Numero
7 aprile 2018
324
257
Voglio una donna! Ciccio Ingrassia in Amarcord di Federico Fellini 
Con la cultura non si mangia
Giulio Tremonti (apocrifo)
Maschietto Editore
NY City, 1969
La prima
immagine Questo immagine si è concretizzata per una combinazione abbastanza curiosa! Continuando a camminare all’interno dello stesso quartiere, mi sono imbattuto, sul marciapiede opposto, con la stessa persona che avete già visto nel numero della settimana scorsa. Per mia fortuna era molto concentrato nei suoi pensieri e stavolta non mi ha notato. Ho potuto così vederlo in volto nonostante la sua ritrosia. I fotografi sono degli incredibili “voyeur” che non sanno quasi mai trattenersi di fronte a ciò che si para davanti ai loro occhi. Quando ne vedete uno cercate di evitarlo, altrimenti vi ruberà l’anima per metterla nell’album delle sue fantasie!
dall’archivio di Maurizio Berlincioni
Numero
7 aprile 2018
324
257
Riunione di famiglia Macron, mon amour Le Sorelle Marx
L’antifascismo e la difesa del codice Rocco Lo Zio di Trotzky
Giani, il ritorno (finalmente) I Cugini Engels
In questo numero Collezione d’autore di Aldo Frangioni e Gianni Biagi
Nucleo mediterraneo di Alessandro Michelucci
Tutte le parti in commedia di Susanna Cressati
Da Via Panisperna all’interferometro di Cascina di Gianni Bechelli
Con i piedi nel fango di Mariangela Arnavas
Le cartoline con l’anima di Crisitina Pucci
Per tornare a una società liberale di Paolo Marini
Violenza sulle donne tra passato e presente di Sandra Salvato
I gigli del Pontormo di M.Cristina François
Bambole nere alla Casa Rossa di Simonetta Zanuccoli
L’acropoli di Gonfienti...di Giuseppe Alberto Centauro
Il mercato di Nizwa di Andrea Caneschi
Marion Post Wolcott e la Fsa di Danilo Cecchi
Tanti auguri, Carlo Palli (addenda)
Direttore Simone Siliani
Illustrazione di Lido Contemori
Redazione Progetto Grafico Mariangela Arnavas, Gianni Biagi, Sara Chiarello, Emiliano Bacci Susanna Cressati, Carlo Cuppini, Remo Fattorini, Aldo Frangioni, Francesca Merz, Michele Morrocchi, Sara Nocentini, Sandra Salvato, Barbara Setti
Editore Maschietto Editore via del Rosso Fiorentino, 2/D - 50142 Firenze tel/fax +39 055 701111
Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012
redazione@culturacommestibile.com culturacommestibile@gmail.com www.culturacommestibile.com www.facebook.com/cultura.commestibile
di Aldo Frangioni e Gianni Biagi Non si fa a tempo a meravigliarsi, come ci accade da sempre, della facciata rinascimentale del Palazzo Bartolini-Salimbeni, con i suoi richiami romani, con le finestre che ci rammentano Palazzo Venezia o la Piazza di Pienza, o la memoria di Moby Dick, il cui autore ha sostato qui quando c’era l’Hotel du Nord, che siamo accolti dal volto simpatico di Roberto Casamonti e della direttrice dell’Associazione per l’Arte e la Cultura Collezione Roberto Casamonti Sonia Zampini. Casamonti, uomo d’arte conosciuto in tutto il mondo, ci accompagna e ci racconta del suo grande regalo alla città di Firenze, la sua Collezione di opere del XX secolo poste in visione pubblica. Al primo piano del celebre palazzo di Baccio d’Agnolo, il collezionista mecenate ci presenta subito il ritratto del padre Ezio di Ottone Rosai. “Avevo dieci anni, quando ho visto dipingere questo quadro – ci racconta Casamonti – e insieme alla meraviglia delle pennellate del grande pittore fiorentino ricordo, come imprinting materiale del mio futuro amore per l’arte, l’odore dei colori a olio e della trementina. Ora, con l’esposizione della Collezione, sono di nuovo quasi di fronte al numero 5 di via Tornabuoni dove, oltre 40 anni fa, avevo aperto la mia Galleria (che si chiama ora come allora Tornabuoni Arte) e iniziato il mio avventuroso viaggio nell’arte insieme a tanti artisti e tante opere che sono qui esposte”. La raccolta dei quadri, quasi tutti racchiusi in un semplice listello di noce per dare unità all’allestimento e non disturbarci nell’ammirarli, e delle sculture è un’antologia dei più grandi artisti italiani e stranieri fino agli anni ‘60. “Poi – continua Casamonti – esporrò la mia collezione che va oltre gli anni ‘60 fino ai giorni nostri”. Ad ogni quadro Casamonti racconta la storia che lo lega ad esso e, molto spesso, al rapporto con l’artista che lo ha realizzato. La scelta dei pezzi e l’allestimento è un’altra opera d’arte (che Roberto Casamonti ha condiviso con Bruno Corà) che ci propone il meglio di ogni artista. E’ obbligo iniziare con Fattori, il padre della “macchia” che si allinea, senza inferiorità, alle correnti parigine e europee contemporanee. Segue De Chirico che, oltre a due quadri metafisici, ci accoglie con un’opera del periodo boekliniano (il primo periodo del lavoro dell’artista) che varrebbe da sola una visita alla collezione. Nella parete accanto c’è una fortissimo Orateur di Alberto Savinio. La figura barbuta, che esce da una
4 7 APRILE 2018
Collezione d’autore
a Palazzo Bartolini-Salimbeni
colonna ionica, alza minacciosa il braccio destro e ci piace pensare che sia rivolta ai tre quadri del fratello Giorgio. Oltre a questa nostra fantasia è invece piacevole il racconto che ci fa Roberto di un recente acquisto di un quadro di Savinio che triangola Parigi, Roma e Firenze per validarne l’originalità:
un’avventura non ancora terminata. Il racconto di questa storia di arte e di expertise si interrompe per ammirare un altro capolavoro della raccolta: una periferia, tram e gru realizzato da Sironi nel ’21. Il percorso continua e pensiamo che non manchi nessuno in questa carrellata dei grandi artisti del XX secolo: dal “corposo” mazzo di rose di Chaim Soutine a due Picasso di età matura ma emblematici, ad un Klee al quale è impossibile non avvicinarsi pochi centimetri per godere della lievità dei segni, all’acquerello, tracciati ed incrociati e alla lettura della data, 1935, del numero dell’opera e del titolo, tutti scritti con la minuta e quasi svanita scrittura, che l’artista svizzero scrive con l’inchiostro al piede di ogni opera. Stessa operazione di avvicinamento non è possibile non fare per il gouache di Kandinski. Commovente è il collage di Le Courbusier, fatto pochi anni prima della morte, varian-
te di un’ altra opera del 1954. Poi Hartung, Asger Jorn, Appel, Sebatian Matta e Lam e tanti altri. Prima di arrivare agli italiani della seconda metà del secolo XX, ci fermiamo ad ascoltare la storia che fa di se stesso, e della sua collezione, Roberto Casamonti in un video che racconta della vita e delle passioni del collezionista. Una vita quella di Casamonti segnata dall’amore per l’arte del padre Ezio, che frequentava Ottone Rosai e Ardengo Soffici, e che si avvicina al collezionismo negli anni ‘60 del novecento iniziando a raccogliere e collezionare opere d’arte dell’inizio del secolo fino a fondare la Galleria negli anni ‘80. Uomo sempre attento alle persone, e spinto da curiosità e capacità di intuire le tendenze, inizia a collezionare opere di Lucio Fontana e di Alighiero Boetti in tempi in cui i due artisti erano seguiti da pochissimi collezionisti. Il video esprime bene lo spirito aperto, curioso e tenace che ancora oggi Roberto Casamonti dimostra nel nostro incontro. Uno spirito che si manifesta nel racconto delle opere, nel racconto degli incontri con gli artisti e soprattutto con la sua volontà che le opere qui raccolte
non debbano essere disperse o vendute dai suoi eredi. Uno spirito che ricorda quello dei grandi collezionisti-mecenati che, a partire dal ‘400 fino ai giorni nostri, da Firenze hanno fatto scuola nel mondo consentendo a questa città di avere i suoi grandi musei, che sono tutti musei derivanti da collezioni private a partire dal più noto il Museo delle Gallerie degli Uffizi. Proseguendo la visita, dopo la sosta nella sala del video, si apre davanti a noi la sala degli astrattisti italiani, dove ci sono tutti i più grandi: un’Accardi del ’54 col suo “Favoloso su nero” un quadro a più colori che precede le sue famose opere bi e tri-colori. Pur non avendo ancora dimenticato l’Angelo ribelle di Licini, le Composizioni di Atanasio Soldati e le Diametriche forme del fiorentino-parigino Magnelli, troviamo tutti quelli che pensiamo di incontrare: come Piero Dorazio, con il suo percorso da un classicismo astrattista del ’48 fino all’optical del 62. E poi Sanfilippo, Turcato, Perilli e Capogrossi. Gli anni ’60 si chiudono con i famosi fori nei bianchi sovrapposti di Paolo Scheggi, il gran nero di Agostino Bonalumi e le ante nere
e rosse di Tano Festa. Tornando a ritroso, perchè nella mostra esiste un percorso ma è bello perdersi e risalire le sale per rivedere qualche opera e qualche particolare, rivediamo con piacere il grande cavallo in ceramica di Fontana (insieme ai quadri dei suoi tagli e fori) e ci vengono a mente, anche se in forme più esasperate ed espressionista, le cere di Medardo Rosso e un Kounellis pop del ’61. Alla fine del percorso Roberto Casamonti prende in mano un’opera per svelarci l’ultima meraviglia: due quadri di un Boccioni pre-futurista fatti sul recto e sul verso di un cartone, un quadro double face che ci fa venire la voglia di vederlo esposto come il doppio ritratto dei Duchi di Urbino di Piero della Francesca con dipinto sul retro le allegorie dei trionfi di Federico da Montefeltro e Battista Sforza. La Collezione Roberto Casamonti è aperta al piano nobile di Palazzo Bartolini Salimbeni da mercoledi a domenica dalle ore 11,30 alle ore 19 gratuitamente e solo su prenotazione. Esposizione e catalogo curati da Bruno Corà. Ogni informazione è reperibile sul sito www.collezionerobertocasamonti.com
5 7 APRILE 2018
Le Sorelle Marx
Macron, mon amour
Passate le elezioni nazionali, Matteo Renzi è già sugli scudi e pensa a quelle europee del 2019. Per questo sta tessendo la sua rete politico diplomatica. E, ormai s’è capito, il suo modello è il giovane presidente francese. Di prima mattina chiama l’Eliseo. “Bonjour, vieux pirate! Comment vas tu? Et cette vieille femme adorable ta femme?” “Excusez-moi, mais qui parle?” “Mondieu, je suis Matteò, Emanuel!!” “Mais, Matteò qui? Slavinì?” “Mais non, idiot, c’est Renzi!” “Pardonnez-moi, j’avais oublié de vous. Comment vas tu?” “Merveilleusement! J’ai une bonne idée. Je vais vous dire en italien, donc c’est plus facile. Ho deciso di fare un nuovo partito e ho una grande idea per il nome: “in marcia!”.
I Cugini Engels
7 APRILE 2018
“Je ne sais pas, Matteo. Les marcheurs, ça ne ressemble pas à un grand nom: transmet une idée de fatigue, de fatigue. Et d’ailleurs, vous n’avez pas l’air si bien avec les réformes constitutionnelles. Allons-y lentement: marcher, ne pas courir. Je dois demander à Brigitte ce qu’elle pense...” “Va bene, ho capito Emanuel: te la fai sotto? Guarda, facciamo così: ci si vede per un caffè e se ne parla. Ci si incontra a metà strada: conosco un posticino simpatico a Bardonecchia...” “Va dans le cul! A Bardonecchia tu pars avec ta mère et cette merde de Gentiloni! Merde!” click... “Mah, chissà perché si è così alterato. Vabbè, chiamo Schulz.
Giani, il ritorno (finalmente)
Dopo la trasformazione di Eugenio Giani da uomo del popol(ino) a uomo delle istituzioni, avevamo perso un po’ le tracce del protagonista indiscusso di quasi 7 anni delle nostre strisce satiriche su questa rivista. Eugenio ha messo la testa a partito (quale? Per ora il PD, ma nel futuro si vedrà, visto che il Nostro non è estraneo ai cambi di casacca con il trascorrere delle stagioni) e aveva smesso di fornirci materiale per il nostro lavoro. Ma, forse, la crisi del PD e l’affermazione dei populisti stellati lo spingerà nei prossimi mesi a tornare ai vecchi amori. Ne abbiamo avuto un primo sentore con il concerto in Consiglio Regionale da Eugenio Giani organizzato e introdotto in occasione del Capodanno alla Corte Granducale, il 3 aprile scorso. Sulla qualità del concerto niente da dire: il maestro Luigi Cozzolino ha diretto i musicisti del “Musica antiqua” del Maggio Musicale che hanno esegui-
6
Sai, viene dal mio passato di scout” “Eh bien, je ne sais pas, je pense que j’ai déjà entendu quelque chose comme ça. Mais il continue: faire quoi?” “Guarda, Emanuel: noi ci si candida alle europee, si fa un accordo con quel vecchio rincoglionito di Berlusconi, e si prende il 20%. Poi noi si prende il Gruppo del Partito Socialista Europeo, si spacca in due come una mela; se ne prende metà (l’altra metà ce la mangiamo) e si viene con i tuoi a fare una nuova famiglia politica europea: “I marciatori”. Poi si cambia la costituzione europea, si mette l’elezione diretta del Presidente della Commissione Europea, si fa una bella legge elettorale maggioritaria e si manda a casa la vecchia culona tedesca e tutti i populisti. Eh, che ne dici? Furba, vero?”
to brani recuperati dagli archivi storici di autori coevi ai Lorena. L’intento era quello di richiamare lo spirito e le celebrazioni che erano solite tenersi alla Corte del Granducato di Toscana in occasione del Capodanno fiorentino. Così il Nostro è tornato a vestire gli abiti del Granduca Eugenio I detto Canapone, muovendosi leggiadro fra gli stucchi e le sale del suo Palazzo, ignaro che intorno vanno organizzandosi i Lanzichenecchi populisti, pronti a scalzarlo dallo scranno più alto del Consiglio e a mettere all’asta – con intento moralizzatore – quadri, gagliardetti, coppe, regali di rappresentanza e cianfrusaglie varie che invadono il
suo ufficio a Palazzo del Pegaso. Iniziato con il concerto, il Capodanno fiorentino ha proseguito con un inequivocabile segno infausto: il mancato ritorno della colombina in Duomo dopo lo scoppio del Carro. Ma anche qui, Eugenio I è arrivato in soccorso al povero pennuto caduto rovinosamente a terra, come la foto qui accanto documenta. Che Canapone ce la mandi buona!
Nel migliore dei Lidi possibili disegno di Lido Contemori didascalia di Aldo Frangioni
Indovinate fra tutti i pescatori di piselli chi sarà il nuovo segretario del PD
Lo Zio di Trotzky
L’antifascismo e la difesa del codice Rocco
Dopo aver impostato buona parte della scorsa e recente campagna elettorale sul ritorno del fascismo e aver proposto (per poi arenarla in commissione) da parte di uno degli allora colonnelli renziani, di una
legge che puniva anche la gadgettistica inneggiante al ventennio, il PD, per bocca del governo Gentiloni ancora in carica per gli affari correnti, decide tra gli ultimi suoi atti, di difendere in Corte Costituzionale
una legge del fascistissimo codice Rocco. Quella che equipara l’assistenza al suicidio all’istigazione allo stesso e che si discute grazie all’auto denuncia del radicale Marco Cappato. Quando si dice la coerenza.
7 7 APRILE 2018
di Mariangela Arnavas Con i piedi nel fango. Il titolo di questa intensa conversazione su politica e verità tra Iacopo Rosatelli e Gianrico Carofiglio deriva da una citazione di George Orwell relativa ai pensatori della politica che si dividono per lui in due categorie: “Gli utopisti con la testa tra le nuvole e i realisti con i piedi nel fango”. L’esperienza della politica attiva sembra avere insegnato a Carofiglio che, pur conoscendo l’obbiettivo finale, non c’è mai una strada fissata, che bisogna cercare la rotta procedendo per successive approssimazioni e il percorso è duro , è una strada reale a percorrere la quale spesso ci si sporca di fango. Fa un esempio illuminante l’autore, che dialoga con Rosatelli , nell’intento di “sortire insieme” dai problemi, come insegnava Don Milani; racconta la storia di un esperto in questioni di alimentazione, Jerry Sternin, inviato da Save the children in Vietnam per contrastare i problemi della malnutrizione dei bambini che vivevano nei villaggi rurali; non aveva molto tempo per la sua missione Sternin, solo sei mesi, ed era ben consapevole che la maggior parte dei fattori che determinavano tale situazione, ovvero miseria, scarsa igiene, scarsa disponibilità di acqua potabile, non erano modificabili con le sole sue forze e in tempi così ristretti. Senza scoraggiarsi, cominciò a percorrere i villaggi (sporcandosi sicuramente di fango) e si rese conto che in ogni villaggio, c’erano bambini ben nutriti , nonostante la miseria e la mancanza d’igiene e questo perché la stessa quantità di cibo veniva erogata in modo diverso ( ad esempio in 4 pasti invece che in 2), che veniva integrata con altri alimenti di solito riservati agli adulti come i gamberetti e un certo tipo di patata e che le mamme imboccavano i bambini anche quando non avevano voglia di mangiare; diffondendo queste abitudini alimentari Sternin riuscì a salvare dalla malnutrizione più di cinquantamila bambini. Insomma, per fare buona politica serve il principio di realtà , che non è incompatibile con l’utopia se questa attiene ad una dimensione valoriale. Se guardiamo la realtà senza schermi ideologici vediamo che , per esempio, la fame nel mondo si va riducendo considerevolmente di anno in anno, quindi i cambiamenti progressivi sono possibili e la speranza, parola essenziale per la sinistra, non è una chiacchiera e si potrebbe esprimere con la forma verbale del present continuus inglese, quella che termina in -ing, we are making, stiamo facendo.
8 7 APRILE 2018
Con i piedi nel fango La politica ha il dovere, secondo Carofiglio, di essere consapevole della possibilità concreta del cambiamento, “che spesso avviene indipendentemente da noi” anche perché, come diceva Hanna Arendt , è spesso proprio l’incapacità dei governi di tener dietro ai cambiamenti che fa saltare il contratto sociale orizzontale, cioè il contratto democratico. Altri doveri sono quelli di praticare il compromesso come figlio della convinzione per cui nelle opinioni degli avversari c’è sempre qualcosa di giusto, da accettare e includere a patto sempre che il compromesso sia “ostensibile”, che si possa esibire, raccontare, spiegare e poi saper ammettere i propri errori ed anzi imparare ad amarli perché, come Goethe ricordava , “gli errori rendono amabili “ e ricordare che le parole sono importanti , come diceva Nanni Moretti nella famosa intervista in Palombella rossa, che “ la parola è un impegno verso qualcuno” (Vittorio Foa) , un’assunzione di responsabilità, così come il mantenimento delle promesse, “l’unico mezzo di cui dispongono gli uomini per ordinare il futuro” , secondo Hanna Arendt. Una parte dell’intervista è dedicata al difficile rapporto della politica con la verità; chiunque si sia tuffato nel vivo di un’esperienza di politica attiva conosce l’inevitabile teatralità
che si accompagna alle battaglie con gli avversari e alla necessaria tensione volta al convincimento dei cittadini, ma ci sono distinzioni fondamentali, secondo l’autore: è lecito enfatizzare i difetti dei nemici, ma non occultare e dissimulare i propri errori, è consentito mettere l’amplificatore alla bontà delle proprie proposte, ma non lo è inventarsi promesse non mantenibili. Il punto di equilibrio è sempre la vecchia formula kantiana ovvero il secondo imperativo categorico: considera gli altri esseri umani sempre come un fine è mai come un mezzo. E ci sono doveri anche per chi non fa politica attiva; Carofiglio, come Dante , detesta l’indifferenza sia nei comportamenti individuali che collettivi e proprio all’inizio dell’intervista cita Gramsci e la sua invettiva :”Chi vive veramente non può non essere cittadino”; niente a che fare con l’attivismo nevrotico di chi partecipa su internet alla fiera del rancore, ma un agire politico individuale e collettivo nutrito di cultura, studio e passione. Si tratta insomma di un piccolo libro denso di riflessioni e indicazioni stimolanti e senza senno di poi visto che è stato realizzato nell’estate /autunno 2017 è finito di stampare nel febbraio 2018 a buona distanza dai risultati elettorali.
Musica
Maestro
Nucleo mediterraneo
di Alessandro Michelucci Il documentario Crossing the Bridge: The Sound of Istanbul (2005), diretto da Fatih Akin, fornisce un panorama della scena musicale instanbuliota. Da allora sono passati 13 anni e questo ambiente è in parte cambiato, ma già allora si vedeva che nella metropoli turca erano attivi musicisti provenienti da altri paesi. In particolare, il documentario includeva la cantante canadese Brenda McCrimmon e Alexander Hacke, già noto come componente dei tedeschi Einstürzende Neubauten. Oggi il panorama dei musicisti stranieri che hanno trovato una seconda patria in Turchia è più vario. Pensiamo a Natalia Mann, arpista samoana, che ha lasciato la sua terra polinesiana per vivere a Istanbul col marito, il percussionista Izzet Kizil. Ed è proprio lui che ritroviamo in Çekirdek (“nucleo” in turco), il CD che segna l’esordio del quintetto chiamato Alonisma. Il nome gioca sul’assonanza di due parole greche, alonisma (l’atto di separare il grano dal loglio) e alonizo (vagare senza meta). Il quintetto include una francese, un italiano, un greco e due turchi: in altre parole, cinque musicisti che abbracciano idealmente l’intero bacino mediterraneo. Eccettuati due pezzi, l’intero disco (Kalan, 2017) è stato composto da Andrea Romani, che ha curato anche la produzione e la registrazione. Il musicista cremonese, che suona il flauto e il ney, è uscito da quella fucina i talenti che è Siena Jazz. Vanta collaborazioni di rilievo, come quella col sestetto di Fabrizio Cecca (Southern Avenue, Chrystal Records, 2007) e quella col quartetto di Harris Lambrakis (Metéora, Polytropon, 2012). Romani proviene quindi dal jazz, ma lo intreccia con le esperienze derivanti dalla profonda conoscenza del mondo greco e turco. Anche gli altri musicisti si muovono in varie direzioni. La pianista Estreilla Bresson è sempre più orientata verso la musica contemporanea; Apostolos Sideris, allievo del bassista John Patitucci, ha collaborato con nomi rilevanti della world music; il sassofonista Tamer Temel guida il quintetto che ha inciso Serbest Düşüş (A.K. Müzik, 2016); Izzet Kizil ha suonato fra gli altri con Anja Lechner e John Zorn.
“Song for Nicola” è dedicata a Nicola Stilo, figura centrale del flauto jazz, che Romani considera il proprio maestro. In “Dissolution of a Lie” spicca il bel dialogo di piano e sezione ritmica. I vocalizzi di Estrella Breisson arricchiscono “J’ai perdu une inconnue”, scritta dalla pianista. Ritmi e modalità tipiche del mondo turco, greco e arabo si fondono col soffio vitale
del jazz, ma in genere evitano di cadere nei cliché ai quali la world music ci ha abituato. Più volte abbiamo parlato di artisti che collaborano con colleghi turchi e greci aggiungendo nuovi colori al meraviglioso mosaico musicale di queste terre. Siamo contenti, anzi orgogliosi, di vedere che a questo fermento contribuiscono anche dei musicisti italiani.
Foto di
Pasquale Comegna
Corpi di marmo Roma Stadio dei marmi
9 7 APRILE 2018
di Susanna Cressati Nel 1977 Giovanni Testori portò in scena Edipus, l’ultimo pezzo della sua “Trilogia degli Scarrozzanti”. L’autore milanese immaginò una sfigatissima compagnia di guitti, ormai al lumicino, costretta a una vita grama in teatri fatiscenti e semideserti, ridotta alla fine al solo Capocomico che, caparbio, interpreta (fino alla morte) tutte le parti in commedia. Depurato dalla tragicità testoriana, è a una simile idea che si ispira il progetto “I Nuovi” del Teatro della Toscana. Un gruppo di 16 (per ora) giovani attori (21-30 anni) appena diplomati alla scuola “Orazio Costa” gestiranno in Teatro Niccolini, nel centro di Firenze, assumendosi a turno tutti gli incarichi e le mansioni necessarie per far funzionare a pieno la macchina teatrale: direzione artistica, amministrazione, organizzazione funzionale (produzione, programmazione, promozione), comunicazione, direzione di scena, organizzazione tecnica, fino ai compiti più umili, quelli di custode, maschera, addetto alle pulizie. Ai sedici saranno anche impartite lezioni di inglese teatrale conteporaneo, canto, teatro comico, legislazione teatrale, management, consulenza del lavoro, gestione del personale, sicurezza. Insomma, per tre anni avranno in mano le chiavi del teatro e per questo loro impegno percepiranno una borsa di studio mensile. Costumi, scene e apparati saranno realizzati dal Laboratorio d’arte del Teatro della Toscana agli Artigianelli. Il progetto, messo a punto dal direttore Marco Pagliai, dal responsabile della formazione Pier Paolo Pacini, e sostenuto da Comune, Regione e Fondazione Cassa di Risparmio, ha l’ambizione di riproporre, in chiave moderna, una figura di “attore artigiano”, di “attore totale” che affonda le radici in una precisa tradizione storica, e forse anche quello di rivitalizzare un Niccolini che, nonostante le cure di Mauro Pagliai, viaggia da tempo sottotono. Accanto ai giovani, i maestri. Il primo è Marco Baliani, che dall’11 al 22 aprile dirigerà sempre al Niccolini una Mandragola di Machiavelli in chiave corale. A partire da ottobre Gianfelice Imparato lavorerà sul teatro comico e alcuni pezzi brevi di Eduardo; a Glauco Mauri verranno affidati una masterclass e un laboratorio su Dostoevskij, curato anche da Matteo Tarasco; Andrée Ruth Shammah riproporrà uno dei suoi cavalli di battaglia, Testori appunto, con “Promessi sposi alla prova”, mentre Beppe
10 7 APRILE 2018
Tutte le parti in commedia
Navello si cimenterà in un lavoro del tema dell’antica utopia del Teatro nazionale in Italia. Come hanno detto i “maestri” in sede di presentazione ufficiale, compito dei giovani protagonisti (che saranno presto affianca-
ti da altri ancora più giovani colleghi) sarà quello di “amare il teatro in tutte le sue forme”, il teatro come una casa comune, e non solo un lugo dove si rappresenta qualcosa. Insomma, un modo non banale di fare la gavetta.
di Paolo Marini Dopo “Il liberalismo di Bruno Leoni” e “Crisi e rinascita del liberalismo classico”, Antonio Masala propone una nuova e non meno elaborata incursione nel campo della filosofia politica liberale con “Stato, società e libertà – Dal liberalismo al neoliberalismo” (Rubbettino). Come la terza tappa di un cammino ideale, anch’essa con un valore specifico: l’attenzione verso tradizioni di pensiero non ascritte alla filosofia politica (Chicago School) o lasciate in secondo piano (ordoliberalismo tedesco) e soprattutto rivolta a esperienze storiche come i governi di Ludwig Erhard (Germania occidentale, secondo Dopoguerra) e di Margaret Thatcher. Pagine grazie alle quali si riformula il problema del liberalismo nel XX° secolo, che non era limitare la crescita del ruolo dello Stato (già abbondantemente avvenuta, peraltro con il concorso del New Liberalism di Keynes e Beveridge), bensì “ripristinare le condizioni perché esso potesse essere limitato, e perché gli individui e la società lo volessero limitato”. Il cammino teorico e pratico verso la libertà si è mostrato irto di ostacoli e di difficoltà. Non solo perché la passione per la libertà individuale era sopita nella società, ma anche perché dal cuore stesso del liberalismo si andava consolidando il concetto che una leadership politica fosse necessaria per iniettare libertà nella dinamica sociale. E il thatcherismo “rimane la dimostrazione più chiara di come il liberalismo del Novecento si articoli anche come un progetto che prevede la necessità di usare la politica per promuovere le trasformazioni sociali che consentano il ritorno ad una società liberale”. Le pagine dedicate all’esperienza thatcheriana, con il binomio Free Market and Strong State (dal titolo del libro di Andrew Gamble) – tra le più intense e godibili del volume – rimandano necessariamente a Friedrick von Hayek (aperto sostenitore della Lady di Ferro) e a Ludwig von Mises (più intransigente di Hayek), nonché al rinnovamento profondo che il pensiero della scuola austriaca (anche tramite la fucina della Mont Pelerin Society) aveva apportato alla teoria liberale, propagandosi con una certa fortuna e attecchendo, in particolare, negli Stati Uniti. Qui la figura di Milton Friedman sarebbe divenuta centrale per il liberalismo internazionale, a partire dagli anni Sessanta: con il suo approccio empirico (essendo d’altronde un economista), dispone-
Per tornare a una società liberale
va di un armamentario che non digradava da idee filosofiche ma si costruiva dall’esperienza: il mercato ‘vince’ perché si dimostra strumento migliore della pianificazione per il raggiungimento di determinati fini; la libertà è il “criterio supremo di valutazione degli assetti sociali” e non un “principio etico onnicomprensivo”. Di Friedman è riconosciuta la capacità straordinaria di divulgare le idee – tradotte in proposte semplici e comprensibili all’opinione pubblica – che scombinò una certa immagine ‘fossile’ del liberalismo. Il volume è, in sintesi, un ricco affresco della filosofia politica liberale lungo il Novecento, in cui è costante la valutazione delle distinzioni e delle affinità tra protagonisti/ scuole di pensiero.
Dalla sua lettura pare, tra l’altro, di poter concludere che se in alcuni Paesi e in determinati momenti storici le idee liberali hanno potuto godere di ampia diffusione, ciò significa che un liberalismo popolare non è irrealizzabile. Semmai è questione di condizioni: che si tratti di un liberalismo genuino, non adulterato, in cui la dimensione etica non vada dissociata da un costante riferimento all’economia (leggasi: vita degli individui); non in ultimo, che sia abbracciato da voci potenti e ispirate di leaders capaci di interpretare la realtà sociale e di incrinare il consenso di una vasta opinione pubblica sulla cultura politica dominante; in fine, che vi sia coscienza dei tempi di maturazione di nuove consapevolezze e sensibilità. Roba da statisti, insomma.
11 7 APRILE 2018
di Giuseppe Alberto Centauro Per la città degli Etruschi sul Bisenzio l’esistenza di un’acropoli a Poggio Castiglioni, là dove con lo sguardo si domina tutta la piana (fig. 1), riapre la questione di quale fosse stata la relazione dell’insediamento etrusco arcaico di Gonfienti con i preesistenti villaggi disseminati sulla dorsale orientale dei Monti della Calvana (cfr. G.A. Centauro, Ipotesi su Camars in Val di Marina. Dalla città etrusca sul Bisenzio all’identificazione di Clusio, NTE 2004). Essendo venuta meno in questi ultimi anni l’attribuzione, tanto fuorviante quanto a lungo accreditata dagli autori del secolo scorso, che stirpi Ligures si fossero insediate a queste latitudini resta in piedi solo l’origine di popolamenti protovillanoviani e villanoviani (quindi proto etruschi). Questa circostanza è resa pienamente plausibile dagli evidenti anacronismi cronologici da rapportare anche alla scoperta nel 1934 della necropoli (oggi riconosciuta come etrusca) di Casa al Piano in Calvana: “un sepolcreto a cremazione con urne ovoidali in terra cotta” (cfr. Claudio Pofferi nell’antologica collettanea “Presenze Etrusche in Calvana, Siti e Necropoli”, a cura di G.A. Centauro, NTE 2008, pp. 51-55). Fin dalla media età del Bronzo possono dunque farsi risalire i resti di poderosi castellieri bastionati sorti intorno ai terrazzamenti megalitici (in particolare quello di Val di Cigoli presso Casa al Piano), come pure le sostruzioni pelasgiche di Cavagliano, Sottolano e Ciarlico ed altri stazionamenti recinti in pietra (Aiacciaia, Sant’Anna Vecchia, Villanova ecc.) ancor oggi usati dai pastori. Si tratta di un’ininterrotta sequenza seriale di muraglie che s’incontrano nella boscaglia e sulle spianate cacuminali dei poggi Camerella e Trini, lungo tutta l’arcuata dorsale orientale che si congiunge a Poggio Castiglioni fino a raggiungere il maggiore di questi siti, nel luogo detto “La Bucaccia”. Tutto ciò rende incontrovertibile testimonianza di millenarie frequentazioni umane dal II mac in avanti. L’acropoli di Gonfienti viene a saldarsi proprio con il sito della Bucaccia il cui sviluppo diacronico è facilmente osservabile per la diversa tipologia delle muraglie perimetrali, ora in opus antiquum (poligonale) “a doppia cortina”, ora in opera quadrata con fondazione “a scasso”. Le dimensioni del sito sono ragguardevoli, sviluppandosi con un perimetro di oltre 2500 metri (fig. 2): le varie aggregazioni si mostrano senza soluzione di continuità con addizioni anulari rispetto al nucleo terrazzato centrale, fino a congiungersi ad est con la vera e propria fortezza (qarittum), posta in cima al poggio al disopra di un rialzo artifi-
12 7 APRILE 2018
L’acropoli di Gonfienti
e gli antichi villaggi della dorsale orientale della Calvana ciale dalla forma trapezoidale. L’acquidoccio centrale rappresenta anche uno straordinario sistema idraulico realizzato con un ingegnoso insieme di canalizzazioni, chiuse e vasche, in parte pensile e in parte ipogeo che sgorga direttamente dallo “sprofondo” di una dolina, oggi conosciuto con il nome di Grotta del Drago posta sulla dorsale collinare, protetta da un doppia cortina muraria e da sistemi bastionati esterni al perimetro principale. Fuori dal contesto fortificato del sito e della fortezza cacu-
minale vi è un imponente cavea gradonata, “a ferro di cavallo”, orientata a valle in direzione SE. Non un nome, non un ricordo che vada al di là della storia medievale e moderna. In attesa di riscontri epigrafici e documentali noi abbiamo ipotizzato trattarsi della mitica Camars (da Camerella, l’odierno oronimo e idronimo) che, come vuole la tradizione rinascimentale, era stata fondata dal leggendario Re Camerio, sovrano d’Etruria, della progenie Etrusca e Umbro Camerte.
Fig. 1 - In rosso l’area visibile da Poggio Castiglioni (dis. Di David Fastelli, 2018) Fig. 2 – La ricostruzione planimetrica del sito di Poggio Castiglioni/ La Bucaccia (dis. David Fastelli, 2013)
di Sandra Salvato “Violenza, per me, ha un termine che ha pochissimo significato, tutto è violenza, si va dalla condotta inelegante al femminicidio. Invece nel mezzo c’è una gamma di espressioni e comportamenti che non configurano addirittura come reato. Non sempre la violenza si presenta in termini perseguibili dal punto di vista giuridico, ma è comunque condannabile dalla società”. Simona Feci, storica dell’arte con una cattedra all’Università di Palermo e presidente della SIS (Società Italiana delle Storiche), non ha bisogno di forzare le parole per far arrivare al pubblico della Biblioteca delle Oblate il messaggio. Concetti chiari e appuntiti come fendenti: la violenza sulle donne è un dato di fatto, strutturale, che a prescindere dalla sua emergenza non è mai stato superato. Lo dice la presenza unigenere in sala, lo dicono le statistiche Istat analizzate da una militante editorialista de La Stampa, Linda Laura Sabattini, lo enuncia il diritto non senza essere rimasto fermo più di un ventennio come con gli imprevisti del Monopoli, lasciando la questione, rincara la dose l’avvocata Marina Capponi, nelle tasche del tempo che solo le istituzioni sanno cucire con fare meditabondo, senza fretta alcuna. Nessuna certezza dunque, se non quella che si sostiene nello sguardo erotizzato e voyeuristico dell’uomo, una vertigine di superiorità che alimenta, da tempo immemore, la disuguaglianza tra i sessi, si incista nella presunta superiorità del genere maschile che, antica come il patriarcato, torna nel presente con maggiore brutalità. Il richiamo alla storia è un obbligo morale per chi desidera trovare una ragione - se ancora non può essere chiamata follia - ed un preambolo all’uso della violenza sulle donne. Vi si rifanno per prime quelle che ne hanno fatto motivo di studio, ma anche coloro che a vario titolo e livello della società, combattono insieme a uomini resipiscenti e responsabili per un’inversione di tendenza sul piano culturale e sociale. Il punto di partenza dell’incontro di marzo, mese a noi dedicato, è stato un libro, una raccolta di saggi sotto il titolo La Violenza contro le donne nella storia. Contesti, linguaggi, politiche del diritto (secoli XV – XIII) edito da Viella, una solida casa editrice romana che dalla fine degli anni settanta pubblica opere di carattere storico. Tutti i relatori convocati - oltre alle sopracitate Feci, Sabbatini e Capponi, anche Vittoria Franco, senatrice PD, filosofa e direttrice dell’Istituto Gramsci Toscano dal ’94 al 2001, e lo psichiatra
Violenza sulle donne tra passato e presente Andrea Cicogni - fissano nella metà degli anni Novanta il giro di boa più importante. E’ infatti del 1996 la legge n.66 che trasferì dopo un iter travagliato durato quasi un ventennio le norme sulle violenza sessuale dai reati contro la moralità pubblica ai delitti contro la persona. Una conquista sofferta se si pensa che il nostro ordimento è stato incardinato fino al 1956 sullo jus corrigendi, verga autorizzata in mano al pater familias complice anche il sistema religioso; che nel ’68 si parificò l’adulterio e con la riforma di famiglia del ’75 si cominciò a rivedere la gerarchia tra i due sessi, seppure quella dell’offesa ha visto spostare la soglia tra comportamenti leciti e violenza fino a farsi, oggi più che mai, inclusiva di numerosi atti lesivi. E se da un lato aumenta il numero delle donne, soprattutto immigrate, che li denunciano (+18%), dall’altro scende
quello di chi dà notizia di fatti considerati lievi. Ma sono ancora i numeri a fotografare la realtà rivelando che quando la consapevolezza cresce, parallelamente aumenta la reazione dell’uomo. Oltre 10 milioni di donne in Italia subiscono violenza, un quadro che ha molti nomi, una nuova coscienza lessicale, ma la stessa faccia da sempre. L’ambito della morale pubblica è un imbuto stretto che persino la recente Convenzione di Istanbul firmata nel 2011 fa scivolare con fatica verso la comprensione e una visione lunga della questione. La violenza, chiude Vittoria Franco, è una reazione, la non accettazione degli spazi di libertà e autonomia rivendicati dalle donne. E’ una violazione dei diritti umani che va prevenuta con l’educazione, anche nelle scuole, ad una nuova etica della relazione. Un lavoro da fare, inevitabilmente, in due.
13 7 APRILE 2018
di Simonetta Zanuccoli Alla Maison Rouge, a Parigi in boulevard de La Bastille 10, in contemporanea con le opere di Ceija Stojka, rinchiusa a solo 7 anni con la madre e i fratellini a Auschwitz, della quale ho già scritto, fino al 20 maggio c’è un’altra mostra che parla del rapporto tra razzismo e il mondo dei bambini. Si intitola Black Dolls e presenta, per la prima volta in Europa, 200 bambole nere create da anonimi tra il 1850 e il 1940 della collezione dell’americana Deborah Neff. Questi piccoli totem, meravigliosamente improvvisati, poetici e intimi, unici nella loro realizzazione e lontanissimi dal mondo delle bambole stereotipate bionde e rosa, erano creati da mamme afro-americane per i loro figli e anche per i bambini bianchi che accudivano. Ognuna di queste bambole nasconde una storia e custodisce frammenti di affetto e dolore. Sono fatte a mano con qualsiasi materiale disponibile e di recupero, calze, tessuto, legno, pelle, pezzi di giocattoli rotti, e perfino gusci di noci di cocco. Sono riempite di stracci, paglia, segatura, cotone, trucioli di sughero. Sono vestite con audaci mix di tessuti in una tavolozza di colori che va dalla tonalità della terra alle sfumature di beige, crema e avorio con inserti di pizzi, nastri, perline.... I loro tratti sono ricamati con fili di lana o astratti come maschere africane, in una diversità formale sempre di alto valore espressivo. Alcune bambole in esposizione mostrano, quasi con orgoglio, gli anni trascorsi nei bauli, negli armadi e, una volta fuori, nelle bancarelle delle fiere e dei mercatini. E lì che Deborah Neff, in 20 anni di ricerca, le ha trovate, oggetti considerati senza valore, oggi divenuti preziosi e rari esempi di Arte Popolare americana. La mostra è accompagnata da fotografie e dagherrotipi dell’infanzia americana degli anni tra la fine dell’800 e l’inizio del 900. Sono ritratte bambine di colore e bambine bianche che tengono in collo una di queste bamboline nere. Solo in una foto scattata nei primi anni del XX secolo si vede una famiglia di colore: padre, madre e cinque bambine, nel mezzo, su una piccola sedia, quasi un trono, una bambola bionda e bianca. Immagine rarissima perché mentre le bambine bianche, soprattutto di famiglie progressiste del nord, potevano avere bambole nere, le bambine nere non potevano possederne una bianca. Questi oggetti così poveri servivano alle donne di colore per divertire i propri figli e per raccontare storie alle bambine che ac-
14 7 APRILE 2018
Bambole nere alla Casa Rossa
cudivano ma su di essi, dato la loro rarità, il campo di ricerca sociologica è poco sviluppato e non si sono ancora approfondite la portata e le tensioni culturali che si nascondeva dietro la loro innocenza. Le bambole erano giocattoli realizzati a immagine di chi ci giocava. Ma cosa succedeva quando rappresentava un’altra razza considerata dai genitori inferiore e dal bambino non abbastanza lontana dalla propria tata? Che tipo di fantasie suggerivano? E i piccoli
totem neri saranno stati capaci di combattere il modello razzista che era comunque saldamente interiorizzato anche nella gente di colore? Sentimento questo che per la giornalista Nora Philippe sembra non del tutto superato. Nel suo video-documentario, abbastanza sconvolgente, che chiude l’esposizione, a dei bambini africani vengono mostrate una bambola bianca e una nera e si domanda loro qual’è più brutta. Tutti indicano quella nera.
di Danilo Cecchi Per chiunque abbia anche solo superficialmente letto qualcosa sulla storia della fotografia, la sigla FSA ha un significato estremamente preciso. Si tratta dell’acronimo di “Farm Security Administration”, organismo americano fondato nel 1937 dal ministero americano dell’agricoltura per contrastare gli effetti della grande depressione. Per documentare lo stato reale dell’agricoltura e delle fattorie delle aree colpite dalla crisi e dalla siccità, ed allo scopo di sensibilizzare la popolazione sulla bontà delle riforme di Roosevelt, la FSA organizza una delle più imponenti campagne fotografiche di tutti i tempi, istituendo una sezione fotografica diretta da Roy Stryker, e coinvolgendo decine di fotografi, fra cui i migliori fotografi americani dell’epoca, con un lavoro che prosegue fino al 1942 raccogliendo e catalogando oltre 270.000 immagini fotografiche. Come è noto, questo enorme lavoro di documentazione diventa, anche presso gli storici ed i critici europei, l’incarnazione stessa del trionfo della “straight photography” e della fotografia di documentazione sociale, oltre che un modello stilistico e di impegno politico e culturale. Fra i numerosi fotografi ch lavorano al progetto della FSA vi sono dei nomi conosciuti, come Walker Evans, Jack Delano, Russell Lee, Carl Mydans, Gordon Parks, Arthur Rothstein, Ben Shahn e John Vachon, oltre alla ben nota fotografa Dorothea Lange, autrice della famosa fotografia della “madre migrante”, diventata l’icona della FSA. Accanto a questi fotografi inizia a lavorare anche la giovane Marion Post (1910-1990), che viene caldamente raccomandata nel 1938 a Roy Stryker da Paul Strand. Marion inizia a scattare foto nei primi anni Trenta durante un soggiorno di studio in Austria, da cui fugge inorridita dalla crescente furia nazista, e si forma come fotografa a New York, lavorando per alcuni giornali, frequentando la Photo League, dove conosce Ralph Steiner e Paul Strand, e realizzando per proprio conto inchieste fotografiche sulle condizioni delle classi più disagiate. Per la FSA Marion lavora per tre anni e mezzo, dal settembre del 1938 fino al 1942, attraversando praticamente da sola e con grandi difficoltà alcuni stati come New England, Kentucky, Carolina del Nord, Florida, Louisiana e Mississippi e scattando oltre novemila fotografie, alcune delle quali a colori, utilizzando i nuovi materiali Kodachrome, messi a disposizione della FSA dalla Kodak per delle prove pratiche sul campo. Diversamente dagli altri fotografi della FSA, Marion non si limita a fotografare le situazioni più critiche, ma realizza un vero e proprio spaccato sociologico che
Marion Post Wolcott e la Fsa
attraversa le diverse classi, dalla middle-class fino agli strati più poveri della popolazione, spingendosi anche nei quartieri abitati in maggioranza dagli afroamericani. Le sue immagini mostrano il volto presentabile ed il decoro delle cittadine che attraversa, ma anche le baracche in cui intere famiglie vivono al limite della sopravvivenza, così come accanto ai terreni aridi mostrano le terre fertili. Diversamente dagli altri fotografi della FSA, che svolgono il loro incarico in maniera discontinua, Marion dedica al suo lavoro tutto il proprio tempo, e questo le permette di scendere più in profondità, di stabilire dei legami più solidi e dei rapporti più stretti con le persone che incontra e che frequenta nel suo lungo viaggio attraverso
un’America che fatica ad uscire dalla grande depressione, imponendo un suo punto di vista personale, femminile e femminista, più di quanto abbiano fatto le altre fotografe al servizio della FSA, e pagando questo suo impegno con una sorta di sottovalutazione della propria opera da parte dei colleghi e dei vertici della stessa FSA. Dopo avere chiuso il proprio rapporto di lavoro con la FSA Marion sposa Lee Walcott, un funzionario federale, seguendolo nei suoi lunghi soggiorni al di fuori degli Stati Uniti, senza per questo rinunciare a fotografare, in maniera non più professionale, e senza per questo rinunciare a svolgere l’insegnamento ed il proprio impegno sociale, dopo essere tornata a vivere in California.
15 7 APRILE 2018
di Cristina Pucci “Tutti i miei pensieri più belli....Pia tua “. “Caro papà...ti aspetto sempre e spero che la guerra finisca...io penso sempre a te. Noi tutti stiamo bene . Tanti aff. Baci Rosanna.” Cartoline scritte al “Tenente Pilota Enzo Sciucca” dalla moglie, Pia, una bella donna mora e dalla figlioletta Rosanna. La guerra non finì presto e il Tenente fu da essa falciato via come tanti e tanti e tanti altri, militari e civili. Anche Enzo scriveva all’amata Pia bellissime cartoline, per lo più acquerellate a mano, veri e propri piccoli quadri. Pia le conservava con amore e anche la figlia le ha tenute come le cose sante, preziosi ricordi del padre scomparso durante un attacco aereo nel “cielo dell’Africa Settentrionale” quando lei aveva appena 12 anni. Un centinaio di quelle che i due innamorati si sono scambiate furono scritte fra il 1928 e il 1932 e costituiscono il nucleo portante di un’altra collezione di Enzo Fumagalli, che ancora struttura la sua passione intorno a oggetti presenti nella sua casa e che narrano storie di famiglia. Non ci siamo mai visti, intratteniamo un veloce e sporadico rapporto “epistolare”, su Messenger e Facebook, famigerato social che ci spia, ma Enzo è un pò un amico, le sue preziose collezioni, Ceramiche del ‘900 e Pinocchi Antichi, sono state fonte di ispirazione e conoscenza, e, questa volta, occasione per ricordare una brava persona che facendo il suo dovere ne restò vittima. Enzo mi ha inviato un libretto “Il testimonio della morte. La singolare storia dei fratelli Sciucca di Arpino” scritto per commemorare suo nonno, cui deve il nome, e il di lui fratello, Roberto, bersagliere. Fu dato alle stampe in occasione della dedica di un monumento funebre ai Caduti nella piazza di Arpino (FR), borgo della Ciociaria dove era nato Cicerone. Roberto, bersagliere in Tripolitania, fu colpito da una granata mentre recapitava un dispaccio, disperso fu creduto morto, ma il fratello Enzo, con fiduciosa pervicacia, continuò a cercarlo e lo trovò, malandato e prigioniero in Egitto, riuscì a farlo liberare. Roberto tornò a casa, ma è come se avesse passato al fratello quella morte che gli aveva veleggiato intorno. Enzo, in una azione a Porto Said, venne abbattuto insieme a tutti gli apparecchi, meno uno, della sua squadriglia. 1942. “...libro di dolci sogni d’amore chiudi le pagine sul suo dolore.” Ora qualche parola sulla cartolina, nata come semplice cartoncino da spedire nel 1869, illustrata via via a piccoli pezzi, fino alla prima con intera facciata disegnata che mostra un drago che tiene un cartiglio, sullosfondo Mosca e Istanbul e i mezzi di trasporto per raggiungerli, treno e vaporetto, 1871. Se ne diffonde rapidamente l’uso, si
16 7 APRILE 2018
Le cartoline con l’anima
inviano notizie e saluti scrivendo poco, si può mostrare il luogo dove si è senza descriverlo, in seguito si useranno per la pubblicità e poi, illustrate ad hoc, per gli auguri...La lettera, con il suo contenuto celato e misterioso era ritenuta un mezzo di comunicazione non conveniente per giovani innamorati, la disvelata cartolina, era gradita assai, spesso era il tema della immagine ad essere allusivo ed entrare nella sfera del privato della coppia. Ecco quindi, fra le nostre di Enzo e Pia, quelle che ci mostrano bambini romantici ed affettuosi fra sè o tene-
ramente sognanti. Alcune ironizzano sui piloti, altre mostrano scene coloniali. Alcune opera di Carlo Chiostri, raffinato illustratore di libri per l’infanzia, Pinocchio in primis, altre di Aurelio Bertiglia, prolifico disegnatore di cartoline, fra cui proprio quelle che mostrano bambini paffutelli ed eleganti in atteggiamente adultizzati che si scambiano delicate smancerie. Nella collezione di Enzo, oltre a queste con l’anima, altre con città, pubblicitarie, a ventaglio, con volti di donne belle acconciate all’ultima moda, o da Pierrottine. Tutte belle e di valore.
di Gianni Bechelli Mi è capitato spesso, andando a Roma, di fare il tragitto che porta dalla stazione Termini alla Torre delle Milizie dove comincia la Roma Politica e degli incontri. E varie volte ho provato, deviando da via Cavour, a ritrovare l’istituto che ospitò negli anni ‘30 “ I ragazzi di via Panisperna” e credo di aver capito che si tratta di una palazzina nel retro del Viminale, ma non ne sono certo. Era per me un vero e proprio pellegrinaggio e in qualche modo entravo in empatia con la magia di quelli dei ben più robusti e faticosi spinti dalla fede sincera ed onesta, ma che tuttavia mi era sempre sembrata ammirevole ma ingenua. Eppure un po’ c’era di quella magia ogni volta che mi avvicinavo, sperando di trovare un segno di quella straordinaria esperienza che fu “Panisperna”. Niente, non dico santuari, ma targhe di un qualche orgoglio nazionale poi, da qualche mese è apparsa, nuovissima, una lapide in italiano ed inglese. Ottanta anni per ricordare che lì si realizzò un brainstorming probabilmente unico che proiettò l’Italia tra i primi paesi nella nuove teorie atomiche e nucleari. Fino ad allora la fisica era fatta da grandi cervelli che lavoravano solitari, mentre in Italia si improvvisò un gruppo straordinario che dialogò alla pari con i massimi cervelli del mondo fisico, e sotto la guida di Enrico Fermi contribuì con la legge del decadimento beta e con la teoria dell’interazione debole a ridefinire le forze della natura con la forza elettrodebole. Non a caso proprio Fermi fece parte del progetto Manhattan che costruì la bomba atomica, dopo aver vinto il Nobel nel 1938, e dopo che col gruppo aveva prodotto col neutrone lento una radioattività artificiale, che solo successivamente si scoprì essere in realtà il fenomeno della fissione nucleare, fondamentale non solo in teoria, ma per costruire acceleratori di particelle e produrre energia atomica. Ma molte altre furono le loro straordinarie attività, alcune di non facile descrizione , anche prodotte da un cervello matematico straordinario come quello di Ettore Maiorana probabilmente il più geniale, che lavorò sulla fisica e la matematica quantistica e che scomparve ancor giovane in un alone di leggende e miti che lo vedevano in un convento, sconvolto dai risultati delle scoperte sull’entità delle energie potenziali e rifugiatosi nella fede, o a una fuga in Sud America per una vita anonima, fino al suicidio o riconosciuto in
qualche clochard che faceva strane formule matematiche . Una sorta di Anastasia della famiglia dello zar in veste scientifica. Certamente ha rafforzato il mito sul gruppo, anche perché breve fu l’esperienza: il gruppo fu travolto dagli eventi drammatici della
tuale direttrice o di Carlo Rubbia. Siamo uno dei pochissimi paesi in cui è attivo l’interferometro per le onde gravitazionali del progetto Virgo a Cascina in Toscana. Il direttore del Gran Sasso Science Institute è un allievo di Amaldi. Inoltre, e poco in
Da via Panisperna a Roma all’interferometro di Cascina
seconda guerra mondiale e del dopo guerra e in qualche modo rappresenta la storia del 900: Fermi emigrò in America dopo le leggi razziali che coinvolgevano la moglie, Emilio Segre già per sua fortuna si trovava in USA alla Berkley, e nel 1959 vinse il Nobel per la scoperta dell’antiprotone. Un altro, Pontecorvo, dopo essere rimasto in Francia ai laboratori Curie ed in Inghilterra, si rifugiò per motivi ideologici in Urss e rimangono fondamentali i suoi studi sui neutrini e le loro oscillazioni. E per parlare solo dei più celebri. Amaldi, un altro del gruppo, è stato uno dei primi creatori del Cern, voluto fortemente, e non è un caso che i fisici italiani siano decisamente un bel gruppo fra quei ricercatori, per non parlare dell’at-
questo caso ha a che vedere con via Panisperna, non è molto noto che il padre della fisica delle stringhe, la teoria molto discussa ma che dovrebbe aprirci le porte ad una unificazione delle principali teorie fisiche (relatività e quantistica) con una definita teoria dell’universo e dello spazio-tempo, è un italiano, anzi un fiorentino, Gabriele Veneziani, riconosciuto internazionalmente. Lo dico non per orgoglio nazionalistico, ma semmai per una considerazione di quanto siamo strani noi italiani, poco inclini ad amare davvero la scienza e i suoi eroi, da spendere pochissimo in ricerca, e contemporaneamente riuscire tra i primi in uno dei settori più avanzati del pensiero umano, nonostante noi.
17 7 APRILE 2018
Oman
Il mercato di Nizwa
di Andrea Caneschi Il mercato di Nizwa, antica cittadina adagiata in una ampia oasi verdeggiante in mezzo alle montagne, è ospitato vicino alla vecchia fortezza. Restaurato recentemente con i colori del deserto, è fatto di bassi edifici separati da spazi aperti, che ospitano ciascuno un settore merceologico: il souk della carne, quello del pesce, con grossi tonni sventrati ed esposti a pezzi sui banchi di marmo, quello dei dolciumi, quello della frutta. Tutto abbastanza nuovo, abbastanza ordinato, per come ti aspetti un mercato orientale, le merci esposte con traboccante abbondanza. Anche a Muscat avevamo visitato dopo il tramonto il mercato locale in un dedalo di viuzze della vecchia città di fronte al porto, stipato di negozi e negozietti di ogni specie di merce: tante offerte per turisti, curiosamente abbondanti in un paese che da poco si è aperto ad accoglierli. Con la complicità delle luci serali e dell’ambientazione costretta, fatta di viuzze chiuse tra vecchi palazzi o in passaggi coperti poco illuminati, la presenza diffusa delle bianche tuniche tradizionali, di kefieh, berretti e turbanti, di donne in nero, completamente velate con il niqab o con maschere beduine, ci avevano disorientato procurandoci istantanee sensazioni di spaesamento, quasi si fosse su di un set cinematografico, con qualcosa di finto, di esagerato, che ci confondeva. Il mercato di Nizwa invece è solare, aperto e luminoso, percorso da strade aperte al traffico; risponde con tutta evidenza ad un bisogno sostanzialmente locale, e dai locali essenzialmente è frequentato: il piccolo crocchio di commercianti seduti in terra a bersi del tè, i contadini nelle loro tuniche da lavoro un po’ meno bianche, un po’ più stazzonate, con i volti più segnati e le barbe meno curate degli uomini della capitale, la piccola folla di uomini e donne che animano il mercato, tutto si compone in un frammento di vita quotidiana, dove le tuniche e i turbanti non sono suggestivi richiami ad un mondo immaginato, ma vivono e si muovono assolutamente veri intorno a noi. Il souck delle spezie però si differenzia, forse perché è ancora in un’ala appartata del vecchio mercato, un po’ malridotta e cadente ma densa di atmosfera, ancora una volta un senso di antico, quasi di un tempo rallentato, di profumi e colori rac-
18 7 APRILE 2018
colti con fatica contadina e offerti senza troppe altre mediazioni. Qui qualche vecchio consumato dalle estati del deserto, avvolto nella bianca dishdasha, può guardarti da sotto il suo turbante, senza farti sentire una occasione di guadagno per lui, ma piuttosto un estraneo nel suo mondo, nel quale tuttavia ti permette di entrare. Così come possiamo entrare ad assistere all’asta del bestiame, fortunati ad essere qui nell’unico giorno utile della settimana. L’asta si svolge in uno spazio dedicato, sotto una tettoia circolare che protegge dal sole del deserto; sotto la tettoia una sorta di palco a gradoni, sui quali si affollano contadini e piccoli allevatori della zona che portano a vendere o a scambiare qualche vitello, capre e agnellini. Gli uomini indossano le tuniche tradizionali, le donne beduine hanno maschere nere sul volto e portano scialli vivacemente colorati; le mani dipinte di eleganti arabeschi scuri, stanno sedute a terra, ai margini del piccolo affollamento, a badare ai bambini e agli animali, e a scambiarsi confidenze e racconti del loro quotidiano. I venditori girano intorno al palco, raccogliendo le offerte dei convenuti, che premono, radunati intorno a quel percorso circolare; gli animali sono portati in braccio o trascinati in mezzo alla folla con un legaccio al collo, due capretti, una capra già adulta, un vitellino, evidentemente scambi di un’economia di sussistenza. Le offerte sono quasi sussurrate, così che tutto si svolge quasi
in silenzio, e gli stessi giri, che si ripetono fino a decidere per l’offerta giusta dopo ripetuti confronti, pur nel ristretto spazio in cui i venditori sono costretti a muoversi intorno alla tribuna, procedono con calma, senza frenesie o il confuso vociare che un assembramento di persone cosi denso ci farebbe aspettare. Tempi rallentati, tranquilli senza il cacofonico rumore delle nostre analoghe occasioni di incontro. Come a Muscat, quando il festival che avevamo visitato una sera – una sorta di fiera di Scandicci internazionale del medio oriente –, ci aveva lasciato immersi in una tranquilla serata omanita. Famiglie a passeggio, rigorosamente in bianco gli uomini, le donne nei lunghi mantelli neri ricamati, tanti bambini, i fratellini spesso vestiti uguali, come i gemelli da noi tanti anni fa, a dipingere un quadro in cui ogni attore ha il suo ruolo assegnato ben evidente. Però allegria, attenzione ai bambini e al loro divertimento, tranquillità. Un teatro all’aperto, dove si rappresentava un musical americano, per chi sceglieva di sedersi davanti al palco, e poi voci basse, niente corse disordinate, niente assembramenti rumorosi, nessun impianto a diffondere musica da mal di testa. Anche in questo l’Oman ci confermava l’impressione di un paese che nel passaggio alla modernità si permette di scegliere e di non subire tutto quello che la ricchezza e la “civiltà” occidentali portano alle soglie del suo mondo.
Capino
Disegno di Aldo Frangioni
I pensieri di
Siamo venuti in possesso dei risultati di un sondaggio promosso fra i Fiorentini su quale potrà essere la sventura che li aspetta, dopo che la Colombina, domenica scorsa, ha preferito immolarsi e finire bruciacchiata in favore di telecamere in piazza Duomo, fra rintocchi di campane a festa e mortaretti, anziché percorrere a marcia indietro la navata della Cattedrale. Il sondaggio ha raggiunto, telefonicamente, 1.000 cittadini. Il campione si è previsto fosse rappresentativo, per genere, classi di età e orientamento politico alla popolazione residente. Questa la domanda rivolta dai sondaggisti: “Quest’anno, la Colombina non è andata bene. Vi è la credenza che questo fatto possa essere di cattivo presagio per quest’anno. Quale pensa possa essere la “disgrazia” prossima ventura per Firenze e le sue campagne?”. Ma il vero scoop (degno di Assange e di WikiLeaks) sta nell’aver avuto la possibilità di disporre di copia degli originali degli appunti su cui gli intervistatori avevano scritto non solo le risposte che erano state date loro nei contatti telefonici che avevano avuto, ma anche la sintesi delle motivazioni che le persone intervistate, pur non essendone richieste, avevano fornito a sostegno della “disgrazia” che avevano pronosticato come possibile e sia i dati riepilogativi delle risposte e delle considerazioni. Cominciamo dal ricordare che queste sono state le risposte degli intervistati: – che la Juventus vinca lo scudetto (269 intervistati) – che si faccia la nuova pista dell’Aeroporto (267 intervistati); – che non si faccia la nuova pista dell’Aeroporto (156 intervistati) – che il Renzi torni a Firenze (118 intervistati); – che il Renzi resti a Roma (96 intervistati); – che continuino a scoppiare i tubi di Publiacqua (87 intervistati); – “disgrazie” le più diverse, indicate singolarmente (7 intervistati). Ma le cose più interessanti, come era prevedibile, sono emerse dagli appunti che siamo risusciti a ricostruire (dopo un paziente lavoro di collage) dei fogli strappati che abbiamo recuperato dai cestini della carta in cui erano stati gettati
Colombina 2018: uccellaccio del malaugurio
nell’Ufficio URP del Comune. Fra i 269 intervistati che hanno messo le prevedibili sorti del Campionato di calcio al primo posto fra le disgrazie incombenti in questo anno 2018, sono stati: – 265 coloro che, a loro volta, incalzati dall’intervistatore, gli hanno chiesto: “Come perché? Me lo chiedi anche...?”, o una espressione equivalente; – 3 hanno detto di avere scommesso sul Napoli; – 1 signora ha detto di avere la Tessera del Tifoso del Napoli e di seguire la squadra di Sarri in tutte le trasferte. Fra coloro che temono venga fatta la nuova pista dell’Aeroporto di Peretola (267 in tutto, quasi quanti temono la disgrazia che il Campionato di calcio sia vinto dalla Juventus): – 198 si sono limitati a dire che abitano a Novoli; – 32 hanno detto di abitare a Sesto Fiorentino; – 30 hanno detto che preferirebbero si costruisse l’Inceneritore – 5 hanno detto di aver paura dell’aereo; – 1 ha detto: “Perché la un serve a un baffo”; – 1 ha risposto: “Sarebbe meglio se cambiassero la pista alla Colombina”. Dei 156 intervistati che temono la disgrazia sia quella di dover smettere di sperare che un giorno si arrivi a fare la nuova pista dell’Aeroporto di Peretola: – 140 hanno fatto capire che sarebbero interessati a qualche appalto (anche minore); – 13 hanno detto che, se la pista si farà, sarà più facile trovare lavoro; – 3 hanno detto che qualcuno ha detto che per loro un posto di lavoro “verrà dal cielo”. Sono stati ben 118 (quasi il 12% degli intervistati) a pronosticare che Matteo Renzi torni a fare politica a Firenze. Di questi:
– 82 hanno detto: “La un lo vede che a Roma un lo vole più nessuno”, o una espressione equivalente; – 18 hanno detto: “O indolla vole che vada...?”; – 15 hanno detto: “E vo’ fare presto, fino a che c’è un Sindaco che lo conosce... “; – 3 hanno detto: “Vedrà che farà come i pifferi di montagna, andarono per sonare e tornarono sonati!.” Sono stati, invece, 96 coloro che considerano una disgrazia la prospettiva che Renzi continui a fare politica a Roma. Tra questi: – 95 hanno risposto: “L’è voluto andare, ci s’è mandato e guai se torna”, o espressioni equivalenti; – 1 ha detto: “Lei la un mi conosce, ma sono Toni il suo Barbiere...”. Sono stati 87 quelli che paventano la rottura di altri tubi di Publiacqua e tutti hanno detto: “Spero che un sia sotto casa mia”, o espressione similare. Ed infine, queste sono state le 7 risposte “disperse”. Una per ciascun intervistato: – che dal lago di viale Belfiore, emerga un mostro marino; – che la sera di San Giovanni piova e che non ci siano i fochi; – che mettano in Piazza Signoria un “rocchio” (“Ha detto proprio così”, si legge negli appunti ricostruiti) ancora più brutto di quell’altro; – che il palio di Siena lo vinca la Contrada dove sta mia Suocera; – “Colombina... ? Quale Colombina?”; – “che gli pare se n’abbia poche di disgrazie? E ci s’avea a mettere anche la Colombina”; – che il Giani, essendogli rimasta indigesta la Colombina affumicata, per consiglio del Medico, debba dimettersi da almeno tre o quattro Presidenze.
Galleria Il Ponte - Firenze
Mauro Staccioli Lo spazio segnato al MI art di Milano 19 7 APRILE 2018
di M. Cristina François Prima di presentare queste riflessioni iconografico-teologiche, vorrei ringraziare ancora i “Friends of Florence” nella persona della Contessa Simonetta Brandolini D’Adda per lo straordinario restauro del complesso Capponi di S.Felicita realizzato dal team di Daniele Rossi. Mi ricollego a quanto scritto nel mio articolo [“CuCo” n.255, pp.16-17] in cui sottolineo la posizione, nei confronti del nascente Luteranesimo, di chi progettò questa Cappella, di chi la commissionò e di chi ne realizzò le opere. In questo contesto sacro e artistico la Madonna riveste un ruolo assai importante, se non preminente. La sua raffigurazione si impone, gigantesca e centrale, nella tavola d’altare, e sulla controfacciata, dove occupa un terzo della parete; Antonio Natali parla di “aspetto maestoso” per questa Annunciata e definisce “monumentale la pala che gli si squaderna accanto” [A.Natali, ‘Pontormo’, 2014, Firenze, Menarini, p.183]; noterei pure, se i critici d’arte ce lo consentono, la posizione privilegiata di Maria nel paliotto dell’altare secondo la convincente dimostrazione di Beatrice Paolozzi Strozzi [‘Di un ramo di gigli del Pontormo’ in “Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz”, 1999, pp.49-79], paliotto che ospitava l’“oculo” di una Madonna col Bambino, come a ostendere il Figlio da offrire sulla sacra Mensa. Ma la presenza della Madre di Dio non si limita a queste tre immagini, perché dove ora sorge il Monumento a S.Carlo fu dipinto dal Pontormo fra l’Arcangelo e Maria: “un Vaso grande con un Ramo di Gigli bianchi” [ibidem, pp.62-63,72]. Chi scrisse questo è il Vescovo di Carpentras Mons. Orazio Capponi che volle il Monumento al Borromeo [“CuCo” n.246, pp.20-21] e, deliberatamente, compensò la cancellazione di questa parte dell’Annuncio a Maria facendo riprodurre un vaso con tre gigli bianchi superiormente al cenotafio, opera che il Vescovo definisce “una bella forma di Vaso d’Ametista verde”. I gigli bianchi nelle Annunciazioni sono innumerevoli, sia in ramo, tenuti da Gabriele e portati in avanti come lo scettro di un ambasciatore, sia entro un vaso. Inizialmente questi fiori furono raffigurati in numero di tre (come nel Monumento), poi il ramo fiorì sotto il pennello dei pittori, ma il loro significato teologico accanto all’Annunciata rimase lo stesso: la sempre Vergine “ante partum, in partu, post partum” (Concilio Laterano
20 7 APRILE 2018
I gigli del Pontormo
del 649). Questo interesse mariologico, col tempo, cominciò a prendere il passo su quello cristologico tanto che Lutero reagì così nel “Commento al Magnificat” (15201521) e nel “Commento all’Ave Maria” (1523): “Tutti coloro che tanto la lodano e l’onorano, non sono molto lontani dal farne un idolo”; e prosegue: “anche se fosse stata senza peccati, questa grazia è tanto eccellente che in nessun modo ne sarebbe stata degna. Come potrebbe una creatura essere degna di diventare Madre di Dio?”; più oltre aggiunge: “Dobbiamo riportarci sulla retta via. Dalle professioni di fede, e più ancora dall’Evangelo, sappiamo che il Cristo tutto ha già fatto per noi. Non posso dunque dire di Maria che credo in lei; se lo dicessi, bestemmierei Dio. Al Cristo solo perciò va reso ogni onore, perché non abbiamo alcun altro mediatore, né Maria, né gli apostoli, né i profeti, all’infuori del Cristo”. Sono queste prime posizioni assunte dal Lutero degli anni ’20 - e quindi coeve al Pontormo - che in questa Cappella ci fanno respirare una certa aria antiluterana. In seguito lo stesso Lutero sfumerà queste sue convinzioni relative alla Madonna. I
Luterani, poi, si avvicineranno sempre più alla figura della Vergine fino a giungere - dopo essere passati attraverso il “mariologo della Riforma” Ulrico Zwingli - alla rinnovata meditazione ecumenica di oggi. I gigli bianchi significano verginità e purezza della Madre di Dio. Il vaso che li contiene ne simboleggia l’utero incontaminato, arricchendo di un grande valore l’iconografia mariana di questa Cappella: recitano l’articolo centrale del Credo che Ireneo esplicitò nella formula “Vere homo et vere Deus”. Cristo divenne uomo per mezzo della Vergine che divenne così garanzia e testimone della Sua Incarnazione. Natali ci parla delle due pareti di questa Cappella “come fossero due pagine d’un libro aperto” [op.cit. p.183]. Sono queste le principali pagine del ‘Libro della Fede Cattolica’ e la Madonna vi riveste il ruolo di ‘Primus Sacerdos’. Lo dimostra con diversi esempi fra XVI e XVII secolo la letteratura Cattolica Apostolica Romana, erede dei SS.Padri della Chiesa: A.Orozco afferma che “Cristo non fu consegnato dal Padre, ma dalla Madre benedetta, Maria. Essa, piena di zelo per l’onore di Dio ben più di Abramo, offrì il suo Isacco, offrì il Figlio in olocausto al Padre del Cielo quando lo vide pendere dalla Croce” [“Omelia per la Quinquagesima 3”]; A.Salmerón che “Gesù chiamò la Madre presso la croce affinché la Madre stessa offrisse suo Figlio in sacrificio per il mondo al Padre eterno, come Abramo” [“Commento a Giovanni, 19, 26, 4”]; F.Poiré che: “Questa unione di volontà con il Figlio che ha consegnato se stesso al Sacramento è sufficiente per dire che lo riceviamo anche dalla Madre […] è questo che Sant’Epifanio ha voluto dire quando ha dato alla S.Vergine il nome e l’ufficio di Sacerdote che ha offerto sul santo altare, il pane celeste per la remissione dei peccati” [“La triplice corona della B.Vergine” 4,4]; F.Chirino de Salazar che “la volontà della Vergine ha cooperato con quella del Figlio alla realizzazione dell’Eucarestia” [“Commento ai Proverbi”, 9]. L’Angelo sorprende qui Maria nell’atto di leggere le pagine di Isaia 7, 14. La sua lettura viene interrotta dalla “salutatio” di Gabriele, mentre l’indice della sua mano tiene socchiusa la Bibbia alla pericope che le annuncia profeticamente il ruolo di Madre di Dio riservatole dal Signore.
Compleanno Palli 4 aprile 2018 80 anni (addenda)
Sapevamo che non sarebbero bastate le otto pagine dello scorso numero per accogliere i pensieri, i ricordi e gli omaggi che hanno festeggiato gli ottant’anni di Carlo Palli e non potevamo certo ignorare tanto affetto e tanto riconoscimento per un’attività “no stop” «in viaggio 24 ore su 24». Ancora auguri caro Carlo!
All’Illustrissimo e Clarissimo Signor CARLO PALLI In occasione dei suoi splendidi Ottanta Anni La Gloria, Carlo, amico schietto e franco, Robuste ed agili Ali ti cinse al fianco, Il vol tu ergesti rapido E vincitor degli anni: Non arrestarti; accelera Ognor più alto senz’affanni. Poggia al nobil fastigio, E fa’ che ‘l toscano Suol, d’ogn’ingegno ligio, più non invidii l’arte di lontano! LORENZO e LAMBERTO PIGNOTTI Agli ottant’anni dell’amico Carlo vissuti alla grande, sempre a inseguire dipinture che, per meraviglioso sortilegio, gli rimanevano attaccate addosso. Umberto Buscioni Caro Carlo. Tanti tanti auguri ! Da un Ufo Affezionato. Lapo Binazzi
Carissimo Carlo, ho avuto da Laura l’anticipo della notizia bellissima del compimento del tuo primo 80’ compleanno. Ti invio i miei più vivi complimenti per questo traguardo. E’ un genetliaco meraviglioso modestamente paragonabile a quello di Papi e Cardinali del Rinascimento, protettori degli artisti contemporanei e difficili del loro tempo. Giovanni Orsini
Ho conosciuto Carlo Palli nei primi anni settanta a Forte dei Marmi, erano gli anni d’oro delle aste che avevano luogo tutte le sere nelle gallerie e noi ci incrociavamo spesso in quanto fornitori concorrenti di alcune di queste. Una domenica Carlo con Luciano Paladini vennero a trovarmi a Torino, entrambi interessati alla grafica di Marino Marini, scelti i fogli iniziò un’estenuante trattativa in quanto loro più che alle opere di Marino erano interessati
Caro Carlo, il mio saluto e l’augurio che posso farti, è quello di perpetuare la tua rinascita, per tanti altri anni, immersi in una luce particolarmente propizia. La luce cristallina che ci accompagna a credere nell’arte, quella vera. Gian Luca Cupisti Cara inarrivabile e invidiabile Laura, per il nostro instancabile amico e compagno di avventure, Carlo , giovane (sedicente?) ottuagenario, ho pensato di inviare quale omaggio una lode celebrativa fatta insieme all’altro Pignotti, Lorenzo, “avolo” e irriverente precursore neoclassico di linguaggi tecnologici, dalla scienza alla moda. Giustamente la natia Figline gli ha dedicato il corso principale. Auspicando l’ambito compiacimento di Carlo e la tua affettuosa condivisione, devotamente ti abbraccio. Lamberto Pignotti
Fabio Mati
a fare delle vantaggiose permute con opere che a me non interessavano proprio. Incominciò a questo punto una lunga discussione nell’intento di persuadermi della bontà delle proposte; a sera erano ancora la e determinati a concludere la trattativa. Era già tardi, dovevano rientrare a Firenze, e un pò per questo motivo e molto per stanchezza concludemmo l’affare. In seguito ci siamo frequentati e abbiamo realizzato iniziative con reciproca soddisfazione. Carlo Palli ha il merito di avere promosso e sostenuto la poesia visiva ed è grazie a lui che possiamo ammirare una delle collezioni più importanti e complete oggi esistenti. Carlo è un grande organizzatore di eventi, ma soprattutto un grandissimo persuasore, come adesso che vuole convincerci di avere 80 anni, quando solo lo scorso anno ne aveva 70. Caro Carlo non importa quanti sono, ma quanti te ne senti e finché avrai sogni e curiosità sarai sempre giovane. Auguri Nicola LOI
Caro Carlo, tanti auguri per i tuoi 80 anni da me e la mia squadra di football del cuore “Papua Nuova Guinea” al completo. Marcello Diotallevi Ricordo con grandissimo piacere la realizzazione della mostra Viva Italia! presso la Galleria Civica di Bratislava, inaugurata durante il Festival di Cultura italiana in Slovacchia “Dolce Vitaj” nel giugno 2016. Viva Italia! ha consentito al pubblico slovacco di conoscere movimenti, gruppi, tendenze che hanno caratterizzato l’arte italiana del secondo dopoguerra grazie alla generosità di Carlo Palli che ha concesso gratuitamente circa 100 opere. L’ambiziosa esposizione - frutto della collaborazione fra l’Archivio Carlo Palli, l’Istituto Italiano di Cultura, l’Ambasciata d’Italia e la Galleria Civica di Bratislava - ha usufruito dei contributi di importanti sponsor quali Banca Intesa e Generali e si è svolta sotto il patrocinio del Ministero della Cultura slovacco. Antonia Grande
21 7 APRILE 2018
1982 Carlo Cantini a New York
Lichtenstein davanti ad una sua opera alla Galleria Nancy Hoffman
22 7 APRILE 2018
di Carlo Cantini