Cultura commestibile 253

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Numero

10 marzo 2018

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En ce qui me concerne, Matteo Salvini et la Ligue reprĂŠsentent une barrière importante contre le racisme Toni Chike Iwobi primo senatore nero in un’intervista a Le Monde

Con la cultura non si mangia Giulio Tremonti (apocrifo)

La barriera Maschietto Editore


NY City, 1969

La prima

immagine In Italia non eravamo ancora entrati in contatto con l’immigrazione cinese. C’erano dei cinesi ma la loro presenza era davvero molto, molto rarefatta. Passavano quasi inosservati. Niente a che vedere con le nostre attuali presenze in terra di Toscana e in Italia in genere. Per me fu una grande scoperta, ero molto curioso, ma francamente in questa occasione non sono mai riuscito a raggiungere una visione al di fuori dell’incontro casuale per strada. Come tutti sanno esiste una grande “Chinatown” in questa metropoli. L’ho percorsa con grande curiosità accompagnato da amici che riuscivano quasi sempre ad intralciarmi, anche se in buona fede, ripetendomi questo ritornello “Vieni, vieni, dai dai, tanto qui adesso che sai dove sono i cinesi potrai sempre tornarci anche da solo ed in un altro momento”. Nel periodo di quel mitico soggiorno a New York purtroppo non sono più riuscito a tornare sul luogo del delitto! Per fortuna nel 1995 ho potuto realizzare un bel reportage fotografico decisamente approfondito, sui cinesi del comprensorio di Prato. Questo lavoro, è stato portato avanti assieme agli amici ricercatori della Fondazione Giovanni Michelucci. Il titolo del libro è “WenzhouFirenze. Identità, imprese e modalità di insediamento dei cinesi in Toscana” (©Fondazione Giovanni Michelucci, Regione Toscana, Angelo Pontecorboli Editore, 1995).

dall’archivio di Maurizio Berlincioni


Numero

10 marzo 2018

I be’ tempi andati Le Sorelle Marx

La ridotta di Serpiollina I Cugini Engels

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Riunione di famiglia

In questo numero Dove va la classe operaia? di Simone Siliani

Un pioniere dimenticato di Alessandro Michelucci

Buscioni, il pistoiese di Laura Monaldi

Mappe di percezione: San Francisco di Andrea Ponsi

Lingua e immigrazione, a che punto siamo di Sandra Salvato

Angelus Novus di Fiorella Ilario

Canaglia da Nobel di Susanna Cressati

336.275 volte no profit di Roberto Giacinti

Gonfientimeraviglia d’Etruria di Alberto Cottignoli

I mai visti di S.Felicita:lapidi dimenticate di M.Cristina François

I fratelli Bandiera senesi di Roberto Barzanti

Dai portoghesi ad oggi, con tradizione e modernità di Andrea Caneschi

Per ogni donna, un racconto e un fiore di Anna Lanzetta

Un attimo e l’eternità sono la stessa cosa di Gianni Bechelli

e Remo Fattorini, Simonetta Zanuccoli, Gianni Biagi, Ilaria Sabbatini...

Direttore Simone Siliani

Illustrazione di Lido Contemori

Redazione Progetto Grafico Mariangela Arnavas, Gianni Biagi, Sara Chiarello, Emiliano Bacci Susanna Cressati, Carlo Cuppini, Remo Fattorini, Aldo Frangioni, Francesca Merz, Michele Morrocchi, Sara Nocentini, Sandra Salvato, Barbara Setti

Editore Maschietto Editore via del Rosso Fiorentino, 2/D - 50142 Firenze tel/fax +39 055 701111

Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012

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di Simone Siliani E’ andato in scena al Teatro della Pergola di Firenze, dal 27 febbraio al 4 marzo, “La classe operaia va in paradiso”, spettacolo intenso e coinvolgente prodotto da Emilia Romagna Teatro Fondazione, liberamente tratto dal famoso film di Elio Petri, interpretato da Gian Maria Volontè e Mariangela Melato. La regia è di Claudio Longhi e in scena un gruppo di attori strepitosi e soprattutto consapevoli dell’operazione culturale e politica che hanno costruito, come hanno dimostrato durante l’incontro con il pubblico. Una lettura svolta su piani diversi, temporalmente e linguisticamente, cuciti insieme sapientemente e capace di trasmettere al pubblico passione civile, compassione umana prospettiva storica che ne fanno un’esperienza culturale davvero unica. Ne abbiamo discusso con Lino Guanciale, interprete e – come ci racconta – ideatore e in parte co-autore dello spettacolo. Posto che questo è uno spettacolo teatrale e non un saggio di sociologia politica e che, quindi, presenta tutti gli elementi che il teatro deve avere (finzione scenica, storia, drammaturgia, i diversi piani di lettura, ecc.), in realtà pone alcuni temi politici e sociali molto forti. Partiamo dall’attualità di quel film degli anni ‘70: lo sfruttamento della forza lavoro, di coloro che hanno solo la loro mano d’opera da vendere, non è una condizione molto diversa dai lavoratori globali di oggi, giusto? Sì, infatti mi arrabbio un po’ quando sento da parte di spettatori di una certa estrazione sociale le lamentele per il fatto che quel mondo non esisterebbe più: mi chiedo dove vivano queste persone. Evidentemente, vivono al riparo di una condizione che, spesso anche illusoria, le mantiene al sicuro, per cui non riescono ad aprire gli occhi su quella che è la situazione reale di molte persone anche dei nostri tempi. Penso a tanti ragazzi ventenni che fanno gli etichettatori nei supermercati e lavorano 15-16 ore al giorno con un contratto part-time, con stipendi da fame. Oppure ai lavoratori di Amazon, che ormai sono il caso dell’anno e quindi citarli è quasi retorico ormai. Però l’impressione che ho è che ci sia, ancora oggi (ma forse è una costante), la difficoltà di una certa parte privilegiata della nostra società che non riesce a mettersi nei panni delle persone che ancora oggi sono in quella condizione. Al tempo del film era più semplice parlare di classe e di operai. Oggi è molto più difficile; un po’ perché facciamo gli schizzinosi e certe parole non ci piacciono più, invece forse sarebbero ancora utili quanto meno come oggetti di confronto teorico e non

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Dove va la classe operaia?

come bandiere da sventolare, che anzi a quel punto diventano anche pericolose e fuorvianti. Però io ho la sensazione che tante persone, che arrivate ad una certa convinzione sostengono che questo mondo non è modificabile, parlino da una estrazione sociale che li mette al riparo e che, in fondo, appartengono ad una classe diversa. Tutto sommato questo discorso riguarda tutti molto di più di quanto non riguardasse la sola classe operaia all’epoca. Oggi chi vive in condizioni di proletariato, subproletariato o proletariato in pectore o inconsapevole sono certamente un numero maggiore di allora. Vedendo lo spettacolo, mi è venuta in mente

Foto di Giuseppe Distefano

l’immagine dell’operaio dell’Embraco che si è incatenato ai cancelli della fabbrica e dice “l’Embraco è la mia fabbrica e di qui non me ne vado”: mi sembra la stessa cosa che dice il cottimista Gian Maria Volonté che dice “questa è la mia fabbrica e voi mi buttate fuori: è questa la cosa più grave per me”. Sì, esatto. Vedi quanto strazio c’è. Senti dire questo da un dipendente – che poi dal punto di vista del padronato può essere espulso in qualunque momento, tanto ne trova quanti ne vuole di sostituti, che magari gli costano pure meno – una cosa così straziante. Lui dice “questa è la mia fabbrica”; ed è vero, nel senso che è


lì che ho messo tanto sudore, tanto lavoro, è lì che ho perso magari anche un pezzo di salute, gli anni migliori, tanto del mio tempo; però di fatto sua non è. E’ eroico nella sua protesta, e tutti noi dobbiamo essere solidali con lui. Ma, d’altra parte, dobbiamo fare i conti con lo stato delle cose. E’ questo l’aspetto di attualità che ho voluto sottolineare quando ho proposto a Longhi di mettere in scena questo spettacolo: quelli sono gli anni in cui appare chiaro che l’asse della protesta, soprattutto a sinistra, si sposta dal mettere in discussione il modello di produzione a cercare di strappare condizioni più consone al profilo da conservatore del lavoratore. Cioè si comincia a non mettere più in discussione i rapporti di produzione, ovvero quello che veramente separa chi ha la proprietà della fabbrica da chi ha solo le sue mani. E lo scotto di quel momento in cui si perde di vista un obiettivo per preferirne un altro – in qualche modo più comodo, conveniente, ma che sostanzialmente ha già in sé il sapore della resa – lo paghiamo oggi. Perché gli operai ti dicono “la fabbrica è mia”, ma il proprietario risponde “no, è mia, e la sposto in Polonia; la chiudo se mi va; la vendo ad un altro se mi va”. Allora, se la situazione è questa, il problema non è fare una battaglia per avere un po’ più di soldi nella busta paga contrattando su qualche ora di lavoro; il problema torna ad essere oggi la ridiscussione dei rapporti di produzione su cui si regge la società. Il discorso di Petri che ha fatto tanto rodere alla stampa dell’epoca, è anche questo. Quest’anno si celebra il ’68: alla vostra presentazione in teatro una persona ha detto che il ’68 italiano ha lasciato in eredità soltanto la violenza terroristica. Ma in realtà il ’68 (e il ’69) ha prodotto lo Statuto dei Lavoratori che è del 1970. Forse questo si dimentica un po’ troppo facilmente, mentre invece mi sembra che il vostro spettacolo solleva anche questo tema in modo molto deciso. Assolutamente. Peraltro lo spettacolo non vuole neanche essere una critica – come del resto non lo era neanche il film – all’universo sindacale. Per esempio, io trovo che i sindacalisti siano guardati con una certa umanità e benevolenza da Petri, perché in fondo si pongono degli obiettivi e quegli obiettivi faticosamente li raggiungono. Quello che invece qui si intende mettere in discussione è se quelli siano gli obiettivi giusti da perseguire o se invece debbano essere altri. Il ’69 è l’anno in cui la protesta a Mirafiori porta enormi risultati: si concepisce lo Statuto dei Lavoratori, si smette di parlare di cottimo e i sindacalisti sono dentro quel processo. Tante battaglie hanno portato a condizioni di lavoro estremamente più giuste e questo lo si deve a quello che è successo in quegli anni. Sa-

rebbe ingiusto dire che il ’68 ha portato soltanto la ridiscussione della figura femminile. Esso ha innescato un processo culturale di emancipazione da certi tabù sociali e si dimentica sempre quanto importanti siano state in quegli anni le lotte dei lavoratori. Quello che mi sento di dire è che l’ambiguità con cui il Partito Comunista affrontò quegli anni ha a che vedere che il discorso che facevo prima: se è venuto meno il “sogno di una cosa”, l’idea che sinistra significasse immaginare un modello produttivo alternativo, che non dovesse diventare quello stalinista sovietico (noi in Italia ci si era immaginati una via al Socialismo diversa, basterebbe rileggersi un po’ Gramsci), ecco su questo credo che il PCI avesse avuto delle enormi responsabilità, perché non è certo stato al passo delle conquiste sindacali del periodo. Nello spettacolo voi usate delle canzoni di protesta di Amodio di quegli anni e poi date loro una interpretazione e una scrittura contemporanee: quindi c’è anche un lavoro di riscrittura che avete fatto, anche come collettivo forse? E tu non sei solo l’interprete, ma in certa misura anche l’autore? La compagnia si è raccolta attorno al rapporto portante fra me e Longhi. Nel corso degli anni ci siamo un po’ scelti con le persone che ne fanno parte, che hanno voluto aderire al modello di teatro in qualche modo “pedagogico” – per non dire “didattico” – teso alla formazione del pubblico su cui noi volevamo muoverci. Il gruppo si è consolidato nella forma in cui oggi lo conosciamo negli ultimi 5-6 anni, è passato attraverso tre o quattro tappe importanti, ed è arrivato così ad oggi. Con questo asset fondamentale: tanta responsabilità elaborativa io in questi anni l’ho avuta perché i progetti che abbiamo pensato di fare sono stati pensati da me e Claudio. Poi negli anni si è avuto un processo di partecipazione a vario titolo alla costruzione delle tante cose che facciamo da parte di tutti. Nello specifico, questo spettacolo è stato scritto da Paolo Di Paolo alla drammaturgia (come il precedente “Istruzioni per non morire in pace”), con una continua consulenza da parte mia e di Claudio Longhi stesso e con le ricerche – a partire dal materiale documentale – di Giacomo Benigni, che è l’aiuto regista di Claudio Longhi. Poi delle canzoni e del loro destino, che sono tutte di Fausto Amodei l’eroe del Cantacronache,mi sono occupato direttamente io in questo modo: le canzoni sono introdotte e chiosate da alcuni interventi recitativi che le connettono alla trama dello spettacolo. Io ho scritto quelle battute del recitativo e poi ho rielaborato alcune strofe per avvicinarle all’oggi. E’ un’operazione di travestimento brechtiano. Quindi le canzoni di Amodei che si ascoltano

nello spettacolo sono le sue canzoni, più magari una strofa adattata ad oggi che ho scritto io, e queste battute di contestualizzazione nello spettacolo. Poi la riedizione di questo mio lavoro è stata partecipata perché l’hanno operata Simone Tangolo, che esegue le canzoni dal vivo, e da Simone Francia. In compagnia abbiamo tutti degli incarichi che non sono solo quelli attoriali e Simone, ad esempio, fa parte del pool di drammaturgia; altri hanno incarichi musicali o promozionali: questo è il nostro modo di lavorare. Tutti cerchiamo di fare gli attori, poi io ho un’anzianità di servizio che mi pone di più all’interno dei processi produttivi e generativi. In particolare, in questa occasione la colpa è mia perché ho avuto l’idea iniziale e poi Longhi ci si è buttato subito. Qualcuno si è meravigliato all’incontro con il pubblico del fatto che questo è un teatro politico, ma in realtà il teatro politico in Italia, grazie a Dio, esiste e ha interpreti importanti. A me sembra che sia una ripresa, in forme diverse e nuove, di una tradizione italiana. Non mi pare che sia stato mai un genere (se così lo possiamo definire) minore o marginale. Noi abbiamo una scena teatrale bellissima; forse la più viva d’Europa. Anche composta da materiale molto semplice. In altri sistemi teatrali la prosa tradizionale è più forte. Quindi c’è un universo teatrale convenzionale, tradizionale, forte, attorno al quale si muove una scena, chiamiamola così, alternativa, indipendente, vitale – che produce più drammaturgia di quanto non accada da noi – ma con meno gruppi propositivi. Da noi allo stesso tempo c’è il teatro di narrazione, si è mossa la scena della performance, si sono avviati processi di scrittura politica alternativa agli stabili, c’erano gli stabili: veramente in Italia c’è tantissimo teatro di moltissime tipologie. Quello a vocazione più politica è stato per molti anni legato per lo più al teatro di narrazione che, negli ultimi 20 anni, è stato più carico di certe responsabilità di rivendicazioni o di denuncia civile, quando non di presa di posizione politica. La prosa, da questo punto di vista, è vero che ha un po’ dormito: ha proposto in modo rapsodico degli spettacoli importanti. Però lasciando un po’ la trattazione di questi temi a questo universo di teatro nuovo. Ultimamente quello che noto è che è sempre più frequente il tentativo, anche attraverso la prosa “tradizionale” (anche se è sbagliato definirla così, se non altro perché noi non facciamo autori e opere tradizionali), di cimentarsi su tematiche di impegno civile e politico. Questo mi fa piacere e secondo me è importante. E’ anche il segnale che una generazione di artisti nuova crede molto nelle potenzialità politiche del teatro.

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Le Sorelle Marx

I be’ tempi andati

Un crollo di civiltà, mica una fisiologica e sempre possibile sconfitta politica, il risultato delle elezioni del 4 marzo per Marie Helen Wald (la nostra Maria Elena Boschi ha tradotto i suoi dati anagrafici in tedesco, tanta è stata la sua sintonia con il collegio Alto Atesino che l’ha votata per il Parlamento). Riferiscono cronisti bene informati che la junges Mädchen di Bozen (ormai avvistata con il nuovo look in treccine bionde e Dirndl altoatesino) versa calde lacrime sul bel tempo che fu. Ma lo fa con piega crepuscolare degna del miglior post-decadentismo gozzaniano: no, ha dichiarato a Francesco Merlo di Repubblica, non piango perché “finisce il sogno politico della sinistra dei 40enni”, ma per il mondo che va esaurendosi “fatto di letture e buone maniere, di educazione e di civiltà”. E’ quel mondo perduto che Gozzano già celebrava agli inizi del secolo passato, che la signorina Felicita sentiva sfarinarsi sotto i suoi leggiadri piedini. E così anche noi percorriamo idealmente i corridoi del Palazzo che furono sede dei fasti renziani, distratti da quell’odor d’inchiostro putrefatto, da quel disegno strano del tappeto, dove lei, Marie He-

I Cugini Engels

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che cos’ha?» «Oh! Signorina! Penso ai casi miei, a piccole miserie, alla città....Sarebbe dolce restar qui, con Lei!...». «Qui, nel solaio?...» - «Per l’eternità!» «Per sempre? accetterebbe?...» - «Accetterei!» Ma troppo tardi ormai, l’idillo termina, e quel mondo elegante e leggiadro s’è perso ormai: “Giunse il distacco, amaro senza fine, e fu il distacco d’altri tempi, quando le amate in bande lisce e in crinoline, protese da un giardino venerando, singhiozzavano forte, salutando diligenze che andavano al confine....”. E, gozzianamente, scende il crepuscolo su quel piccolo mondo antico che fu, renziano.

La ridotta di Serpiollina

La batosta elettorale è arrivata, probabilmente maggiore di quella prevedibile e il gruppo dirigente del PD studia le prossime mosse a partire dagli unici luoghi in cui pare tenere: una fetta transappenninica tra Firenze e Bologna in cui darsi alla macchia e strutturare la nuova resistenza. Richiamato quindi subito in servizio l’ex assessore Mattei che ha rimesso in funzione la trasmittente di Radio Cora e ha iniziato a mettere in onda tutti i successi

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len, compariva tutta sorridente … quasi brutta, priva di lusinga nelle sue vesti quasi campagnole, ma la sua faccia buona e casalinga, i bei capelli di color di sole, attorti in minutissime trecciuole, che la facevano un tipo di beltà fiamminga..... Il cantore di quel mondo raffinato e di buone maniere viene cantato oggi da Francesco Bonifazi, il più signorile dei protagonisti di quel tempo che fu: “Vedevo questa vita che m’avanza: chiudevo gli occhi nei presagi grevi; aprivo gli occhi: tu mi sorridevi, ed ecco rifioriva la speranza!” Ma lei, la Marie Helen si accorge del turbamento suo e.. «Avvocato, non parla:

di Sanremo per allietare le truppe. Meno propenso di passare all’azione cruenta il segretario Renzi che vede meglio al momento una resistenza letteraria. Dopo l’hastag #senzadime, già pronti i lucchetti da mettere al Nazareno come sul ponte Milvio. Si sospetta che la nuova eminenza grigia della resistenza possa essere dunque Federico Moccia. In città a Firenze opereranno invece i GAN, gruppi armati Nardella, che scaveranno buche nelle

strade e apriranno cantieri della tramvia a caso. Pare che Francesco Bonifazi si sia scelto il ruolo di Che Guevara del renzismo. Si suppone per la barba anche se i più informati propendono a credere sia per la passione per i Mojtos. A Maria Elena Boschi toccherebbe il ruolo di Rosa Luxemburg ma pare che la deputata abbia risposto “mi hanno eletto a Bolzano, al massimo posso essere la Stella Alpina”.


di Paolo della Bella Sul numero 35/36 del marzo 1974, Ca Balà pubblica per la prima volta una pagina intera di un fumetto di Lido Contemori che, forse, definirlo fumetto può apparire riduttivo, perché anche se ci sono le parole nei “balloon”, si capisce subito che è un illustratore prestato alla satira. D’altra parte Ca Balà era una rivista di satira politica e quel numero dedicato al sesso, recitava in copertina uno slogan politicamente significativo: «Sesso a sinistra Sesso a destra»!!! Con questo non voglio dire che le parole, il fumetto appunto, siano per Lido inutili, a volte sono servite anche a lui (in alcune occasioni perfino le mie), ma spesso, e lo ha dimostrato col passare degli anni, non ne ha avuto bisogno. Ha fatto un’operazione michelangiolesca, se mi passate l’azzardato accostamento, “per via di levare”! Da molto tempo ormai, Lido nei suoi disegni ha tolto le parole, non perché gli mancassero ma perché ha capito che essi stessi sono dotati della parola. Infatti, questi «Sorrisi acidi» proposti per l’occasione, già di per se descrittivi, non hanno bisogno di un copywriter né tantomeno di un traduttore. Un bel vantaggio direi! Allora perché nel contesto “Commestibile” di questa “Cultura” del silenzio, si è inserito Aldo Frangioni con i suoi testi? Non mi è dato di sapere, comunque e per fortuna, non fa una didascalia, anche se “didascalicamente” lo sottoscrive. Frangioni non spiega, interpreta come fa ognuno di noi quando legge il giornale on line dove sono pubblicate queste bellissime tavole. Il testo potrebbe anche non esserci, non è utilissimo però… è certamente un valore aggiunto. Paolo Albani mette in evidenza la leggerezza dei disegni di Lido. Mi associo e aggiungo la raffinatezza, la destrezza e perché no, la classe che come risaputo, non è acqua!

Segnali di fumo di Remo Fattorini Scontato. Con il voto del 4 marzo si è scoperto che l’Italia è divisa in due. Da una parte i poveri con il M5S, dall’altra i benestanti con la Lega. In altre parole: gli elettori di un Nord agiato, quelli - tanto per capirsi - con il Pil pro-capite più alto, impauriti dalla globalizzazione e dall’immigrazione (si è votato pochi giorni dopo Macerata), hanno scelto la Lega; mentre quelli del Sud, più poveri, più disillusi e con poche speranze per il futuro hanno scelto il M5S. Fatto sta che in tanti hanno abbandonato il

Lido “di Classe”

Nel migliore dei Lidi possibili Pd, che rispetto al 2013 perde oltre 2,6 milioni di voti - dati Istituto Cattaneo - e anche Forza Italia si ritrova con quasi 3 milioni di consensi in meno. Al contrario il M5S cresce e supera il 32%, diventando di gran lunga il primo partito. Anche Salvini fa il pieno, tanto che rispetto al 2013 aumenta di 4 milioni, sorpassando così Forza Italia. Mentre le liste neofasciste, pur raccogliendo 430mila voti non riescono, per ora, a raggiungere il quorum per entrare in Parlamento. Cosa che invece riesce, anche se a malapena, a Liberi e Uguali (LeU), portando a casa 6mila voti in più di Sel. Tuttavia, l’obiettivo di ricostruire una sinistra moderna per il momento è rinviato. I delusi hanno preferito il M5S e qualcuno persino la Lega. Dettagli. Tutti i candidati big di LeU all’uninominale sono stati bocciati. Pensate, il miglior risultato è stato raggiunto dalla candidata al collegio 1 di Firenze, Sandra Gesualdi con il 7,3%. A preso il doppio dei voti ottenuti

da D’Alema che pure ha fatto una campagna elettorale pancia a terra: un intero mese trascorso nel suo storico collegio di Nardò-Gallipoli, con decine di incontri, cene, assemblee e strette di mano. Risultato: un misero 3,9%. Stessa sorte per Laura Boldrini stoppata al 4,5 e per lo stesso Pietro Grasso fermo ad un modesto 5,8. C’è di che riflettere se invece Sandra Gesualdi, con una campagna corta (a tempo pieno sole le ultime 2 settimane) e molto sobria, senza budget né comitato, senza spot né manifesti, senza spin doctor né ufficio stampa, porta a casa un piccolo successo personale. Sandra ha combattuto a mani nude, spendendo in tutto - e di tasca propria - poco più di mille euro. Tutta volantinaggi e incontri, parlando direttamente con le persone. La sua candidatura non è nata a tavolino, ma da una battaglia di civiltà, quella per il fine vita. Sandra è ed è stata percepita come una persona credibile, una faccia nuova con una bella storia da raccontare. Obbligatorio meditare.

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di Laura Monaldi Nel 1966, sulle pagine della rivista «Collage», il critico Cesare Vivaldi coniò il termine “Scuola di Pistoia” per delineare un fare poetico incline alla Pop Art ma più specificatamente nazionale. Se da una parte la Scuola di Pistoia si qualificava come una continua ricerca sull’uomo, sul quotidiano e sull’ironia del senso comune, dall’altra si manifestava come vena creativa di forte impatto concettuale e interpretativo. Avvertire il rapporto di significato fra oggetto e referente significava separare l’idea del concetto da esprimersi dai mezzi di espressione, al fine di riportare l’oggetto o la visione originale a una piena coscienza di sé, nonché a una piena e tangibile corrispondenza di significato. In tal contesto Umberto Buscioni riscoprì l’oggetto comune, denaturalizzando dal sistema mass-mediatico dei rotocalchi e dei manifesti pubblicitari per inserirlo in un intimo rapporto con l’artista, in un’atmosfera magica e sospesa. L’artista diede una particolare attenzione all’aspetto superficiale delle cose del mondo: giacche, cravatte, scarpe, stoffe e pieghe si dichiararono autonome rispetto alla figura umana che passava in secondo piano, dando alla pittura un senso di ricercatezza inedita. Umberto Buscioni unisce l’oggetto quotidiano con la sfera più profonda dell’esistenza, in una dimensione magica e sospesa, tuttavia

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Buscioni, il pistoiese

analitica nella decantazione di falsi miti, sensi comuni e riflessioni personali. Nelle sue opere è possibile leggere un intreccio di tematiche e contenuti che, in un eterno ritorno, mettono in luce l’orientamento contemporaneo alla rarefazione del pensiero e della reale percezione delle cose. Armonia di forme e colori, leggerezze e trasparenze, delicatezza e precisione nell’uso della linea, denotano nella prassi artistica di Umberto Buscioni un particolare sguardo

a metà strada fra realtà e finzione, come se il punto di vista da donare al fruitore d’arte fosse quella peculiare attenzione alla naturalità dell’esistenza, connessa e opposta ai sensi prodotti dalla cultura. Parte della sua produzione sarà in mostra fino al 30 giugno alla Limonaia dell’ex Convento dei Padri Cappuccini di Prato, attraverso un’attenta selezione di opere della collezione di Carlo Palli e di documenti tratti dall’omonimo Archivio.


Musica

Maestro

Un pioniere dimenticato

di Alessandro Michelucci “La culla dell’elettronica è il Cairo” ha scritto Rob Young sulla rivista inglese The Wire (277, marzo 2007). Questa affermazione richiede qualche chiarimento. Il giornalista non si riferiva alla musica elettronica secondo un’accezione diffusa oggi, cioè quella che ruota attorno al dj, ma alla musica di ricerca che vide la luce negli anni Quaranta. Detto questo, cosa c’entra Il Cairo con la musica elettronica? La risposta è semplice: il primo brano di musica elettronica fu inciso da un compositore egiziano, Halim El-Dabh, nel 1944. Quindi ben prima del francese Pierre Schaeffer, inventore della cosidetta “musica concreta” (Cinq études de bruits, 1948), e del fiammingo Karel Goeyvaerts (Compositie Nr. 4 met dode tonen, 1952). Ma partiamo dall’inizio. Halim El-Dabh nasce al Cairo nel 1921 in una famiglia copta. A undici anni, durante un congresso che si tiene al Cairo, entra in contatto con Béla Bartók. Il compositore ungherese è stato invitato nella capitale per far conoscere le registrazioni che ha raccolto su nastro: all’epoca ha già compiuto gran parte delle sue preziose ricerche etnomusicali, che lo hanno portato dall’Europa centrale all’Algeria. Questi studi affascinano il ragazzo, influenzando in modo decisivo il suo rapporto con la musica. Il padre di Halim è un perito agrario e il giovane sembra intenzionato a seguire la sua strada, quindi si laurea in ingegneria agraria all’età di 24 anni. Ma la sua vera passione, ormai, è la musica. Tanto è vero che l’anno prima ha inciso The Expression Of Zaar, il primo pezzo per nastro magnetico a cui si accennava sopra. Basato su una cerimonia registrata in precedenza, il brano mette in luce il forte interesse per l’Egitto antico che rimarrà una costante del musicista. La borsa di studio che vince nel 1950 gli permette di stabilirsi negli Stati Uniti per perfezionare gli studi con vari docenti, fra i quali Aaron Copland e Luigi Dallapiccola. Quindi si inserisce nell’ambiente dell’avanguardia newyorkese, che conta già figure come Henry Cowell, John Cage e Peggy Glanville-Hicks.

In seguito a questi contatti nasce la collaborazione con Otto Luening, un musicista di origine tedesca che ha studiato con Ferruccio Busoni. Da questo sodalizio nascono due brani per nastro magnetico, Diffusion of The Bells ed Electronic Fanfare (entrambi del 1959). Nello stesso periodo registra Crossing into the Electric Magnetic (1959) e Leyila and the Poet (1959), ispirato a un poema persiano del dodicesimo secolo. Versatile e aperto a ogni forma di scambio, ElDabh comincia poi a collaborare anche con Martha Graham, la grande ballerina e coreografa americana. Per lei scrive le musiche di numerosi balletti, fra i quali Clytemnestra (1958) e Lucifer (1975). Successivamente il compositore si concentra sullo studio della musica etiopica. Riunendo musicisti dei vari gruppi etnici (Amhara, Oromo, Tigrinya, etc.) dà vita all’Orchestra Ethiopia, che realizza due LP di musiche tradizionali (Blue Nile Group, 1969, e Orchestra Ethiopia, 1973). L’interesse per l’antico Egitto riemerge in Ptah-mose and the Magic Spell (1972), un’opera in tre parti, l’ultima delle quali non viene mai rappresentata. El-Dabh svolge anche un’intensa attività didattica in varie università. Alla Howard University di

Washington conosce Fela Sowande, autorevole musicista ed etnomusicologo yoruba nigeriano. Fra i due si sviluppa un’amicizia forte e duratura. Successivamente lavora come consulente per la Smithsonian Institution, il più importante organismo etnomusicologico statunitense. Pur suonando in prevalenza le percussioni, Halim El-Dabh non dimentica il piano: lo conferma Piano Music of Halim El-Dabh (2009), una raccolta di brani composti fra il 1932 e il 2007. A 94 anni ha ancora la forza e la voglia di sperimentare: nasce così il suo ultimo lavoro, Sanza Time (2016), che incide insieme a Ron Slabe. Musicista dedito alla ricerca elettronica, Slabe stabilisce una piena sintonia col vecchio musicista africano. Il risultato è un lavoro interamente acustico a base di elettronica e percussioni. Il compositore muore il 2 settembre 2017, lasciandoci un’eredità musicale importante e poliedrica. Accanto ai dischi, molti dei quali sono facilmente reperibili, un valido strumento per conoscerlo è il libro di Denise Seachrist The Musical World of Halim El-Dabh (Kent State University Press, 2003).

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di Susanna Cressati Acciuffando il coraggio a due mani Maria Pia Veladiano sbarca al Vieusseux per parlare di Eugenio Montale. Nella tana del lupo, dato che del glorioso istituto fiorentino il poeta fu direttore per dieci anni. Ma la scrittrice vicentina non si fa intrappolare dalla reverenza. Anzi, à la guerre comme à la guerre, sceglie un approccio che, sebbene discutibile, ha il merito dell’azzardo. Nella sua apparente divagazione il frequentatissimo “giallo” delle donne di Montale si trasforma in una sorta di percorso che, privatissimo, ha un più generale interesse letterario: come si diventa la “Musa” di un grande poeta? E la donna vera trasformata in Musa che ne pensa e come vive questa metamorfosi? E’ questa la sorte (non felicissima, come vedremo) toccata a Irma Brandeis, la studiosa americana che Montale conobbe il 15 luglio 1933 e con la quale intrattenne una relazione (e un inarrestabile scambio epistolare) fino al 1939. Donna colta, forte e brillante, Irma, capelli corti e frangetta, dantista affermata, che aveva studiato musica, e poi danza con Isadora Duncan e che di sé diceva di essere una creatura “libera e spavalda”. Il suo primo incontro con Montale, da lei stessa voluto dopo la lettura “esaltante” di Ossi di seppia, ha assai poco di romantico: lo vede già vecchio a 37 anni, brutto, irresoluto, incapace di intavolare una conversazione interessante. Eppure per tutta una estate si vedono tutti i giorni. Lei si innamora. Lui ci sta, ma ad agosto parte per Londra e Parigi con Drusilla. Nulla sanno, le due donne e le due Muse, l’una dell’altra. Lui le scrive, continua a confessarsi innamorato, almanacca possibili soluzioni al loro rapporto (le stesse identiche che, anni prima, aveva prospettato a un’altra donna, Lucia Morpurgo). Le parla malissimo, in modo quasi imbarazzante, di Drusilla, a cui si riferisce chiamandola “X”. A differenza di quelle di Irma, le lettere di Montale sono proprio brutte, scritte male, autocentrate, spie di un solipsismo inguaribile, imbarazzanti, sembrano vergate senza cura da un pover’uomo balbettante, in preda alla confusione mentale. Per anni con questi fogliacci lui gioca tutte le carte per tenerla legata a sè, sfrutta il tono patetico, fa del vittimismo: se non può essere tutto suo è perchè qualche cosa lo impedisce, il lavoro, i soldi, la stanchezza, l’esaurimento... Promette di raggiungerla in America, dove

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Canaglia da Nobel lei passa parte dell’anno, ma nonostante le rassicurazioni ritarda, non si decide. La lettera del 7 febbraio 1935, ad esempio, è uno sproloquio confuso e autoscusante ai limiti del ridicolo, una sequela di pretesti che diventa quasi isterica e somiglia molto al celebre brano del film “The blues brothers” in cui John Belushi cerca di scampare alla raffica di mitraglia che gli promette la sua ex fidanzata, che ha lasciato sola davanti all’altare: “Lo sai che ti amo baby, non ti volevo lasciare, Non è stata colpa mia. Dico sul serio. Sono rimasto senza benzina, avevo una gomma a terra, non avevo i soldi per prendere il taxi, la tintoria non mi aveva portato il tight, c’erano i funerali di mia madre, era crollata la casa, c’è stato un terremoto, una tremenda inondazione, le cavallette! Non è stata colpa mia, lo giuro su Dio!”. Lei, Irma, risponde in modo fin troppo signorile, ma non manca di ammonirlo: “Così tieni in scacco la vita di due persone”. Ma Montale non demorde. In altre missive, del resto, la sua indelicatezza raggiunge veri culmini. Non si perita di definire “una cosa mostruosa” le donne scrittrici in Italia. E Irma vuole scrivere. Dice (alla sua amante!) che le donne stanno bene nel ruolo di “amoureuse”, ma concede che questo “non vuol dire prostitute o etere”. Si professa antirazzista ma la sua opinione è che gli ebrei italiani non valgono molto. E lei è ebrea. Per anni, fino al 1939, le assicura che la raggiungerà ma intanto va ad abitare con Drusilla e intanto, quando scrive a Irma, continua a firmarsi “veramente completamente tuo”. Lui si inventa un nome per Irma-Musa, la chiama Clizia. A lei questo sembra (ed è) un affronto. Perchè la storia di Clizia, come la racconta Ovidio nelle sue Metamorfosi, è questa: Clizia ama il Sole e per gelosia denuncia Leucotoe (che il Sole ama) al padre di lei Orcamo, che la seppellisce viva. Il Sole, dopo aver tentato invano di salvarla, trasforma Leucotoe in un albero di incenso, perchè, attraverso il suo

fumo profumato, tocchi comunque il cielo. Clizia, abbandonata dal Sole, trascorre il tempo guardando la faccia del dio che passa nel cielo e lentamente si trasforma in un girasole: “Benchè trattenuta dalla sua radice si volge al suo Sole e, anche trasformata, conserva l’amore”. Irma, allo stremo del rapporto, non ci sta: ”Sono stanca - confessa - Clizia è una scellerata vendicativa maledetta da dio, questa non è la mia storia”. Ma la poesia – dice Veladiano – altro non è che lasciare le parole andare nel mondo, si libra su un altro piano rispetto a quello del comportamento umano. Quando Montale indica Irma e Maria Rosa Solari come Muse ispiratrici nei tre primi mottetti delle Occasioni, Irma-donna (non Irma-Musa) se ne risente, perchè si sente wderubata della sua esclusività. Il poeta non capisce, insiste nel giustificare quella “fusione”, che è anche una visione. La poesia, dice Veladiano, ha un suo egoismo, non ha scrupoli nel decidere dove prende la sua ispirazione. La donna-donna e la donna-Musa sono due cose diverse. Il poeta-uomo e il poeta artista altrettanto. Misteriosa è la strada della poesia. Poi c’è la vicenda umana, anch’essa insondabile. Molti anni dopo, rileggendo le lettere di lui per sistemare la donazione al Vieusseux, Irma scriverà: “Piango per entrambi e per il mio povero, piccolo orgoglio”. Mottetti

Lo sai: debbo riperderti e non posso. Come un tiro aggiustato mi sommuove ogni opera, ogni grido e anche lo spiro salino che straripa dai moli e fa l’oscura primavera di Sottoripa. Paese di ferrame e alberature a selva nella polvere del vespro. Un ronzìo lungo viene dall’aperto, strazia com’unghia ai vetri. Cerco il segno smarrito, il pegno solo ch’ebbi in grazia da te. E l’inferno è certo.


di Sandra Salvato Guardate.../Burchiniani, Avoriani, Nigeriani, Marocchini,/Senegalesi, Ghaniani, Algerini.../Sono tutti venuti con valige piene di sofferenze/con valige piene di miseria, di sfortuna e di fame. Nel 1989, l’indomani l’uccisione dell’extracomunitario Jerry Masslo a Villa Literna, nella provincia di Caserta, il poeta nigeriano Chidi Chirstian Uzoma gli dedica questi versi. Sono i tempi della (mancata) legge Martelli e Turco-Napolitano sui flussi migratori, dei primi strilloni sull’invasione dello straniero, sui giochi di equilibrio legislativo tra le parole sanatoria e regolarizzazione. Quasi vent’anni di titoli e vocabolari dopo, la storia e la lingua dicono che siamo al punto di partenza, con la conseguenza che non sai più se stai ancora rincorrendo il nero o scappando dall’italiano. Anche da un punto linguistico, vista la velocità con cui alcuni connazionali si spingono in direzione opposta alla loro lingua o alla possibilità che si evolva. La lezione arrivava proprio da Uzoma che in quel avoriani al posto di ivoriani, burchiniani di burchinabè o ghaniani di ghanesi, implicitava il suo sguardo sull’ignoranza, nel senso di altezzoso distacco di alcuni italiani rispetto alle altre culture. Peccato. Perché se è vero che la lingua è cultura ed elemento di coordinamento potremmo perdere un’occasione. Finché un uomo ti incontra e non si riconosce, cantava De Andrè, non sapremo leggere il libro del mondo che si scrive nel nostro quotidiano. Permettere all’italiano, lingua viva, di fare i conti con il crescente sincretismo culturale, dipende allora dalla rimozione di alcune soglie d’ansia. Il termometro è, evidentemente, la crescita esponenziale del numero di migranti. La possibilità che ha la nostra lingua di rinnovarsi, ampliarsi nella forma e nei canoni, si trasforma nella paura che il ceppo linguistico venga indebolito dalla barbarica invasione. E mentre c’è chi urla alla sostituzione etnica, c’è si domanda se la novità non possa essere un valore. Cosa dire, allora, dei migranti italiani di fine Ottocento, per lo più dialettofoni, che finirono con il condizionare significativamente la lingua ospitante, una su tutte lo spagnolo, che adottò varie parole nostrane dando il via all’italianizzazione della cultura latino americana? Tenaci a sproposito nel difendere il nostro idioma abbiamo generato un lessico migratorio che spesso utilizza i termini in senso dispregiativo e definisce ulteriormente l’inquietudine nei confron-

Lingua e immigrazione, a che punto siamo

ti dell’ignoto. Pensiamo a “vu cumprà”, espressione denigratoria, identificativa dei venditori ambulanti dove il vu potrebbe essere la contrazione del vous francese, lingua del colono in terre come il Senegal, oppure la storpiatura del vuoi italiano. E cosa dire di “marokkino” con due K per indicare indistintamente palestinesi, iracheni, curdi e perfino albanesi, “metterne in evidenza la marginalità o la diversità”. I pregiudizi non dovrebbero irrobustirsi nella lingua, creare categorie linguistiche, etichette, al contrario dovrebbero disinnescarsi nella lettura

del contesto, delle condizioni in cui si genera l’incontro, senza dimenticare che proprio le medesime condizioni, economiche e sociali, ci hanno visto salpare verso altri lidi fino a non molti anni fa. Emorragica e sempre attuale fuga di cervelli a parte. Il territorio di approdo è il primo laboratorio, ci spiega il linguista e filologo Alberto Morino, in cui sperimentare la cittadinanza attiva anche da un punto di vista linguistico. Oltre a rimodellare gli spazi urbani, nativi e stranieri si trovano a ricreare la propria lingua vivacizzandola, come fossero un unico organismo comunicante. L’italiano di contatto è l’esito di questo incontro, una lingua spontanea, informale, ancora in viaggio verso un italiano più ricco e consapevole della presenza di altre culture cui offrire, in modo rassicurante, alfabetizzazione per facilitarne l’apprendimento. Una prima politica di accoglienza, insiste Morino, dovrebbe uniformare al suo livello base la nostra lingua, semplificarla al massimo, avverte, senza banalizzarla. Concetti base, parole semplici. Scopriamo così che per molti migranti che hanno appreso l’abc dell’italiano, la poesia è la via più spontanea per comunicare e che l’unica grammatica possibile risponde alla propria sensibilità. Scrive in carcere Khaouf Allah Mohamed: Per saper scegliere tra il bene e il male/sempre devi provare/se non provi non puoi sapere mai/ che cosa ti fa bene e cosa ti fa male.

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di Alberto Cottignoli Gonfienti… quali meraviglie si nascondono sotto la coltre di cemento e terra che gli esponenti di questa democrazia malata non vogliono indagare? Risuonano dalle necropoli dell’Etruria meridionale le voci del popolo che diede origine a Roma e alla potenza sua, ma nessuna risuona più forte di quella che dilata dai pochi ruderi finora scavati di questa nuova metropoli e, precisamente, da un’abitazione di oltre 1.400 metri quadri risalente, nella sua forma compiuta, all’inizio del V sec. a.C. All’interno di questa, già di per sé di dimensioni ineguagliate in tutta l’Etruria, è poi emersa una meravigliosa kylix (coppa biansata per bere vino) opera del Douris, uno dei più grandi ceramografi greci a figure rosse e, per chi non lo sapesse, la ceramica greca è, senza tema di errore, la più importante del mondo. (fig. 1) Ma quale meraviglia di kylix! Essa presenta il medaglione centrale ed entrambi i lati esterni figurati in modo fantastico: una qualità che il Douris eguaglia in ben poche altre opere e che ci parla a livelli culturali finora sconosciuti in questo genere di manufatti. Il medaglione rappresenta Eros che prende il volo davanti ad un insegnante (probabilmente un filosofo), mentre sui due lati esterni abbiamo rispettivamente, in uno due personaggi imponenti (divinità o guerrieri?) che inseguono un Eros intento a fuggire su una biga trainata da due cigni e, nell’altro, due personaggi non identificabili che cercano di sottrarre a Hypnos e Thanatos il cadavere di un uomo, sicuramente per impedir loro di portarlo agli Inferi. (fig. 2) Un’unità ideologica profonda unisce queste tre raffigurazioni: l’eterna lotta della razionalità e della vita contro l’irrazionalità dell’Eros e contro l’ineluttabilità della Morte. Si raccolgono in sintesi mirabile ed altissima in questa kylix, gli eterni dilemmi che assillano tutta la filosofia greca e quella contemporanea e che sempre inquieteranno la nostra specie, nei tempi dei tempi a venire, fino a che essa continuerà a sopravvivere a sé stessa ed ai suoi errori. Ci troviamo di fronte ad un capolavoro della ceramica greca che manifesta un livello di grandezza e di organicità culturale che non trova paragoni in tutta la pittura vascolare attica. Mai un vaso attico di tal livello fu scoperto in Etruria né in tutta la Grecia! Chi mai abitò Gonfienti in quei tempi? Quale immenso segreto nasconde questa città di cui si cerca di sminuire l’importanza

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Gonfienti

meraviglia d’Etruria

Fig. 2 – Lati esterni della kylix di Douris (disegno di N.C. Grandin, 2009)

Fig. 1 – La kylix in mostra al Palazzo Pretorio di Prato (marzo 2016)

per ragioni squallidamente commerciali? Chi in quella casa visse fu persona di grande cultura, cultura di cui non troviamo testimonianza eguale in tutti gli oggetti scavati in due secoli negli anfratti della terra

ove oramai il popolo etrusco solamente si nasconde. Permetteremo noi che una città, che un segno immane come questo ha dato, venga dimenticata e le sue vestigia scompaiano nel nulla?


di Mario Preti Il “Progetto” antico, pre-pitagorico, era basato su una struttura matematica come quella dell’Universo, collocata nella sfera del sacro. Essa conteneva il principio che la Terra è immagine del Cielo; che la Creazione è riservata a Dio; che l’uomo costruttore può solo trasformare. Il risultato era l’”Armonia”, come la chiamerà Pitagora. Quindi la trasformazione del territorio era teo-pianificazione. “Come in cielo, così in terra” è l’espressione esatta del linguaggio mitico che l’ha coniata. La geometria garantiva che sulla terra si potesse trasferire esattamente la struttura dell’Universo; e la superiorità della geometria sull’aritmetica era una nozione presente anche a Platone che non a caso si dichiarava Geometra. Non era così per i numeri, perché nell’Universo esistevano solo i numeri interi. I numeri irrazionali, come pigreco, erano terreni, racchiusi nella geometria che li rappresentava ed espressi sotto forma frazionaria dai più vicini interi come, ad esempio, 22/7 (=3,14..), pigreco, che in Egitto stava addirittura nel Sistema Cubito Reale (vedi in mariopreti.it). Così si sviluppò una parte la ricerca dei numeri primi (divini) e dall’altra l’individuazione di quelli con molti divisori interi (numeri abbondanti), specialmente nel mondo egiziano. Nelle misure, quindi, si sono scelte unità alternative fra loro, come il Cubito e il Piede, con divisori diversi, per aumentare i risultati in interi usando ora l’uno ora l’altro. L’effetto è particolarmente evidente, ad esempio, nel progetto della Piramide di Chafre a Giza in Egitto nel III mac, dove la base quadrata della piramide di 411x411 cubiti reali è una scacchiera di 3x3=9 quadrati di 137 (numero primo) cubiti di lato, dove l’altezza e l’inclinazione delle facce è formata dal triangolo rettangolo “isiaco” 3,4,5. Qui i segmenti unitari dei lati -che in cubiti sarebbero 68,5- sono invece misurati in piedi reali, la metà di un cubito, e cioè 3x137 piedi, 4x137, 5x137. L’altezza, di 4x137 corrisponde a 274 cubiti. Plutarco ci fa sapere che gli Dei erano anch’essi numeri, vivendo in un cielo matematico, e che Osiride aveva il 3, Iside il 4 e Horus il 5; Ra (il sole) era 1. Questo uso si aveva anche in Grecia dove Atena aveva il numero 7, come la dea semita Ashtart che ritroviamo nel mondo etrusco a Pirgi e nel Tempio di Sant’Omobono a Roma, corrispondente all’etrusca Uni. Il 137 era anche una delle raffigurazioni di Ra: la somma di 1+3+7 dà 11, rafforzativo di 1; e, perciò, era la lunghezza in cubiti della Sfinge. Cioè l’intera Piramide e la sfinge sono identificate col 137. Si può capire come nel mondo antico il 137 dovesse essere conosciuto come un numero primo

particolarmente sacro. Così lo ritroviamo come misura di lunghezza del vestibolo del Tumulo della Montagnola, vicino a Gonfienti: 6,85 mt = 137 palmi, insieme ad altri numeri particolarissimi che formano una struttura progettuale matematica che fanno di quel tumulo una delle architetture etrusche più complesse. Quali erano, in sintesi, gli strumenti che gli Architetti antichi, compreso gli etruschi, avevano a disposizione per eseguire i loro progetti urbani e territoriali? Erano quattro: Le Figure Geometriche con le simmetrie; l’Orientamento; i Numeri; la Misura. Esaminiamo il progetto di un tempio. La planimetria era formata da una struttura grigliata costituita da quadrati o rettangoli, articolata come layers sovrapposti (Fig.1) e orientata con un procedimento basato sui cateti del triangolo rettangolo (Fig.1bis). Ad esempio io definisco N5:3E un orientamento che è dato da un cateto di 5 sull’asse solare Nord, al cui estremo si traccia il cateto ortogonale all’asse nel punto 5 e lungo 3 in direzione Est. Quest’ultimo punto, unito con l’incrocio degli assi solari, corrisponde all’ipotenusa, e a5:3 fornisce l’angolo dell’inclinazione in forma duale. Io non comprendo perché gli storici commettano l’errore di misurare gli orientamenti delle architetture antiche (fino ad oltre le rinascimentali) usando i gradi mentre per almeno 5000 anni si è usato il metodo del triangolo rettangolo. Questo vale anche per i progetti territoriali come le divisioni spaziali. C’è differenza? Si, notevole, perché gli antichi usavano

Il progetto antico i numeri per esprimere concetti che definivano il contenuto del progetto, altrimenti sconosciuto. Ad esempio, in tutti i templi etruschi che seguono la regola di Vitruvio le celle centrali sono sempre dei rettangoli col rapporto 5:3 (due numeri primi consecutivi e due termini della successione di Fibonacci): che significava uno spazio molto sacro. 5:3 è anche il rapporto fra il cubito e il piede. La divisione spaziale della piana dell’Arno è orientata proprio N5:3E, e, come quelle celle, esprime “la casa di Dio”, che non è di poco conto conoscere. Le decine di analisi di architetture città e territori antichi che ho portato a termine seguendo il bagaglio teorico che mi sono formato via via mi hanno convinto che i divisori primari dei numeri abbondanti, cioè quelli fino a 10 o 16, servivano per definire le “dediche” di templi, città, divisioni spaziali, attraverso riferimenti cosmologici duali: si concepiva cioè uno spazio della terra (coi numeri della classe 5) uno del cielo (con la classe 4,8,16) e uno del sottoterra (con la classe 6). La teoria dei tre livelli cosmologici permea in modo totale il Progetto etrusco.

A sinistra Fig 1 - Progetto della Forma del tempio di Uni (tempio A) a Pyrgi, metà V sac: cella centrale 20x12 moduli quadrati in proporzione 5:3. (CR Mario Preti, La Ricerca di E) Fig. 1bis – Orientamento del tempio di Uni N4:3E secondo il triangolo rettangolo 3,4,5. (CR Mario Preti, La Ricerca di E.

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di Roberto Barzanti Anche Siena ha i suoi fratelli Bandiera. Chi non ricorda la tragica fine dei due fratelli di Venezia Attilio e Emilio Bandiera, seguaci delle idee mazziniane, fucilati vicino Cosenza dalle truppe borboniche il 25 luglio 1844 insieme ad altri sette compagni di sventura? Nessun rapporto di parentela con i Bandiera senesi: pura coincidenza di nomi. La famiglia dei nostri Bandiera, proveniente da Rigomagno, è documentata a Siena fin dal XVI secolo e non furono pochi i suoi membri a conquistare una ragguardevole posizione sociale. Alessandro Leoncini, archivista infaticabile dell’Università, evoca con la meticolosa puntualità che gli è propria, le vicende dei Bandiera in un quaderno, “Giuseppe Bandiera, cancelliere dell’Università nel Risorgimento. Storie di vita senese nell’Ottocento” (Università di Siena, 2017) che si legge come un romanzo. La novità più rilevante della ricerca di Leoncini è la dimensione familiare che egli segue. L’Ateneo registrò il successo di un Bandiera nel 1742: Giulio iniziò a insegnarvi Logica. Seguì Giacomo, luminare in diritto civile, e quindi una schiera che fa dei Bandiera una dinastia in varie guise connessa ai destini dell’antico Studio. Nel 1790 Francesco e Antonio fondarono insieme ad altri colleghi l’Accademia Tegea, animata da spiriti illuministici e ospitata nel Palazzo di famiglia (oggi in via Pantaneto n. 150). Si sa quali rivolgimenti si produssero tra fine Settecento e inizio Ottocento: dall’incursione della plebaglia aretina e sanfedista del “Viva Maria!” alla cacciata dei francesi, alla Restaurazione lorenese. Tra i Tegei non mancavano sacerdoti aperti alle nuove idee accanto a severi reazionari come l’abate Luigi De Angelis, benemerito e accanito difensore del patrimonio artistico. La Loggia massonica degli Illuminati, la prima attiva in Siena, ebbe una funzione strategica in questo turbinoso contesto. Tra le associazioni fitti erano gli scambi. L’Ateneo era una fucina di sedizioni. Quando, sotto la guida di Daniello Berlinghieri, fu, nel 1814, ricostituito e si trasferì nel convento attiguo a San Vigilio, toccò a Antonio Bandiera assumerne la carica di cancelliere. Giuseppe Bandiera – siam giunti al dunque –, terzogenito di Antonio e Teresa Gambini, nacque il 9 giugno 1815 e si distinse fin da ragazzo per vivacità di carattere e spregiudicato anticonformismo. Figura tra gli studenti che applaudivano con ostentata insistenza le lezioni di due scolopi dalle vedute liberaleggianti: Massimiliano Ricca, di Novara, e il genovese Tommaso Pendola.

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Ricca e Pendola furono invitati a proibire l’espressione rumorosa di un consenso che destava forti preoccupazioni. Pendola tenne un atteggiamento equilibrato pur non rinnegando la sua visione teoretica e riversò il suo cristiano umanitarismo edificando le premesse che sarebbero sfociate nel glorioso Istituto per sordomuti di via delle Murella. L’ambiente universitario senese fu tutt’altro che indifferente alla causa nazionale, come ha approfonditamente chiarito Donatella Cherubini. Questo fecondo terreno spiega la nascita di una Guardia Universitaria autorizzata da Leopoldo II e tesa a costruire un’Italia nella quale fede cristiana e entusiasmo patriottico trovassero, sull’onda della proposta giobertiana, una confluenza operativa. La bandiera era double-face: da un lato mostrava il tricolore e dall’altro esibiva lo stemma granducale. Anche la vittoria ghibellina di Montaperti fu cantata quale origine di un senso d’indipendenza dalle vetuste e forti radici. I campi tra Curtatone e Montanara

furono testimoni del coraggio di duecento volontari partiti da Siena: e cinquantacinque erano studenti. Alla guida sfilavano quattro professori e il cancelliere Giuseppe Bandiera. La vittoria riportata a Goito da Carlo Alberto, indirettamente favorita dalla combattiva foga dei giovani patrioti, si risolse in una sconfortante delusione e il 29 maggio 1848 s’impresse nella loro memoria come un “disgraziato giorno”. Ma col passare del tempo l’avvenimento mutò di segno. Nello scarno necrologio dedicato, nel dicembre 1875, a Giuseppe Bandiera “Il Libero Cittadino” tessé le lodi dell’ufficiale “che nella gloriosa giornata del 29 maggio diede prova di vero coraggio”. La storia muta secondo la percezione che si ha dei fatti. Talvolta – commenta Leoncini – capita che qualche protagonista sia tratto fuori dall’ombra. Il mestiere di archivista ha qualcosa di sacerdotale quando è sorretto dall’onesto desiderio di vendicare le dimenticanze e portare sul proscenio chi ha ben meritato.

I fratelli Bandiera senesi


di Danilo Cecchi Come è noto, quello della fotografia pittorialista, definita anche in maniera generica ed un poco equivoca come fotografia “artistica”, è un movimento ampio e duraturo che nasce nella seconda metà dell’Ottocento, trova la sua consacrazione teorica nel trattato “Pictorial Effect in Photography” pubblicato da Henry Peach Robinson nel 1869 e trova la sua celebrazione pratica nei Saloni e nelle Esposizioni Nazionali ed Internazionali in cui si dispensano medaglie ed attestati, per trascinarsi sempre più stancamente fino ben oltre la fine della Grande Guerra. Nata con lo scopo dichiarato di elevare la fotografia ai livelli dell’arte figurativa, grazie all’impiego di metodi di stampa sofisticati e personalizzati, tali da fare di ogni stampa un esemplare “unico”, la fotografia pittorialista si scontra con i fautori della fotografia “diretta” o “naturalistica”, e viene spesso giudicata in maniera completamente negativa, sia per l’eccessiva dipendenza da un gusto di sapore impressionista ormai datato, sia per l’ossessiva insistenza su temi di disimpegno sociale, come i ritratti femminili ed i paesaggi, trattati in prevalenza in maniera indefinita ed un poco sognante. Di fronte alla forte affermazione di una fotografia diretta ed intesa come un linguaggio “autonomo”, la fotografia “pittorialista” paga il peccato originale di sudditanza alla pittura, e viene liquidata come un fenomeno di retroguardia. Tuttavia, il fenomeno va inquadrato più correttamente come il primo tentativo di separare la fotografia come mestiere ripetitivo dalla fotografia come attività artistica e creativa, e come una sorta di passaggio obbligato o di pedaggio che la maggior parte dei più noti fotografi del primo Novecento hanno dovuto attraversare e pagare, prima di liberarsi del bagaglio e della maniera ottocentesca. Da non sottovalutare poi, oltre al lungo periodo in cui il pittorialismo ha trionfato, l’ampia diffusione geografica del fenomeno, che ha coinvolto tutti i paesi europei, per diffondersi poi nelle Americhe, fino al Giappone e fino all’Australia. Il più importante fra i fotografi pittorialisti australiani è senza dubbio Harold Pierce Cazneaux (1878-1953), nato in Nuova Zelanda e figlio di un fotografo professionista. La famiglia si trasferisce ad Adelaide nel 1890, dove Harold inizia a lavorare come assistente del padre, mentre frequenta i corsi serali di disegno e pittura, per trasferirsi nel 1904 a Sidney dove viene assunto nel principale studio fotografico della città, diventando in seguito direttore generale dell’azienda. Ottimo ritrattista, Cazneaux affianca alla professione una serie di ricerche personali sul suo paese, fotografando le

Harold Cazneaux pittorialista australiano

città ed i paesaggi dell’Australia e partecipando con successo alle esposizioni internazionali. Conquistato dalla poetica pittorialista in voga all’epoca, realizza le proprie opere sottolineando paesaggi ed ambienti caratterizzati da foschia, bruma e fumo, dai riflessi su specchi d’acqua o strade bagnate, ma anche sottolineando la presenza di personaggi diversi che fanno parte della scena urbana. I suoi lavori vengono esposti in diverse occasioni anche a Londra, e nel 1914 vince un premio di cento sterline. Nel 1916 fonda con altri fotografi il Pictorialist Sydney Camera Circle, ed affianca all’attività fotografica quella di corrispondente delle riviste fotografiche inglesi. Nel 1921 viene ammesso come membro del Salone di

Londra e nel 1937 è il primo fotografo australiano a ricevere una borsa d’onore dalla Royal Photographic Society. Nel corso degli anni il suo stile si fa più asciutto, più descrittivo, più attento alla realtà che osserva e che rappresenta, abbandona le scene in cui prevalgono le ombre e le nebbiosità per uno stile solare, figlio diretto del clima australiano e dei principi programmatici della “sunshine school”. Fra le sue immagini più mature è notevole quella di un albero rosso della gomma, un grande eucalipto solitario, che si erge tenacemente nella pianura, autentico “spirito della resistenza”. L’albero immortalato da Cazneaux nel 1937 è tuttora in piedi, classificato e protetto come uno degli alberi più significativi dell’Australia.

15 10 MARZO 2018


di M.Cristina François Come scrivevo in “Cultura Commestibile” n.245, esiste nel complesso di S.Felicita un patrimonio lapideo visibile (si intenda per “visibile” quello del Sottoportico, della Chiesa e Sagrestia, del Capitolo e del Vestibolo delle epigrafi) e un altro non visibile. Quello non visibile è rimasto tale sia perché depositato in luoghi non accessibili al pubblico, sia perché una parte di esso è rimasto ignorato anche dagli Inventari. Vorrei qui semplicemente elencare queste epigrafi ‘invisibili’ per ridar loro, in qualche modo, la vita e riprendere attraverso queste presenze mute il dialogo con un passato interrotto. Quasi tutte le lapidi in questione provengono dal Transetto destro e precisamente dalla parete adiacente alla Sagrestia: infatti, nel 1842 venne tamponata la porta originale di accesso che si trovava al centro di questa parete e dunque, “venne traslatata la porta dove è oggi giorno [1868] e chiuso l’antico ingresso alla Sagrestia [così] è rimasta la parete tutta libera. Fu eretto allora un altare […] e vi fu appesa la tavola che ancora pende da quella parete e sui gradini di detto altare vi fu aggiunto un quadro con sua base ove eravi effigiato S.Stanislao Kostha di gran divozione […]” [Ms.730, pp.452-453). Su questa parete liberata dal vano della porta furono affisse diverse lapidi che poi vennero tolte insieme all’altare, lasciando così la parete nuda come attualmente si vede. Sopra la nuova porta di Sagrestia venne murata una lapide che già esisteva dall’anno di morte del defunto: si trattava della memoria del Priore di S. Felicita Cosimo Conti, deceduto a 72 anni nel 1810. L’epigrafe marmorea fu stilata dal suo primo e affezionatissimo Curato Don Anton Mariano Frosali il quale volle, “tanto [il Priore] era ben affetto e tanto era in merito presso tutto il nostro Clero, eternare la di lui memoria con questa iscrizione […]. Per il suo gran merito e l’amore di tutti […] fu fatto un decorosissimo mortorio quale soleva farsi a persone nobili” [ibidem p.396] e ne fu ricordata pure l’immagine “ponendo un di Lui busto” al di sopra della sua iscrizione marmorea. Questo Sacerdote, che fu anche Parroco di Corte a Pitti fin dal 1799, fu stimato dal Governo francese e nonostante le Soppressioni in atto fu mantenuto nel suo ruolo e nella sua Chiesa di S.Felicita perché considerato dalla “Mairie” (cioè dal Comune) socialmente utile e caritatevole verso il suo ‘popolo’. Si occupò della sistemazione delle Monache Benedettine “soppresse” di S. Felicita che cercò di far tornare nelle loro famiglie; per quelle che non avevano nessuno a cui riferirsi, trovò una sistemazione all’ultimo piano di Piazza De’ Rossi n.2, dando loro di che vivere con piccoli lavoretti di stiratura e rammendo. Fu

16 10 MARZO 2018

I mai visti di S.Felicita: lapidi dimenticate particolarmente devoto al Sacro Cuore di Gesù di cui patrocinò il culto; malgrado la “Soppressione francese” della Compagnia dell’Arcangelo Raffaello, che in questo Monastero S.Felicita era apparso e aveva fatto miracoli fin dal 1424, ne continuò a sostenere la devozione popolare. Durante la Visita effettuata da Pio VI nel 1804 alla Chiesa e al Convento di S.Felicita, fu da questo Papa nominato Protonotario Apostolico. Al di sopra del suo busto verrà aggiunto, nel 1889, quello di un altro Priore - Mons. Niccolò Del Meglio - di cui già si è detto (vedi n.245 di questa rivista). I busti di questi Parroci sono entrambi andati perduti, ma di quello che ritraeva il Priore Del Meglio è rimasto un documento che attesta che fu opera della figlia dello scultore Giovanni Dupré, Anna Maria Luisa Amalia la quale, per questa Chiesa, aveva già eseguito un S.Antonio. Nel 1817 fu affissa una lapide su di un’altra porta del Transetto “che mette nell’andito di Capitolo dove vedesi collocata un’iscrizione scolpita in marmo la quale ricorda la sepoltura nella nostra medesima Chiesa della Baronessa Signora Maria Anna D’Herbert nata De Collebanchi, Aia della principessa figlia del Granduca Ferdinando III”. La Baronessa morì nel Palazzo Pitti il 3 di Aprile 1817 e la sua Iscrizione fu composta dall’Abate Cav. G.Battista Zannoni [Ms.730, pp.420-421]. Visse 56 anni e morì vedova del Barone Pietro Filippo Herbert, Diplomatico e Ambasciatore austriaco presso l’Imperatore dei Turchi. La nobildonna Maria Anna seguì con dedizione e amore l’educazione della principessa Maria Teresa fino all’anno 1817 quando questa arciduchessa, sedicenne, andò sposa a Carlo Alberto di Savoia Carignano. Morì proprio in quello stesso anno, quando la sua protetta venne maritata e il suo compito di educatrice si era così concluso. Quanto alla lapide del Priore Giuseppe Balocchi morto a 75 anni nel 1844, dopo aver retto per 30 anni S.Felicita, essa venne affissa vicino alla porta di Sagrestia, mentre il corpo del defunto ebbe il privilegio di essere sepolto

“nell’andito detto di Capitolo presso lo stanzino ove si confessano i sordi, ed’ ove sul pavimento leggesi in piccolo cartello di marmo il di lui nome. Alla parete in un ovale nel muro vedesi il di lui busto, che al dire di coloro che lo conobbero è somigliantissimo” [ibidem pp.457-458]. Fu inumato in questo luogo speciale perché morì “mentre celebrava la S.Messa […] la sera della Festa dell’Immacolata Concezione” e trovò il riposo eterno in una sepoltura adiacente alla parete che corrispondeva in Chiesa alla Cappella della Madonna. Fu erudito, studioso e amante della sua Parrocchia, tanto che a lui dobbiamo un prezioso libro pubblicato nel 1828 tutto dedicato al complesso di S.Felicita. Ebbe esequie “more nobilium”. Accanto al Priore Balocchi, nell’andito di Capitolo, fu sepolto anche il suo Vice Parroco P.Giovanni Bennardoni morto a 50 anni nel 1849: tanto essi furono legati in vita che vollero continuare ad esserlo in morte, ma il primo Curato e Vice Parroco “morì con scarsi mezzi perciò non vi fu mortorio”; fu rimpianto dalla sorella e dagli amici riconoscenti perché “amorevolissimo”; si era ammalato di “lue polmonare” nelle fredde stanze a tetto, dove viveva, nella casa dei Curati di Piazza De’ Rossi n.2. Esiste inoltre una piccola iscrizione in marmo, memoria di un grande evento. Vi si legge: “PIUS IX. PONT. MAX. / MAIESTATE SUA IMPLEVIT / DIE VIGESIMA AUGUSTI / MDCCCLVII”. Ricorda la Visita in S.Felicita di questo Papa descritta minuziosamente in un documento dell’A.S.P.S.F. dal Curato che fu diretto testimone dell’evento. La targa fu affissa al di sopra della porta attraverso la quale Pio IX si introdusse a sorpresa e di sua propria iniziativa, distanziandosi dal suo seguito, nelle “Stanze bòne degli Operai dell’Opera”. Tutti, invece, lo aspettavano nel Sagrato: “i Vèliti in sentinella”, il Clero di S.Felicita col Canonico del Duomo, i Granduchi e i “monsignori di Camera” in piazza dentro le lor carrozze e, all’interno della Chiesa, l’organista “in pronto” a suonare e le Monache di tre Monasteri (San Felice, Santi Girolamo e Francesco e San Giorgio) “già tutte genuflesse nelle panche”, recitando il Rosario in attesa di “godere dell’alta ventura di vedere il Papa e di baciargli il piede” [ibidem p.504]. Altri marmi come questi riposano in silenzio, nell’oscurità di luoghi riposti e senza gloria: dedicherò anche a questi un articolo perché non siano dimenticati.


Per ogni donna, un racconto e un fiore di Anna Lanzetta Era un tardo pomeriggio. L’estate aveva da tempo reclinato il capo all’avanzare di un autunno impetuoso e il sole filtrava gli ultimi raggi. La natura indossava colori caldi e le foglie caduche creavano in giardino un manto brulicante di vite. Le nuvole, spinte dal vento, coprivano parte del cielo e intrecciandosi coi raggi del sole si tingevano di un rosa striato ma io preferivo quelle di colore grigio-argenteo che all’orizzonte mi creavano un’atmosfera fiabesca. Le adoravo, e identificandole con dame, cavalieri e streghe, le rincorrevo tra meandri e castelli e le rivestivo di vita. Verso sera, il vento aveva intensificato la sua corsa e io ero rimasta a guardare affascinata le foglie che si componevano simili a “calligrammi”. Il sibilo aumentava e il vento, in veste di un “cavaliere azzurro”, rincorreva le nubi stordite. Mi sembrava di vedere in quel cavaliere Borea, figlio di Eos e di Astro, fratello di Zefiro, giungere di lena da una caverna della freddissima Tracia e abbattere con furia tutto ciò che incontrava sul suo cammino per rincorrere Orizia mentre danzava sui prati presso il fiume Glisso. Gli davo le sembianze di un uomo barbuto con i capelli scomposti e alato così come lo vidi in seguito raffigurato e che nel mio racconto si rivestì poi di realtà fantastica. Il vento mi spaventava e quel vecchio mi faceva paura. Erano tante le sevizie che venivano perpetrate e quel vecchio mi riportava a coloro che commettono soprusi e violenze a danno dei più deboli e specialmente dei bambini. Intanto la mia fantasia già chiedeva aiuto alle parole che, componendosi, tessevano l’ordito di un racconto. Storia del vento e della nuvola rosa

Aveva ululato tutta la notte, perché lei lo sentisse e lo vedesse. Truce e rabbioso si alzava, si inabissava, correva, ora veloce e sibilante, ora piano, come un soffio di vita, che cerca la propria anima nell’infinito. Nel cielo appena striato dall’alba, era apparsa ricoperta di trine e di pizzi di un pallido rosa. Al soffio del vento danzava con i capelli intessuti di fiori e di perle. Leggiadro il viso, tra i biondi capelli di seta, acerbe le tenere forme. Una dea, pensava lui! E un brivido lo scuoteva. E come dea di un mito antico, appariva dolce

e leggiadra. Dolce e leggera, si lasciava cullare la nuvola dal soffio del vento divenuto lieve, ma donava il proprio cuore a un timido raggio di sole. Li vide rapiti, capì che il loro era amore e di nuovo furente, il vento squarciò il cielo con un grido di dolore. L’abito di lei divenne lacero e scuro sotto il rimbombo dei lampi e dei tuoni e una coltre nera come la notte calò sul mondo. Il suo pianto colpì il vento, come un sasso scagliato con forza. Il timido raggio di sole era sparito, inghiottito dal buio più profondo, mentre egli pentito la cercava in ogni dove. La vide da lontano, lacera e tremante. La raggiunse e la strinse a sé con ardore. Ma troppo tardi!. La tragedia della sua follia ormai si compiva. Impotente, la strinse con forza e la sentì sciogliersi, stanca e dolente, contro il suo petto. Uno scroscio d’acqua gelida lo inondò. Non morire! Per il mio cuore, non morire! Resisti alla mia insana follia. Diceva singhiozzando il vento mentre stringeva a sé l’ombra della nuvola morente. Tra i singhiozzi il vento la implorava, ma invano. La nuvola non poteva più sentirlo e i suoi occhi, quasi spenti, cercavano disperati il timido raggio di sole. Lontano riecheggiava negli anfratti il pianto disperato del vento innamorato. Avevo negli occhi i colori dell’alba e nelle orecchie l’ululato del vento o il suo pianto d’amore, come poi lo definii. Mi hanno sempre affascinato l’“alba”, il primo biancheggiare del cielo e l’“aurora”, quel chiarore dalla parte d’oriente

che precede lo spuntar del sole, avvolte da indistinti colori, fusi in un non colore brillante, luminoso, che rompe le tenebre della notte come una verità che squarcia il velo nell’attesa che si ripeta quel miracolo di continuità del mondo, della vita tutta. Ci sono quadri in natura che sarebbe difficile per ogni artista eguagliare, come quello che dipinge il sole quando spande i suoi primi bagliori sul mondo e tinge l’orizzonte di un susseguirsi di colori che tagliano il respiro e muta la natura in “un tempio” che qualsiasi parola, se pronunciata, potrebbe infrangere. Il mito mi trasportava in un’altra dimensione ma il racconto, appena scritto, mi traslava dal sogno alla realtà. Pensavo alla gelosia, come a un’insana follia. Ĕ folle chi pensa di mutare un sentimento puro come l’amore. La violenza e l’arroganza vengono punite nel racconto dall’onestà e dall’innocenza, ma non sempre è così. Se solo gli uomini potessero riflettere… Pensavo! Mentre nel mio cuore parteggiavo per la nuvola che aveva subito una violenza così crudele. Certo è che non ci sarebbero stati “Otello”, “Desdemona” e tanti altri infelici!. Se gli uomini ascoltassero la propria ragione non ci sarebbero tante donne fatte a pezzi, visi deturpati, miriadi di armi affilate pronte a devastare l’intera umanità femminile e tante scarpe rosse disseminate in attesa che il loro colore venga convertito. Ancora una volta l’ambiente mi accoglieva in grembo simile a un’antica cattedrale e mi faceva riflettere sulla violenza imperversante e sui comportamenti umani. Un tempo il mondo viveva in pace e serenità, ma quando Pandora (la prima donna) per curiosità aprì, disubbidendo, il vaso avuto in dono da Zeus, liberò i mali del mondo e tutto mutò. Spiriti maligni si abbatterono sull’umanità: la vecchiaia, la gelosia, la malattia, la pazzia e il vizio si diffusero senza nessuna possibilità di salvezza dato che Elpis, la speranza, era rimasta sul fondo del vaso. Pandora allora per rimediare, riaprì il vaso e consentì alla speranza di uscire. Se l’uomo vuole c’è sempre la possibilità di rinsavire e c’è sempre una speranza da rincorrere. Nel mondo dovrebbe ritornare il rispetto verso se stessi, verso gli altri e verso l’ambiente. (Tratto da: Armonie di un giardino toscano. Racconti, arte, mito e fantasia, Regione Toscana Consiglio Regionale, Edizioni

17 10 MARZO 2018


di Andrea Ponsi Il reticolo interrotto

Il reticolo viario a maglie ortogonali copre l’intera città; talvolta orientato in direzione nord–sud, secondo la griglia originale di quel pezzetto di terra urbanizzato che, futura San Francisco, ancora si chiamava Yerba Buena; altre volte inclinato rispetto a tale griglia. L’idea di estendere il reticolo come una coperta su tutto il territorio non avvenne senza opposizioni. Molti, vedendovi un regalo fatto agli speculatori edilizi a cui faceva comodo un sistema semplice ed elementare di urbanizzazione, avrebbero voluto un modello più rispondente all’orografia dell’intera penisola. Malgrado queste critiche , malgrado il tentativo degli architetti del movimento City Beautiful di stemperare la fredda geometria reticolare con un insieme di boulevard radianti, malgrado i pochi ed isolati casi di paesaggismo naturalistico realizzati solo sui cucuzzoli di alcune colline come Telegraph Hill , il reticolo vinse la battaglia. Tuttora domina incontrastato lottando con le incongruenze della topografia, cimentandosi in salite impervie , affrontando pericolosissime discese . Non sempre le strade diritte come fusi ce l’hanno fatta a prevalere sulle colline più ripide. A volte il reticolo si interrompe e la strada , da veicolare , è costretta a trasformarsi in qualcosa d’altro. Questa fenomenologia della strada interrotta si esprime almeno in cinque modi. In primo luogo la sua trasformazione in una scalinata, secondo i casi di sapore campagnolo, come su Filbert Street all’altezza di Telegraph Hill, o con modi classici con rampe in stile neo rinascimentale o neo barocco. Segue la configurazione della strada in stretti e ripidi tornanti come nella famosa Lombard Street. Il terzo caso è quando , rinunciando a rampe, scalinate o altro , lo spazio viene lasciato a verde creando giardini quasi verticali . Vi è poi il caso in cui si abbandona ogni tentativo di risolvere il problema viario e semplicemente si riempie il declivio con case e palazzi in modo da creare un superisolato raddoppiato. Infine, la soluzione più radicale: scavare un tunnel sotto le colline , come avvenne negli anni ‘30 su Stockton Street e poi negli anni ‘60 su Broadway. Risolto alla base l’antico e dibattuto problema, agli automobilisti è concesso di passare in velocità da una parte all’altra della città in pochissimi secondi. Embarcadero Freeway

Un amico architetto, nei lontani anni ‘80, mi disse che entrare in velocità nella downtown di San Francisco sulla Embarcadero freeway

18 10 MARZO 2018

Mappe di percezione era una delle esperienze più entusiasmanti che avesse mai provato . Embarcadero Exit era infatti l’ultima uscita, prima che la freeway sopraelevata entrasse nel Bay Bridge, verso la East Bay. Come in un roller coaster iperurbano, al guidatore sembrava di volare per almeno un miglio tra i grattacieli vicinissimi, fino a planare, dopo un’ampia curva, nel cuore di North Beach. Vista dal suolo la freeway aveva tutt’altro sapore: un incongrua , brutalista selva di enormi pilastri in cemento, barriera di separazione tra il downtown e il fronte sulla baia . I lunghissimi piers e l’ amato Ferry Bulding restavano esclusi dal resto della città, relegati in uno spazio stretto, interstiziale tra la freeeway e il mare. La freeway si interrompeva a North Beach, ma l’idea del progetto originale degli anni ‘60, era di continuarla fino al Golden Gate Bridge. Ciò avrebbe significato sei miglia di ininterrotta distruzione del litorale più bello d’America. Il vantaggio consisteva nel risparmiare all’ automobilista la seccatura di dovere passare attraverso l’abitato di North Beach, Russian Hill e la Marina. Omicidio urbano premeditato, questo insano progetto fortunatamente non fu mai portato a termine. Nonostante ciò gli abitanti hanno dovuto convivere per almeno trent’anni con questo interrotto monumento alla bruttezza. Finalmente, onore alla Natura, il terremoto del 1989 ne scosse le fondamenta, incrinò i possenti pilastri in cemento e rese la freeway inutilizzabile . Avrebbe potuto essere riparata e riportata alla sua funzione originale; senza rimpianti fu deciso di tirarla giù completamente. Non mi trovavo

San Francisco a San Francisco in quel periodo, ma sarei stato contento di assistere al rito dell’abbattimento. Solo ora mi accorgo quanto la adiacente fontana disegnata da Lawrence Halprin composta di un ammasso di pilastri spezzati avesse anticipato, con visionaria immaginazione, le rovine della freeway abbattuta. Adesso è finalmente possibile ammirare un waterfront civilizzato con palme e marciapiedi, linee tranviarie, lampioni, aiuole e panchine. Un progetto accettabile e ben costruito , anche se, a mio parere, indulgente verso una certa graziosità tradizionalista. Comunque è interessante notare come una rimozione, un’assenza, ha ricreato un luogo. L’architettura e l’urbanistica sono spesso atti di sottrazione e non di addizione. E’un atto di pura progettazione scegliere cosa sottrarre alla città, quali edifici demolire, cosa eliminare inclusi alberi, segnali, cartelloni e così via . Magari portare le proposte a referendum per verificare le aspettative e i desideri degli abitanti. Conoscendo a fondo la città in quanto la vivono quotidianamente darebbero un giudizio più ragionevole che non nel giudicare un progetto la cui comprensione è solo affidata a un disegno o ad un modellino. Il rischio è che possa prevalere l’ignoranza, un gretto populismo, un superficiale pragmatismo. Forse non sarebbe una buona idea. Se applicata , begli edifici che hanno fatto e fanno la storia della città potrebbero essere stati, a furor di popolo, abbattuti. Potere del popolo o potere dell’arte? Una vecchia questione che fortunatamente, nel caso della Embarcadero Freeway, con tutti d’accordo, non si è nemmeno posta


di Gianni Bechelli Dunque sappiamo ormai che a governare la realtà è solo in parte la legge di causalità, il nesso tra causa ed effetto, confermato certamente nei sistemi di grandezze considerevoli, e in parte anche nella fisica quantistica in forme proprie, ma già David Hume nel diciottesimo secolo ne aveva messo in discussione l’affidabilità totale, in tempi di dominanza Newtoniana e di meccanicismo. Appare sempre più anche un universo dominato dalla legge di casualità, di probabilità piuttosto che di nessi diretti di causa -effetto. La comparsa di particelle dal vuoto, le traiettorie di un elettrone scaturiscono più da leggi probabilistiche di anarchica casualità, come fatto organico del mondo subatomico, e l’imprevedibilità come essenza, senza nessuna vera causa efficiente (“Dio che gioca a dadi col mondo”, lui stesso creatore e creato dal Cosmo in forme imprevedibili come conseguenza per chi crede e quindi inaccettabile per la fede). Nessuno può dire se e quando e dove una particella comparirà dal nulla e dal vuoto. Eppure prima o poi accadrà e dovremo imparare a convivere con queste incertezze, anzi probabilmente di questa opacità è fatta la realtà più profonda. Tema ancor più delicato quello del” tempo” perché qui davvero si tocca uno degli aspetti più incomprensibili anche per una mente molto aperta. Il solito sant’Agostino diceva: ”se qualcuno non mi chiede cosa sia il tempo, io so cosa è. Ma se qualcuno mi chiede cosa sia, non lo so più”. Sappiamo già che, per la teoria del Big Bang, il tempo è nato coll’universo. Ed è concetto che appartiene alla sfera del pensiero umano. Ha ovviamente un suo valore nella nostra vita quotidiana, nella nostra concreta esperienza, scorre in una direzione, e per molte misurazioni fisiche, ma appare sempre meno lineare nelle formule fisiche che spiegano la realtà più profonda. Anzi qui il tempo perde ogni significato. E qui entriamo in una situazione filosofica e scientifica imbarazzante. Il tempo non è l’orologio che osserviamo, è la sequenza di movimenti e cambiamenti delle cose e delle cose fra loro, il parametro dei cambiamenti e non ha realtà in sé; se tutto fosse immobile il tempo non scorrerebbe e noi vivremmo costantemente l’attimo presente, non il passato o il futuro che non hanno realtà (il passato è memoria ,il futuro è un eterno sarà, io vivo solo l’attimo presente): “noi che crediamo nella fisica, sappiamo che la distinzione tra passato, presente e futuro è solo un’illusione ostinatamente persistente” Albert Einstein. Viviamo cioè sempre l’attimo presente che è la faccia stessa dell’eternità. Già Kant aveva incominciato a demolire

il concetto di tempo come realtà e a farlo vivere come struttura mentale funzionale alla conoscenza, Leibniz lo considerava una relazione tra concetti e comunque qualcosa che aveva a che fare con la mente umana più che con la realtà in sé: un puro prodotto del pensiero per organizzare la nostra percezione della realtà. Sembra qualcosa di “troppo filosofico”? In fondo i dinosauri ci sono stati, il padre viene prima del figlio e via dicendo. Però stavolta la scienza soccorre la filosofia e non solo con il relativismo che contrae lo spazio e il tempo, rilevandone la struttura, come dire, ”elastica” e non assoluta.

C’è qualcosa di più su cui riflettere. Già nella descrizione del Big Bang abbiamo fatto cenno al tempo di Plank, cioè la misura di tempo più piccola che possiamo immaginare: 10-43 secondi dopo l’inizio. Qui un miliardesimo di miliardesimo di un secondo dopo che tutto era cominciato le leggi fisiche note e che ci spiegano 14 miliardi di anni di vita del Cosmo non valgono ancora. Qui spazio e tempo non sono distinti, tutte le forze fisiche sono intrecciate e unite, un attimo e l’eternità sono la stessa cosa. Subito dopo tutto si dividerà e si estenderà , ma quell’attimo è esistito ed ha avuto realtà.

Un attimo e l’eternità sono la stessa cosa

Per un buon portafoglio d’arte di Valentino Moradei Gabbrielli A scuola di sensibilità e passione “Ti ho portato il programma di un corso che ho frequentato presso un importante Museo di Arte Contemporanea, in un’altra occasione ne parleremo.” Questo mi ha detto Marco, consegnandomi un pieghevole illustrativo di un corso per collezionisti di arte contemporanea. Ho trovato curioso, che un pittore come lui frequentasse il corso, ma come mi ha spiegato, un artista deve conoscere il mercato dell’arte. La mia riflessione è stata: quanto mi appartiene il mercato dell’arte come artista? Quanto appartengo io al mercato dell’arte? Che cosa abbiamo in comune? Sono riuscito a trovare soltanto la parola “arte”, ma non per il significato che io le riconosco. Trovo anche paradossale che un “collezionista”, debba essere istruito da critici d’arte, galleristi e mercanti, assicuratori, curatori di collezioni e direttori artistici di musei e fiere. Che negano allo stesso collezionista la sensibilità, il piacere e l’emozione, la personalità e principalmente la ragione dell’esserlo. Informato al pari di un investitore, con la preoccupazione unica di pos-

sedere un buon “portafoglio”. In questa circostanza, ho riflettuto nuovamente sull’esigenza sentita da molti “artisti” quasi come un obbligo, l’aggiornarsi sulle tendenze, i movimenti, le iniziative relative ad artisti, esposizioni d’arte, insomma a quel “mercato dell’arte”, che sempre più coinvolge l’economia ed è sempre più distante dalla ragione dell’arte. Conosci tizio? Che cosa ha fatto Caio? Che ne pensi del Tale? E’ forse la ragione di un artista conoscere il pensiero o il lavoro degli altri artisti? O piuttosto, l’operare per le altre persone, quelle che non fanno arte, ma volentieri la partecipano? “Conoscere l’arte” è compito dello storico dell’arte, non dell’artista. Sapere degli altri, ti rende informato o “erudito”, ma non più propositivo. Cosa può interessarmi di come lavora un altro artista se non perché ogni messaggio arricchisce ciascun individuo e quindi anche me. Per proporre agli altri, ho bisogno di sapere come vivono gli altri e di cosa necessitano, non ho bisogno di sapere come altri artisti operano, o i mercati e i mercanti propongono e organizzano il loro commercio.

19 10 MARZO 2018


di Fiorella Ilario

Angelus Novus

Un abisso temporale, ma non comportamentale, ci separa dal breve saggio scritto nel 65 a.C. intitolato, Commentariolum Petitionis–unantico (ma non antiquato) “manualetto di campagna elettorale” destinato a un futuro console della Repubblica romana. Inpratica una guida per indicare strategie utili a produrre consenso, nell’assertivo convincimento che a tale fine l’apparire sia più vantaggioso dell’essere, la finzione più convincente della verità (…) Quasi intristisce la somiglianza della prassi allora suggerita e descritta, a quella corrente. Forse perché conferma che neppure la civiltà più avanzata può sottrarsi al dramma dell’eterno ritorno. Le medesime spregiudicate trovate, ancora e ancora, lo stratagemma, il trucco - non il migliore ma il più scaltro si aggiudicherà il premio. Nulla di nuovo sotto il sole. Malgrado la caligine che ormai lo annebbia. Attribuito a Quinto Tullio Cicerone, si dubitò in seguito che ne fosse l’autore, ipotizzando piuttosto le disinvolte argomentazioni di un ignoto teorizzatore alle prese con un esercizio di retorica politica. Millenaria tradizione anche contemporanea. Così alla fine della attuale campagna elettorale ci si chiede, mezzi tramortiti, quanto gli azzardi e le lusinghe di molti dei nostri candidati, siano esito di persuasiva eloquenza, leale esercizio del pensare (e del fare) inseparabili dall’etica o piuttosto strumentale affabulazione, volgare pratica propagandistica. Sia come sia, giunti quasi all’anelato silenzio elettorale rimane intesta un viluppo abbastanza deprimente di parole e di immagini. Come potrebbe essere altrimenti, nella nostra società ipervisiva? Le immagini contendono il primato dell’affermazione e della ricerca di sensoa una parola annientata livellata e conformata in qualsiasi ambito collettivo, alla vulgata “social” della decodifica del reale. Un linguaggio contaminante mortificante tentacolare tragico, insediatosi ovunque senza più distinzione di ordine o grado e dunque pure nel discorso istituzionale e politico. “Ben presto saremo in grado di ridurre la politica elettorale a una neolingua essenziale fatta di una decina di parole chiave: Sogno, Paura, Speranza, Nuovo, Popolo, Noi, Cambiamento, America (intesa come Patria) Futuro, Insieme. Pescando esclusivamente da questo ridotto e stagnante bacino

20 10 MARZO 2018

di espressioni convenzionali, dovrebbe essere possibile scacciare tutti gli esseri raziocinanti dall’arena per lasciare le cose nelle mani adunche ma capaci dei parolai e dei manipolatori”. (Hitchens). Il re è nudo. Ma a gridarlo rimane ancora, solo un bambino. Così dalle scorie di questa insondabile materia oscura che è dilagata anche nei giorni di ciascuno di noi, conforta forse salvare almeno un episodio - trascurabile marginale silenzioso, ma in qualche modo indimenticabile. La notizia rimbalza sui media come un sasso piatto lanciato sulla superficie dell’acqua - poi affonda nella rete: un bambino di due anni cade sui binari nella metro di Milano e viene istintivamente e alquanto temerariamente salvato da un ragazzo. Accade il 14 febbraio, dunque dopo appena quattro giorni dalla prima marcia antifascista e antirazzista di Macerata e debolmente smuove le masse d’aria che gravano pesanti e senza movimento sugli sgoccioli di campagna elettorale. Il sindaco Sala esprime soddisfazione e invita a Palazzo Marino l’intrepido soccorritore (uno studente milanese di diciotto anni). Peccato non risulti abbia invitato anche la madre e il figlioletto tratto in salvo (entrambi senegalesi) ) ma in una intervista rilasciata il giorno dopo precisa che “c’è bisogno di questi piccoli grandi esempi”. Fin qui la cronaca. Oltre la cronaca il mistero (senza parole) delle immagini. Già, perché il video della vicenda, diffuso dalla azienda di trasporti milanese è in qualche modo stupefacente. Una manciata di secondi estratti dalle riprese della telecamera fissa di video sorveglianza della metropolitana. Non c’è audio. Ordinaria scena muta di pochi passeggeri in attesa. La luce densa e fioca dei sotterranei - il marciapiede quasi vuoto - vuoti i binari. Qualcuno cammina su e giù, inquieto. Qualcun altro è seduto - seduti su una panchina anche la madre con accanto il suo bambino. Lei sembra distratta a leggere qualcosa, il piccolo forse annoiato dondola le gambe e guarda davanti a sé. L’azione è fulminea. D’improvviso, senza che nulla accada a distoglierlo o a incuriosirlo, si alza e corre verso i binari. Corre con la fiducia e il sollievo dei bambini che si slanciano verso un familiare all’uscita di scuola. Corre e non si ferma al dislivello con la rotaia, non indietreggia non rallenta, corre nel breve tratto che lo separa dal buio e ci salta dentro, si tuffa giù. Cade, senza un suono, come un piccolo fagotto abbandonato in un pozzo. Sparisce dalla inquadratura.

Seguono attimi di preoccupazione, fino all’arrivo dello studente, che non pensa come gli altri a cosa andrebbe fatto - semplicemente lo fa. Si sfila senza indugio lo zaino salta anche lui sulle rotaie e prende il bambino - lo solleva tra le braccia della madre. Si piega di nuovo poi in fretta torna su anche lui. Tutto in meno di tre minuti. Eppure non è una narrazione temporale e neppure spaziale, ma una misteriosa quasi profetica narrazione esistenziale. Quel tunnel diventa la quinta di un teatro onirico dovei binari sono fiumi mari città, l’universo intero. Il metaforico approdo del viandante senza patria - “l’immenso orrido abisso, Ov’ ei precipitando, il tutto oblia”. La rappresentazionedi quello strumento allegorico che per Benjamin serve a squarciare, nel cuore malinconico del moderno, il velo che occulta il proprio destino. Il fotogramma bloccato dell’attimo della caduta, nella penombra della galleria sembra la messa in quadro di una scena delle pitture nere di Goya. Ma mentre “Il cane interrato nella rena” (ugualmente piccolo e inerme) ormai quasi sommerso e con lo sguardo atterrito e pieno di nostalgia inutilmente resiste nell’estremo sforzo per non sprofondare,al contrario il grido muto del contemporaneo si leva dalla incauta quasi giocosa resa di un bambino- dal suo volontario abbandono all’ignoto, nel fondo limaccioso di una galleria urbana. Un rovescio che sembra celare il segreto di una epifania occulta, dove le immagini affiorano scomparendo. Cosa ha visto? Quale invisibile lampo, che felice visione? Paul Klee conoscitore e instancabile sperimentatore del disegno infantile sosteneva l’esistenza di un “un mondo intermedio” che solo i bambini, i pazzi e i primitivi, fossero in grado di guardare, per la naturale veggenza del loro sguardo innocente. Nel 1920 dipinse con carboncino olio e acquerello un quadro che si intitola Angelus Novus. L’opera fu acquistata da Walter Benjamin e lo accompagnò fino alla fine. Così lo descrisse: “C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in procinto di allontanarsi da qualcosa su cui fissalo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, e le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle ,mentre il cumulo delle rovine cresce davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta.”


di Ilaria Sabbatini Storie di molestie. Pochi mesi fa, donne di tutte le condizioni hanno raccontato sui social network le storie delle molestie subite. A qualche mese di distanza da quel racconto collettivo una della cose più interessanti da registrare sono le reazioni in senso contrario. C’è infatti qualcuno che continua a ripetere ossessivamente di finirla con questa lagna che relega le donne a un’immutabile ruolo di vittima. Sarebbe una posizione condivisibile se non fosse che manca qualsiasi relazione tra il racconto collettivo, frutto di un atto di ribellione, e il processo di vittimizzazione. Raccontarsi pubblicamente è un atto di coraggio: lo si fa perché si è arrabbiate e perché si vuole smascherare il gioco di un rispetto formale, e non sostanziale, propinato a beneficio dello status quo. È talmente evidente la natura combattiva dell’azione che si rimprovera al movimento di essere troppo aggressivo, come è accaduto nella lettera delle attrici francesi che - giocando con la semantica dell’ovvio - rivendicavano la «libertà di essere molestate». Se da una parte si rinfaccia la lagna e dall’altra l’aggressività, è chiaro che esiste un problema nei confronti delle donne che rompono il silenzio. Cosa ci si aspetta dalle molestate: che siano più arrabbiate o più tranquille, più dure o più remissive, che parlino o che tacciano? Perché in qualunque modo si muovano pare che arrechino fastidio alla cattiva coscienza di una qualche fetta dell’opinione pubblica. Nell’arcipelago di varia umanità delle posizioni avverse, la più surreale è comunque l’accusa di moralismo che vorrebbe ridurre un fenomeno internazionale di massa a una questione di perbenismo da boudoir. Ho parlato con molte delle donne che hanno rotto il silenzio e sarà forse un caso ma dicono tutte di amare il sesso. Ciò che non amano è di essere strusciate, palpate, baciate, approcciate contro la loro volontà. Quando la loro volontà è protagonista e partecipe, non solo vogliono essere strusciate, palpate, baciate e approcciate: vogliono a loro volta strusciare, palpare, baciare e tutto quanto segue. Aderire alla campagna degli hashtag non ha significato promuovere la castità e il cilicio, bensì scegliere una sessualità positiva e propositiva, consapevole e partecipe. Per l’Italia, l’hashthag #quellavoltache è nato il 12 ottobre 2017 su proposta della giornalista Giulia Blasi, pochi giorni prima della campagna americana #metoo. Anche se ancora nessuno lo sapeva, in quel momento era nato un racconto corale che grazie alla passione di un gruppo di donne avrebbe preso la forma del libro. Il racconto non è mai stato proposto come atto di giustizia sommaria e tanto meno come caccia alle streghe. Della caccia

#quella voltache

alle streghe manca anzi la cosa essenziale: le donne che hanno raccontato le molestie, tramite gli hashtag, hanno messo la propria faccia e la propria storia ma non il nome del molestatore. Per una persona che ha subito molestie il primo problema da affrontare non è quello (pur importantissimo) di essere creduta ma di capire cosa le sta succedendo. Salvo comportamenti plateali, si stenta a capacitarsi: il confronto con le altre serve a capire che si è vissuta la stessa vicenda, a dare un nome e una spiegazione alla propria storia. Incrociare le informazioni aiuta a rendersi conto degli eventi e a prendere interamente coscienza del proprio vissuto. Condividere i racconti delle molestie subite significa mettere a disposizione i materiali necessari per confrontarsi con queste storie, per conoscerne gli schemi, per individuarne i comportamenti. Significa creare uno strumento di autodifesa e di Gianni Biagi

Terracotta

Il Palazzo del Podestà del Galluzzo mostra la sua facciata, ornata dagli stemmi dei vari podestà che lo hanno abitato, in prossimità della discesa che conduce alla piazza Acciaiuoli. Nei locali al piano terra della sala consiliare sarà possibile visitare sabato 10 dalle 16 alle 19 e domenica 11 dalle ore 10 alle 12 e dalle ore 16 alle 19 la mostra fotografica “Mario Mariani maestro terracottaio”con fotografie di Dario Ciampini. Una mostra che rappresenta una testimonianza importante di un mestiere che è a forte rischio di estinzione. La produzione del “cotto dell’Impruneta” è fortemente colpita dalla crisi dell’edilizia e le attività industriali sono in forte difficoltà. E’ dei mesi scorsi la notizia della chiusura della Sannini. Permangono però alcune importanti attività artigianali che svolgono il loro lavoro in antichi locali e con tecniche ancora legate strettamente alla tradizione. Mario Mariani è uno di questi artigiani. E il lavoro di Dario Ciampini che, come è scritto nella presentazione “si è cucito addosso negli anni un vestito speciale, quello di custode generoso delle tradizioni del Galluzzo e delle aree contermini”, è un lavoro di qualità che ci fa vedere in una

di critica sociale, gli aspetti più importanti di #quellavoltache. Ora sta ai lettori raccogliere l’eredità di queste storie con tutte le domande che pongono. trentina di scatti in bianco e nero la materialità del lavoro di terracottaio. Le immagini ci fanno comprendere il lavoro delle mani, le tecniche di lavorazione, le opere (piastrelle in cotto per pavimenti, orci e vasi) di Mario Mariani e i locali e gli strumenti che consentono all’artigiano di trasformare argilla e acqua in oggetti per la casa e per l’uso comune. Le opere di Mario Mariani sono ancora molto richieste sui mercati nazionali e internazionali. Occorrono molti giorni, quasi un mese, per la realizzazione di un orcio e la cottura avviene ancora nel vecchio forno alimentato all’inizio del riscaldamento da due bruciatori e poi solamente da fascine di legna e che viene murato prima dell’accensione e smurato dopo tre giorni per togliere le opere finalmente cotte. Un mestiere antico quello del maestro terracottaiodocumentato con maestria dalle moderne tecniche della fotografia digitale.

21 10 MARZO 2018


di Simonetta Zanuccoli A Parigi nell’elegante casa di Victor Hugo in Place des Vosges, diventata museo nel 1903, fino al 18 marzo si può visitare La Folie en tête , una piccola, sconvolgente mostra dedicata al rapporto tra la creazione artistica e la pazzia. In esposizione 200 opere, per lo più inedite, raccolte in vari manicomi da quattro psichiatri che praticavano l’arte terapia tra il XIX e il XX secolo: lo scozzese dottor Browne, il francese dottor Marie, lo svizzero dottor Morgenthaler e il tedesco Prinzhorn che non era uno psichiatra ma un cantante appassionato del genere tanto da partecipare con alcune opere da lui collezionate alla mostra nazista del 1937 Arte degenerata. Alcuni degli artisti in esposizione saranno poi vittime del programma Eutanasia per lo sterminio degli handicappati fisici e mentali. Dopo secoli di rifiuto sociale, la follia diventò nel XIX secolo emblema del romanticismo attratto dal fascino del non razionale, ma i disegni dei malati, frammenti di universi di sofferenze e solitudine, erano ancora conservati nelle loro cartelle mediche, finché l’artista Jean Dubuffet, uno dei primi a capire il valore estetico di questa “arte dei pazzi” e a raccogliere migliaia di disegni, collage, quadri trovati negli ospedali psichiatrici, l’ ufficializzerà dandole il nome di Art Brut. Non è un caso che una mostra del genere sia presentata nella casa-museo di Victor Hugo. Il percorso espositivo de La Folie en tête inizia con le lettere e le foto del fratello Eugene e della figlia Adèle, entrambi toccati dalla pazzia e internati in manicomio per anni fino alla morte. Eugene, molto attaccato a Victor anche per le doti e i gusti letterari che li resero collaboratori e, alla fine, rivali, aveva già dimostrato seri disturbi mentali fin da giovanissima età. La gelosia di fronte ai successi del fratello e un amore segreto per colei che ne divenne moglie lo portò poi alla follia e al manicomio. E’ datata 12 dicembre 1823 l’ultima, straziante, lettera di Eugene inviata a Victor nella quale implorava una sua visita (senza sapere che, ormai considerato irrecuperabile, gli erano negate dall’ospedale le visite dei parenti). Morì nel 1837 senza aver recuperato la ragione. Hugo, pentito di averlo abbandonato, gli dedicherà nello stesso anno un poema “...Tu vas donc dèsormais dormir sur la colline, mon pauvre bien-aimè....”. Adèle, nata nel 1830, era la quinta figlia di Victor. Bella, colta, ottima pianista, era cresciuta in un ambiente particolarmente stimolante tra intellettuali come Dumas, Balzac, Rossini. Un sogno d’amore diventato desiderio oscuro la spingerà ad attraversare gli oceani e a finire rinchiusa nel 1872 in manicomio dove morirà,

22 10 MARZO 2018

La signorina Adèle H.

all’improvviso mette la carne in tasca dimenticata da tutti, nel 1915. Tra le figlie di Hugo Adèle è quella meno menzionata nelle memorie paterne, oscurata dal ricordo della tragica morte per annegamento di Léopoldine, la prediletta, e dalla vita perduta dietro un uomo che Hugo non approvava. Nessuno ne parlava, solo Le Figaro nel 1884 in un articolo sul grande scrittore ne fa un piccolo accenno “...la signorina Hugo ragiona abbastanza... ma all’improvviso, al tavolo, mette la carne in tasca”. La sua storia è stata scoperta nel 1955, quando furono ritrovati per caso i suoi diari da Frances Vernon Guille, una studiosa americana e pubblicati grazie alla sua capacità di decifrare le frasi sconnesse ai margini dei tanti fogli che ripercorrono le vicende, le conversazioni, gli incontri e le emozioni di una giovane

assetata di affetto e libertà da un padre ingombrante e estraneo. Nel 1861 Adèle incontrò in Inghilterra il tenente Pilson di cui si innamorerà totalmente e disperatamente perché senza speranza. Il bel tenente infatti, dopo averla sedotta con la promessa di sposarla, se ne era definitamente allontano, ma più lui la rifiutava più aumentava in lei il desiderio ostinato di riconquistarlo. Per questo amore inesistente Adèle non esitò a ricorrere a incredibili menzogne, al ricatto, perfino al travestimento, a inseguirlo tenacemente fino in Canada e alle Barbados per poi, sconfitta, sprofondare nella follia. A questa storia di un amore ossessivo (oggi si direbbe di stalkeraggio) nel 1975 Francois Truffaut le dedicò un film dal titolo L’histoire d’Adèle H.


Oman. Il nome evoca distanza: temporale, fisica, culturale. Le guide turistiche consultate ci presentano invece un paese islamico moderno, ordinato, tollerante. Per questo l’arrivo a tarda sera all’aeroporto di Seeb, modesto dopo la sosta nel luccicante, modernissimo scalo internazionale di Doha nel Qatar, ci lascia immersi in una piccola confusione, complice la stanchezza di un viaggio cominciato a Firenze alle cinque del mattino. L’area degli arrivi è piccola, poco accogliente, servita da poco personale che ci lascia un’impressione di scarsa professionalità. Ai banchi di ingresso uomini in lunghe vesti bianche e donne in nero accolgono con nessuna partecipazione la stanchezza dei viaggiatori. Quando finalmente ci affacciamo sotto la pensilina all’uscita, in attesa della macchina che ci condurrà all’albergo, luci fioche illuminano un mondo riempito di uomini in abito tradizionale: sembrano intenti a far passare il tempo, mentre attendono i viaggiatori che sgocciolano fuori dal percorso dei controlli. Insomma, un aeroporto da terzo mondo, dignitosamente povero. Però tutto è pulito e ordinato e contrasta con la suggestione sonnolenta da souq orientale, affollato e caotico che l’abbondanza delle tuniche e dei tipici copricapi evoca. Avremo bisogno di una notte di sonno, per scoprire l’indomani una città abbagliante sotto il sole tropicale, distribuita lungo una comoda autostrada che la percorre in tutta la sua estensione, in mezzo ad un traffico automobilistico vivace, di mezzi che denunciano già la ricchezza del paese. In città ci si muove con l’auto, per il caldo, per le distanze e per la struttura urba-

Oman

di Andrea Caneschi

Dai portoghesi ad oggi, con tradizione e modernità

nistica, fondata su grandi strade di scorrimento e grandi viali. Gli omaniti vestono l’abito tradizionale – la dishdasha, una ampia tunica lunga fino ai piedi, generalmente bianca o nelle variazioni ocra, con il berretto tondo dello stesso colore o con il turbante tribale – che è obbligatorio per legge negli uffici pubblici e in molte aziende, secondo una direttiva che mira, come altre che scopriremo durante il nostro soggiorno, a preservare la cultura omanita nel rapido passaggio che la società sta vivendo dagli anni 70 del secolo scorso. L’Oman è infatti un sultanato di antica costituzione e di ancora più antica ricchezza, derivata da una espansione imperiale in Africa e India (già prima della dominazione portoghese iniziata nel 1500), fondata su lucrosi traffici di spezie e di schiavi. La dinastia attuale regna dal 18° secolo, dopo la fine della dominazione portoghese, e il padre dell’attuale sultano è stato l’ultimo artefice di un lungo processo di unificazione del paese, sostenuto dagli inglesi, interessati ai pozzi petroliferi del deserto. Contrario alla modernizzazione che avanzava in tutta la penisola arabica con le ricchezze del petrolio, aveva mantenuto il paese in un completo isolamento, privo di strade, di scuole, di ospedali, dei moderni mezzi di comunicazione, proibiti ai sudditi insieme a quasi ogni diritto personale. L’Oman emerge da questo medio evo nel 1970, quando l’attuale sultano depone il padre, vecchio tiranno di un mondo bloccato, e si dedica da subito a trasformare il paese, costruendo scuole e ospedali – la Sanità omanita è tra le migliori del mondo –, aprendo l’Università Omanita con le facoltà

di Ingegneria e Medicina, utilizzando le ricchezze del petrolio per diffondere benessere, cultura e diritti, promuovendo l’istruzione delle donne e il sostegno ad una crescente parità con gli uomini. Il lavoro è garantito per quote obbligatorie riservate ai cittadini omaniti; agli immigrati i lavori più umili e quelli più qualificati, per i quali ancora non sono cresciute competenze affidabili nella società omanita. Non abbiamo visto mendicanti o senza casa, ma non possiamo dire di conoscere le condizioni di vita delle quantità di immigrati rifugiati in quartieri periferici probabilmente meno abbaglianti di quelli che stiamo frequentando. La rete stradale, costituita a quel momento dai dieci chilometri di asfalto per i servizi alla reggia, si è dispiegata nella capitale e in tutto il paese; autostrade e strade di grande comunicazione, nastri di asfalto ben curati, si intrecciano e disegnano spazi nel deserto tra le montagne e il mare. All’interno di questo reticolo disegnato dalla programmazione urbanistica, si sono sviluppati dagli anni ‘90 i quartieri della moderna Muscat, che si estende per una cinquantina di chilometri lungo una costa a volte alta e rocciosa a volte distesa in lunghe spiagge di sabbia battute dalla marea, dal mare fino si primi contrafforti dei monti e dall’aeroporto internazionale fino alla antica Mascate, sede originale del sultanato: quando ci arriviamo, valicando un passo tra le montagne che la circondano, ci appare rinchiusa dalle mura portoghesi che difendono oggi il Palazzo del Sultano e il suo porto, in una piccola valle ancora dominata dai fortilizi del 16° secolo.

23 10 MARZO 2018


La bellezza è un punto di vista Ciao Gillo e grazie di tutto

“Vorrei, peraltro, premettere – per sbarazzare il terreno da ogni possibile equivoco- come a mio avviso non esista un unico modo di fruizione dell’opera d’arte, equivalente ad un suo valore immutabile ed eterno, ma bensì diversi modi di fruizione e di interpretazione, corrispondenti alle diverse personalità di chi osserva l’opera d’arte e variabili a seconda dei tempi, delle si-

Foto di

Pasquale Comegna

Corpi di marmo Le naiadi a Roma 24 10 MARZO 2018

tuazioni psicologiche, della stessa sensorialità del soggetto. L’opera d’arte inoltre resulta strettamente legata al suo mezzo espressivo, condizionata dai materiali in cui è svolta, inseparabile dunque dalla sua realtà formale. Oggi non possiamo più parlare di arte in termini d’una essenza immutabile e categoriale dello spirito, ma come d’una mutevole realtà il

cui stesso significato muta a seconda delle epoche, identificandosi ora con la religione, ora col mito, ora con la società, e la cui comprensione e incomprensione varia ampiamente da epoca a epoca, da individuo a individuo.” Le oscillazioni del gusto prima parte , 1 Gusto e fruizione estetica” edizioni Paperbacks Lerici 1966


C’è del design in Danimarca

di Pucci Duni

Nella serie di incontri di design che si svolgono periodicamente da Adele in via Serragli non poteva mancare un omaggio al design danese facendo perno sul nobile marchio Louis Poulsen che nella sua lunga storia, iniziata alla fine dell’800 ha visto nascere il mondo dell’illuminazione ed ha contribuito a creare una vera e propria cultura della luce. L’incontro si svolgerà nell’Aula Magna Istituto Gould, via Serragli, 49 Firenze. Si deve infatti allo scoccare della scintilla divina (per dirla con Schiller “ goetterfunken”) tra i proprietari del glorioso marchio ed un personaggio dalle straordinarie intuizioni se nasce nel 1924 la prima lampada che viene pensata non solo per fare luce ma per “illuminare”. Questo immenso personaggio ,Poul Henningsen si pone il problema di alloggiare il bulbo illuminante non dentro il facsimile delle lampade a gas ,ma di farlo con la creazione di schermi che creino illuminazione senza cha la fonte di luce crei distonie nell’utilizzatore. Nasce così la prima serie di lampade ph che continuano ancora ad essere amate dal pubblico. Continuando a studiare il problema dell’illuminazione compatibile Henningsen arriverà

poi nel 1958 al suo indiscusso capolavoro ovvero Artichoc cioè carciofo una lampada che tutti vorremmo sulla tavola da pranzo. Chiaramente Henningsen in tutto questo periodo continua a progettare pezzi che usciti di produzione nelle aste di design dei nostri giorni raggiungono prezzi assolutamente straordinari per pezzi di serie . Tra questi esige una citazione la lampada del 1942 blackout progettata per il giardino di tutti gli abitanti di Copenhagen ovvero Tivoli (di cui era il direttore) che riusciva a illuminare il giardino e a non creare punti di riferimento per gli aerei che bombardavano; dopo averla progettata Poul Henningsen dovette fare fagotto per le sue idee antinaziste e si rifugiò in Svezia con una romantica fuga su una barca a remi. Tutte le generazioni di architetti e designer danesi hanno poi fatto capo alla Louis Poulsen da Jacobsen a Panton da Lauritzen a Wegner e tanti altri attuando un comparto regionale di design che con il tempo non ha retto alla globalizzazione delle idee e delle persone per cui sono arrivati i grandi designer mondiali come Foster ,come Nendo e cosi via perché non esiste alcuna forza e nessuna ragione per cui se un’azienda opera in una realtà progettuale defi-

di Roberto Giacinti

336.275 volte no profit

L’Istat ha pubblicato la prima edizione del Censimento permanente, coinvolgendo circa 43 mila istituzioni non profit. Al 31 dicembre 2015 le istituzioni non profit attive in Italia sono 336.275, l’11,6% in più rispetto al 2011, e complessivamente impiegano 5 milioni 529 mila volontari e 788 mila dipendenti. Rispetto al Censimento del 2011 il numero di volontari cresce del 16,2% mentre i lavoratori dipendenti aumentano del 15,8%. Si tratta quindi di un settore in espansione in un contesto economico caratterizzato da una fase recessiva profonda e prolungata (2011-2013) e da una successiva ripresa (2014-15). Le istituzioni che operano grazie all’apporto di volontari sono 267.529, pari al 79,6% delle unità attive (+9,9% rispetto al 2011); quelle che dispongono di lavoratori dipendenti sono 55.196, pari al 16,4% delle istituzioni attive (+32,2% rispetto al 2011). La distribuzione territoriale delle istituzioni non profit conferma una elevata concentrazione nell’Italia settentrionale (171.419 unità, pari al 51% del totale nazionale) rispetto al Centro

(75.751 unità, pari al 22,5%) e al Mezzogiorno (89.105 unità, pari al 26,5%). La Lombardia e il Lazio sono sempre le regioni con la presenza più consistente di istituzioni non profit (con quote rispettivamente pari al 15,7 e al 9,2%), seguite da Veneto (8,9%), Piemonte (8,5%), Emilia-Romagna (8%) e Toscana (7,9%). Rapportando il numero di istituzioni alla popolazione residente, è il Nord-est a mostrare l’incidenza maggiore (67,4 istituzioni ogni 10 mila abitanti). Il rapporto è elevato anche nel Centro (62,8) e nel Nord-ovest (57,7) mentre è più contenuto nelle Isole (46,8) e nel Sud (40,8). Nel 2015, il settore non profit si conferma essere principalmente costituito da associazioni riconosciute e non riconosciute (286.942 unità pari all’85,3% del totale); seguono le cooperative sociali (16.125, pari al 4,8%), le fondazioni (6.451, pari al 1,9%) e le istituzioni con altra forma giuridica (26.756, pari all’8,0%), queste ultime rappresentate prevalentemente da enti ecclesiastici civilmente riconosciuti, comitati, società di mutuo soccorso, istituzioni sanitarie o educative,

nita territorialmente ,questo sistema non venga messo in discussione dal fluire ininterrotto delle idee delle tendenze e delle tecnologie. E’ in questo sapersi adattare alle diverse variazioni ,alle diverse intelligenze che consiste la forza di un ‘azienda che venendo di lontano cerca di mantenere fede all’assunto del suo maitre a penser Poul Henngsen per il quale esiste la luce ma bisogna farne oggetto di cultura e non spararla in quantità assurde perché “ la luce è un fatto di cultura”.

imprese sociali con forma giuridica di impresa. In base alla classificazione internazionale delle attività svolte dalle organizzazioni non profit, l’area Cultura, sport e ricreazione è il settore di attività prevalente, nel quale si concentra il numero più elevato di istituzioni: quasi 220 mila, pari al 65% del totale nazionale. Le istituzioni non profit rilevate nel 2015 sono nel 63,3% dei casi di pubblica utilità (+1,5% rispetto al 2011) e mutualistiche per il restante 36,7%. Le istituzioni solidaristiche sono presenti in misura nettamente superiore alla media nazionale nei settori della Cooperazione e solidarietà internazionale (100,0%), della Religione (92%), dell’Assistenza sociale e protezione civile (91,1%), dello Sviluppo economico e coesione sociale (90,2%), della Filantropia e promozione del volontariato (89,0%), della Sanità (88,7%). Le istituzioni mutualistiche invece sono più presenti, in quota nettamente superiore al valore medio nazionale, nei settori delle Relazioni sindacali e rappresentanza di interessi (52,6%) e della Cultura, sport e ricreazione.

25 10 MARZO 2018


1982 Carlo Cantini a New York

Carlo Cantini davanti ad un’opera di Chuck Close

26 10 MARZO 2018

di Carlo Cantini


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