Numero
31 marzo 2018
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Quanto riferito dall’autore nell’articolo odierno è frutto della sua ricostruzione, in cui non vengono citate le parole testuali pronunciate dal papa. Nessun virgolettato del succitato articolo deve essere considerato quindi come una fedele trascrizione delle parole del Santo Padre Smentita dell’ufficio stampa del Vaticano dell’intervista di Scalfari al papa
Con la cultura non si mangia Giulio Tremonti (apocrifo)
Interviste impossibili Maschietto Editore
NY City, 1969
La prima
immagine Siamo sempre nel quartiere cinese. Ho visto quest’uomo uscire da un negozio, il suo aspetto mi incuriosiva ed ho atteso che mi passasse davanti. Quando si è reso conto che lo stavo fotografando ha alzato la mano destra verso il cappello per impedirmi di vedere il suo volto. Al momento dello sviluppo del negativo mi sono reso conto che questo suo gesto volontario aveva reso l’immagine molto più intrigante sul piano della sua carica emotiva. Ho sempre avuto la convinzione che la casualità di alcuni scatti, dovuta a fattori decisamente esterni e non controllabili, porti a dei risultati che spesso vanno molto al di là delle intenzioni dell’autore.
dall’archivio di Maurizio Berlincioni
Numero
31 marzo 2018
Piange il telefono Le Sorelle Marx
C’ha deng’a fà I Cugini Engels
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Riunione di famiglia
In questo numero L’Opera di S.Felicita e i Sovrani di M.Cristina François
L’autunno di Varsavia di Alessandro Michelucci
Passami Diabolik di Susanna Cressati
Storia di una chiocciola e di un lumacone di Anna Lanzetta
Poesia, onde gravitazionali e paraboloide iperbolico di Aldo Frangioni
La fortezza dell’Asia di Crisitina Pucci
Macbeth con la resolza di Susanna Cressati
La lingua prigioniera di Sandra Salvato
La dura anima americana, solitaria, stoica e assassina di Francesco Cusa
Gonfienti nella divisione spaziale della piana Vipsul/Fiesole-Gonfienti di Mario Preti
Asta, ragazza dell’Abcasia di Loretta Galli
Il deserto rosso di Andrea Caneschi
Gilles Rigoulet Un coup d’oeil sur la vie di Danilo Cecchi
Tanti auguri, Carlo Palli
e Remo Fattorini, Paolo Marini...
Direttore Simone Siliani
Illustrazione di Lido Contemori
Redazione Progetto Grafico Mariangela Arnavas, Gianni Biagi, Sara Chiarello, Emiliano Bacci Susanna Cressati, Carlo Cuppini, Remo Fattorini, Aldo Frangioni, Francesca Merz, Michele Morrocchi, Sara Nocentini, Sandra Salvato, Barbara Setti
Editore Maschietto Editore via del Rosso Fiorentino, 2/D - 50142 Firenze tel/fax +39 055 701111
Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012
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di Simone Siliani Esclusa, per sua fortuna, dai flussi impetuosi del turismo di massa, la chiesa di S.Felicita, collocata nell’Oltrarno fiorentino, nell’omonima piazza, è uno scrigno contenente tesori artistici inestimabili del periodo rinascimentale, oltre ad essere essa stessa una pregevole opera architettonica, su cui misero le mani Giorgio Vasari e Filippo Brunelleschi, per dire. Proprio in questi giorni torna alla piena luce, dopo un importante e complesso restauro la Cappella Capponi, che ospita la Deposizione di Jacopo Carrucci, detto il Pontormo, che abbiamo visto restaurato di recente nella mostra “Il Cinquecento a Firenze.Tra Michelangelo, Pontormo e Giambologna” a Palazzo Strozzi., capolavoro assoluto del manierismo, straniante quanto modernissima con quelle figure sospese, avvolte in colori sgargianti (azzurrite, lapislazzulo, vermiglione, ocra, malachite). La nostra collaboratrice Maria Cristina François ha, su queste pagine, raccontato – dal particolare punto di vista del prezioso archivio della chiesa – vicende costruttive, artistiche, storiche tali da renderci questa chiesa quasi “familiare”. L’insieme dei suoi scritti potrebbero costituire, unitariamente, un trattato sulle caratteristiche architettoniche e artistiche, passate e presenti, su questo gioiello del patrimonio fiorentino. Il restauro della Cappella Capponi è un ulteriore capitolo di questa storia; uno dei più rilevanti fra quelli recenti I lavori di restauro, condotti dal restauratore Daniele Rossi sotto l’Alta Sorveglianza della Soprintendenza di Firenze, hanno riportato alla luce non solo la raffinata decorazione illusionistica della cupolina, ma anche importanti tracce della sontuosa decorazione in blu e oro voluta per i capitelli da Filippo Brunelleschi, primo architetto della Cappella. Il restauro ha consentito, inoltre, di comprendere meglio la vicenda costruttiva, stratificata nel tempo. Ad esempio si è potuto concepire dettagli importati relativi alla realizzazione della cupola originale del Brunelleschi, ancora oggi non visibile ma integra, composta di mattoncini a spina di pesce, che ha costituito la base – quasi il modellino in scala – sulla quale il grande architetto concepì la grande cupola di Santa Maria del Fiore. Il restauro ha anche reso meglio leggibili, quasi “abbaglianti” nella loro nitidezza e lucentezza le decorazioni create dal Pontormo e dal suo allievo Agnolo Bronzino: i tondi dei quattro evangelisti, l’Annunciazione, dipinta a buon fresco sulla parete verso la controfacciata, e la tavola del Cristo Morto sorretto da due giovani. Le indagini diagnostiche necessarie per il successivo restauro hanno rivelato le tecniche pittoriche del Pontormo per la realizzazione della Deposizione (tempera amalgamata con bianco d’uovo, non colori ad olio).
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L’Opera di S.Felicita e i Sovrani di M.Cristina François
Quando il Granduca Pietro Leopoldo emanò il Motu Proprio del 28 Marzo 1785 che richiedeva agli Ordini religiosi la perfetta vita comune, le Monache di S.Felicita “non furono in grado di obbedire perché disastrate economicamente” [Ms.730, p.365]; così il 9 giugno 1787 si procedé all’accorpamento amministrativo del Monastero con altri cinque Conventi: S.Francesco, S.Verdiana, S.Apollonia, Spirito Santo alla Costa, S.Domenico del Maglio. La gestione dei beni venne affidata ad un Soprintendente. Non trattandosi di una vera e propria Soppressione - come sarà invece quella napoleonica - il Rescritto granducale non richiese a chi abitava il Monastero (nel nostro caso le Monache, i 3 Curati e il Priore) di andare a vivere altrove: bastò semplicemente dare il mandato ad un Procuratore - il Marchese Sigismondo Della Stufa - ed affidare a lui tutto il controllo delle spese per il culto e per la gestione delle due Fabbriche (Chiesa e Monastero). Le Monache ricevettero un vitalizio annuo: 90 scudi le “Velate” e 70 scudi le Servigiali. “Simile assegnamento annuo fu destinato a far fronte a tutte le spese di vestiario, vitto, biancheria etc. […] e fu preservato un capitale corrispondente all’annuo importare degli Obblighi di Chiesa e Sagrestia, conservazione delle Fabbriche e dei mobili […] in quella quantità che fu in seguito determinata dal Granduca” [Ms.730, p.366]. Le religiose, da quel momento, dovevano solo render di conto delle loro spese e inviare annualmente un
bilancio alla Segreteria del Diritto. “Col publico Istrumento del 31 Marzo 1790 […] Amerigo Altoviti, Operaio allora di questo Monastero, [ricevette in gestione] un Capitale infruttifero di Scudi 16,710” [Ms.730, p.368]. Divenne così il primo “fabbriciere” dell’Opera di S.Felicita. Dal 1795 il patrimonio ebbe due differenti e autonome amministrazioni, una interna, che riguardava i vitalizi delle Suore, ed una esterna, che si occupava dell’amministrazione del patrimonio conventuale consegnato con la Soppressione. Quando il 10 novembre 1807 il Granducato entrò a far parte dell’Impero di Napoleone partirono i primi Decreti di Soppressione (Decreto del 24 marzo 1808: Ordinanze del 16 e del 29 aprile 1808). Il 30 dicembre 1809 il Governo francese creò conseguentemente le Fabbricerie parrocchiali amministrate da 5 laici detti Santesi. La Fabbriceria dichiarò il Convento di S.Felicita infruttuoso e, proclamata la sua chiusura definitiva il 13 settembre 1810, l’11 ottobre i locali furono evacuati. Caduto il Governo francese, riprese il potere nel 1814 il Governo Lorenese che abolì i Santesi: S.Felicita fu amministrata, per quell’anno, direttamente dal Parroco. Nel 1815 il Granduca Ferdinando III con Rescritto del 21 gennaio assegna a due Operai dell’Opera (Piero Mannelli e Leopoldo Galilei) l’amministrazione della chiesa di S.Felicita e dell’ex-monastero [Ms.194, biglietto del 15 febbraio 1815]. Due mesi dopo anche il Papa Pio VII approva in un Breve i possessi acquistati e assegnati al Priore [idem]. Da questo momento si può effettivamente parlare di Opera di Santa Felicita (fig.2). Le riunioni degli Operai si tenevano col Priore a piano terra, nella “stanza dei divani” che faceva parte delle “stanze bòne” di rappresentanza realizzate dall’ing.Gaetano Boccini dietro approvazione del Sovrano. Lo stesso Ferdinando III farà dono ai “Sigg. Nobili Operaj dell’Opera di S. Felicita” di 13 sedie (fig.1) in legno di ciliegio rivestite di fustagno color verde scuro, detto “verde Opera”. Pure i divani, il tappeto e le tende di quella stanza, nonché il sipario del Coretto di Chiesa riservato agli Operai (il primo Coretto, entrando in chiesa, a sinistra), vennero realizzati in questa tinta. Sono arrivate
fino a noi otto di queste sedie (una nona non è della serie), grazie al fatto che furono depositate per la loro conservazione, a partire dal 1966, nei “soffittoni” della canonica insieme a molti altri oggetti, ognuno dei quali rappresenta il portato di una memoria materiale e immateriale da preservare tramite una relativa catalogazione. Queste sedie, contrassegnate per il momento dai numeri di un mio Inventario realizzato a partire dai documenti d’Archivio [nn.9001-90029058-9059-9061-9062-9063-9064] sono in attesa di essere catalogate da Curia e Sovrintendenza considerando, soprattutto, che provengono dalla bottega di due celebri maestri artigiani i quali lavoravano anche a Corte: il legnaiolo Giuseppe Colzi e il doratore Giovanni Sani [Ms.325, c.120r “a saldo di n.13 seggioline di Ciliegio e suo Canapè”; c.95r “per avere dorato le borchie a n.13 Seggiole delle Stanze bone”]. L’Opera ebbe un suo Statuto nel 1834; come Ferdinando III, anche Leopoldo II ne approvava annualmente il bilancio autorizzando le spese straordinarie. Questo stato di cose continuò fino al 1848, anno in cui furono istituiti i vari Ministeri dello Stato e così l’Opera - vigilata fino a quel giorno dal Regio Diritto - passò sotto il controllo del Ministero di Grazia e Giustizia e degli Affari Ecclesiastici. Il Prefetto di Firenze fu incaricato di controllare e approvare il bilancio annuale. Dal 1861 questo Prefetto assunse pieni poteri distaccandosi dal Ministero da cui dipendeva, e tutto fu a lui riferito. Col 1929, anno del Concordato fra Stato e Chiesa, l’antica Opera si chiamò Fabbriceria e gli Operai furono detti Fabbricieri, essi operarono di norma in collaborazione col Parroco. Il Parroco e i due Fabbricieri erano affiancati da un segretario (“computista”). A seguito del Concordato la gestione delle Fabbricerie tornerà ad un Ministero, quello per la Giustizia e gli Affari di Culto, in accordo con l’autorità ecclesiastica. Nel 1995, dietro richiesta del Parroco e dei Fabbricieri allora in carica, la Direzione Generale degli Affari di Culto chiuderà definitivamente la Fabbriceria di questa Chiesa, Ente Morale di S.Felicita che aveva sempre garantito una gestione amministrativa equa e rispettosa dei diritti umani e patrimoniali.
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Le Sorelle Marx
C’ha deng’a fà
Un incontro storico ma avvolto nel mistero quello fra il leader della Corea del nord, Kim Jong-un e il presidente cinese Xi Jinping. Kim è arrivato in Cina a bordo di misterioso treno verde partito domenica da Pyongyang. La domanda sorge spontanea: ma non faceva prima con un aereo della Air Koryo Korean Airways che effettua voli regolari tra Pyongyang e Pechino? Peraltro il treno non sembrava neppure particolarmente veloce o tecnologicamente moderno, anzi. A dire il vero sembrava piuttosto un regionale delle Trenord s.r.l., la società che gestisce il traffico passeggeri su ferro della regione Lombardia. Pare, infatti, che alla guida del convoglio fosse un italiano ben noto in Corea, amico personale di Kim. Comunque, l’incontro tra i due leader asiatici è stato definito una “discussione positiva” e anche le due rispettive First Lady hanno subito fatto amicizia. Ma in
I Cugini Engels
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può essere risolto se la Corea del sud e gli Stati Uniti rispondono ai nostri sforzi e alla nostra buona volontà”. Ma allora solo in un modo si può spiegare l’arcano: i due hanno parlato di razzi... No, non di razzi nucleari, ma di razzi abruzzesi. Dopo aver fatto da mediatore fra Kim e Trump e aver salvato il mondo da un conflitto nucleare, è sempre lui, Antonio Razzi ad aver mediato fra i due leader asiatici. Questa volta offrendosi di guidare il treno di Kim e facendo da mediatore linguistico: fra coreano e cinese, la lingua più vicina si è rivelata l’abruzzese; in particolare il dialetto teatino, appartenente al gruppo abruzzese-orientale. Quando Razzi ha chiamato Kim sulla linea rossa e gli ha chiesto “C’ha deng’a fà?”, Kim ha capito subito che Razzi aveva avuto confidenza anche con Deng: l’uomo giusto, dunque, per il dialogo con la Cina.
Piange il telefono
Telefoni bollenti al Nazareno in questi giorni. L’ex giovane ex segretario, ex Presidente del Consiglio, ex sindaco, ex ex ex, Matteo Renzi ha perso le staffe nientepopodimenoche il suo economista di riferimento Tommaso Nannicini, reo di non avere respinto la candidatura a capogruppo del Senato del PD. Renzi lo ha chiamato inferocito: “Oh Nanni, ‘icché tu vorresti fare te? Il capogruppo del Pd? Ma te hai preso una botta! Prima di tutto non me lo hai chiesto e questo, cari il mio Tommasino, è un errore capitale. E poi il capogruppo è e resta Marcucci, capitooo?” “No, dai, Matteo, non ti inquietare. Sai, mi era venuta una bella idea per risolvere la questione del reddito di cittadinanza qui al Senato; e da capogruppo sarebbe stato tutto
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che lingua avranno dialogato i due leader? Infatti, le due lingue, cinese mandarino e coreano sono assai diverse. Pur partendo dalla stessa lingua, la lunga divisione della Corea ha portato ad uno sviluppo diverso tra Nord e Sud. Nel lessico della Corea del Sud sono entrati numerosi prestiti dall’inglese americano, come ad esempio 뉴스 (Nyuseu), notiziario. In Corea del Nord invece si tenta di esprimere concetti nuovi tramite la derivazione di parole nuove che siano “coreane pure”. In Cina si parla ufficialmente il cosiddetto mandarino standard o putonghua. Quindi due universi linguistici totalmente diversi. Eppure nelle rare immagini TV abbiamo visto Kim e Xi parlare affabilmente in modo diretto. Peraltro il fulcro del dialogo è stato il programma nucleare coreano, tanto che Kim ha dichiarato che “Il tema della denuclearizzazione della penisola coreana
più facile...” “Oh scemo, il reddito di cittadinanza lascia che se lo smazzino quegli imbecilli dei grillini, che così vanno a stroncarselo in un muro. Poi te non devi pensare a fare carriera: decido io chi fa che cosa in Senato, chiaro???” “Ma... me lo aveva detto Martina...” “Chi? Martina? Ma quello non conta una mazza! Braccia rubate all’agricoltura... Anzi, già che me lo dici, forse ce lo rimando a zappare quel bergamasco mangiapolenta! Te, torna a fare i tuoi conti e a trastullarti con gli algoritmi, che è meglio!” click “Pronto Maurizio? Come va?” “Ah, una meraviglia, Matteo! Tutto a gonfie vele: stiamo recuperando alla grande!” “Alla grande fava che tu sei, Maurizio!
Cosa gli avresti proposto a quel decerebrato di Nannicini?” “Ah, di fare il capogruppo al Senato: non ti pare una bella proposta? So che è un tuo fidato...” “Senti, contadino della val Trompia, decido io di chi mi fido. Intanto, di te no di sicuro. Poi te devi smetterla di pensare di essere il segretario del Pd: te non conti una cippa, capito???” “Va bene, Matteo... non ti scaldare. Ma, ora, cosa ne facciamo di Nannicini?” “Senti, te non preoccuparti, che quella testa d’uovo del Nanni caso mai lo mando a fare l’assessore da Nardella. E te non mi fare più di questi scherzi, che sennò di mando a piantare barbabietole nella tua val Camonica!” click
Nel migliore dei Lidi possibili
Modello ircocervo, unisex, per il prossimo governo, giacca e cravatta parlamentare, per non esporre la faccia la maschera di Pulcinella, per salvarsi per le parti basse i pantaloni di Arlecchino
disegno di Lido Contemori didascalia di Aldo Frangioni
Segnali di fumo di Remo Fattorini La vita media si allunga, ma la nostra salute è a rischio. Sembrerebbe una contraddizione ma i dati dell’Osservasalute (dell’università Cattolica), dell’Istat, dell’Oms e dell’Istituto superiore della sanità, lo confermano. Aumentano le malattie croniche che colpiscono 4 italiani su 10 (24 milioni di italiani). Aumenta la disuguaglianza anche nella speranza di vita: se a Trento la media è di oltre 83 anni in Campania si vive 3 anni di meno; va un po’ meglio in Toscana dove si risale a 83, 5 mesi in più della media nazionale ma 7 mesi in meno che a Trento. Le
cause sono note. 1. Prima di tutto, gli stili di vita non perfetti. Ad esempio in Toscana aumenta il consumo di alcool dal 62 al 69% della popolazione, il fumo si mantiene un punto sopra la media, e il 36% è in sovrappeso. Tra i giovani (11-17 anni) aumentano i consumi a rischio: qui sono il 23% rispetto al 19 della media nazionale. E poi siamo la maglia nera nel consumo degli antidepressivi: 60 dosi ogni mille abitanti contro una media di 40. 2. La disparità di accesso alle cure. Basti guardare come si distribuisce la spesa sanitaria pro-capite: a fronte di una media di 1.838 euro, a Bolzano sale a 2.255 mentre in Calabria scende a 1.725. Così l’indice di mortalità diminuisce assai di più al Centro-Nord rispetto al Sud. In particolare la mortalità sotto i 70 anni – che l’Oms considera un indicatore di eccellenza dei sistemi sanitari – decresce in quasi tutte le regioni ma non in quelle del Mezzogiorno dove, invece, è in aumento. 3. La scarsa attività di prevenzione. Mentre
cresce la domanda di cure, da parte di una popolazione che continua ad invecchiare, anche se sempre meno in buona salute, l’offerta di servizi diminuisce. Ci dicono a causa dei vincoli di bilancio. In effetti in Italia si spende sempre meno per la sanità pubblica. Meno della Francia, Svizzera, Germania, Paesi Bassi. Da noi la spesa si ferma al 9% del Pil (media Ocse al 9,2%). E con meno risorse a farne le spese sono proprio le attività di prevenzione. Ad esempio i medici di base, non solo non sono più quelli di una volta ma fra 5 anni sarà anche peggio, quando 14 milioni di italiani ne dovranno fare a meno a causa dei pensionamenti senza sostituzioni. Per non parlare dell’attività di screening, praticata con forti squilibri e ancora quasi del tutto sconosciuta a metà del paese. Sbaglio, ma di questo - che non è proprio una questioncella – nessuno ne parla, nemmeno in campagna elettorale, dove si è promesso mari e monti. Si dice: la salute prima di tutto. Era così una volta, adesso non più.
7 31 MARZO 2018
di Aldo Frangioni La Serra dei poeti e Punto di Fuoco sono l’ottantesima opera ambientale di Celle, ci dice Giuliano Gori durante la conferenza stampa, ricordando anche la tempesta di 3 anni fa che ha abbattuto più di 500 piante secolari. Si sente il dolore di Gori nel ricordare quella perdita. Si sa che ogni parte della Fattoria di Celle, non solo le opere d’arte, ma ogni albero, cespuglio, l’andamento del terreno, i vari edifici, grandi o piccoli che siano, fanno parte della sua vita, una vita che è riuscita a realizzare uno dei parchi d’arte più importanti del mondo. Andrea Mati, che ha progettato la via di cipressi che conduce alla serra, dice che il danno prodotto dal nubifragio, ha comunque aperto spazi nuovi dove le piante rimanenti , forse, vivono meglio: non pare che questa consolazione lenisca il dolore di Giuliano. La nuova opera installata a Celle è composta di due parti: la prima, Focus di Andrea N.M. Mati, prevede una fila di trenta cipressi, varietà Bolgheri, segni verticali che portano alla seconda opera, la Serra dei poeti, dello scrittore Sandro Veronesi. L’idea di Mati contiene in sé numerosi rinvii simbolici. Un filare di cipressi può condurre ad una casa, essere una quinta che segnala un cimitero o una barriera frangivento. Solitario o raggruppato il cipresso è icona fondamentale del paesaggio toscano. Mati distribuisce i trenta cipressi su quattro filari intrecciando concetti artistici e scientifici : l’illusione ottica che le linee parallele si uniscano all’infinito che, nel caso nostro, è la Serra dei poeti. L’installazione ci riporta a temi musicali, come le corde di vari strumenti musicali, che, vibrando, produ-
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Poesia, onde gravitazionali e paraboloide iperbolico cono suoni. Il vento passando fra gli alberi compone anch’egli una sua musica. Infine, come Giorgio Revelli spiega in uno dei testi del catalogo, si vuol rendere omaggio ad una delle più grandi e recenti scoperte della fisica, le onde gravitazionali dalle quali consegue l’elasticità dello spazio/tempo e del presente come attimo dell’eterno. Molta roba si direbbe per dei filari di cipressi, comunque il risultato è sia interessante che accattivante. La Serra di Veronesi, alla quale si giunge dopo questo percorso di scienza, natura ed arte, ha altrettanti richiami e citazioni. Prima di tutto il riferimento alla deliziosa “voliera pagoda” di Bartolomeo Sestini, progettata, agli inizi dell’800, l’archetipo ideale degli interventi di arte ambientale che Gori, ha fatto realizzare nella sua Fattoria. Sandro Veronesi, illustre scrittore, si cimenta in un’opera prima di natura artistica, riprendendo memorie familiari
(il padre ingegnere) e ricordi del suo primo sè architetto. Per un esame di “Disegno e rilievo” con Roberto Maestro sceglie il tema del paraboloide iperbolico, un mito dell’architettura e ingegneria del ‘900 che permette di realizzare opere imponenti e leggere nello stesso tempo. Veronesi riprende l’idea e realizza una serie di disegni e plastici preparatori, esposti insieme agli schizzi di Mati, disegni e plastici leggeri e vibranti, come si confà alla pianta ideale che deve ospitare la serra: la poesia. L’ingegnerizzazione del progetto aggiunge un scheletro portante di grossi tubi metallici che si raccolgono in una sfera al vertice dell’opera. Avviene così che il contenitore della poesia, etereo e affascinante nel progetto iniziale, si appesantisca senza ampliare neppure lo spazio interno della serra. E’ comprensibile che il gran vento che soffia a Celle abbia obbligato a calcoli di ingegneria che rendessero sicuro l’oggetto artistico. Si aggiunge così un’altra opera a questa meravigliosa cattedrale all’aperto , luogo ormai sacro all’arte che, come in tutte le cattedrali, specialmente in quelle gotiche, affascina per la sua totalità. Ma la gerarchia fra opere minori o grandi capolavori a un certo punto svanisce, amalgamando il tutto nell’unicità del pensiero del progettista, sia esso collettivo o individuale, in questo caso il tutto è riconducibile all’idea a alla grandezza artistica di Giuliano Gori.
Musica
Maestro
L’autunno di Varsavia
di Alessandro Michelucci Contrariamente alle tesi più rozze dell’anticomunismo, che vorrebbero fare di ogni erba un fascio, la politica culturale dei paesi comunisti non fu una realtà uniforme. Al contrario, ci furono notevoli differenze sia temporali (da un periodo all’altro) che geografiche (da un paese al’altro). Un caso molto interessante è quello della Polonia. La fine della Seconda Guerra mondiale segna l’inizio della dittatura. All’epoca il paese mitteleuropeo è già dotato di un’eredità musicale importante: si pensi a Chopin, Paderewski e Szymanowski. I compositori reagiscono in vario modo alle restrizioni imposte dal regime. Palester e Panufnik lasciano il paese, ma molti altri, fra i quali Lutoslawski e Penderecki, restano in patria. Alcuni si allineano al potere, mentre altri cercano di mantenere un equilibrio fra ortodossia e libertà espressiva. La destalinizzazione avviata da Gomulka nel 1956 si traduce in caute aperture, per quanto ondivaghe, che hanno effetti positivi sul mondo musicale. Uno dei frutti più importanti di questo timido rinnovamento è il festival Warszawska Jesień (Autunno di Varsavia), che vede la luce nello stesso anno. La sua storia viene raccontata da Lisa Jakelski, docente di Storia della musica all’Università di Rochester (New York), nel libro Making New Music in Cold War Poland. The Warsaw Autumn Festival, 1956-1968 (University of California Press, 2017). Concepito dall’associazione dei compositori legati al regime, il festival nasce come erede di manifestazioni analoghe realizzate negli anni precedenti, ma ancora deboli e incerte sotto il profilo organizzativo. Grazie a due compositori, Tadeusz Baird e Kazimierz Serocki, questi tentativi vengono utilizzati per creare la nuova manifestazione. Il festival si impone velocemente come una delle più stimolanti iniziative europee dedicate alla musica contemporanea, superando i confini del blocco sovietico. Grazie a questa manifestazione si affermano compositori polacchi come Henryk Mikołaj Górecki e Krzysztof Penderecki.
Al tempo stesso il festival attrae musicisti, studiosi e giornalisti di ogni parte del mondo, creando quella che il libro definisce una “zona di mobilità culturale”. Lisa Jakelski, profonda conoscitrice della materia, ricompone con estrema accuratezza il fitto intreccio di date, luoghi e persone attraverso i quali si sviluppa la storia del festival. L’attenzione della studiosa non è circoscritta all’istituzione in quanto tale, ma include un necessario corredo di analisi sociali e politiche. L’autrice dimostra che grazie a questa iniziativa gli scambi dei musicisti polacchi non rimangono limitati ai paesi comunisti, ma spaziano altrove coinvolgendo molti artisti di grande rilievo: da Cage a Stockhausen, da Tudor a Carter. Purtroppo non accade altrettanto in molti paesi dell’Europa occidentale, dove l’interesse per la musica polacca, ungherese o bulgara viene spesso soffocato nel nome di un anticomunismo miope. Il sottotitolo del libro non deve trarre in inganno: il festival non è finito nel 1968, ma continua ancor oggi (la sessantunesima edi-
zione si svolgerà dal 16 al 24 settembre). Il 1968 viene scelto come punto d’arrivo perché quest’anno segna una svolta nella gestione del festival, come anche i noti avvenimenti interni al mondo comunista (invasione di Praga e rivolte polacche). Il corredo iconografico del volume è ridotto al minimo, ma viene compensato da una ricca bibliografia e dal programma integrale della prima edizione.
Novanta ventagli impossibili Il ventaglio inteso come opera d’arte è il protagonista della mostra che la Fondazione Culturale Hermann Geiger organizza e promuove a Cecina (Livorno) dal 31 marzo al 13 maggio, nei suoi spazi espositivi in piazza Guerrazzi 32. L’esposizione “Ventagli. Creazioni d’Artista” propone ai visitatori una selezione di 90 pezzi provenienti dalla raccolta di Luisa Moradei, studiosa e collezionista fiorentina. Attraverso questo accessorio, la mostra offre un’ampia panoramica sull’arte contemporanea italiana. Il ventaglio, svincolato dalla sua funzionalità, viene presentato attraverso una ricca gamma di lavori che si distinguono fra loro sia per la tecnica decorativa che per la varietà dei materiali impiegati. Troviamo così impiegati legno, ferro, terracotta, carta e cartone, rame, travertino, plastica, specchi, piume, stoffa,
foglie, piombo, ceramica e reti metalliche, materiali che vanno a trasformare l’oggetto ventaglio, così come siamo abituati a pensarlo, e lo declinano in opere di pittura, scultura, fotografia, incisione, oreficeria, tessitura e altro. In molti casi il risultato, pur nelle molteplici diversificazioni, si mantiene fedele alla forma di origine mentre in altri raggiunge effetti puramente allusivi, stravolgendo la forma stessa fino ai limiti della sua riconoscibilità. Vi sono opere di artisti noti e di giovani emergenti. Fra i più noti Gillo Dorlfes (nella foto), Emilio Isgrò, Giosetta Fioroni, Elio Marchegiani, Rosario Bruno e Riccardo Guarneri La mostra “Ventagli. Creazioni d’Artista”, curata dalla Fondazione Geiger con il coordinamento di Federico Gavazzi e con la collaborazione della collezionista Luisa Moradei, sarà inaugurata sabato 31 marzo alle ore 17.
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di Susanna Cressati Se ne stava in poltrona a leggere un libro “serio” poi all’improvviso buttava via il volume e sbottava impaziente rivolto alla moglie: “Dai, passami Diabolik”. Ecco Dino Buzzati come lo ha rievocato al Gabinetto Vieusseux Francesca Manfredi, la giovane autrice emiliana trapiantata a Torino (Premio Campiello Opera Prima 2017 con “Un buon posto dove stare”) che ha affrontato con un certo impaccio giovanile la fatica della settimanale lezione del ciclo “Scrittori raccontano scrittori”. Un Dino Buzzati, ha fatto notare, diverso da quello immortalato in una immagine degli anni Sessanta: un uomo magro ed elegante, in giacca e cravatta, alla sua scrivania nella sede del Corriere della Sera, mentre scrive compunto, nella mano destra il calamo con il pennino d’acciato, nella sinistra la boccetta d’inchiostro, o una pipa, chissà. Quello evocato da Manfredi è invece il Buzzati con i capelli a spazzola un po’ ingrigiti sorpreso mente, seduto al tavolo di casa in maglietta della salute, non si capisce bene se dipinge o raschia pittura da una delle sue tele. Amava i fumetti popolari, Buzzati, quella letteratura di “serie B” che si affacciava allora sulla scena culturale con le sembianze del tenebroso personaggio ideato ed edito da Angela e Luciana Giussani, “due belle, colte, spiritose e inquiete signore della buona borghesia milanese”, come sono definite nel sito dedicato alla loro creatura. Ma più in generale amava l’immagine, la pittura, e soprattutto la pittura combinata con una storia da raccontare. “Che scriva o che dipinga – disse una volta - perseguo il medesimo scopo che è quello di raccontare
10 31 MARZO 2018
Passami Diabolik storie”. Buzzati si spinse più volte a definire la pittura il suo “vero” mestiere: “Io mi trovo vittima di un crudele equivoco – scrisse in un saggio del 1967 che porta proprio questo titolo - Sono un pittore il quale per hobby, durante un periodo purtroppo alquanto prolungato, ha fatto anche lo scrittore e il giornalista. Il mondo invece crede che sia viceversa e le mie pitture non le può prendere sul serio”. La sua fu una produzione pittorica sterminata, ha raccontato Manfredi, la passione insopprimibile e la varietà delle sue applicazioni ben più spinta di quella “multidisciplinarietà” che è stata riconosciuta a tanti artisti nel Novecento (De Pisis, Savinio, Pasolini...). Iniziò con piccole illustrazione dei suoi racconti per poi approdare alla pittura vera e propria, scrivendo con il pennello, ritiene Manfredi, le sue storie più belle. Ma il “salto” vero avvenne nel 1969, con lo stupefacente “Poema a fumetti”, il vero antesignano dell’attuale graphic novel, ispirato al mito di Orfeo modernamente interpretato. Già nel 1962 Buzzati aveva ben chiaro l’approdo a cui sarebbe giunto anni dopo. Alla giornalista e scrittrice Mirella Delfini che lo interrogava nel corso di una trasmissione televisiva rispose che non vedeva perchè non si sarebbe potuta utilizzare la tecnica del fumetto (allora considerata produzione scadente) per realizzare “una specie di poemetto figurato” di alta qualità. E che la sua produzione pittorico-narrativa gli sembrava un buon modo per “poter
dire qualcosa di nuovo che altri non dicono”. La Delfini lo definì in quella occasione “un uomo che viene dal 2000”, non sbagliando di molto. Anche a Buzzati, come a molti “uomini del futuro” la sorte riservò in vita una certa dose di incomprensione, in parte dovuta anche all’audacia delle immagini (siamo nell’epoca della Valentina di Crepax). “Sapevo in partenza – scrisse pochi mesi dopo la pubblicazione – che Poema a fumetti, libro fatto più di disegni che di parole, rischiava di avere, anche da parte dei critici, strane accoglienze...Parecchi mi hanno rimproverato l’eccessiva frequenza, nelle pagine, di ragazze nude disegnate con accento libertino. Io l’ho fatto per tre motivi: primo, la nudità mi sembra il costume più adatto nel mondo dei più; secondo, disegnare dei nudi è più gradevole e stimolante che disegnare delle persone vestite (almeno per me); terzo - e qui direte che mi do la zappa sui piedi, ma perché essere ipocrita? - pensavo che l’ingrediente fosse producente agli occhi del pubblico”. (Corriere della Sera, 8 febbraio 1970). Del resto la formula di commistione tra immagine e testo non impedì a Buzzati di frequentare i suoi temi prediletti: attesa, angoscia, segreto e noia insieme, e di dipingere le sue atmosfere di sogno e di inquietudine sulle quali aleggia costante un senso di peccato e di morte, il timore che sia già accaduto o debba accadere qualcosa di triste, di catastrofico. Buzzati in maglietta è sempre Buzzati.
di Francesco Cusa Un film duro, fatto di silenzi e spazi aperti, intimamente violento, affatto spettacolare, denso e profondo come la narrazione ctonia d’uno spirito della notte. “Hostiles”, l’ultimo film di Scott Cooper, pianta una bella pallottola nella pancia del nostro mondo civile, mostra il lato straziante e carnale del potere e della logica della sopraffazione, e lo fa tramite la riduzione avventurosa assurta a simbolo di un processo politico crudo e cinico che risponde al nome di “sogno americano”. Uomini. Territori. Spazi. E’ la Natura a tenere insieme il gioco perverso delle relazioni tra simili, e non c’è altro che Natura a colmare la densità dell’orrore e dell’odio verso l’Altro, per il diverso. Collocare in una differente prospettiva le feroci gesta degli uomini-carnefici, vittime di vittime in una cornice quasi straniante: questo fa Scott Cooper in un western venato di surrealismo, asciutto come una crepa nella roccia. E’ in questi spazi, che appaiono sterminati, che vengono rappresentate le microstorie e narrate le vicende di un capitano dell’esercito e di una vedova sopravvissuta allo sterminio di tutta la famiglia ad opera dei Comanche. Il film comincia con quella che potremmo definire quasi un’epigrafe di D.H. Lawrence: “Nella sua essenza, l’anima americana è dura, solitaria, stoica e assassina. Finora non si è mai ammorbidita”.
La dura anima americana, solitaria, stoica e assassina I personaggi di “Hostiles”sono icone che incarnano tipologie balzachiane d’oltreoceano: maschere, calchi, o in altre parole, “viseità”. La depressione che intossica tutta l’opera è concentrata nella figura dell’amico fidato del capitano Blocker e sembra essere figlia della stessa crisi di valori del colonnello Kurtz, magistralmente descritta da Coppola in “Apocalypse Now”. Solo che in “Hostiles” il capitano Blocker, che assume come guida virgiliana il nemico “Falco Giallo”, vive la sua “mutazione” per analogie meno sofisticate, più semplici e dirette. Il processo di consapevolezza scaturisce dal distillato cruento di massacri inutili operati quasi esclusivamente dall’uomo bianco; avviene per “accumulazione”, si rafforza nella stratificazione d’ogni sterminio. A sigillare nel mutismo della maschera di Blocker
l’immanenza del dolore provvede l’inesorabile percorso - che è anche reale cammino di un gruppo meticciato nella direzione del forte -, che porta a “riconoscere” e a “riconoscersi” tutti - capitani, capi tribù, vedove, soldati, figli, madri, padri -, in un viaggio iniziatico corale che produrrà fratellanza e comunione per osmosi cruenta. Sangue su sangue e volti imperturbabili. Le stragi dei Comanche, terrificanti conclamazioni del Mostruoso, si bilanciano così con quelle altrettanto feroci del bianco, queste ultime figlie però della brama di conquista e della sottomissione dei popoli nativi. In questo senso è un dramma maschile, giacché Rosalee Quaid, nonostante il devastante trauma, finirà con l’adottare il bambino indiano superstite. Film da vedere.
11 31 MARZO 2018
di Mario Preti Di Gonfienti abbiamo già detto che gli scavi e le prospezioni effettuate ci presentano solo aree parziali e che le dimensioni del sito rilevate, di 400x400 mt, non sono definitive. Abbiamo però dei punti fermi per formulare delle ipotesi che ci permettano in futuro di concentrare e specializzare le ricerche. Primo punto: l’intera piana alluvionale fiorentina-pratese è stata divisa spazialmente in origine dagli Etruschi con orientamento N5:3E, e tutti i centri urbani come Vipsul/Fiesole, Firenze, Gonfienti e le necropoli di Quinto e Comeana si collocano dentro le griglie di 1800x2160 mt suddivise in rettangoli di 180x360 mt. Secondo punto: l’orientamento N5:2E del Palazzo/Regia di Gonfienti, potrebbe essere anche quello dell’abitato intero, dato che certe parti scavate sembrano ripeterlo in parte. Se osserviamo i paleo alvei del Bisenzio e del suo affluente Marina, nella parte Sud (fig. 1), l’inclinazione N5:2E consente di collocare meglio la città fra i due fiumi, secondo Genius Loci. Terzo punto: dobbiamo pensare che il sito, dopo il suo abbandono nel V sac, può essere stato vandalizzato; ma comunque nel I sac è stato riportato dai Romani all’uso agricolo con la loro centuriazione che si è sovrapposta esattamente a quella antica rispettando le grandi misure territoriali: un Saltus romano di lato di 6000 piedi -3600 cubiti- corrisponde al lato minore dello Shar di 3600 cubiti (1800 mt); una Centuria romana è 4 volte quella etrusca. L’aspetto del territorio rurale che ci è stato tramandato è soprattutto questo. Allora dovette sparire tutta la struttura muraria fuori terra e anche parte delle fondazioni. Quarto punto: la città originava dal maggiore asse EW della divisione territoriale (non ci sono Cardo e Decumano nelle divisioni etrusche), coincidente con la via etrusca che veniva dal Valdarno superiore, si portava alle pendici di Fiesole presso San Domenico e quindi entrava nella pianura fiorentina-pratese tenendosi appena in quota fiancheggiando numerosi villaggi fra Quinto, Sesto, Settimello, Calenzano, dividendosi a Gonfienti in due rami: a Nord entrava nella Val di Bisenzio per il valico transappenninico più importante dell’antichità, e ad Ovest si dirigeva, ancora con un percorso pedemontano, verso il porto di Pisa controllato da Volterra. Quinto punto: nelle prospezioni del sito non sono state trovate mura di cinta, e questo ha posto problemi interpretativi sulla natura dell’agglomerato urbano, cioè se fosse davvero una città. Io sostengo che le mura ci fossero e che si trattasse di una città. Anche a Marzabotto
12 31 MARZO 2018
Gonfienti nella divisione spaziale della piana Vipsul/Fiesole-Gonfienti non sono state trovate mura, e per fortuna si è mantenuta una sezione di una porta urbana che le testimonia. Non dovevano essere mura pelasgiche, ma anche a Pompei non ci sono mura di quel tipo, che troviamo invece a Vipsul/Fiesole, Vetulonia, Populonia, o Roselle soprattutto come muri di sostegno di terrapieni; e qui siamo in pianura. Si dice anche che prima del tardo VI o V sac non si costruissero mura nelle città etrusche, dimenticando che la Roma di Romolo aveva mura costruite ritualmente secondo la disciplina etrusca e che sono state ritrovate in parte nel versante del Palatino verso il Foro, testimoniando che la regola etrusca mostrava le mura già nell’VIII sac. Sesto punto: la strada transappenninica aveva due capi: Kainua-Marzabotto e Gonfienti; la prima era una città con acropoli divisa spazialmente e la seconda doveva esserlo. Oltretutto il processo di inurbamento è passato Da Gonfienti a Kainua e non viceversa e le datazioni lo confermano.
Settimo punto: i resti murari su Poggio Castiglioni debbono essere relazionati all’abitato di Gonfienti: l’analisi matematico-morfologica che ho effettuato sulle tracce murarie e altri segni sembra mostrare un sistema architettonico riconducibile ad un rettangolo di 1440x900 cubiti, grigliato in 16x10 rettangoli di 90x90 cubiti; con un orientamento NS, cioè solare. L’orientamento diverso fra acropoli e città non è un problema, dato che è verificato anche a Pompei. Quei numeri parlano di uno spazio sacro come può essere proprio un’acropoli, i medesimi, ancora, di quelle di Pompei e di Marzabotto/Kainua. Questo risultato ci porta a considerare una continuità fra la città e la sua acropoli, proponendo che il pendio Sud del poggio, fino al piano, potesse essere un Bosco Sacro, come oggi. In dimensioni diverse il tema si ripresenta a Fiesole e ancora a Marzabotto. la planimetria allegata mostra un’ipotesi di ricostruzione della struttura geometrica della città. Fig.1: Ipotesi di divisione spaziale urbana di Gonfienti compresa l’Acropoli (CR Mario Preti)
di Loretta Galli C’era una volta una regione misteriosa sul Mar Nero, contornata dalle alte montagne del Caucaso che raggiungono vette fino ai 4000 metri: l’Abcasia. Al disintegrarsi dell’Unione Sovietica gli Abcasi, per paura di essere completamente travolti, dichiararono la repubblica. Le truppe Georgiane occuparono nel 1992 Sukhumi, la capitale, e iniziò una guerra sanguinosa per le due parti che durò un anno. Alla fine dell’anno le truppe russe si insediarono per sostenere questo territorio. Oggi la situazione è stabile ma tutti i ponti tra Georgia e Abcasia sono recisi. L’aeroporto più utilizzato è quello di Soci in Russia. Un territorio bellissimo sul Mar Nero, un tratto di costa scelto a suo tempo come località di villeggiatura preferita dal governo di Stalin e dalla sua corte. La ricca vegetazione subtropicale di una bellezza struggente era lo scenario preferito ed amato dai grossi papaveri del KGB che avevano qui il loro paradiso. Per chi è appassionato di geopolitica e vuole vedere come vivono gli stati non riconosciuti è una meta interessantissima. L’Italia la riconosce come enclave contesa ma dentro il territorio della Georgia. Per Russia, Venezuela ed altri piccoli stati del Sud Pacifico è invece uno stato indipendente. Devo la conoscenza dell’Abcasia ad una ex studentessa di Rondine Cittadella della Pace di Arezzo, Asta Gablia, attiva nella promozione del suo paese sulla scorta anche del suo percorso di pace. La crescita e la stabilità del suo paese dipendono anche dalla possibilità di aprirsi ai flussi turistici. L’Abcasia non accetta di essere etichettata come “paese che non esiste” ma come paese non riconosciuto da un punto di vista diplomatico internazionale. Questa è la precisazione cortese ma ferma di Asta. Secondo Asta il paese, seppur piccolo, ha grosse potenzialità sotto l’aspetto turistico (attualmente i turisti sono quasi esclusivamente Russi) e anche l’agricoltura (tabacco, nocciole, agrumi, vino) sono voci importanti. A proposito di vino, furono i Romani a lasciare il segno nel primo secolo dopo Cristo ed il vino, nelle varietà bianco e rosso, viene tuttora messo a fermentare in anfore di terracotta. In attesa di essere conosciuto sempre maggiormente sul mercato internazionale attraverso fiere e manifestazioni. Chiedo a Asta se è pesante vivere con un senso di incertezza, come se si fosse in bilico. Mi risponde che la gente ha voglia
Asta, ragazza dell’Abcasia
di vivere in Abcasia. La qualità della vita, dell’aria, del cibo sono ragioni sufficienti. Usa la parola “nutrienti” per i rapporti interpersonali e mi piace molto questa definizione. Anche la longevità della popolazione ha il suo primato in queste zone. Chiedo se è ipotizzabile pensare all’Abcasia come futuro buen retiro dei pensionati italiani invece di scegliere altre mete come Portogallo, Spagna, Bulgaria. Perché no, mi risponde, il luogo è amabile e accogliente. Bisogna tenere presente tuttavia che non c’è ancora una legge che consenta di vendere la terra agli stranieri. Un aspetto che mi colpisce è che la curatissima pagina Facebook “Camera di Commercio e dell’Industria della Repubblica Abcasa“ è gestita prevalentemente al femminile. Insomma, in tempi in cui i non assetti politici sconquassano le non certezze di alcune ideologie, un futuro nelle zone una volta chiamate “la Malibu di Lenin” sarebbe una soluzione sulla quale riflettere.
13 31 MARZO 2018
di Anna Lanzetta I bisbigli sulle cime diventavano striduli. Il piccolo uccello dal ramo gioiva nel vedere la mamma intenta a cercare. Lei avanzava con grazia nel fresco del mattino verso i piccoli garofani gialli e ne pregustava la prelibatezza mentre lui ne seguiva cauto la scia. Le corolle si aprivano lentamente come per magia e al primo raggio si chiudevano le belle di notte iridate. Lei, assiepata sotto una fresca foglia di fico, ne spiava l’arrivo, mentre lui, timoroso, si poneva ai margini. Doveva o non doveva? Sarà un giorno mia? E il dilemma lo struggeva!. Bisbigli frenetici, mutati in striduli, annunciavano il nuovo giorno. Furtiva
l’ape si insediava e la primavera del giorno iniziava:i tulipani salutavano galanti le pervinche, i dolci anemoni si univano alle giunchiglie, le tenere mammole ricoprivano la terra di fitti strati, le calendule strizzavano l’occhio agli iris, le margheritine bianche facevano da manto alle laboriose formiche e un gorgheggio rimbalzava da cima in cima. La chiocciola avanzava accanto al lumacone, tra una schiera di bruchi e millepiedi. I fiori occhieggiavano lieti e le pansè intrecciavano i teneri steli. Le rose si piegavano timide ai garofani rossi e i bianchi screziati facevano capolino. Egli si avvicinò con fare timido. La chiocciola lo guardò a lungo e restò pensierosa. – Non ha il guscio elegante come il mio, ma i suoi occhi sono buoni. Che im-
14 31 MARZO 2018
Storia di una chiocciola e di un lumacone
Illustrazione di Leonardo Vitiello
porta, pensò, se la nostra forma è diversa, sento che i nostri cuori non lo sono-. Tirò fuori completamente la testa dal guscio ed egli trattenne il respiro. Era bellissima!. Lo guardò con tenerezza ed entrambi sentirono che un tam tam irrefrenabile li univa. Avanzarono felici verso un ciuffo d’erba freschissimo, un’alcova per due. Che felicità è l’amore!. Quel sentimento che inebria i cuori e dona la vita per la continuità del mondo. Nessuna differenza li avrebbe più divisi ora che nell’unione avevano sentito di essere un solo elemento nella speranza di una
nuova vita. Tutto il giardino esultava felice. Un’orchestra di insetti allietava il giardino e su tutti si levava la musica del flauto tenuto da piccolissime mani, mentre la viola strimpellava nelle braccine della cicala e un pianoforte di anemoni spandeva intorno la melodia dei due cuori. (Tratto da: Armonie di un giardino toscano. Racconti, arte, mito e fantasia, Regione Toscana Consiglio Regionale, Edizioni dell’Assemblea, 2017. Il testo integrale è a disposizione dei lettori nel sito della Regione Toscana – Pubblicazioni)
di Danilo Cecchi Quella del fotografo è da sempre una figura un poco ambigua e difficile da definire, sia dal punto di vista artistico che professionale, sempre in bilico fra la necessità di soddisfare le richieste del cliente e l’esigenza di esprimere il proprio punto di vista individuale. In questo la sua professione non è troppo dissimile da tutte le altre professioni intellettuali (scrittori, giornalisti, musicisti, architetti, cineasti, pittori ed artisti in genere), in cui permane la contraddizione, spesso insanabile, fra il proprio gusto e la propria visione del mondo e le direttive dettate da un mercato (o da un’industria culturale) che impone un gusto ed una visione di tipo medio, se non di livello infimo. Così molti fotografi sviluppano la loro tecnica e si limitano ad una dignitosa attività di tipo commerciale, mentre pochi altri, non pressati da esigenze materiali, scelgono di vivere liberamente il proprio rapporto con il mondo del visibile e con quello dell’immaginario. In mezzo troviamo un buon numero di fotografi che scelgono di affiancare all’attività commerciale tutta una serie di ricerche personali, utilizzando il proprio tempo libero ed arrivando talvolta alla realizzazione di libri fotografici e ad esporre le proprie opere. Uno di questi fotografi, ad esempio, è il francese Gilles (Gil) Rigoulet, che nasce nel 1955 a Conches in Normandia, ed all’età di vent’anni entra nel mondo della carta stampata come fotografo per “Le Monde”, diventando all’inizio degli anni ’80 il primo fotografo accreditato della prestigiosa testata parigina, con la quale continua a collaborare per più di vent’anni, per aprirsi a collaborazioni con altre testate francesi e straniere. Con “Le Monde” realizza anche nel 1985 lo speciale “Portrait d’un quotidien” insieme ad Henri Cartier-Bresson, nel 1986 Robert Doisneau presenta alcune sue opere su “Photo Magazine”, e Gil viene chiamato a partecipare ad una esposizione collettiva con autori come Josef Koudelka, Marc Riboud, Claude Nori, William Klein, Helmut Newton, Jean Loup Sieff, Jacques-Henri Lartigue, Mary Ellen Mark, Franco Fontana ed altri, sul tema delle piscine. Quello delle piscine pubbliche, spesso affollate ed intese come luogo privilegiato di svago e di incontro, è uno dei temi su cui Gil insiste molto, raccogliendo nel tempo un grande numero di immagini dei corpi distesi al sole o in movimento, fuori o dentro l’acqua, sui bordi o nelle aree circostanti. Molte di queste immagini raffigurano dei dettagli, sono prese da distanza ravvicinata, e trasformano i corpi dei bagnanti in una sorta di sculture o di figure simboliche, dove il taglio ed il colpo d’occhio
Gilles Rigoulet Un coup d’oeil sur la vie
fanno la differenza rispetto alla tradizionale raffigurazione di quel mondo artificiale ed un poco surreale in cui i corpi vengono offerti agli sguardi e si esibiscono in gesti ed evoluzioni altrimenti poco comprensibili. Un altro dei mondi indagati da Gil, appassionato anche di fotografia di strada, praticata fra l’Inghilterra, Napoli, Chicago ed il Quebec, è quello della musica, sia quella rock che il jazz. Fotografa nel 1978 il concerto di Reading, con i diversi personaggi che si radunano, si incontrano e si
scontrano per ascoltare i principali gruppi e cantanti dell’epoca, e nel 1982 segue per alcuni mesi le giornate e le nottate della banda Rockabilly, nostalgici della musica, delle auto e della moda degli anni Cinquanta. Sono lavori che Gil svolge senza progetto e senza committenza, e che, come altri lavori realizzati durante i suoi vagabondaggi per il proprio interesse personale, rimarranno chiusi nei suoi cassetti fino ad essere riscoperti, esposti e pubblicati, spesso dopo più di trent’anni di letargo.
15 31 MARZO 2018
di Andrea Ponsi La Zecca (The Mint)
Ho capito a cosa Walt Disney si è ispirato per disegnare il castello-forziere di Zio Peperone. Proprio all’incrocio tra Market Street e Dolores Street si alza la massa inespugnabile dell’United States Mint, ovvero la Zecca nazionale. Architettura possente, austera, con muri inclinati spessi tre metri, che nascono come in una fortezza da una piattaforma di roccia lasciata volontariamente rozza e sassosa. Qui si conia il tesoro dell’America. A indicare il proprietario e il contenuto c’è solo il nome “Mint” e una bandiera a stelle e strisce sventolante su un pennone. Non c’è, come nel forziere di zio Paperone , la grande “$” sulla facciata. Aquatic Park
Sono tornato ad Aquatic Park dopo anni che non ci venivo. Volevo sedermi come tanti anni fa su quelle gradinate che fanno di questo luogo un piccolo stadio, un teatro all’aperto sereno e rilassante. Mi aspettavo di trovarci, come ogni sabato mattina, la gente a suonare i bonghi, a prendere il sole, a guardare la spiaggia antistante e le barche a vela sulla baia. Una rete di ferro con strisce colorate di plastica blocca l’accesso: “lavori in corso”. Le scale della tribuna sono divelte in attesa di essere sostituite o riparate con nuovo
16 31 MARZO 2018
Mappe di percezione
cemento. Il luogo ha l’aspetto di un chiuso cantiere archeologico. Non si sentono i suoni di chitarre e di tamburi, non fluttuano nell’aria i ritmi “reggae” conditi con aromi di erbe esotiche. Aquatic Park ancora per qualche settimana, o qualche mese, sarà solo una scalinata scardinata, deserta, silenziosa, circondata da una fredda rete metallica. Sausalito
Mi sono fermato sul bordo della strada che costeggia la baia appena fuori Tiburon, prima di entrare nella freeway per San Francisco. E’ mattina presto. C’è nebbia, non quella fitta che non fa vedere a pochi passi,
San Francisco
ma quella che nasconde l’orizzonte. C’è un piccolo prato qui davanti, poi il grigio tremolio dell’acqua che diventa cielo senza una linea di confine. Di là dall’acqua, lo so, ci sono Sausalito e le colline. Ora non percepisco che il grigio denso e umido che nasconde ogni altra cosa. Cosa c’è dietro la nebbia? La nebbia è come il futuro. Cosa ci sarà dopo il presente? Forse le stesse cose, appena un po’ diverse, che già conosciamo. Il tempo scorre e il sole poco alla volta diraderà anche la nebbia e la costa qui davanti apparirà di nuovo. Ma adesso la realtà è solo un manto grigio. Solo le case qui vicino e il mio presente è reale e visibile, solo gli uccelli che saltellano sulla siepe qui davanti sono veri, solo questa mano che scrive è vera. Non so se sarà vero e visibile in seguito anche Sausalito, gli alberi, le barche sulla baia. Non so se quando la nebbia svanirà sarò ancora qui a guardare le colline apparire oltre la baia. O sarò già andato via, verso altri luoghi.
La fortezza dell’Asia di Cristina Pucci Per chi ama il cinema gli appuntamenti fiorentini con le cinematografie internazionali, francese, coreana, cinese, indiana, dei Balcani, filippina, giapponese, tutti in Festival al Teatro della Compagnia, sono molto importanti e graditissimi. Permettono di conoscere opere altrimenti impossibili da reperire ed ampliano infinitamente l’orizzonte filmico possibile. Firenze ha, peraltro e per fortuna, varie realtà che consentono di vedere film oltre la coatta e limitata grande distribuzione, e non è davvero poca cosa, ma i Festival offrono tantissimi film e documentari, rigorosamente in lingua originale con sottotitoli, cosa non gradita a tutti ma...pace, che aprono finestre su mondi e storie altre che ci possono incuriosire, appassionare ed arricchire. Ormai 16 anni fa Riccardo Gelli ebbe l’idea di dare vita ad una rassegna di film provenienti dalla sofisticata cinematografia della Corea del Sud. All’inizio gli spettatori non erano moltissimi, numerose invece le signorine nei bellissimi ed apparentemente ingombranti abiti tradizionali. Si chiama handbok questo abito dagli sgargianti colori, corta giacca su ampia e lunga gonna, utilizzato nella vita quotidiana fino alla fine degli anni Sessanta, ora usato come perfetto abito da cerimonia; la ricchezza del tessuto e i colori offrono precise indicazioni su età e stato sociale di chi lo sfoggia. In questa edizione è previsto poterne indossare uno per farsi una fotoricordo!!!! (“o tempora o mores”!) Oggi il pubblico è numeroso e vivace, in grado di scegliere fra i vari generi e i molti attori e registi, ospiti gradevoli ed entusiasti. Gli horror e i thriller coreani pare siano insuperabili, io non amo soffrire e li evito. Fra i tanti eventi collaterali dell’edizione attuale del Florence Korea Film Fest una mostra di Fotografia, a Villa Bardini. Il film di apertura è sempre imponente, bello, lungo, superpremiato, “The Fortress” di Hwang Dong-hyuk che, presente, risponde alle domande di Caterina Liverani, intervistatrice ufficiale ed esauriente presentatrice delle singole opere. E ancora una volta questi coreani riescono ad acchiappare la nostra
incantata attenzione con una loro storia antica e bellissime e perfezionate immagini. Il film è un kolossal che ricostruisce un episodio accaduto nel 1636 quando l’allora Imperatore si asserragliò, con soldati e corte, in una Fortezza arrampicata su una delle cime di una catena montuosa altissima e freddissima. Tentava, con questo disperato isolamento, di salvare se stesso e il regno dalla invasione dei potentissimi e crudeli Manciù. Ovvio che il tema sia datato, in realtà i colloqui fra l’infelice, elegante e pensieroso Imperatore e i suoi Consiglieri, spesso terribilmente conflittuali fra sè e invidiosi di chi ha un ruolo ministeriale e soprattutto completamente indifferenti alle sorti dei soldati, propone riflessioni del tutto attuali e in Corea e in ogni luogo. Il film, in gran parte girato nella vera antica Fortezza, è ricco di battaglie epiche e sanguinolente, a cavallo e all’arma bianca, in mezzo a boschi imbiancati. La neve copre tutto, fiocca lieve e fitta, suscitandoci un iniziale romantico moto di poetico piacere nel vederla, subito dopo la sua leggerezza ci appare incongrua, inutilmente crudele in questo luogo diaccio e senza speranza, senza fuochi possibili, nè cibo, nè cose per coprirsi. Uno dei Ministri, il più realistico e consapevole, perora fino allo sfinimento la causa della trattativa, la otterrà quando ormai quasi tutti i soldati sono stati uccisi e la fortezza espugnata, altri sciocchi ed ottusi parlano di dignità da salvare e disciplina da tenere a suon di teste mozzate, portano addirittura via ai soldati di guardia i “pagliericci”, stuoie intessute di fieno, con cui alla meno peggio si coprono, per nutrire i cavalli affamati, senza di loro combattere non sarebbe dignitoso... Ovvio che dopo pochi giorni i cavalli verranno uccisi per essere mangiati, essendo finito il cibo. L’Imperatore, dopo la tardiva resa, avrà salva la vita, ma dovrà perdere le vestigia del rango e quella dignità a cui i consiglieri hanno sacrificato tante vite. La musica è di Sakamoto, famosissimo compositore giapponese. Il livido colore azzurognolo degli esterni innevati è fantastico, costumi e psicologie dei ricchi e di alcuni degli altri altrettanto. Riflessioni intorno al potere e alla dialettica da mantenere attualissime.
17 31 MARZO 2018
di Paolo Marini Ti domando: “Tu alloggeresti questa “Coda di cetaceo” in uno dei nostri appartamenti, intendendo per ‘nostri’ quelli che si costruiscono in questo tempo, con i vani poco poco sufficienti ad esigenze di vita quotidiana, case-dormitorio fatte per lavoratori-consumatori e non per uomini a tutto tondo?” Mi rispondi: “Non c’entrerebbe! Ma io neppure in una ariosa casa degli anni ‘70 - con il soffitto che arriva a tre metri, la sala grande per ricevere gli amici e due ampie terrazze dove tenere la cuccia del cane e il tavolo da ping-pong - sistemerei quel coso.” Quel ‘coso’ - come tu lo chiami - è un’opera d’arte. L’autore è un artista stimato, prematuramente scomparso: Pino Pascali (Bari 1935Roma 1968). Materialmente la Coda è una tela centinata dipinta di nero su un’anima di legno. Le dimensioni (cm. 225 x 100 x 100) sono perentorie; l’opera, destinata a spazi altri rispetto al privato quotidiano. L’unico modo per possederla sarebbe disporre di un hangar o di un loft, di una “Factory” come il mitico Andy Warhol. La Coda si può ammirare nella sala n. 4 di “Nascita di una nazione” - mostra inaugurata da poche settimane a Palazzo Strozzi e aperta fino al prossimo 22 luglio - che è intestata al “metafisico quotidiano: i nuovi simboli”. Dunque, opera d’arte e per di più (detta) metafisica. Il mammifero acquatico è a testa all’ingiù, la testa e buona parte del corpo si immaginano immersi. O forse è tutto l’animale immerso, senonché l’artista ha deciso di occuparsi della sola coda? Se è metafisica, ti domandi: “Che vuol dire?” Io mi appassiono al discettare sull’arte, al giocare liberamente con essa. E il gioco - quanto alla Coda - comincia con il trasformare l’attributo ‘metafisico’, scomponendolo in ‘meta’ e ‘fisico’ e ipotizzando che il primo termine possa ricondursi al sostantivo ‘metà’’ piuttosto che al prefisso ‘meta’. Metà-fisico significherebbe che l’altra metà non ha sostanza materiale, percettibile; è nascosta. E la parte visibile è pur sempre qualcosa di incompiuto, di palesemente inadatto a soddisfare una pretesa di compiutezza. Tanto vero che a giudicare dalla coda e dalla pinna caudale, (salvo forse essere uno zoologo) non si saprebbe neppure a quale cetaceo associare il manufatto: a una balenottera, a un capodoglio, a un’orca (dato il colore nero)? Posso dunque azzardare che la rinuncia a completare l’animale voglia alludere ad una realtà più profonda, ad una sorta di essere o di sostanza dello stesso, che resta ignota, sconosciuta
18 31 MARZO 2018
Giocando con la coda di cetaceo all’uomo. Questa inaccessibilità è peraltro la cifra dell’intero mondo naturale, dall’universo al cervello umano. La pretesa dell’animale più evoluto si ferma di fronte ad un confine, mobile nel tempo e al tempo stesso incancellabile. Resta da domandarsi: perché scegliere un cetaceo per rappresentare il frammento? La risposta è dentro la domanda: il cetaceo è il soggetto immediato, a supporto della rappresentazione di quello autentico, che è il frammento stesso. Dunque, la domanda corretta è: perché non un cetaceo? La libertà dell’artista esclude l’utilità di ulteriori indagini sulle motivazioni (forse nemmeno lui sapeva perché aveva scelto un cetaceo) ai fini della lettura dell’opera. La Coda di Pascali è una installazione: realizzazione (proprio nel senso di trasformazione in res) di un linguaggio nuovo, tipico dell’arte moderna e contemporanea. La sua novità è anche data dai materiali utilizzati, anche o per lo più vili. Un nuovo modo di fare scultura, lontano
dalla tradizione. Come ci conferma Angela Vettese (“Si fa con tutto”, Laterza, 2010) “la scultura che si afferma con questi materiali (…) descrive (...) una temporalità finita, (…) fatta di pezzi e di frammenti”. E, per dirlo con le parole di Massimiliano Gioni (in “Post monument”, a cura di Fabio Cavallucci, catalogo della Biennale di Carrara, Silvana, 2010), l’installazione “è una forma di scultura esplosa, ciclopica nelle dimensioni e frattale”. Anche se la Coda non entrerà nelle nostre case, può insistere nei recessi dell’anima, esservi custodita e un po’ anche amata, non già per la sua (del resto insussistente) bellezza, né per la sua ideale novità (la cultura del frammento è una costante dell’arte del nostro tempo), bensì per la forma peculiare con cui ci ricorda il senso del limite e dell’ignoto. Questione di cautela esistenziale ed epistemologica, insomma, e di antidoti contro il delirio di onnipotenza.
Oman
Il deserto rosso
di Andrea Caneschi Il viaggio verso il deserto ha un che di frettoloso: dobbiamo arrivare in tempo per il tramonto, il momento topico che l’agenzia ha promesso di farci apprezzare. Da Sur proseguiamo verso sud ovest lungo una strada asfaltata, ben tenuta, che attraversa pochi villaggi di case sparse. Ci fermiamo ad un distributore di benzina ai margini di un villaggio e ci trasferiamo su potenti fuoristrada guidati da veri beduini, che hanno evidentemente lasciato i dromedari a casa. Con quelli ci inoltreremo nel Ramiat ahl Wahibah, il deserto di sabbia che si estende per quasi duecento chilometri lungo la costa omanita. Lo avvistiamo da lontano, per lo splendido colore rosso ramato delle dune che si alzano sul nostro orizzonte, mentre la pista che abbiamo imboccato, all’inizio pietrosa e biancastra, si fa più soffice sotto le ruote del fuoristrada che avanza ormai sollevando la fine sabbia rossa del deserto. A destra e a sinistra le dune si fanno sempre più alte e scoscese; rari cespugli disordinati interrompono con macchie di verde e ramaglia secca l’uniformità rossastra che stiamo attraversando. Il cielo comincia ad assumere gli stessi colori, ora che il sole si avvia al tramonto. Una decina di chilometri più avanti arriviamo al campo tendato che, pur nella smaccata complicità con le romantiche aspettative dei viaggiatori di un deserto cinematografico, ha tuttavia uno spessore di realtà molto rassicu-
rante: possiamo ben sperare per la cena e il riposo notturno. Intanto però scendiamo eccitati, siamo in mezzo al deserto, in una vallata che ospita il campo e lungo la quale corre la pista, che prosegue ancora avanti, verso un altro campo o un villaggio di beduini, forse fino all’altra estremità delle sabbie. Accanto alla pista una piccola mandria di dromedari ci ricorda che anche se sostituiti dai modernissimi e comodi fuoristrada, sono ancora una risorsa per la gente del deserto e rappresentano comunque un passato a cui gli omaniti guardano con rispetto. Intorno a noi dune altissime e scoscese, cinquanta, sessanta metri, probabilmente di più, con le morbide forme generate dal vento che sembrano eternamente posate. Su alcune, le più alte e le più scoscese, notiamo le tracce di qualche temerario che si è avventurato con il fuoristrada fin lassù. Commentiamo ammirati, mentre ci esortano a risalire sui mezzi per non perdere il tramonto sul deserto. Usciamo così dalla pista e ci avventuriamo lungo un percorso in quota; scavalcando una duna dopo l’altra, sperimentiamo la vastità del deserto, sempre diverso ma sempre uguale a se stesso, dopo una cresta altre dune, un mare di dune di questa sabbia rossastra, fine, nella quale il piede deve affondare prima di trovare la resistenza necessaria per il passo successivo. Riesce facile immaginare la disperazione del muoversi senza risorse in questo mare di sabbia dove le direzioni si confon-
dono presto e i riferimenti si perdono in un attimo. Il sole è ormai basso sull’orizzonte, abbiamo giusto il tempo di scendere l’ultima duna, con i fuoristrada che le guide lanciano sulle pendenze più estreme tagliando in obliquo fino a farci sentire a rischio di ribaltamento. Poi risaliamo sulle creste che avevamo visto all’arrivo sovrastare il campo e ci rendiamo conto con un fondo di preoccupazione di come saranno presto tracciate altre scie accanto a quelle che avevamo ammirato poco prima dal basso. Soffia un refolo di vento, sufficiente a sollevare la sabbia sulla cresta delle dune filtrando i raggi del sole che fanno risaltare di ombre morbide e rossastre la distesa sterminata del deserto. Restiamo muti, seduti sulla sabbia sul crinale più alto, a guardare l’orizzonte, affascinati. Accanto a noi le guide beduine siedono silenziose e partecipi, non sappiamo se per dovere d’ufficio o condividendo le nostre stesse emozioni, di fronte allo spettacolo eternamente replicato. In basso, nel campo, le luci si sono accese, il sole è ormai nascosto dietro l’orizzonte. Scendiamo a piedi per un riflesso di prudenza, giocando un po’ a fare i giovanotti, proiettati all’indietro per contrastare la pendenza, affondando con i calcagni per trovare l’appoggio, mentre il fuoristrada che abbiamo rifiutato ci supera, precipitandosi verso la valle in un grande spolverio di sabbia, privandoci dell’ultima emozione da fuoripista estremo. Ma non ce ne lamenteremo.
19 31 MARZO 2018
I pensieri di
Capino
Coalizione Caterpillar
Qui, si narra di una prima “larga intesa” che, se dovesse produrre effetti a catena rispetto al primo per il cui fine si è aggregata, ci sarebbe in questa Città da lavorare per imprese di demolizione, con grossi rischi per il patrimonio di Cultura che quella “dispensa a cielo aperto” che è Firenze, offre generosamente a chi si ciba non di solo pane. Ebbene, il 19 marzo scorso, ad un paio di settimane dalla conta dei voti espressi dal Popolo sovrano, in un Vecchio Palazzo di Firenze, si è riunito il Gran Consiglio. Lì (come è scritto negli Atti ufficiali), “alle ore 14.46”, la quasi unanimità dei presenti si è espressa a favore della proposta di invitare il Sindaco (che, nell’occasione, era in altre faccende affaccendato) “a farsi promotore presso le autorità competenti della richiesta di riprendere possesso dell’immobile di via Villamagna occupato dal CPA”.
A cura di Aldo Frangioni Anche quest’anno una delle manifestazioni più importanti del Libro d’Artista sta per arrivare a “sconvolgere” la sensibilità di chi ama l’arte in tutte le sue declinazioni. Sarà infatti inaugurata a Firenze il prossimo 5 aprile alle ore 16.30 nella splendida cornice del Palazzo Medici Riccardi la nuova edizione della kermesse artistica, che dal 2005 è stata promossa e organizzata dallo Studio Giambo nelle città di Firenze e Pontremoli. Quest’anno però, visto il successo degli anni precedenti, il percorso della mostra, che giustamente è stata intitolata Toscana Tour 2018, si fa più ampio coinvolgendo altre città che in cornici d’eccezione ospiteranno i cinquantanove artisti provenienti da tutto il mondo con i loro settantatre libri: le Officine Garibaldi di Pisa, il Battistero del Duomo di Carrara, il settecentesco Palazzo Dosi Magnavacca di Pontremoli, per poi terminare nel mese di settembre nel Palazzo Pretorio di Pontedera. Un viaggio tra arte, cultura e storia in cui i Libri d’Artista con il loro unico e vitale percorso di ricerca di tecniche, ma-
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Nell’accogliere questo invito, promosso dai banchini di destra, risulta che si sia, come per incanto, formata una “Grande Coalizione”. Ben 22 Consiglieri di varia estrazione hanno considerato che fosse giunto il momento di “presentare il conto” a chi occupa la ex Scuola per l’offesa arrecata da una ex terrorista, in quell’immobile di proprietà del Comune, alle vittime proprio la sera di quello stesso giorno in cui si celebrava l’anniversario della strage di via Fani. Fino a qui i fatti. In considerazione della vetustà della struttura, ci sarà da scommettere che (una volta convinti, spontaneamente o spintoneamente, gli occupanti a lasciare l’immobile) essa venga abbattuta, con le cautele connesse al rischio di polverizzazione dell’amianto. Ma qual è il vero rischio (ancora maggiore di quelli che potrebbero derivare dalle reazioni agli “spintoni”)? Il timore è che, a un qualche appassionato di storia cittadina, e non solo, proseguendo su questa strada, possa venire in mente, ad
esempio, di rifare il look alla Piazza antistante il Liceo “Dante”, ove l’allora aspirante Sindaco di Firenze (giusto 10 anni fa) pronunciò il suo primo “comizio” e che, magari, nel fervore di far dimenticare quel toponimo che allora sembrò benaugurale (Piazza della Vittoria), non si pensi di ribattezzarla “Piazza 4 Dicembre e 4 Marzo”. Per non parlare di un rischio ancora maggiore, che ho perfino paura ad esprimere. Vogliamo escludere che, stavolta dai banchini di sinistra di quel Gran Consiglio, qualcuno non ricordi che il 9 maggio prossimo (oltre ad essere una data legata, ancora una volta, a quella azione terroristica iniziata il 16 marzo di 40 anni fa), è l’ottantesimo anniversario della visita di Hitler a Firenze? Perché non proporre di invitare il Sindaco, cercando le necessarie intese, per la demolizione del Corridoio Vasariano, che fu percorso in quel 9 maggio 1938 dal summenzionato, accanto all’ex Socialista, nato a Predappio? Speriamo che non venga in mente a nessuno.
Libri d’artista a Medici Riccardi
teriali, forme e colori saranno i protagonisti e il fulcro di un’esperienza emotiva e sensoriale. E’ interessante notare come questa forma di arte, fino a non molti anni fa, era conosciuta da una ristretta élite di collezionisti e amanti del genere. Ma oggi, sempre di più, la carica comunicativa di questi libro-oggetto che oltre al contenuto, cioè quello che si vuole raccontare, racchiudono l’equilibrio tra progettazione e libertà espressiva sono sempre più apprezzati al pari di altre grandi produzioni artistiche. Per questo motivo una manifestazione come Toscana Tour ideata da Silvia Fossati, coadiuvata da Giovanna Sparapani, Marcello Paoli, Eugenio Donadel e Alfredo Bertolini, diventa un evento particolarmente interessante e unico anche perché vede riuniti artisti di fama con allievi delle Accademie di Belle Arti di Brera, Milano e Carrara. Una collaborazione interessante e proficua, in un’unione di intenti, passioni, inclinazioni che produce risultati inattesi. Un’esperienza estetica da non perdere.
Alla mia terra disperata di Resmi Al Hafaji L’Istitut des culteres de l’Islam di Parigi propone le opere di 17 artisti dei paesi islamici. Fra questi anch’io ho l’onore di presentare alcune mie opere come omaggio ad un terra, l’Iraq devastata da decenni di guerre. Uno dei miei acquarelli si ispira al re babilonese Hammurabi , che regnò dal 1792 a.C. al 1750 a.C., inventore del codice che porta il suo nome, secondo la cronologia media. Le disposizioni di legge contenute nel Codice sono precedute da un prologo nel quale il sovrano si presenta come rispettoso della divinità, distruttore degli empi e portatore di pace e di giustizia. Oggi nella terra dove è nato e vissuto Hammurabi regna la guerra e la corruzione in nome della religione. Il mio lavoro vuole essere un promemoria di quella civiltà molto più evoluta rispetto ad oggi.
Foto di
Pasquale Comegna
Corpi di marmo Roma Stadio dei marmi 21 31 MARZO 2018
di Francesco Gurrieri Il collezionismo e il mecenatismo sono sempre stati presenti sulle rive del Bisenzio, da Francesco di Marco Datini (1335- 1410) a Enrico Pecci (Fondatore del Centro Internazionale per l’Arte Contemporanea), a Loriano Bertini, a Giuliano Gori. Ma il profilo del Palli è un po’ diverso e lo si percepisce. Pecci, Bertini, Gori, avevano la loro attività produttiva, magari avevano opere d’arte negli uffici delle loro industrie ma i veri quadri, le vere opere le avevano nelle loro residenze, a precostituire o a costituire, di fatto, già dei musei. Per il Palli no: il Palli conserva migliaia di opere – e decine e decine per ciascun artista – in un “capannone” - dove, come in un’ordinata libreria, i quadri sono conservati per autore. Eppure anche il Palli è cresciuto a Prato, conoscendo la stagione d’oro di questa operosa città, quando nel tessile si lavorava ventiquattr’ore su ventiquattro, in tre turni, con i selfacting che preparavano il “cardato” e i telai Crompton che battevano quasi cento colpi al minuto, quando i subbi d’ordito o le “pezze” che uscivano dalle tessiture e andavano verso le rifinizioni costituivano gran parte del traffico fra gli stabilimenti a ricostituire il “ciclo di produzione”. Questa è l’aria che Carlo Palli ha respirato nella sua giovinezza e su questa è maturato il suo interesse per l’arte. Da qui il “contenitore” della sua collezione: il capannone. E’ impressionante entrare nel suo “capannone d’arte” di Capalle, non esiste l’eguale al mondo; forse la tipologia più vicina è quella dei “depositi” degli Uffizi, dove i quadri riposano seminascosti in rastrelliere mobili; ma qui no, qui, le odiverse opere dello stesso autore sono contigue e abbastanza visibili tutte. Questa situazione ne fa una tipologia a parte: un Depomuseo, un po’ deposito e un po’ museo! O se volete, un Archimuseo, un po’ archivio e un po’ museo. Il Palli, sapientemente e astutamente, con intelligenza, ha conservato ogni cosa di ciascun artista, così da poter ri-costruire processi critici e filologici altrimenti impossibili al più consumato dei critici. E’ fiero (come tutti i veri pratesi) del suo lavoro, della sua ‘autocostruzione’ culturale, traversando il mercato dell’arte, anzi il “sistema dell’arte”, prima rilevando la Galleria Metastasio del Monzali, poi lavorando coi Farsetti, da Finarte, poi in proprio per le varie fiere d’arte per il mondo. Ora, nel Depomuseo di Capalle, si conservano preziose testimonianze dei più importanti movimenti d’avanguardia, Fluxus, Poesia Visiva, Arte Povera, Pop, Scuola di Pistoia (Barni, Buscioni, Ruffi, Natalini), Transavanguardia, Azionismo, Graffitismo e altro ancora. L’irrefrenabile
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Carlo Palli, un singolare collezionista pratese del XXI secolo e il suo “archimuseo” Palli occupa così un suo personalissimo posto nel ‘sistema dell’arte’, e per la sua peculiarità, è come la “Settimana Enigmistica”, non teme i tantissimi tentativi di imitazione, perché sa che è ormai impossibile a chiunque raccogliere altrettante opere e altrettanti movimenti artistici. Ma l’Irrefrenabile ha anche un altro importante merito, quello del globe-trotter, organizzatore infaticabile di eventi e di visite artistiche
organizzate. La sua agenda è fittissima e come i più fortunati ottuagenari – uno per tutti Ippolito Nievo, con le sue Confessioni – organizza e trascina, configurandosi anche come “promotore culturale”. La mostra delle sue “Vitamine” sta girando inarrestabilmente il mondo, mentre si è appena aperta quella sul bravissimo Umberto Buscioni, con la sua delicatissima poetica pittura, ai Cappuccini di Prato.
La redazione di Cultura Commestibile Mercoledì prossimo Carlo Palli compie 80 anni. Carlo è un nostro carissimo amico fin dalla nascita di Cultura Commestibile come inserto settimanale del Nuovo Corriere di Firenze. Carlo ci ha sempre seguito, sostenuto ed è, forse, l’unica persona, che possiede i 256 numeri della rivista on line in formato cartaceo. Siamo felici di essere collezionati da uno dei più importanti collezionisti di arte contemporanea. Nel suo Hangarmuseo (un capannone industriale anni 60 fra Prato e Capalle) possiede 1520.000 opere che ogni giorno aumentano. Famoso per possedere la più completa raccolta di opere di Poesia visiva, del movimento Fluxus e della Scuola di Pistoia (Barni, Ruffi, Buscioni, Natalini), per aver donato molte sue opere al Museo Pecci e permesso di allestire due sale del Museo Novecento di Firenze. Tutto questo, oltre alla sua lunga attività con la Finarte sono meriti conosciuti da tutto il mondo dell’arte. Una biografia di Lucilla Saccà del 2013 racconta la vita e la collezione di Palli. Insieme ai molti auguri, scritti o graficizzati, che pubblichiamo in questo numero tutta la redazione di Cuco lo abbraccia con smisurata simpatia. Senza retorica si può di che Palli e innanzitutto un “grande pratese”. Sarebbe piaciuto sicuramente a Curzio Malaparte, per la sua intraprendenza continua per il suo osare perenne che non si è mai interrotto e con-
Tanti auguri, Carlo
tinua ogni giorno. Perché Carlo possiede la sensibilità, la generosità ma anche l’intuizione che lo ha fatto essere un uomo di profonda cultura artistica e insieme di autentica semplicità, antisnob, profondamente ironico e dissacratore. Egli assomma le caratteristiche tipiche del collezionista, non esente, ben per lui e per tutti noi da un po’ di necessaria bulimia nel raccogliere, “ le serie” di un periodo particolare di un artista, di un movimento, la ricerca continua per completare il suo archivio di riviste d’arte: patrimonio unico. Visitare il suo Hangarmuseo è un piacere indescrivibile, non solo per vedere le opere contenute ma per parlare, meglio ancora far parlare Carlo, della sua vita dei rapporti con gli artisti, delle loro grandezze ma anche delle loro miserie e di tante altre cose, non escluso il suo passato di ottimo tennista.
Compleanno Palli 4 aprile 2018 80 anni Per noi rimane un perenne trentenne dall’aspetto maturo. I Luciani
A Carlo Palli, insigne collezionista, uomo di cultura e di grande umanità vanno i miei più sentiti auguri per i suoi anni, portati splendidamente. Vorrei che finalmente tutto il mondo della cultura e dell’arte, a livello globale, dedicasse una sempre maggiore attenzione a quest’uomo, umile negli atteggiamenti, ma portatore nel cuore di un grande mecenatismo pari, per certi versi, a quello di uomini e di donne che hanno fatto parte del nostro illustre passato. Un fraterno abbraccio. Carlo Maltese
Tanti auguri Carlo,grandissimo manager/collezionista di Arte contemporanea. Jakob De Chirico
Un affettuoso ferroviario augurio per Carlo Capo Stazione Sovrintendente dell’ARCHIVIO PALLI STATION... I Santini Del Prete
Carlo Palli, visionario per l’arte come Steve Jobs per l’informatica, saper guardare nelle vibrazioni di un opera , nelle sue tendenze oniriche ma con la competenza e il pragmatismo dato dall’esperienza. Carlo é una persona che da un opportunità a tutti al di là dell’abito. Carlo fondamentalmente é una brava persona e un caro Amico . Il Bottega Il tempo passa inesorabile, ma il tuo spirito è sempre giovane e forte come un rinoceronte. I miei migliori Auguri di buon compleanno! Tamara Donati
Ho un bellissimo ricordo quando Carlo mi ha fatto vedere la sua incredibile collezione d’arte e ha scattato all’ improvviso una mia foto, poi ho visto che raccoglie foto e ricordi di tutte le persone che conosce, molto interessante anche vedere tutte quelle fotografie di momenti e persone nella sua vita. Fernanda Hernandez Carlo Palli lo squalo più simpatico conosciuto in vita. Aldo Ricci
I miei più vivi auguri a Carlo per una lunga vita piena di interessi, curiosità, novità e arte, da parte di una persona che, a 83 anni, crede nell’importanza di questi valori. Maria Gloria Conti Bicocchi
Andrea Chiarantini
Augurissimi al grande Carlo Palli Massimo Podestà
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Amico mio … se sei da solo … io sarò la tua ombra … se vuoi piangere, sarò la tua spalla; se desideri un abbraccio, sarò il tuo cuscino; se hai bisogno di essere felice, io sarò il tuo sorriso; ma in qualsiasi momento avrai bisogno di un amico, mi limiterò ad essere me stesso Auguroni di buon compleanno carissimo CARLO MONO (Andrea Cioni)
Berty Skuber
Collezionista Assolutamente Rivoluzionario Leggendario Ottantenne Prato Ama Lasciare Libero Intellettualmente Vittore Baroni
Antonia Valle
Ottanta tondi tondi per te e...per me tra 20 giorni. Siamo sempre giovani. Carissimo Carlo, la
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memoria mi porta ai banchi di scuola, ma ancora più’ forte a questi ultimi anni perché’ sei un amico ritrovato, dopo che abbiamo passato tre quarti della nostra esistenza in mondi diversi. La tua smisurata cultura affascina, ma per me c’è’ molto di più’. Carlo, ti abbraccio ed insieme a me ti abbraccia tutta la mia famiglia, che so a te molto cara, come caro sei te per loro. Franco Mantellassi
Carlo vorra’ continuare a onorarmi della sua frequentazione. Viva gli anni Ottanta (di Carlo Palli)!! Dino Castrovilli A Carlo il mio augurio più affettuoso Stefania Stefanelli
Fabrizio Garghetti
dalle foto che ogni tanto vedo, mi pare enorme e ordinatissima. Bisognerà che per i suoi ottant’anni (e per i settanta miei) mi decida una buona volta ad andare a trovarlo, magari con un pensiero per lui e qualche idea. Andrea Granchi
Con Carlo Palli ci conosciamo almeno da quarant’anni o forse anche di più, perché la memoria con lui corre davvero lontano. Quando avveniva qualche evento di arte contemporanea di sicuro interesse era sempre presente, difficile che mancasse, ma non era solo un testimone, era un archivio vivente, raccoglieva immagini, documenti, scattava lui stesso le fotografie tempo fa me ne ha inviate alcune su di me, molto belle, prese ad una inaugurazione al Pecci e che avevo dimenticato. Con gli anni è divenuto probabilmente il principale referente e collezionista delle neoavanguardie in Toscana che nessun altro, con la tenacia e la perseveranza di lui, ha seguito nei tempi, nelle produzioni e nei singoli autori. Per molti movimenti significativi ormai il sicuro riferimento è indiscutibilmente, perentoriamente, e senza rivali, la figura di Carlo Palli.Varie sono le circostanze in cui ci siamo incrociati. Ricordo nel 1999 alla mia antologica all’Accademia delle Arti del Disegno lo volli visitatore “a porte chiuse”, perché mi premeva il suo pensiero e qualche suo progetto, ma poi, tempus fugit, non siamo ancora mai riusciti a concretizzare qualcosa assieme. Più di recente è stato perentorio: per il ciclo itinerante legato al suo vivace progetto “Vitamine” è venuto da me e mi ha detto: “… qui ti ci voglio, non puoi non esserci …” e così è stato. Rimangono ancora in sospeso varie cose tra me e Carlo Palli, qualche mio pezzo significativo assente ancora nel suo repertorio e, di sicuro, una mia visita, che gli ho promesso da tempo e non ancora avvenuta, alla sua, ormai leggendaria, collezione, che
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caroCarloatecheseiperlarteinnamoratogalleristaconoscitorepionierebattitoreaffabulatorecriticofotografotestimoneappassionatoespertoscopritoreditalentieditorecollezionistaattentomecenateottantenneinsplendidaformaauguriconlastimaelamiciziadisemprepaologori Paolo Gori
Fernando Montagner
Carissimo CARLO , quanti ricordi in questi 50 anni. La nostra amicizia professionale e personale è stata un percorso della nostra VITA. Santo Ficara Ho potuto conoscere direttamente Carlo Palli solo due-tre anni fa ed e’ stata,almeno da parte mia, ammirazione a prima vista. Non solo per la sua splendida e immensa collezione (nel magico capannone ho trovato molti dei mie miti,tra cui la produzione di Gianni Sassi e il materiale relativo agli Area) ma soprattutto per la sua umanita’, il suo calore e la sua straordinaria capacita’ di affabulazione: nel mio piccolo/ grande vissuto ho conosciuto molti “personaggi” ma pochissimi con il potere “incantatorio” di Carlo: che parli di arte (Carlo ha reso l’ arte... commestibile!) o di qualsiasi altra cosa,starlo ad ascoltare e’ uno dei piaceri piu’ sublimi che abbia provato e che spero di provare ancora, se
Ho incontrato Carlo Palli più volte, sempre alle inaugurazioni di mostre, specialmente di libri d’artista, a conferenze, a Milano, Firenze, perfino a Lucca. Non ero in grado di farlo venire nel mio studio, non ne aveva mai il tempo, nelle sue non infrequenti visite a Milano, e adesso, con la scusa degli ottant’anni, che dichiarava con molto anticipo, diceva di fare fatica a muoversi, ma non lo credo, perché la sua energia non mi è parsa in via di esaurimento. Sono andata io da lui, a Prato, dove mi ha dedicato l’intera giornata, onore che di sicuro, così mi ha dichiarato accogliendomi, non concede quasi a nessuno. Quella giornata è stata bellissima, è venuto a prendermi alla stazione, e subito siamo andati nel suo hangar, un posto incredibile, enorme, pieno di opere, apparentemente accatastate, ma forse c’è un ordine? L’hangar, è abbastanza rustico, dal suo calore, eravamo in estate, ci si riparava strano chiusi in un ufficetto, in un vai e vieni di decisioni relative alla temperatura, da regolare. Lì ci siamo seduti uno di fronte all’altro. Palli mi ha detto che prima avrebbe parlato lui, e dopo io. La cosa mi divertiva, e dopo un paio d’ore di interessanti informazioni, abbiamo fatto un giro nell’hangar, alla ricerca di un mio lavoro di grandi dimensioni, che Palli mi diceva sempre di possedere, ma che non sapeva bene dove fosse, in mezzo a quella quantità impressionante di quadri libri, sculture, ceramiche. Tra quei corridoi, dove in realtà lui, Carlo, sa muoversi meglio di quanto non faccia credere, io ho in poco tempo ritrovato il mio dittico, il mio nome era scritto sulla costa dell’imballaggio, lo abbiamo tirato fuori e finalmente guardato. Era stato esposto a Milano, negli anni ’90, presso la Galleria Bianca Pilat. Un teschio enorme, e una figura geometrica, che pare attraversata da una scossa. In seguito l’opera era stata acquistata da un importante collezionista
insieme d altre, ma quella era stata rivenduta, per finire nella collezione di Palli. Ero contenta che il suo attuale proprietario finalmente si mettesse un momento tranquillo, e si lasciasse emozionare dall’opera, che si compone anche di un indispensabile cubo di granito che con un complesso ragionamento, si connette alla figura geometrica. Il cubo, quello non lo troveremo… diceva Palli passeggiando nei corridoi, chissà dove è finito… ma possiamo sempre rifarlo, oppure no? Certo che si può rifare, un cubo di granito. L’ho trovato io, posato a terra, era l’unico cubetto in tutto l’hangar, ed era il mio. Mentre cercavamo, sono stati gli unico momento di silenzio, perché Palli è un affabulatore nato.Fino ad allora, aveva parlato soltanto lui, e nel pomeriggio sarebbe toccata a me, se avessi avuto la forza di reclamare il mio diritto alla parola. Ma il fatto è che parlavamo, lui prima e io dopo, delle stesse cose, dell’arte, di come la si crea, di come la si colleziona, di come i vari movimenti si sono avvicendati in pochi anni, nelle avanguardie del ‘900. E si parlava dei libri d’artista, che lui colleziona, e che io creo, ed in passato ho anche creato per altri artisti, quando facevo l’editore di edizioni a tiratura limitata, alcune delle quali Palli ha nella sua collezione. E mano a mano che ci parlavamo, sentivo il suo interesse per quello che gli dicevo, farsi strada, e permettergli di ascoltarmi. Venute le 14, si è ricordato di portarmi a pranzo, la trattoria nella piazza principale di Prato, sotto ai portici, era un po’ come una seconda casa per Palli, e all’ombra, abbiamo mangiato pietanze buonissime, non senza le numerose interferenze simpatiche di amici e ammiratori del Carlo Palli, che non solo a Prato, ma anche a Prato, è conosciutissimo. Lì ho potuto parlare, chiedendogli come avesse cominciato a collezionare. Mi ha così raccontato dei tempi in cui aveva una galleria per vendere un po’ di tutto, in una cittadina termale, fornendo opere di ogni genere, ma in quegli anni circolavano bellissimi nomi, e bei quadri, tutti già incorniciati, pronti da essere appesi nei salotti della borghesia che si stava arricchendo, dopo la guerra. Bellissime quelle storie, mi pareva di stare al cinema, dentro ad uno di quei film in bianco e nero che raccontano la cronaca italiana del dopoguerra, così
Gabriella Furlani - Ottanta Voglia di Arte
particolare, modi di essere, allo sbaraglio, senza specifica preparazione, per diventare bravissimi. Tipologia di uomini che si erano fatti da soli, che Carlo Palli interpreta perfettamente. Nel pomeriggio di ritorno all’hangar, era il mio turno per parlare, e l’ho fatto! Fausta Squatriti Collezionare Arte Contemporanea anni ‘60 e anni ‘70 per noi giovani artisti ce lo devi... Anni ‘80. Buon compleanno Carlo. Franco Fossi
Graziano Dovichi
Gianni Dorigo
Caro Carlo il tempo passa veloce, ma trascorre diverso quando il proprio lavoro ci coinvolge in modo continuo e creativo. La tua grande collezione, della quale sono felice di far parte, che che hai raccolto e continui a raccogliere e catalogare vive ormai con te senza scadenze e ti permette di prendere un tempo che non appartiene all’età. Tanti auguri Sandro Poli Caro Carlo, ai tuoi giovani ottant’anni, alla tua energia da fiume in piena e alla tua creatività da vulcano in eruzione!!! Ne abbiamo fatto di strada su due binari paralleli da quel lontano giorno in cui ci siamo incontrati alla Fiera di Nizza. Il mio affetto, le mie congratulazioni e i miei più cari auguri. Caterina Gualco Carlo, istrionico, visionario, generoso, adorabile ostinato, i tuoi 80 anni hanno reso migliore la vita di chi ti ha incontrato. Auguri. Irene Sanesi
Caro Carlo, i miei sono auguri molto affettuosi che vengono da un rapporto di grande simpatia, amicizia e stima, nato, ai primi degli anni settanta, sui campi da tennis dell’Etruria. Eri un grande lottatore anche a quei tempi, meticoloso, intelligente e perfezionista nel preparare le partite tennis. Vincesti un numero impressionante di tornei, sicuramente un record. Mi sembra di averti battuto una volta sola: partita, per me, da incorniciare, tanto per entrare in tema di quadri. Ho ricordi molto belli di pochi anni dopo, quando, da tuo caro amico e giovane collezionista, ti seguivo nel tuo lavoro della Galleria Metastasio, con mostre importantissime ed anche un’asta di gran livello. Poi anche nell’arte, muovendoti con passione e competenza hai spiccato il volo, dirigendo case d’asta internazionali, donando un’intera collezione al Museo Pecci e rapportandoti con spazi istituzionali di tutto il mondo, al fine di esporre i pezzi importanti della tua collezione nei musei che contano. Bravo, bravissimo Carlo!! Ti invio, insieme a mia moglie Armanda e a tutta la mia famiglia l’augurio di almeno altri 80 anni di soddisfazioni e successi da grande collezionista, come già sei. Devi ritrovare il fiato del vecchio tennista per spengere 80 candeline!! Un abbraccio forte da tutti noi. Aldo, Armanda e famiglia Marchi
Kiki Franceschi
25 31 MARZO 2018
Caro Carlo, grazie per la fiducia tutti questi anni! Auguri. Philip Corner Un compleanno importante Per un uomo importante IMPORTANTE per tutti noi artisti! Auguri Carlo Gino Gini Coraggioso Animatore Ricercatore Lavoratore Osservatore
Lorenzo Poggi
“Le forme vuote hanno lo stesso spazio delle forme piene”. Carlo ha saputo riempire il suo spazio-esistenziale con l’Arte. Mattia Crisci
Pianificatore Avventuroso Ludico Lottatore Irriducibile Fernanda Fedi Auguri a Carlo! Pina izzi
Noi tutti siamo i ragazzi della via Palli Enzo Minarelli L’amico Carlo Palli per la quarta volta compie vent’anni, osservandolo attentamente è chiaro che gode di quel privilegio riservato soltanto a quanti come lui abbiano dedicato al processo creativo dell’arte il loro sistema di vita. Complimenti e vivissimi auguri per ancora altri felici e proficui futuri ventenni! Giuliano Gori My greetings to Carlo from Athens under CRISIS!! da/da (Demosthene Agrafiotis) Ho incontrato Carlo al Pecci di Prato nel 1997 in una splendida giornata di sole settembrino. Io ero un ragazzo poco più che ventenne che dopo anni passati a girare su e giù per l’Italia per mostre e fiere si era avvicinato al collezionismo attivo e avevo da poco iniziato una mia personalissima collezione che mi avrebbe portato nel 2014 alla pubblicazione del libro “Anninovanta 1990-2015. Un percorso nell’arte italiana”. Ricordo il suo entusiasmo, la sua lealtà verso gli Artisti e la passione con cui mi ha parlato di un Artista che condividevano nel nostro cuore. Happy Birthday Carlo e GRAZIE per tutto quanto hai fatto e farai per l’Arte Contemporanea italiana. Roberto Brunelli
26 31 MARZO 2018
Luca Ciardi
Che cosa fa il “personaggio”? Quasi sempre l’indefinito, il minimo, quello che non penseresti possa diventare memorabile, ma che invece c’è, incontestabile. persistente. Quello che resta tra le righe di un’impressione, di un incontro, di un’empatia...La nostra frequentazione intermittente - ora che mi si chiede un pensiero su Carlo ottuagenario abusivo - invece che sbiadire l’idea di una relazione, la rinvigorisce come capita alle cose che si guardano a distanza, E attraverso questa ottica privilegiata, penso a una creatura del tutto “tridimensionale” che ha sempre saputo coniugare leggerezza e capacità di porsi frontale agli altri e al mondo. Senza tanti complimenti. La sua passione da segugio
- l’arte - fatta di conoscenza e voluttà, diventa così una sorta di protesi del suo essere quello che è: persona appunto a tutto tondo. Cioè non un dono, né una conquista, né un’ambizione o un destino. Ma una necessità biologica prima ancora che spirituale. Giuliano Serafini Tempo fa, ormai sono passati anni, ho avuto L`occasione e il piacere di lavorare per Carlo e con Carlo per un anno, forse un anno e mezzo. A quel tempo aveva depositato tutta la sua collezione , anzi, tutte le sue collezioni, in un magazzino nei pressi di via pistoiese a Prato,dove aveva dovuto rifugiarsi in fretta per evitare un cedimento della struttura che occupava precedentemente, e dove aveva radunato tutti suoi materiali più` disparati, tutte le sue fotografie collezionate negli anni e tutte le sue memorie, grandi e piccole, compresa una stupenda collezione di rinoceronti, dei più diversi materiali e dimensioni, che ricordo ancora con la stessa punta di stupore che mi colse la prima volta che la vidi …..ricordo che pensai “ questo tipo mi piace!” In quell` anno passato con lui e nella previsione, per lui chiarissima, di ciò che sarebbe dovuto succedere di li in avanti, ho avuto la possibilità` e l`incarico di visionare, fotografare e numerare tutti i suoi libri, tutti i suoi quadri ed oggetti, tutte le sue foto di archivio, tutte le sue collezioni e i suoi progetti e, in ultimo, di allestire la sua casa con una scelta di circa 100 opere d`arte che Carlo ha voluto avere più` vicine, sempre disponibili alla vista … come una galleria. Sono quindi entrato in parte , e passatemi la metafora, dentro la sua testa e un poco anche nel suo cuore. Ho avuto la opportunità` di condividere il suo amore per Fluxus, per la poesia visiva, e per altre decine e decine di artisti che Carlo ha seguito, amato, difeso …..Sul lavoro era una macchina da guerra, un rullo compressore, e spesso, nelle nostre giornate di lavoro a testa bassa, mi rivolgevo a lui chiamandolo scherzosamente “mio Vate, mia Guida!”, ed e` proprio questo quello che voglio confermare ed affermare qui, il fatto che da lui, toscano sagace ironico e impenitente, ho avuto solo da imparare … il rispetto, la critica, la misura, il piacere di un lavoro “fatto ad arte”, con coscienza ed attenzione …. come mi diceva spesso e come non ho più` dimenticato, “10 volte misurare, 1 volta murare”….. Carlo, ti voglio bene!…100, 1000 e 1000 di questi giorni! Un abbraccio. Luca Ficini Caro Carlo ne hai fatto di strada col camioncino disegnato per portare in giro la creatività di molti di noi. Per noi la strada porta a te , come
nel testo della performance che ti ho dedicato al Metastasio. Ne hai la registrazione, ti rammento questa mia testimonianza augurandoti i più amichevoli auguri per il tuo ottantesimo compleanno. Massimo Mori
forte dalla Slovacchia! Marco Gerbi Caro Carlo, come ben sai ci siamo conosciuti nei primi anni Settanta quando frequentavamo la Galleria La Piramide, gestita da Giampaolo Becherini, dove spesso avvenivano discussioni sull’arte. Sono passati molti anni, ma la tua energia e passione è viva più che mai. Ogni giorno nascono nella tua mente progetti da portare avanti e ti auguro di mantenere la tua forza. Auguri! Luca De Silva
A Carlo Palli. Con la tua collezione l’augurio è. forza,coraggio ed ancora tanto tempo a dimostrazione che l’arte non è mai finita. Paolo Masi Caro Carlo Ti auguro un felice compleanno con una piccola curiosità anche io sono nato il 4 aprile. Un abbraccio Bart Herreman
Massimo Presciutti
Caro Carlo, in 80 anni di vita sei stato capace di realizzare i sogni tuoi e quelli di tante altre persone. Con sensibilità, bravura ed intelligenza, hai dato voce e forza ad artisti, movimenti e opere meritevoli di non stare nell’ombra. Esserti amico è per per me un onore. Un abbraccio
A Carlo Palli, che ha un ricco passato di una vita straordinaria, fatta di vitalità, grande generosità, impegno costante nel dare linfa e vigore ad eventi di testimonianze della nostra arte contemporanea, l’augurio che ci sia, dopo l’ottantesimo anno, un lungo futuro tutto da vivere per sé e per la diffusione di cultura e conoscenze. Angela Resta Andreace Alzo il calice per un brindisi a Carlo. Nel 1970 un incontro a Prato. Io giovane Artista e Carlo giovane Mercante appassionato d arte. Ha attraversato il tempo e la storia come custode dell’arte. Oggi guida e promotore importante degli Artisti. Un grande abbraccio. Mario Daniele
Massimo Presciutti
CAROCARLOCENTODIQUESTIGIORNIDARENATAANDONEHUNDREDOFTHESEDAYSFROMGIOVANNISTRADADA! Giovanni Strada
ocalr ocarl Oclar oclra ocral oarlc olacr olarc olcar olcra olrac olrca Oracl oralc orcal orcla orlac orlca raclo racol ralco raloc Albert Mayr
Paolo della Bella
Caro Carlo , te e Ferruccio siete stati i dioscuri dell’arte. Almeno in Toscana, un giorno per chi capirà non sarà poco. Roberto Barni
Un caro augurio all’ottantenne Carlo che per l’arte riesce a entusiasmarsi come un ragazzo. Piero Nieri
Ricordiamo con un misto di divertimento e meraviglia il giorno che siamo entrate la prima volta nel tuo enorme archivio. Tanta storia di opere e artisti degli ultimi ottanta anni (almeno) che abbiamo potuto vedere toccare scegliere. Un sentito grazie per la tua generosa partecipazione ai nostri progetti passati e futuri! Tantissimi auguri da Antonella Sbrilli e Ada De Pirro Le prime 80 permutazioni di ‘CARLO’. In tutto ce ne sono 120. Fammele finire...Auguri!! Aclor aclro acol racorl acrlo acrol alcor alcro alocr alorc Alrco alroc aoclr aocrl aolcr aolrc aorcl aorlc arclo arcol Arlco arloc arocl arolc calor calro caolr caorl carlo carol Claor claro cloar clora clrao clroa coalr coarl colar colra Coral corla cralo craol crlao crloa croal crola lacor lacro Laocr laorc larco laroc lcaor lcaro lcoar lcora lcrao lcroa Loacr loarc locar locra lorac lorca lraco lraoc lrcao lrcoa Lroac lroca oaclr oacrl oalcr oalrc oarcl oarlc
Paolo Lumini
Grande agitatore culturale, caricatore delle molle dell’entusiasmo: le sue iniziative, nel corso dei decenni, hanno dato la carica a moltitudini di artisti. 80 anni dedicati all’arte, si narra che appena nato disse: “Non mi piace il latte, preferisco i tagli di Fontana”. Da allora, instancabile è un vulcano di idee e di energia positiva. Grazie Carlo e buon compleanno! Lido Contemori
27 31 MARZO 2018
insieme i suoi 100 anni!! Roberto Rodriguez Auguri Carlo. Tra le tante opere che hai saputo valorizzare tu sei sicuramente quella più bella di tutte. Roberto Macrì
Simoncini Tangi
Ho avuto il piacere e l’onore di conoscere Carlo Palli in occasione dell’asta di beneficenza che avevo organizzato in favore de L’Aquila mortalmente ferita dal terribile sisma del 2009. Chiesi, attraverso Finarte, la partecipazione di un professionista per mettere all’incanto le opere donate da altrettanti artisti che avevo in tempi brevissimi messe insieme. Carlo raccolse generosamente l’invito, venendo da Prato a Pescara a sue spese e senza alcun compenso. Nei tre giorni che precedettero l’asta Carlo chiamò a raccolta molti suoi amici collezionisti, invitandoli a partecipare all’asta, dando così un supporto determinante al successo dell’iniziativa. Aveva già dato in precedenza un ulteriore significativo aiuto contattando gli artisti a lui più vicini, in particolare quelli della Poesia Visiva e della Scuola di Pistoia, le cui donazioni portarono il totale delle opere raccolte a superare quota 100, tant’è che l’iniziativa fu battezzata “Cento Artisti per L’Aquila”. L’asta si tenne il 23 Maggio 2018 nell’Auditorium del Museo delle Genti d’Abruzzo in Pescara e, nonostante una non adeguata diffusione dell’evento benefico sui media dovuta ai tempi strettissimi (era trascorso poco più di un mese dal sisma), Carlo riuscì ad aggiudicare metà delle opere raccogliendo più di 150.000 euro. I fondi raccolti vennero poi destinati a sostegno di alcune Istituzioni artistiche e culturali aquilane, tra le quali l’Accademia di belle arti e il Mu.sp.a.c. Museo sperimentale di arte contemporanea. I legami di amicizia e stima che strinsi con Carlo si rinnovarono negli incontri a Prato presso il suo archivio (da me ribattezzato “hangar dell’arte”) o la sua splendida dimora , piena di tesori scelti e collocati con una sensibilità ed un gusto raffinatissimo. Devo a Carlo la mia passione per la Poesia Visiva ed i libri d’artista, passione coltivata a seguito della sua conoscenza e frequentazione. Allo stesso modo ho imparato da lui il mestiere di battitore d’asta, messo a frutto con successo negli anni successivi, sempre a fini benefici. La mia gratitudine nei suoi confronti si accompagna agli auguri più sinceri per questa ricorrenza speciale: il miglior augurio che posso fare a Carlo è quello di festeggiare
28 31 MARZO 2018
Gaius Cilnius Maecenas, Lorenzo de’ Medici, Carlo Palli; epoche diverse, differenti modi di procedere, ma hanno sicuramente una cosa in comune: uno smisurato amore per l’arte, per tutta l’arte e la sua libera espressione. Cosa sarebbe il mondo dell’arte e della cultura senza quelle eccezionali persone che, arse da questo fuoco, contribuiscono in maniera significativa ad arricchirlo, a renderlo più libero e vario oltre che a conservarne la memoria e i valori. Carlo Palli, il vulcanico Carlo Palli che ha l’energia di un trentenne e l’esperienza, adorna di saggezza, di chi ha vissuto per molti anni una vita piena; una vita dedita all’Arte, fitta di impegni e con tanti sacrifici, ma anche ricca di grandi soddisfazioni. Buon compleanno carissimo Carlo e tanti auguri per i tuoi eterni trent’anni. Luigi Petracchi Caro Carlo, ti auguriamo un felicissimo ottantesimo compleanno, complimentandoci per il tuo spirito sempre giovane, per quello che sei stato, per quello che hai fatto...sarai e farai, avanti tutta Carlo! Roberto Pisanelli e Roya Amini Testimone da sempre del nostro mondo fra Fluxus e la Poesia Sonorovisuale ed ora buon farmacista dell’arte con le sue Vitamine. Daccene ancora di queste Vitamine caro Ricostituente Carlo per dar linfa vitale a ques’arte che sfugge ridotta negli anfratti. Vita!!!! MIne!!!!! Mauro Dal Fior Carlo è una persona speciale con un grande talento e una grande attenzione per l’arte ma allo stesso modo ha una grande attenzione per gli altri, per gli amici, per l’incontro appassionato
con l’altro. Ti fa sempre sentire importante, in uno scambio diretto di esperienze , progetti, affetti; con lui è sempre una festa dello spirito e dell’amicizia. tanti auguri caro Carlo. Massimo Luconi Sono un amico di Carlo della “parte tennistica” della sua vita. Era bravo Carlo. Molto. Lo collocherei nell’intorno del quinto posto di una ideale classifica dei più bravi e vincenti giocatori di tennis nati e vissuti a Prato dal “dopoguerra ad oggi”. Luca Ciardi Ci siamo conosciuti da poco tempo, ma sembra da sempre. Quando c’è una sensibilità artistica si va al di là del tempo lineare e il sentire va oltre il comune affetto per diventare slancio ed entusiasmo. Tutto questo e tanto altro per Carlo, il suo spirito compie vent’anni come mia figlia nata nello stesso suo giorno. Auguri di cuore. Lorella Zappalorti Complimenti per 80 anni di travolgente euforia! Roberto Casati Gli 80 anni di Carlo Palli. Carlo Palli il magnanimo, grande anima entusiasta, grande come il tuo enorme capannone e la tua passione e amore per l’arte per gli artisti e poeti ed anche per il tuo archivio di libri. Sempre aperto alla ricerca della bellezza anche dove a volte non è facile scorgerla. Parlo per partito preso, quello degli artisti visivi. I tuoi 80 anni sono poca cosa rispetto il tempio che hai costruito dentro e fuori di te. Maurizio Osti Collezionista da grande passione Animato ci offre l’emozione Reiterata della vera arte La sensazione estetica che parte Ora dal cuore, ora dalla mente Per la via che misteriosamente All’assoluta beltà ci conduce L’eccelsa forma e raggi di luce Limiti invalicabili, destino In buio di notti e nel mattino. Federico Mussano Carissimo Carlo due parole per ringraziarti di essermi amico. Un caro saluto, e tantissimi auguri per i tuoi anni così splendidamente portati. Settimia Marisa Mazzi (Stellalpina)
Sonia Caruso
Festeggiare gli ottant’anni di Carlo Palli signi-
fica festeggiare l’idea di un’arte intesa come libertà, letizia, amore. Un’idea d’arte e di cultura che attraversa l’umano e lo comprende tutto. Credo che senza l’impegno del mio amico Carlo oggi la stessa Poesia Visiva, potente contributo italiano agli sviluppi dell’Arte Concettuale, sarebbe pressoché sparita dall’orizzonte critico. Così come Fluxus e altri movimenti non perfettamente allineati alle attese del pubblico. Per questa idea disinibita di cultura, distante da quei riti e convenevoli che a volte rendono insopportabile il mondo dell’arte, Palli ha speso quasi tutta la sua esistenza; e oggi che il suo percorso segna una tappa importante – non l’ultima – noi amici gli diciamo grazie, sicuri che egli porterà a compimento un disegno di vita che coincide perfettamente con la necessità di dare un senso compiuto al mondo. Emilio Isgrò Carlo è uno degli ospiti più assidui, e graditi, delle mie cene vegetariane ed è un piacere osservare le sue reazioni quando assaggia e gusta portate a lui sconosciute. Così com’ è un vero piacere starlo ad ascoltare quando racconta episodi della sua lunghissima esperienza, aneddoti sui tanti artisti conosciuti e frequentati, storie e situazioni con loro vissute e condivise. Il convivio, lo sappiamo bene, fa emergere tante caratteristiche personali e Carlo, che è estremamente conviviale, non si sottrae a questa legge rivelando molti aspetti del suo carattere. Ad esempio la sua capacità di incuriosirsi e lasciarsi stupire senza farsi condizionare da quello che sa, che è tantissimo, ma aprendosi al nuovo e diverso, con l’entusiasmo di chi capisce quanto si può ancora conoscere... Carlo, che è una persona che potrebbe vivere di rendita assomma una quantità di esperienze tali da poter affermare tranquillamente di avere “vissuto più vite”. Ciò nonostante, è una persona che non si crogiola nel “certo, o noto, o storicizzato”, nell’arte, come nelle relazioni umane e nelle situazioni più inParlando con Carlo di Aldo Frangioni
solite, cibo compreso. Non possiede cioè quelle diffidenze e quindi quelle chiusure, che limitano e mortificano le potenzialità di tanti individui ma è capace di aprirsi al nuovo con l’entusiasmo che tutti conosciamo. Ed il suo genuino entusiasmo, che manifesta con generosa partecipazione, è coinvolgente e contagioso. Auguro perciò all’amico Carlo tanti e tanti e tanti anni di sincero stupore per tutto quello che l’arte e la vita hanno ancora da offrirgli in modo da poter aggiungere molti pezzi importanti alla sua infinita collezione d’incontri ed esperienze. Luciana Schinco Un poetico battello ebbro su cui Rino-Achab può imbarcarsi, per la caccia alla balena bianca AUGURI PALLI Kiki Franceschi Caro Carlo, tanti affettuosi auguri per il tuo importante compleanno. Giancarlo Cardini Sinceri auguri per i tuoi 80 anni: vissuti a pieno, con l’impegno tra lo sport (tennis) e arte. In arte hai dato la tua attenzione a molti artisti, organizzando mostre ed eventi di grande rilievo. E quindi vorrei esprimerti un mio pensiero per ringraziarti di tutte le attenzioni che hai avuto nei miei confronti sia come artista che come persona, che io ricontraccambio con affetto. Auguri! Auguri!! Carlo Cantini Pensiero in fili d’erba dedicati all’Amico Carlo Palli Il risveglio è la mia vita e nel risveglio che s’insinua ogni attimo a decretare la potenza dell’esistere, un ruolo di magnificenza giunge come promessa. Una promessa di incontri, di definite note che rendono il merito stesso del vivere. Del vivere in una sinergia che fortifica e mantiene l’equilibrio esistenziale. Carlo, Amico Mio lontano e giammai ancora
incontrato nella fisicità, ci fu un tempo in cui un Amico e AMICO grande e mai dimenticato mi sollecitò a chiamarti. Ossequiosa nei confronti di chi ama l’arte e solo nome d’arte era stato fino ad allora, colsi l’occasione e tu, squisitezza d’animo fosti e di gentile afflato. Una straziante passione per l’arte unisce noi che da spazio fisico siamo separati, ma, suvvia, a nulla vale la distanza se reggono le briglie un rispetto e una stima reciproca di notevole impianto. Questo mi induce al sorriso e al pensiero che sì, finalmente un giorno – ed io spero vicino – le nostre conversazioni a distanza e coadiuvate dalla tastiera di un computer siano motivo affinché possa in un sol fiato dirti: Auguri, Amico Mio! E viepiù ancora e ancora d’arte parleremo sì che di particolari ghirigori in coerente nota con il tempo contemporaneo s’incanterà l’atmosfera. Perché atmosfera tu cogli e trasli nella forma di vitalità raccolta in scrigni di conoscenza – arte-quanta vita! ‒ e vibranti ceselli di un tempo che mai si logora. A te che celebri il risveglio perenne dell’Arte dell’essere e dell’Essere – ed è gran mondo – fino a coinvolgere gli anni in una svariatezza decisa quale territorio di bellezza A te, Carlo, i miei auguri nel Sole e nei Sorrisi ed il mio stretto abbraccio Carmen De Stasio Gli ottanta anni di Carlo Palli sono un evento ed anche se sono l’ultimo arrivato e non posso vantare ricordi, mi associo agli auguri di tutti ad una persona “sopra le righe”.Una memoria storica per quanto riguarda l’Arte Contemporanea e le varie correnti che l’hanno influenzata in tutto il ‘900 e non solo. Un vanto per la città. Tanti, tanti auguri di cuore! Paolo Brachi Carlo auguri e grazie per la tua energia, determinazione e tanta tanta passione dedicata all’arte! Daniela e Pasquale Simoncini.Tangi
29 31 MARZO 2018
1982 Carlo Cantini a New York
Museo Guggenheim mostra di Ives Klein
30 31 MARZO 2018
di Carlo Cantini