro racconta i primi centotrenta anni di vita della fotografia, senza la retorica ed il trionfalismo tipici di altri autori stranieri, ma presenta il mondo della fotografia come un grande circo, in cui sono presenti nani e giganti, domatori e belve, ballerine e trapezisti, animali addomesticati e cani sapienti, pagliacci ed equilibristi, imbonitori e prestigiatori, testimoni attenti ed esteti svampiti, artisti e ciarlatani (ogni riferimento a personaggi realmente vissuti è del tutto intenzionale). Wladimiro raccontava le cose come le vedeva, senza né abbellimenti né reticenze, sia che parlasse di storia della fotografia o di politica, sia che raccontasse le sue inchieste o i suoi reportage rimasti famosi, dall’alluvione di Firenze al terremoto dell’Irpinia, dalla P2 al processo Kappler. Negli anni che seguono pubblica nel 1976 il primo libro su “Verga fotografo”, poi l’album fotografico di Garibaldi, ed il catalogo della grande mostra sui fratelli Alinari del 1977. Con Ciapanna pubblica ancora, nel 1979 “I padri della fotografia - fatti, pionieri, eroi, polemiche, tecniche e documenti inediti”, in collaborazione con gli archivi Alinari pubblica diverse monografie tematiche, e con gli Editori Riuniti pubblica “la fotografia” nel 1982. Sempre disponibile ed interessato al lavoro degli altri, accetta di collaborare alla redazione di numerosi libri, di cui spesso scrive la presentazione, o cura la raccolta del materiale iconografico. Chi lo ha conosciuto lo ricorda come un personaggio fuori dal comune, controverso e controcorrente, aperto al dialogo ma con le idee chiare, generoso ma intransigente, talvolta eccessivamente franco e quasi spigoloso, dotato di una grande cultura, di cui non faceva sfoggio e che non faceva mai pesare, sempre disposto ad insegnare e ad imparare, sempre alla ricerca delle verità meno evidenti, non si accontentava mai delle spiegazioni facili, delle versioni ufficiali, delle verità di comodo o delle opinioni comuni. Un uomo a cui molti fotografi di oggi devono qualcosa, ed a cui la cultura fotografica italiana deve molto.
Ricordo di Wladimiro Settimelli
17 3 MARZO 2018
di M.Cristina François “1817 - Il Governo prende la metà del soppresso Monastero di S.Felicita e ne forma l’abitazione dei così detti Sargenti di Palazzo. Seguìta [al caduto Governo Francese] la Restaurazione del Governo del Granduca Ferdinando III, reintegrata di tutto il suo Patrimonio la nostra Chiesa di S.Felicita, non le venne però restituito per l’intero il Locale che aveva Servito di Monastero alle nostre Monache per il corpo di otto secoli almeno, e neppure gli Orti annessi al medesimo, perché la metà e più di detto Monastero se la riservò a Sé il Governo e il dì 11 Ottobre di quell’anno 1817, venne ordinato al Corpo degli Anziani o Sargenti di Palazzo, i quali abitavano nella Fortezza di Belvedere, che ai primi del Successivo Novembre venisse ad’ abitare detta parte di Locale, che è quella della quale, sebbene per altri usi, se ne serve oggidì [1868] anche il Governo della Rivoluzione [si intenda qui il Governo dei Savoia contemporaneo al Curato che scrive queste memorie]”, [Ms.730, redatto nel 1868, pp.420-421]. La situazione qui descritta è ben rappresentata nella piantina che pubblichiamo e che risale a subito dopo la Soppressione del Monastero avvenuta nel 1812: vi si vede a SUD la parte del Convento incamerata dal Governo Napoleonico e poi ereditata, a partire dal 1814, dal Governo Lorenese di Ferdinando III. Gli “Anziani” erano i “Sargenti di Palazzo” che - un tempo dipendenti in servizio - continuavano ad avere diritto di vivere con le loro famiglie in questi ambienti del Monastero soppresso godendo di una Congrua demaniale (pensione) mensilmente elargita. I locali a loro destinati erano circoscritti intorno all’ex-Cortile del Giovanato delle Monache (posto al primo piano) sul quale si affacciava a piano terra l’ex-Refettorio delle Religiose; furono anche loro assegnati altri locali adiacenti che si affacciavano sull’ex-Orto delle Monache e confinanti con la Canonica. Quando nel 1859 - sotto il Granducato di Leopoldo II – cadrà anche il Governo Lorenese, saranno sostituiti dai nuovi “Sargenti di Palazzo Savoiardi” al seguito di Re Vittorio Emanuele II, i quali verranno sistemati in questi stessi locali prima occupati dai “Sargenti” del decaduto Governo dei Lorena. Cambierà soltanto il nome del Cortile che verrà detto, come si legge nella citazione seguente, “Cortile delle Cacce”: “Anno 1860 - Nelle ore pomeridiane del giorno 6 di Novembre vennero da Torino a Firenze i Sargenti di
18 3 MARZO 2018
Gli “anziani di palazzo”
Per una continuità della storia
Palazzo in luogo di quelli del Granduca […] erano circa 40 e fu dato loro ad’ abitare il Locale dei Sargenti Toscani disciolti”. Cinque anni dopo, per le ragioni che vengono qui di seguito descritte, i “Sargenti Savoiardi” verranno spostati e rimarranno in quei locali gli “Anziani”, ossia i pensionati, e i nuovi dipendenti per il nuovo Servizio delle Cacce: ”Nel 1865 [i Sargenti] furon traslocati nel Convento dei Padri del Carmine, perché nel loro locale dopo il trasporto della Capitale da Torino a Firenze, fu
fatto l’Ufizio delle Reali Caccie ed’ i quartieri per alcuni altri Impiegati di quel medesimo Ufizio.” [ibidem, p.535]. Se consultiamo all’A.S.F. le “Carte dell’Imperiale Real Corte” ci rendiamo conto che il mantenimento in situ di certi ex-lavoratori fu attuato anche nel quadro dell’avveduta politica del primo periodo Lorenese, soprattutto da parte di Pietro Leopoldo, che aveva avuto riguardo al “Ruolo Generale dei Pensionati tanto con Riposo che all’attual Servizio”. Per tradizione, la loro presenza continuativa sul posto che fu un tempo di lavoro operativo, garantiva ai nuovi lavoranti ed impiegati un apprendistato e spesso una compresenza preziosi. Si vedano su questi temi i “Campioni della Real Corte n.490”, le “Filze dei Ruoli n.493 e 504”, “I Ruoli della Real Corona e Corte: stati di paga, n.505 e 506” e sul “Corpo dei Reali Anziani; Affari nn.3264-3269; Ruoli n.1565e n.3329; Regolamento n.3278”. La peculiarità di certi luoghi storici necessita di una trasmissione del sapere, oggi non più tenuta in considerazione, ma che - come lo dimostrano i documenti d’Archivio - manteneva nel luogo di servizio gli “Anziani”, pedine insostituibili, “passeurs” all’interno di un sistema di conoscenza e coscienza lavorative.
Il filo nascosto ritrovato di Francesco Cusa Dalla sartoria alla magia, al dolore della passione come via al sublime. Questa è solo una possibile interpretazione sibillina de “Il Filo Nascosto” di Paul Thomas Anderson, un vero capolavoro della storia del cinema, l’opera di uno dei più grandi cineasti viventi. Un film immenso, totale, che non può essere recensito, delimitato, confinato entro alcun alveo estetico, e che abbraccia ambiti che vanno dalla “recherche proustiana” - il dramma edipico del rapporto con la madre -, alla metafisica dell’amore e della passione analizzata in ogni più contraddittorio dettaglio. La storia d’amore tra Reynolds e Alma attraversa la gamma di ogni singola campitura di colore della sfera estetico-emotiva, si nutre di ogni aspetto del morfologico e dell’invisibile, perfino (soprattutto) del marciume e della necessità della malattia, dell’avvelenamento funzionale alla rinascita per assurgere oltre il limite dell’umano. Alma: “Gli ho dato ogni singola parte di me”; “Io posso stare in piedi all’infinito”; “Io ti voglio completamente inerme. Indifeso. Al tuo fianco avrai solo me”; “C’è come una enorme distanza fra noi”.
Reynolds : “Sono scapolo impenitente. Sono inguaribile. Non mi innamoro perché sarei un traditore e non potrei sopportarlo”; “Io credo che siano le aspettative e le congetture degli altri a farci soffrire”; “C’è un’aria di quiete e morte in questa casa”. Sono solo estratti dai dialoghi, stelle nel firmamento delle armonie e del caos, balletto delle affinità e delle contraddizioni, dell’odio e della bellezza. “Il Filo Nascosto” è un flusso costante di dettagli, quasi il prodotto visivo di un romanzo di Nabokov, ma con il respiro d’un affresco del Mantegna. La cura preziosa delle stoffe, i gesti da danza del sarto, il neo di Alma, sono orpelli di una vita scandita dalle regole e dalle abitudini della fiaba, ma al contempo il segno di un vissuto maniacale, folle e vitreo. Le emozioni di Alma e Reynolds sono costrette entro trame di aghi e cuciture, corpetti e bon ton, sempre pronte a esplodere a deflagrare in uno stupefacente fuoco che non divampa. Ecco allora il disagio, la malattia farsi strumento dell’Amore, linfa venefica che nutre la nevrosi e la sublima in qualità di estetica dell’antico e a dispetto dell’avvento della “modernità” (emble-
matica l’invettiva di Reynolds contro lo “chic”, e il rifiuto delle cure mediche: cosa è il medico se non l’avvento della “cura” della modernità, della tentazione? Infatti è il dottore che invita Alma alla festa di Capodanno, al trionfo del mondo volgare e globalizzato, della condivisione coatta. Ed è Woodcock a ricondurla poi alla magione, sottraendola alla naturale tentazione della festa, al Paese dei Balocchi destabilizzante). L’amore può darsi allora solo nella rinuncia e nella tossicità, unici antidoti all’orrore del volgare, nell’esaltazione privata e domestica di un’elezione esclusiva. Il mondo di Alma e Reynolds è un mondo chiuso, asfittico, ma che lambisce il territorio della sacralità, dell’officio, della celebrazione del Bello nelle sue forme più estreme. La stessa passione è come ovattata, concentrata nell’implosione incestuosa che permea l’aroma della casa, nel ricordo della madre di Woodcock e nella relazione con l’austerità della sorella Cyril, vera depositaria di ogni segreto e della saggezza dei secoli. Si potrebbe scrivere inutilmente molto altro. Andatelo a vedere e godetene in anima e corpo.
Segnali di fumo
Basti pensare che in Italia vivono 3,5 milioni di immigrati provenienti da Paesi extra comunitari. Qualcosa come l’8% della popolazione. Molto meno che in Austria, dove gli immigrati sono al 14,3% della popolazione, o dell’Irlanda al 12,4 o del Belgio con l’11,7, la Germania il 10,5, la Spagna il 9,5, il Regno Unito con l’8,6. In Europa sono ben 7 i Paesi che ospitano più immigrati di noi. Fatto sta che la presenza di 3,5 milioni di immigrati è diventata la principale emergenza italiana, mentre i 7,7 milioni di disoccupati sono passati in secondo piano. Senza dimenticare che dal 2015 ad oggi l’immigrazione è cresciuta del 38% in Polonia, del 14% in Germania, dell’8 in Austria, mentre da noi è rimasta pressoché stabile (solo un + 0,2%). Incredibile: una falsa emergenza ha preso il posto di dell’emergenza vera, quella del lavoro che non c’è, soprattutto per i giovani dove il 33% ne è ancora escluso. Non solo. Assistiamo ad una continua istiga-
zione all’odio raziale, tanto che dal 2014 ad oggi si contano 142 episodi di violenza neofascista. Colpisce il fatto che a sottolinearne l’allarme siano due grandi tesate estere: il britannico The Guardian e l’americano Washington Post, mentre quelli nostrani non si spingono oltre la cronaca. Dall’estero ci mettono in guardia di fronte alla crescente espansione delle organizzazioni di estrema destra, all’esibizione di svastiche e saluti fascisti. Forza Nuova dai 1500 iscritti del 2001 oggi ne conta oltre 13mila; Casa Puond sui social conta 234mila follower, 15mila in più del Pd. Una crescita, scrivono, favorita dalla riluttanza delle nostre istituzioni a reagire. Pensate, appena un anno fa l’Anpi ha stilato una lista di 500 siti che esaltano il fascismo, ma non si è fatto niente. Eppure la Costituzione vieta “la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista”. E la legge 645 del ’52 stabilisce che “l’apologia del fascismo è un reato”. Ma si continua a far finta di nulla. Come gli struzzi.
di Remo Fattorini È partita male ed è finita peggio. La penso così: è una campagna elettorale iniziata in maniera deludente e finisce in modo preoccupante. Partita come una gara a chi la spara più grossa, con un turbinio di promesse tra bonus, meno tasse e più soldi per tutti, finisce in maniera disonorevole, tutta schiacciata sul tema dell’immigrazione. Dopo i drammatici fatti di Macerata la sicurezza è diventata il problema numero uno di questo paese, trasformando una noiosa competizione in una campagna fanatica, aggressiva e velenosa.
19 3 MARZO 2018
di Andrea Ponsi 65 miglia all’ora
Scivolare a 65 miglia all’ora verso San Francisco con il rombo del motore in sottofondo sul freeway che costeggia Sausalito. Dopo un’ampia curva appare la bocca di una galleria: un miglio scavato nella roccia, poi la luce e l’ingresso al grande ponte. Il rumore dei motori si alterna ai sobbalzi brevi e secchi dei giunti di espansione sull’asfalto. Ai lati della strada i cavi verticali pendono come le corde di un’arpa gigantesca e il mare scorre tra i paletti della balaustra rossa come sullo schermo di un cinema all’antica. Occorre rallentare, “pay toll”, 30, 20, 10 miglia all’ora, “6 dollari” , “thank you” ,“you welcome”, “toll paid”, avanti - 30, 50, 60 miglia; si riprende slancio entrando in Lombard Street, ampia strada urbana a sei corsie. La speranza è di azzeccare i semafori verdi, una ventina, in prospettiva. Tutto fila liscio, almeno cinque o sei senza fermarsi, poi scatta un rosso prevedibile. Velocità uguale a miglia zero. Nuova partenza e nuovo incrocio. Stop. Si passa uno alla volta, come usa in America, secondo l’ordine di arrivo. La strada si restringe, riprende la salita verso la cima di Russian Hill, si fa ripida. Il motore cambia marcia in automatico, rugge, spinge, tira. Al primo incrocio la strada si fa piatta; solo pochi metri, poi risale. Sentire le vertigini e la paura che la automobile si fermi e all’inverso torni giù. Ancora un ansimare e siamo in cima E’ la fine di un orgasmo motoristico. Da qui lo sguardo abbraccia la baia e la downtown. Le cime dei grattacieli sono alla ia stessa altezza, ora sul colle. La pausa in pianura dura poco. Comincia la discesa. Tanto ripida che sembra verticale. Occorre credere: al proprio motore, ai freni, al cambio automatico. Non avere paura. Scendere piano, tenere il motore in tiro, come tenere le briglie a un mulo che affronta un precipizio. Ancora pochi metri e la vertigine è finita; finalmente le strisce pedonali. La strada si rilassa in un declivio gentile. Si respira. Bravi, e un meritato grazie a voi: auto, motore, cambio e freno a mano, vi siete comportati bene in questo trekking d’alta quota.
20 3 MARZO 2018
Mappe di percezione
Distanze
Dalla casa di Berkeley alla freeway, tragitto urbano: strade, alberi, case 5 minuti, 10 col traffico. Velocità media 30 miglia all’ora Dall’entrata della freeway al Bay Bridge, le colline, panorami, roller coaster autostradale 5 minuti, 10 col traffico, Velocità media 60 miglia all’ora. Dal Bay Bridge al Golden Gate Bridge, tragitto urbano: strade, incroci, stops, semafori, case, 10 minuti, 20 col traffico. Velocità media 20 miglia all’ora Dal Golden Gate Bridge a Tiburon il ponte, l’oceano, la baia, la skyline di San Francisco 7 minuti, 15 col traffico. Velocità media 60 miglia all’ora
San Francisco
Da Tiburon al Richmond Bridge, valli, discese, le montagne, l’orizzonte 8 minuti, 20 col traffico. Velocità media 60 miglia all’ora, Dal Richmond Bridge a Berkeley, guidare sopra l’acqua, profili di colline, altri orizzonti 7 minuti, 15 col traffico. velocità media 60 miglia all’ora Il periplo della Baia è completato. Un tragitto attraverso tre diversi territori ( East Bay, San Francisco, Marin County), collegati tra loro da tre ponti. Due tragitti urbani, tutti gli altri extraurbani. 43 minuti in totale, un’ora e mezzo col traffico. La esperienza di un territorio è data dalle distanze, dai tempi impiegati per raggiungere i suoi luoghi; è l’insieme delle sensazioni vissute nel movimento, nelle variazioni di quota, nei modi con i quali cambia il paesaggio, nella velocità in relazione alle viste, nella diversa percezione degli oggetti che scorrono vicini o degli orizzonti che sfilano lontani.
di Gianni Bechelli Il sogno di Einstein, e che lo ha tormentato tutta la vita, era trovare la formula, magari semplice ed elegante, di unificazione delle 4 forze fondamentali (gravità, elettromagnetismo, e elettrodebole ed elettroforte del nucleo atomico). Ma era proprio il contrasto fra la sua teoria della relatività e la teoria quantistica che sembrava impedirlo. Dunque il contrasto fra la scienza dell’enormemente grande e quella dell’infinitamente piccolo risulta insanabile? Appariva inaccettabile anche perché, In realtà, sembrava sempre più chiaro che, per spiegare l’evoluzione del grande, occorreva sempre più spesso l’aiuto dell’infinitamente piccolo. Si è provato a cambiare completamente paradigma per renderle almeno compatibili intanto. Ed è così apparsa la teoria cosiddetta delle stringhe o delle superstringhe e il paradigma cambiava davvero. Scordatevi le particelle come ce le immaginiamo, piccolissime palline puntiformi che popolano lo spazio materiale come fondamento ultimo del visibile. Dietro l’ultima idea che c’eravamo fatti del nucleo atomico dopo i protoni ed i neutroni e i quark che li compongono non c’è il nulla, secondo questa teoria, bensì delle infinitesime porzioni di energia con struttura di corda vibrante chiusa su sé stessa o aperta, ma comunque vibrante come una corda di violino, e come il violino emette note diverse così quelle vibrazioni producono le diverse tipologie di particelle, cioè producono il mondo che conosciamo e non solo. Saremmo cioè figli di un gigantesco concerto che invece di note produce particelle, e che allude alle armonie Pitagoriche dei numeri. E tutto sembrerebbe funzionare anche matematicamente, compresa la relatività, ma ad una condizione: immaginarci lo spazio che ci circonda non più nelle tre dimensioni note (avanti/indietro, destra/sinistra, su/giù, più la quarta: il tempo) ma in ben 10/11 dimensioni, cioè con altre 6/7 altre dimensioni per noi invisibili e arrotolate su sé stesse. A sensazione cosa non immediatamente credibile perché invisibile, ma anche un filo elettrico teso a distanza non ci appare nelle sue varie dimensioni ma in una sola, ne riconosciamo le dimensioni solo avvicinandosi molto. Lo so, anche così è un po’ difficile immaginarsi lo spazio, ma tutto tornerebbe e ci avvicinerebbe alla chiave del tutto e tutto tornerebbe. E tuttavia senza conferme sperimentali rimane ampia l’area di incertezza. Per di più l’accettazione di questa impostazione fonda anche la necessità della costituzione di altri univer-
si, simili a membrane (M teoria) che vivono parallelamente al nostro: immaginatevi un filone di pane, affettatelo in diverse fette: il nostro universo è una di quelle fette vicina ad altre, e può essere che questa vicinanza produca “incidenti e tamponamenti” da contatto nel ciclo dell’eternità tale da produrre nuovi big bang, ma stavolta senza la presenza di un nulla precedente. Certo che questo potrebbe anche risolvere il problema del perché la gravità sia così debole, per quanto pervasiva, per miliardi di volte rispetto alle altre forze. Infatti potrebbe sparire in altri universi e dimensioni e se ne spera la conferma dagli esperimenti del CERN di Ginevra che trovi il gravitone, la particella della gravità, e un saldo negativo di energia fra prima e dopo
un esperimento, tale da dimostrarne la trasmigrazione in altre dimensioni; ma facendo forse rimanere, almeno parzialmente, la sua influenza in questa dimensione così da poter spiegare, in questa versione, la mancanza di materia che giustifichi la presenza di più di gravità di quella a cui fa pensare la materia visibile (materia oscura). Come si vede per ogni problema aperto che si cerca di chiudere se ne aprono potenzialmente altri che schiudono più vasti scenari di quelli che si voleva chiudere. A conferma che siamo ben lontani dalla “soluzione finale”, anche se riuscissimo a trovare la formula che unifichi tutte le forze. Certo, gigantesco passo in avanti, ma per entrare in territori nuovi e del tutto imprevedibili anche alla coscienza più fantasiosa.
Il tutto e le stringhe
La Gatta Gelona di Sergio Favilli La gatta Gelona e il gatto Bersano Son fuori a passeggio e si stringon la mano Ma poi , che succede, arriva un ciclone Ed eccola qua la bella Falcone La gatta Gelona, un po’ ingelosita Annusa l’agguato e stringe le dita Ma il gatto Bersano con far porcellone Lui smolla la volpe e si tien la Falcone Un urlo invasivo di tutta la scena Ed ecco arrivare il prode D’Alema Con piglio deciso la fa da padrone Agguanta con forza la bella Falcone Non sa più che fare il gatto Bersano Ha fatto incazzare il Baffo Sovrano Un po’ ci ripensa, un po’ s’arrabatta Poi lascia il bel Falco e riprende la Gatta!!
21 3 MARZO 2018
di Nicola Squicciarino
Migranti e paure pilotate
Migranti e paure pilotate L’arrivo di tanti migranti è diventato in Italia un innegabile problema che tocca la vita quotidiana di molti cittadini. E’ compito della politica locale, nazionale, europea, e non solo, tentare di risolverlo nel modo migliore rimuovendone anche le cause. L’attuale manipolazione emotiva da parte dei media enfatizza tuttavia, per puro calcolo elettorale, la paura nei confronti dei migranti quasi fosse la prima emergenza criminale del paese. Il dato statistico ci dice che la percentuale di stranieri presenti in carcere è superiore a quella degli italiani per condanne fino a cinque anni, per le condanne superiori a cinque anni il rapporto si inverte e gli italiani risultano invece maggioritari. In realtà vengono rimosse o solo brevemente accennate le reali paure che quotidianamente vivono tanti cittadini ad opera di nostri connazionali. Si pensi, ad esempio, al crescente fenomeno del femminicidio, alle aggressioni per motivazioni politiche e razziali, per furto, ai non rari casi di bullismo e in particolare alla criminalità organizzata che, pur di controllare il territorio, elimina fisicamente chi si oppone. Anche nei media c’è una diffusa aggressività verbale che certo non educa al confronto e alla comprensione di temi complessi. Per gli immigrati che non rispettano le leggi italiane si esige poi ‘tolleranza zero’, ma si è tolleranti nei confronti di comportamenti socialmente dannosi, quali la corruzione, l’evasione
ed elusione fiscale. Spesso mi sono chiesto che cosa farei se fossi un perseguitato, se vivessi in un paese in guerra, afflitto dal problema della fame e della sete, senza alcuna prospettiva e con il rischio concreto di morire. L’istinto di sopravvivenza mi spingerebbe a fuggire, a tentare di raggiungere i paesi benestanti, e quindi a sradicarmi dal mio ambiente fisico, sociale e familiare. Per lo più sono gli stessi genitori che, privandosi dei propri risparmi e vendendo ciò che hanno di più valore, finanziano i viaggi della speranza dei loro giovani, giovanissimi figli. In verità sono viaggi di disperati che abbandonano tutto e rischiano tutto: la violenza nei campi di accoglienza e la morte nel Mediterraneo. I nostri ‘promotori’ di paura che farebbero al loro posto? Normalmente gli esseri umani percepiscono la terra abitata come opportunità offerta a tutti per migliorare le proprie condizioni di vita. La conoscenza della storia passata di paesi oggi benestanti, tra cui l’Italia, dimostra che i flussi migratori sono fenomeni fisiologici, sempre esistiti. Ad esempio, dal 1876 al 1900 emigrarono in paesi europei ed exstraeuropei circa 5 milioni e 300 mila Italiani, con un ritmo crescente dal primo all’ultimo anno. Nel nostro stesso paese, dopo la seconda guerra mondiale,
molti meridionali furono costretti a cercare lavoro anche nel nord Italia e, un po’ come oggi per i migranti, anch’essi con pseudomotivazioni razziali vennero rifiutati, discriminati, nonostante contribuissero alla crescita non solo economica di quella regione. Sì pensi poi all’odierno e crescente fenomeno della migrazione giovanile qualificata: pure loro sono ‘costretti’ a partire dal nostro paese, a lasciare tutto nella speranza di trovare un lavoro e raggiungere così una qualità di vita più dignitosa. Il contesto dell’attuale fenomeno migratorio è caratterizzato tuttavia da un trend preoccupante che la politica dovrebbe modificare: la ricchezza è sempre più mal distribuita, concentrata nelle mani di pochi, investita nella finanza e negli armamenti e sempre meno per il bene collettivo. Tali fattori strutturali dell’odierna economia mondiale hanno favorito e aggravato il problema migratorio. Nei confronti di tanti giovani e giovanissimi ‘disperati’ i paesi del benessere hanno il dovere di coltivare in loro la speranza offrendo eventualmente un lavoro, ma soprattutto una formazione professionale che dia una prospettiva alla loro vita e possa in seguito essere utilizzata per iniziare un’attività nel paese d’origine.
Le permis de penser secondo Pettena “Io sono la spia”: l’uomo che mostra il cartello con queste parole è un uomo libero. Essere libero, secondo Pettena, significa ignorare lo zeitgeist, elevarsi al di sopra del peso del conformismo, ed emanciparsi dal gruppo e dalle sue opinioni condivise. Questo evento è stato un’improvvisazione, libera da ogni costrizione concettuale, convenzionale o radicale. Con questo gesto imprevisto, Pettena ci ricorda il rifiuto di Marcel Duchamp “di essere un artista nel senso che si dà oggi a questa parola”, non ancora un “anti-artista”, a cui preferì piuttosto il termine “anar-
22 3 MARZO 2018
tista”. Questa sua presa di posizione permise a Duchamp di spingere fino al limite ogni riferimento che portasse ad associazioni che il mondo dell’arte (o anti-arte) sarebbe stato anche troppo bravo a cogliere. E lo stesso si può dire di Pettena, la cui posizione non è né di accettazione, né di assoluto rifiuto, ma una che invece lo porta in un luogo dove pochissimi si avventurano per paura di non essere capaci di uscirne. Questa è la maniera in cui Pettena, che si colloca all’incrocio tra mondi diversi, ci apre gli occhi su un tipo di architettura che noi non riusciamo a vedere.
Egli è, e sarà sempre, un “anarchitetto”. Galleria Salle Principale, Parigi, fino al 12 maggio
di Bernardino Pasinelli Acheronta movebo. Il titolo del libro di Pierluigi Lanfranchi è colto nel suo chiaro riferimento alla psicoanalisi e ad un viaggio di scavo che ha dovuto smuovere gli inferi per scoprire due vite che, pagina dopo pagina, hanno trovato luce nella narrazione, tra interrogativi, drammatiche vicende, ombre e ossessioni. L’autore svela questa storia, insieme al racconto della sua crescita, delle sue convinzioni e della sua instancabile ricerca negli archivi e nelle biblioteche di mezza Europa, negli Usa e persino in Israele. Non mancano le guerre e le trame segrete, le persecuzioni razziali e le fughe, le idee e la cultura del primo novecento nel clima eccezionale della scoperta della psicoanalisi. “La storia seppellisce i morti nella tomba della scrittura” e l’oltretomba ha l’aspetto di un portale di un motore di ricerca su Internet, così scrive Pierluigi Lanfranchi, l’autore che vive ad Amsterdam e insegna letteratura greca all’università francese di Aix-Marseille. Davvero un originale lavoro di ricostruzione e ricerca storica, che rintraccia i sottili fili di questa ignota e appassionante vicenda. Avvincente nelle sue peregrinazioni, tra i misteri e le paure di una donna nascosta a Sovere (Bergamo) nel
di Biagio Guccione Un racconto (Francesco Mati , Il Giardinista, MdS Editore, Pisa 2017) affascinante che cattura e diverte il lettore. Questi viene preso per mano e trascinato nei meandri di una vita, delle sue sensazione e delle sue emozioni: questo è Il Giardinista di Francesco Mati. Il titolo del libro è lo sfacciato acronimo tra Giardiniere e Vivaista; poi, in realtà, è molto di più; è la descrizione accurata di una vita spesa per uno dei mestiere più belli che esiste: realizzare giardini! Una scelta quasi lineare, con qualche incertezza iniziale ma poi abbracciata come una missione: continuare il lavoro degli avi; personaggi non semplici questi antenati di Francesco, talvolta ingombranti, degni di uno sceneggiato televisivo. Qui, piace citare la nonna materna “nobile socialista”! Ma ce ne sono altri ancora, con la stessa poliedrica personalità, tali da poter condizionare la vita e la formazione del giovane Francesco e dai quali l’autore viene a capo conquistando il suo spazio ed il suo ruolo nel pregevole albero genealogico della Famiglia Mati, vivaisti da 1909! Il testo è diviso in 5 sezioni principali: Il giardinista (ossia l’intervista a Fabio della Tomma-
Viaggio all’inferno
1939, che riceve lettere incise su disco dal fidanzato americano. Chi è quella donna, perché fugge? Chi le scrive quelle lettere su disco per evitare la censura? Chi è Charles Maylan che nel 1929 ebbe l’ardire impudente di scrivere un’analisi critica del sacro padre della psicoanalisi, liquidata semplicemente come interpretazione razziale? La storia narrata rovescia il punto di partenza, ma occorre leggere il libro per scoprirlo. La copertina è elegante e insieme sobria, precisa. Le carte ingiallite dei documenti respirano sul fondo blu del cielo, simbolo di comunicazione creativa, di meditazione del sublime, come se fosse l’altro polo rispetto al titolo che richiama, invece, il regno dell’aldilà e dell’inconscio, gli inferi del non detto, il fiume di dolore e inquietudini che ha marchiato il secolo scorso e le vicende dei due amanti. Che “Acheronta movebo” possa indurre alla
lettura di questo libro singolare, che dall’oltretomba del tempo fissa per l’eternità, nero su celeste, la memoria intrigante di due vite smarrite. Un libro che sa arricchire con l’intelligenza di chi non smette di porsi domande su un passato drammatico che può illuminare il presente.
Uno dei mestiere più belli sina), Cos’è il giardino e come si fa, I giardini, I viaggi, Incontri. Ogni parte ha la sua peculiarità e specificità, ogni parte esamina da un’angolazione diversa le esperienze di vita e quelle professionali dove non mancano mai le sane emozioni e i forti patemi d’animo così come le grandi gioie e le soddisfazioni. Certamente, i più divertenti sono gli episodi realistici nel costruire il rapporto cliente – sito – giardino che, alla fine, Mati ama sintetizzare con ironia colta attraverso il ritmo di una musica e/o una canzone. In ogni caso, posizione centrale del libro hanno le piante, quelle sue, tanto da metterle in appendice col titolo Le mie piante. Vi dichiara: “Amo le piante, tutte, qualcuna di più, altre di meno”. Un atto d’amore verso la natura, il paesaggio e la vita dichiarate nelle pagine di questo piacevole libro!
23 3 MARZO 2018
di Simonetta Zanuccoli Ciò che è già accaduto dovrebbe fare capire meglio ciò che sta avvenendo. Ma raramente è così. In una raccolta di vecchi articoli dell’Espresso ho letto una lunga inchiesta scritta da Eugenio Scalfari e Nicola Caracciolo pubblicata il 26 aprile 1959 con il titolo L’africa in casa. Il tema era le condizioni di miseria africana che sussistevano nel Mezzogiorno. Il territorio d’indagine era la Sicilia nella zona compresa tra le province di Palermo, Trapani, Caltanisetta e Agrigento. Ne riporto qui alcune parti. Il reportage inizia da una fattoria, a 40 chilometri da Caltanisetta, un grosso edificio rosso cupo dall’aspetto di un campo di concentramento, circondato da quaranta capanne di fango e sassi con il tetto in paglia. Nell’edificio risiede il proprietario con i suoi guardiani, nelle capanne, chiamate da queste parti pagliari, i 200 contadini che, a causa dell’estrema miseria, sono costretti ad abitare in questi ricoveri che non hanno nessun connotato di civiltà. Le loro pareti non sono più alte di un metro e mezzo, il tetto spiovente di paglia durante le stagioni piovose s’impregna d’acqua e comincia a gocciolare all’interno. Il focolare, costituito da quattro pietre, si trova in un angolo della stanza sul pavimento in terra battuta. Tutto l’interno del pagliaro è annerito dal fumo sebbene il legno è un bene prezioso e il fuoco venga acceso con molta parsimonia. Quasi metà dell’ambiente di 20, 30 metri quadri è occupata dalle bestie (capre e muli). Il loro letame viene bruciato o raccolto fuori e con il passare del tempo forma dei mucchi alti come i pagliari. Non viene usato come concime perché i campi sono lontani e per trasportarlo in ceste a dorso di mulo occorrerebbero molti giorni e molta fatica che il proprietario, interessato solo ad un agricoltura di rapina che non prevede concimazione, non compenserebbe. Nei pagliari il letto matrimoniale è formato da assi di legno e il materasso è un saccone pieno di paglia. Non ci sono lenzuola ma solo coperte ricavate da stracci di abiti vecchi. Ci dormono anche in cinque (marito, moglie e figli piccoli), gli altri per terra. Mancano stoviglie e posate. Per prendere la minestra di cicoria o legumi da un’unica pentola si usa a turno un grosso ramaiolo. La pasta si mangia nei giorni di festa e si raccoglie dal piatto comune con le mani. La carne praticamente mai eccetto quando muore di malattia o vecchiaia uno degli animali. Gli abitanti dei pagliari, come migliaia di altri contadini, sono analfabeti, non hanno mai
24 3 MARZO 2018
votato, molti di loro non sono neanche iscritti allo stato civile. Il baratto sostituisce l’uso della moneta quasi sconosciuto....Non sono più facili le condizioni dei contadini con piccolissime proprietà il cui raccolto basta solo a sfamare la famiglia. Un solo anno di carestia distrugge questo modestissimo equilibrio vitale e porta alla fame e alla necessità di chiedere soccorso
lo della strada. I disoccupati permanenti sono tantissimi e tutto il paese si trova in uno stato di estrema miseria, causa principale di numerosi delitti........... Continuando a sfogliare la raccolta di vecchi numeri dell’Espresso mi imbatto in una foto del 1962 di un treno in partenza dalla stazione di Siracusa pieno di emigrati in cerca di una
all’usura e rimanere prigionieri di interessi altissimi. L’inchiesta di Scalfari e Caracciolo prosegue nei borghi più grossi come Palma di Montechiaro in provincia di Agrigento. …...Le case di un solo piano, addossate l’una all’altra, costituiscono degli inverosimili agglomerati di miseria. In nessuna abitazione esiste il gabinetto sostituito da un foro chiamato buttatolo che comunica direttamente con un canale di scolo che corre a cielo aperto a livel-
vita migliore nelle fabbriche del Nord. Girando ancora le pagine arrivo a un’inchiesta di Camilla Cederna pubblicata l’8 marzo 1964 sul mondo dei giovani: .......Il caso di ragazze a cui capiti di essere violentate, almeno nella media e ricca borghesia, è sempre più raro. E se i violentatori continuano ad esistere, si tratta per lo più di meridionali appena sbarcati, carichi da secoli di sete sessuale, e che la civiltà industriale non ha ancora ammorbidito.
Quando l’Italia aveva l’Africa in casa
di Cristina Pucci Bologna, la Rossa, si diceva. Rossa resta solo grazie a case, palazzi e tanti dei bellissimi loggiati che la accompagnano tinteggiati di rosso, alcuni rosso chiaro, altri di un bel rosso più caldo e scuro. C’è una mostra in cui potrò vedere qualche lavoro di Diego Rivera, amato marito di Frida Kahlo, quando ho visto, a Roma, quella bellissima a lei dedicata ho pensato che poi in fondo questo Rivera, al tempo famoso ed osannato, le era rimasto secondo... Questa bolognese si chiama, México: “La mostra sospesa” Orozco, Rivera e Siqueiros. Sospesa perchè propone le opere che dovevano essere esposte a Santiago del Cile, quali testimonianza di amicizia e solidarietà di una nazione vicina, il Messico appunto, finalmente democratico dopo una sanguinaria rivoluzione. Due giorni prima del Vernissage però Pinochet effettuò il suo sanguinoso golpe. Questi quadri, dopo essere rimasti alcuni giorni in pericolo nel Museo della ipotizzata esposizione, terribilmente mitragliato, furono imballati e messi sullo stesso aereo su cui fuggirono moglie e figli di Allende. Appartenevano, tutti, alla collezione privata del Dr. Alvaro Carrillo Gil e di sua moglie Carmen Tejero, che ulteriormente arricchitasi, costituisce il nucleo principale del Museo a lui dedicato, inaugurato da lei nel 1974, a Città del Messico. Due personaggi interessanti direi. Questi tre grandi artisti, sono i cosiddetti “muralisti”, famosi per opere di monumentali dimensioni che abbellivano, e tuttora lo fanno, pareti e soffitti di edifici pubblici messicani e non solo. Tutti affreschi dall’importante impianto realistico e dalla ispirazione socio politica e rivoluzionaria, non alieni da una certa finalità educativa, riscoprono e celebrano i “peones”, artefici della rivoluzione ed esaltano miti, usi e costumi ed eroi della storia messicana. Indiscusso fondatore della moderna pittura di quel paese è proprio Diego Rivera, formatosi a giro per l’Europa, rientra in Messico nel 1920, riempie le sue grandiose opere di colori e costumi messicani, personaggi dell ‘epoca e istanze comuniste e rivoluzionarie. Famoso il suo affresco al Rockefeller Center di New York distrutto perche si rifiutò di cancellare il ritratto di Lenin che compariva fra le decine di personaggi. Rivera, comunque, l’anno successivo a questo scempio che neanche il MOMA riuscì ad impedire, basandosi su foto in bianco e nero e sui suoi disegni, lo ricreò nel Palacio de Bellas Artes di Città del Messico, oltre a Lenin ci mise tutto il Gotha comunista, Marx, Engels,Trotsky e pure il perfido Rockefeller
che, notoriamente astemio, beve un cocktail. Nella mostra a Bologna si ammirano quadri ad olio ed alcuni disegni preparatori dei murales. Orozco, che non conoscevo, pare il più distante dai messaggi popolari, i suoi quadri newyorchesi, estremamente significativi, mostrano la desolazione del Capitalismo e le rovine della crisi del ‘29, gli altri le terribili conseguenze delle lotte e delle guerre e la solitudine della povertà. L’orientamento politico di Siqueiros è onnipresente nelle sue tele, si possono vedere opere preparatorie dell’enorme affresco del Castello di Chapultepec, fra cui il famosissi-
mo Zapata a cavallo. Terribile una raffigurazione di Caino negli Stati Uniti: un gruppo di bianchi senza volto, trascina e batte in terra la testa di Caino, nero: il linciaggio di un negro. Un surreale funerale di Caino mostra un grande pollo spennato, folle di minuscoli “omini” lo circondano, poche piccole figure nere a braccia alzate si disperano. Di Rivera alcuni inconsueti grandi quadri di impianto cubista, insieme ad altri con bellissimi bambini dalle vaghe influenze “Fridiane” , in foto, e un rasserenato piccolo contadino che porta in un sacco un tacchino.
La mostra sospesa
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3 MARZO 2018
1982 Carlo Cantini a New York
Museo di arte moderna a New York
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di Carlo Cantini