Numero
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Con la cultura non si mangia Giulio Tremonti (apocrifo)
L’ultima lettura che ho fatto... non ricordo. Se proprio ci devo pensare, ho riletto Il processo di Kafka. Quando? Mi pare tre anni fa. PerchÊ? PerchÊ mi piace. Certi film che mi piacciono li ho rivisti anche cinque volte. Non leggo altro da tre anni, non ho tempo per leggere per svago Lucia Borgonzoni, sottosegretario alla Cultura e al Turismo
Il processo del cambiamento Maschietto Editore
Vinci, 1995
La prima
immagine Siamo a Vinci nel 1995 e questo pittore, un’artista molto conosciuto in Cina, che si chiama Huang Yong Yu è stato ritratto nella casa della figlia Wang Hakni. Ho scattato l’immagine mentre sta dando gli ultimi ritocchi a un mio bel ritratto realizzato su carta seta nel solco della migliore tradizione cinese. Era molto simpatico ed era venuto in Italia in visita alla figlia ed al genero. Anche loro erano delle persone davvero colte e squisite. E’ stato un gran piacere averli incontrati, ma proprio in questi giorni mi sono reso conto che non avevo mai fatto incorniciare la sua opera che mi riguarda molto da vicino. La presento quì con il ritratto dell’autore, una persona colta, simpatica e sorridente. Ho deciso comunque che che devo trovare subito un artigiano che trasferisca il dipinto su seta per poterlo incorniciare e finalmente appenderlo al muro.
dall’archivio di Maurizio Berlincioni
Numero
30 giugno 2018
Tiziana senza Rivale Le Sorelle Marx
La Saga del Promesso Assessore I Cugini Engels
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Riunione di famiglia
In questo numero Quarto Paesaggio L’esperienza urbana della bellezza di Virgilio Sieni
Un’utopia realizzata di Alessandro Michelucci
Il manifesto Calenda: troppo poco e troppo tardi di Michele Morrocchi
Disegnare la Toscana di Andrea Ponsi
I dati della cultura di Tomaso Boyer
Notti in bianco di Angela Rosi
S.Felicita, il patrimonio invisibile di M.Cristina François
La musica al Louvre di Simone Zanuccoli
David Douglas Duncan This is war! di Danilo Cecchi
La madre di tutte le battaglie di Paolo Marini
Victor Hugo, poeta di Gabriella Fiori
e Capino, Remo Fattorini
Direttore Simone Siliani
Illustrazioni di Lido Contemori e Massimo Cavezzali
Redazione Progetto Grafico Mariangela Arnavas, Gianni Biagi, Sara Chiarello, Emiliano Bacci Susanna Cressati, Carlo Cuppini, Remo Fattorini, Aldo Frangioni, Francesca Merz, Michele Morrocchi, Sara Nocentini, Sandra Salvato, Barbara Setti
Editore Maschietto Editore via del Rosso Fiorentino, 2/D - 50142 Firenze tel/fax +39 055 701111
Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012
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Le pratiche artistiche e performative contro il degrado e la solitudine urbana. È uno degli obiettivi del progetto promosso e finanziato da Fondazione CR Firenze con la direzione artistica di Virgilio Sieni e la collaborazione di Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, Scuola di Musica di Fiesole, Tempo Reale. Col recupero della Palazzina dell’Indiano si avviano oltre 130 eventi tra performance, concerti, incontri, laboratori, lezioni sul gesto, centri estivi e installazioni distribuiti nella città da giugno a settembre. Fanno parte di Quarto Paesaggio: PIA/ Palazzina Indiano Arte, il Festival Nuovi Cantieri Culturali Isolotto, Cenacoli Fiorentini_Grande adagio popolare, Le Piagge/ Abitare la democrazia
di Virgilio Sieni Il progetto Quarto Paesaggio. L’esperienza urbana della bellezza nasce per intraprendere un viaggio nei territori che compongono Firenze e l’intorno ripensando il senso dell’abitare come cura dell’individuo e apertura verso nuovi linguaggi. Il progetto è fondato sulla relazione tra cittadino e territorio, umano e natura e si articola per tappe che hanno come obiettivo la rivitalizzazione di luoghi unici grazie a un ciclo di esperienze che vanno dalla natura al gesto, dalla memoria del movimento alla creazione di nuove geografie urbane: una riscrittura intima del paesaggio declinata attraverso pratiche, residenze artistiche, condivisione e rigenerazione di spazi, presidi culturali, camminamenti, ascolti e visioni. Quarto Paesaggio è composto da quattro Movimenti che formano un unico Progetto: il Parco delle Cascine, con la riqualificazione della Palazzina dell’Indiano, attraverso il progetto PIA/Palazzina Indiano Arte rappresenterà il raccordo innovativo tra i territori limitrofi partendo dal Quartiere 1 fino ai Quartieri 2, 4 e 5 dove si svilupperanno i progetti Nuovi Cantieri Culturali Isolotto, Cenacoli Fiorentini e Le Piagge/Abitare la democrazia, esperienze scaturite da lunghi periodi di ricerca sulla natura del territorio, sul senso delle periferie, sulla funzione del cittadino e sulle pratiche del gesto quale mezzo espressivo di conoscenza e di riappropriazione dell’ambiente che ci circonda. Ciascun Movimento rappresenta un percorso di ricerca e scoperta di soluzioni per abitare i luoghi, la natura e l’arte, a partire dalla relazione tra gli individui. Nei terri-
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Quarto Paesaggio
L’esperienza urbana della bellezza
tori saranno sviluppati progetti inediti per creare un humus culturale dettato dalla partecipazione dei cittadini nei processi artistici: residenze, pratiche rivolte a persone di tutte le età, piantumazioni, rigenerazione, ristrutturazione e condivisione di luoghi, cammini ed eventi, apertura di spazi e gallerie, messa in posa di una scultura pubblica. Verranno sviluppati presidi culturali nei territori durante tutto l’anno: gallerie d’arte, spazi delle pratiche, luoghi di incontri, azioni condivise, coinvolgimento delle scuole in programmi scolastici.
Il territorio che Quarto Paesaggio abbraccia è riplasmato, ossigenato, ricamato, impreziosito, grazie a gesti inediti condivisi, aprendo così lo sguardo a metafore dense di significato che trascendono la singola situazione e si riversano nel desiderio – umanissimo – di cura e custodia di un prezioso bene comune. Rimodellare il territorio ricercandone i dettagli e le tracce poetiche, i volti e i gesti nell’incontro tra il luogo e la memoria, diviene la pratica sostenibile per tornare ad abitare il mondo.
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Le Sorelle Marx
Tiziana senza Rivale
Si sa, quando cambia un regime, si dà l’assalto al carro per salirci. L’assalto alla diligenza ognuno lo fa come può e con i talenti che Madre Natura gli ha fornito. Tiziana Rivale, al secolo Letizia Oliva, ne aveva avuti in abbondanza: una voce davvero bella, una certa fortuna festivaliera (a quello di Sanremo del 1984 con “Sarà quel che sarà”, titolo che sembra quasi una premonizione dei suoi più recenti fasti), collaborazioni illustri (da Gino Bramieri a Walter Chiari, da Gianni Turco a Paolo Limiti) e una vocazione internazionalista (canta molto in inglese). Ma la fortuna, si sa, va e viene e negli ultimi tempi per la povera Tiziana soprattutto era andata: qualche anno di inabissamento nell’anonimato, dal 2011 al 2015, quando esce nel solo formato digitale l’album “Babylon”. E già questo doveva essere un sintomo della confusione nella quale la cantante era caduta. Tanto che sul finire del 2017 la Nostra esce con uno sfolgorante singolo + video: “The Shadow of Elohim”, dedicata all’uso della geoingegneria, con effetti dannosi e mortali sulla natura e
sulla salute di tutti gli esseri viventi, e agli antichi racconti degli Elohim biblici, extra terrestri che avrebbero vissuto sul pianeta Terra e avrebbero fabbricato la specie umana (gli Adamiti) per servirsene come schiavi. La nostra signora si sarà detta: “qui cambia il vento. Arrivano ‘sti strani dei 5 Stelle che mi sa che sbaragliano tutti. Mi sembrano un po’ kitch però... sarà quel che sarà: piatto ricco, mi ci ficco! In fondo “Questo mondo è una baracca” e, sai cosa, “Io sono come il sole”, molto “Più forte” e “Con tutto l’amore che c’è” provo a dare l’assalto al cielo”. E così si è buttata a capofitto nel campo delle scie chimiche (“Guarda in alto il cielo lampeggiante/ le scie di funo spesso cambiano i nostri giorni/distruggendo la nostra vita”), in scenari apocalittici (“L’ombra di Elohim è qui/non c’è tempo per coprirsi gli occhi/ scoprite la verità” - “Nubi radioattive portano piogge che avvelenano l’aria che respiriamo giorno e notte, ovunque noi siamo”) e in appelli redentori (“Svegliatevi o gente sciocca, la presenza di Elohim è qui, apriamo gli occhi, vogliamo essere liberi”).
Segnali di fumo
primari, quelli fisiologici, (mangiare, bere, dormire) insopprimibili; poi ci sono i bisogni elementari, basici: la sicurezza, il lavoro, l’autorealizzazione, l’amore, l’appartenenza. Non c’è quindi da stupirsi se coloro (forze politiche e sociali) che sono interessati a far lievitare la domanda di sicurezza soffino sul fuoco dell’immigrazione, amplificando i fatti di cronaca, i fenomeni di criminalità, alimentando la paura e la pericolosità dei migranti. Ormai tutti dovremmo aver capito che tra percezione e realtà non c’è differenza: ciò che viene percepito è reale. È così che funziona. Ed è così che il bisogno di sicurezza, quello a 360 gradi, diventa un bisogno primario, mentre tutti gli altri (solidarietà e accoglienza) scivolano all’indietro, essendo meno urgenti. Morale: sono proprio i ceti popolari, quelli che con la crisi hanno perso una fetta del proprio benessere e vivono il futuro come una minaccia, a guardare con indifferenza e ostilità agli immigrati, alimentando quella che un tempo
di Remo Fattorini Proviamo a capire. Partiamo dal bisogno di sicurezza. È del tutto normale che coloro che si sentono poco protetti, minacciati, abbandonati, incerti sul proprio futuro o su quello dei propri figli, siano poco sensibili e poco disponibili verso istanze altruistiche, ostili e diffidenti verso l’accoglienza di immigrati. Tanto più a fronte di un’attenzione insufficiente verso i loro disagi. Chi ha approfondito la materia - vedi Anna Maria Testa su https://nuovoeutile.it/piramide-dei-bisogni-maslow-politica/ - ci dice che i bisogni non sono tutti uguali. Ci sono i bisogni
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Sicuramente il nuovo potere grillino apprezzerà lo sforzo, senza rivali, della Rivale e la chiamerà ad inaugurare il Festival di Elohim e delle scie chimiche di Camogli. avremmo definito la guerra fra poveri. Sono proprio i ceti popolari a guardare con simpatia a Salvini e a votarlo nel segreto dell’urna. Il perché è presto detto: lui più di altri dimostra di saperli ascoltare. Del resto dovremmo aver imparato che il rispetto e la solidarietà prevalgono solo all’interno di comunità unite e coese, con squilibri contenuti e dove il livello di benessere è distribuito equamente, in modo che ognuno possa avere la sua opportunità. Condannare ed etichettare questa gente come razzista, insensibile o peggio ancora come fascista non farà altro che aumentare la domanda di sicurezza, l’astio verso chi sta peggio e, soprattutto, verso chi non ascolta e non capisce. Esemplare la vicenda del circolo Arci Benassi di Bologna, dove alcuni soci hanno espresso su La7 apprezzamenti per le posizioni di Salvini. Reazioni della presidente Arci: “Fuori i razzisti dai nostri circoli” e il circolo chiude le porte ai giornalisti. Tutto sommato è andata bene: nessuno è finito in Siberia.
I Cugini Engels
La Saga del Promesso Assessore (continua
Riassunto delle precedenti puntate: per il posto di Presidente del Consiglio Comunale di Firenze, lasciata libera da Caterina Biti approdata a ben più alti scranni (quello senatoriale che, data la performance del Pd, è stato dedicato a Santa Caterina) concorrono due giganti della politica fiorentina, Andrea Ceccarelli e Massimo Fratini. La spunta Ceccarelli, ma con la promessa solenne di Nardella di far entrare Fratini in Giunta. L’astuto sindaco si rende conto però solo dopo che ha già raggiunto il numero massimo di assessori consentito dalla legge. Ma lui, imperterrito, proclama ad alta voce: “Qualunque aspetto che riguardi i tempi e le modalità sarò io a deciderli e ve le comunicherò appena sarà presa la decisione. E non ci sarà un rimpasto ma un avvicendamento”. Così, il buon Fratini, dopo quasi due mesi di silenzio del sindaco, torna alla carica. O almeno ci prova; ma accade questo. “Pronto, Braghero? Senti Manuele, io ho provato mille volte a telefonare a Dario, ma lui non mi risponde. Come si fa? Me lo puoi passare?” “Aspetta, Massimo, provo a sentire”. Ma, Nardella, casualmente presente: “No, Manuele, digli che sono molto occupato: mi sta stressando l’anima!”
“Pronto, Massimo? No, senti, Dario non può in questo momento è molto occupato” “Siiii, occupato a strimpellare il suo maledetto violino! Io voglio parlarci perché mi ha promesso di farmi assessore e cacciare uno qualsiasi di quegli omuncoli che si è messo in Giunta, ma per ora non ho visto nulla! Senti, sono qui a Palazzo Vecchio: salgo lì da voi!” “Dario, questo viene a Buté ël cul ant la farina. [trad. dal piemontese: Mettere il deretano nella farina]” “Cheeee? Non capisco” “Voglio dire che sta venendo qua” “Oddio, noooo. Senti io mi nascondo su nei Quartieri monumentali dietro la maschera di Dante. Tu tienilo occupato.” Ma appena voltato l’angolo della scala che porta ai Quartieri monumentali di Palazzo Vecchio, Fratini irrompe e lo nota con la coda dell’occhio. Inizia un inseguimento fra turisti, custodi, anfratti, opere d’arte, fino a quando Nardella riesce a trovare riparo nelle stanze della collezione Loeser, di cui Fratini ignorava l’esistenza, pensando che si trattasse di una sponsorizzazione di una famosa marca di biscotti. Così Nardella Cuor di Leone riesce a guadagnare l’uscita e a tornare nei suoi appartamenti. Ma il Fratini, più gorpe che lione, lo attende al
varco fuori dalla porta della Sala di Clemente VII così che Nardella si trova assediato in ufficio. Invia il capo di gabinetto a trattare con l’assediante. “Senti, Massimo, il sindaco è un uomo impegnato, ma di parola e se ha detto una cosa, la mantiene” “Siiii, e quando? Fra poco finisce la legislatura! Quello mi piglia per il sedere, ma io non mi faccio fregare. Chiamo il Cardinale e vediamo chi la vince!” “Senti, ma ti se’ proprio un piciu! [trad. pirla] Se ti ha detto che te lo fa fare, puoi stare sicuro. E’ uomo di parola. Guarda come è stato bravo sulla moschea: ha detto ai musulmani che la faceva, ma a Betori gli ha detto che potevano schiantare prima di fargliela, e infatti... Perché, caro Massimo, come si dice dalle mie parti Val püsè na bóna làpa, che na bóna sàpa [trad. Vale più avere una buona lingua, che una buona zappa] e a chiacchiere Dario non lo batte nessuno”. “Appunto, lo vedi che mi piglia per il culo? Ma andate a quel paese” Si affaccia il sindaco: “Oh, Manuele, è andato via? Uff, anche questa volta l’abbiamo sfangata. Però son furbo, eh: se va avanti così riesco a scavallare l’estate e poi arrivare alle elezioni è un fiat e il buon Fratini se lo scorda il posto”
Il senso della vita di Massimo Cavezzali
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di Michele Morrocchi Non c’è dubbio che Carlo Calenda sia stato capace di costruirsi un ruolo e una visibilità da personaggio politico nazionale in un tempo relativamente breve, così come indubbie sono le capacità di comunicazione e dialettiche dell’ex ministro. In pochissimo tempo Calenda è diventato, forse insieme al solo Minniti, il volto pubblico del governo Gentiloni: infaticabile sui social non si è risparmiato nel dialogo coi cittadini e nelle polemiche molto spesso con esponenti del PD, Michele Emiliano su tutti. Iscrittosi, direttamente alla Direzione del Partito, al PD dopo la batosta elettorale ne è in breve diventato uno degli esponenti più in vista del partito in disfacimento ponendosi come alternativa renziente al renzismo diroccato (e per ciò inviso a Renzi e ai suoi accoliti). Da questa posizione ha iniziato a maturare pose da padre fondatore e, con indubbio merito e capacità, iniziato a proporre ricette che mercoledì scorso hanno dato vita a una specie di manifesto programmatico pubblicato su il Foglio. Torneremo poi sulla scelta della testata, partiamo invece dai contenuti. Il manifesto dopo una non breve analisi delle colpe dei progressisti nel tentare di governare la prima globalizzazione e nel configurare un plausibile scenario, lacrime e sangue, di fine del lavoro tradizionale (scenario che ça va sans dire vedrebbe l’Italia messa peggio di quasi tutti i Paesi occidentali) ne evidenzia il rischio, da noi passato ormai dalla potenza all’essere, di una crisi profonda, forse irreversibile, della democrazia liberale. Per impedire del tutto questo scenario, ci dice Calenda, occorre andare oltre la rappresentanza di classe e dunque al “semplice” campo progressista dando vita ad una Alleanza repubblicana. Tuttavia quello di Calenda non è un cartello elettorale o un fronte di resistenza temporaneo ma un vero e proprio patto politico che si fonda su una comunanza di alcuni temi, a sua scelta verrebbe da dire. Vediamo quali: in primis la sicurezza economica, intesa come adesione all’Euro e al sistema europeo, proseguendo con il “piano Minniti” per fermare gli sbarchi e proteggendo gli sconfitti rafforzando strumenti come il reddito di inclusione. Naturalmente senza dimenticare i “vincenti”, garantendo loro infrastrutture materiali e immateriali, formazione e competitività, passando poi dal ribadire l’Europa come idea guida e dal combattere l’analfabetismo funzionale. Tutte cose buone e giuste sia chiaro, difficile
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per chi non si dichiari oggi sovranista e populista non dirsi d’accordo; tuttavia col limite di presentare un minimo comun denominatore per un cartello elettorale e non certo un programma di governo per una alleanza all’altezza delle premesse di difendere la democrazia come l’abbiamo conosciuta nell’occidente da settant’anni a questa parte. Se la socialdemocrazia ha fallito nella sua elaborazione degli anni ’90 del XX secolo nel pensare di poter governare la globalizzazione come tutti ormai tendono a dire (anche se il dibattito forse avrebbe bisogno di altro respiro, o almeno di un setaccio che non gettasse Amartya Sen insieme a Tony Blair), pensare di rifondare un pensiero progressista su questi punti ha il fiato corto prima ancora di mettersi in marcia. Certo nemmeno Marx è partito da il Capitale ma qui manca l’accuratezza e la pesantez-
Il manifesto Calenda: troppo poco e troppo tardi
za almeno dei grundgrisse, il terreno utopico che è in grado di dare la dimensione del sogno, del riscatto se non per sé almeno per la nostra prole. E se non ripartiamo dal riscatto a partire dagli ultimi (ché chiamarli sconfitti come li chiama Calenda non da’ proprio un’idea di ottimismo), da una idea di speranza, come si può pensare di sconfiggere l’egemonia culturale della paura che oggi ha fatto trovare casa agli ultimi, insegnando a questi a odiare quelli ancora più ultimi? Questo sui contenuti, ma che dire sulla proposta politica che traspare dal manifesto di Calenda? Che cultura politica rappresenta l’ex ministro? Ecco a mio avviso siamo di fronte a un riformismo elitario, espressione ennesima della borghesia illuminata, intellettuale e colta. Quella classe che di volta in
volta ha dato vita a felici famiglie politiche e negli ultimi anni si è presentata come il volto tecnico della politica. Ecco su questo occorrerà forse aprire una parentesi. E’ talmente introiettata in noi la cultura della politica come degenerazione, almeno dalla nefasta stagione apertasi nel 1992, che larga parte dei gruppi dirigenti del Paese ha visto con piacere e rassicurazione l’idea che siano dei tecnici a guidarci, senza comprendere che la tecnica andava sì invocata e ricercata ma non nella capacità di essere bravi direttori generali, ma nel formare tecnicalità della politica, che non sarà un’arte forse ma è di certo mestiere, inteso qui nel senso arcaico e artigiano del termine. Siamo dunque arrivati al punto che non ci sogneremo mai di far riparare il nostro impianto elettrico di casa da un pescivendolo ma non ci poniamo il problema che chi ci governa abbia o meno il mestiere di governare tra le sue capacità; stupendoci poi se questa sfiducia nelle elites si trasla poi nei confronti degli scienziati e dei medici. Insomma il tecnico di per sé non è salvifico e pure Calenda rischia la fine di Monti e Dini, pur non augurandogliela. Sì perché il suo è un liberalismo temperato da un po’ (invero poca) di socialdemocrazia e molto paternalismo: un partito d’azione senza il dirigismo, con meno dottrina sociale e qualche riflessione utopistica in meno. Culture politiche che in questo paese mai hanno saputo raggiungere un popolo come invece avrebbe bisogno la sinistra oggi dove la sua estinzione non è tema da escludere a priori. Invece vedo in Calenda il ripetersi di vecchi errori, di quello che un tempo avremmo chiamato il problema del rapporto con le masse, escluso quasi a priori da queste culture politiche in virtù di una fede deterministica nella capacità del popolo di comprendere che chi sa lo guiderà al meglio. Paternalismo per l’appunto. Infine, in questo solco, un’ultima riflessione sul mezzo scelto. Come è noto il mezzo non è mai neutro ma quasi sempre predefinisce e determina il fine. Se il tema è ridare speranza, agibilità e voti al popolo di sinistra, far pubblicare il proprio manifesto su il Foglio (sia detto da affezionato lettore seppur orfano della direzione di Giuliano Ferrara) quanto meno non rappresenta un inizio brillante. Il rischio, riassumendo, è che si avesse l’ambizione di cambiare il mondo e ci si accorga che al massimo si potrà ambire ad un patto elettorale con Forza Italia. Il patto degli sconfitti peraltro; non proprio un augurio di buon lavoro.
Musica
Maestro di Alessandro Michelucci L’educazione musicale ha un valore culturale e umano altissimo, ma nei paesi più svantaggiati può averne anche uno sociale, perché può essere utilizzata per strappare i giovani al degrado e alla delinquenza. Questa intuizione è merito di José Antonio Abreu, che nel 1975 fonda il modello didattico chiamato El Sistema. L’idea del musicista venezuelano è semplice ma geniale: realizzare un sistema di educazione musicale aperto ai bambini di tutti i ceti sociali. Una struttura pubblica diffusa capillarmente in tutto il Venezuela, grande tre volte l’Italia e ricco di strade impervie. All’inizio sembra il classico sogno bello ma irrealizzabile. Quando Abreu organizza il primo giorno di prove, che si svolge in uno scantinato di Caracas, si presentano soltanto undici bambini. Ma contrariamente a tanti innovatori, che devono lottare per concretizzare le proprie idee, Abreu trova quasi subito il sostegno istituzionale senza il quale il suo progetto resterebbe una bella utopia. Dopo l’elezione di Hugo Chavez (1999) il suo sistema didattico viene sostenuto in modo ancora più deciso. I frutti non tardano ad arrivare. Come piante che crescono, molti ragazzi dei barrios si trasformano in prestigiosi direttori d’orchestra: da Diego Matheuz a Rafael Payare, da Luis Alberto Castro a Gustavo Dudamel. Quest’ultimo, oggi direttore della Los Angeles Philharmonic, rimane molto legato al maestro Abreu e si adopera per promuovere ulteriormente il suo progetto didattico. All’estero Abreu può contare sul sostegno di musicisti prestigiosi, fra i quali Claudio Abbado, Daniel Barenboim e Placido Domingo. Il primo, in particolare, fa proprio il progetto e lo introduce in Italia con successo. Ma Abbado non è il solo ad accogliere il sistema concepito dal musicista venezuelano, che viene adottato in molte parti del mondo. Questa meravigliosa utopia realizzata ottiene vasta eco anche al di fuori dell’ambiente strettamente musicale. Se fare un elenco esaustivo di queste iniziative è impossibile,
Un’utopia realizzata
ci preme comunque segnalare il libro La musica salva la vita. Il “sistema” delle orchestre giovanili dal Venezuela all’Italia (Feltrinelli, 2012), dove Ambra Radaelli racconta l’impegno di Abbado nella diffusione del progetto e nel suo adattamento alla realtà italiana. Anche la settima arte rimane affascinata dal progetto del musicista venezuelano. L’omaggio più esplicito è il documentario El
Sistema (2008), dove Paul Smaczny e Maria Stodtmeier ne ricostruiscono la storia. Liberamente ispirato alla stessa esperienza è il film La mélodie (2017) diretto da Rachid Hami e ambientato a Parigi. Proprio per sottolineare che el sistema può essere applicato ovunque, soprattutto dove la gioventù cerca nella musica un’alternativa al degrado e alla delinquenza.
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di Tomaso Boyer Il 12 giugno Luisa Serafini, assessore al Marketing territoriale e Cultura del Comune di Genova, ha pubblicato un post con una sorta di bilancio delle presenze primaverili a Genova. Questo il testo integrale del post: “340.000 visitatori in tre mesi nei musei di Genova. +30% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, tante iniziative legate alla tecnologia e alla promozione della città, a costo 0, che ci hanno permesso di moltiplicare la visibilità dei nostri tesori. Questa l’azione portata avanti dal Comune a cui si aggiungeranno molti nuovi progetti (tra questi, sistemi di pagamento digitale e contenuti multimediali sostenuti da sponsor). Il nostro Sindaco ripete spesso: “Tutto ciò che non è misurabile è inutile”. Il nostro approccio è esattamente questo: sperimentare, rinnovare, e misurare i risultati con approccio qualitativo e quantitativo, per poter correggere o proseguire con le nostre azioni di politiche pubbliche. È questa la nostra #NuovaCultura”. Pensiamo che gli argomenti presentati nel post: cultura a costo zero, misurazione della cultura, visibilità e incremento del pubblico, siano temi generali delle politiche culturali nazionali. Per questo motivo ospitiamo con piacere un articolo di Tomaso Boyer, operatore culturale che lavora tra Genova e Torino, pubblicato su Genova.24 (che ringraziamo), che analizza i temi dal punto di vista degli operatori culturali e lo inserisce nel quadro del grande cambiamento di prospettiva che i soggetti che operano nel settore stanno affrontando negli ultimi anni. Gentile assessore Serafini, Ho letto il suo post con i dati, molto confortanti, sulle presenze nei musei genovesi nell’ultimo trimestre, con il forte accento sulla misurabilità delle iniziative (tutto ciò che non è misurabile è inutile). Nel mondo dell’innovazione culturale si dibatte da diversi anni intorno al grande tema della misurabilità, cercando di definire e individuare parametri di valutazione, non solo quantitativi, che possano essere utilizzati per valutare l’impatto di una determinata azione. Questo dibattito si inserisce nel contesto di una riflessione più generale, resa necessaria dal cambiamento epocale di prospettiva, che sta coinvolgendo i soggetti e i processi dell’azione culturale negli ultimi anni, i cui termini mi sembra utile rapidamente delineare. Tale mutamento ha visto la propria certificazione nel programma Europa creativa 2014-2020,
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I dati della cultura
che ha inserito tra le sue linee guida alcuni aspetti fortemente innovativi: la crescita e il consolidamento dell’impresa culturale, l’accento sulla domanda di cultura, con il lavoro sull’audience, la sperimentazione di nuovi processi e la creazione di reti, nazionali ed internazionali. Questo cambio di paradigma ha ragioni profonde che derivano da due elementi storici: la progressiva e inesorabile contrazione dei contributi pubblici e la crescita della domanda di partecipazione attiva alla cultura. Il primo elemento ha portato all’ingresso sulla scena culturale di nuovi soggetti, provenienti da mondi diversi (aziende private, fondazioni di origine bancaria), spingendo gli operatori a doversi attrezzare di strumenti nuovi. Termini prima sconosciuti sono così entrati nel nostro lessico: sostenibilità, capacità di stare sul mercato, pianificazione economica, programmazione a lungo termine, valutazione del proprio lavoro, analisi della domanda, misurabilità delle proprie iniziative. Sono nati numerosissimi programmi di formazione, accelerazione, incubazione e perfezionamento, per aiutare gli operatori culturali a dotarsi delle skills necessarie ad affrontare le difficoltà del mercato culturale.
Il secondo elemento ha invece portato gli operatori a lavorare con più apertura e più attenzione ai propri pubblici, ai territori e alle comunità di riferimento, sperimentando nuovi processi di coinvolgimento e partecipazione, fino a poco tempo fa sconosciuti. Anche qui, concetti nuovi e lessici nuovi: audience development, audience engagement, co-creazione, coinvolgimento attivo del pubblico, misurazione dell’impatto sociale delle proprie iniziative. La combinazione di questi due elementi ed il modo in cui si sono reciprocamente influenzati, hanno visto l’operatore culturale diventare soggetto centrale e ibrido nel rapporto tra capitali privati e ricaduta territoriale, tra capacità aziendale e dinamiche del terzo settore, tra valorizzazione e tutela, tra investimenti e rigenerazione degli spazi, tra misurazione quantitativa e misurazione dell’impatto sociale. Il mondo dell’innovazione culturale ha imparato a essere sostenibile, a trovare modalità di coinvolgimento dei privati, a diversificare le proprie fonti di finanziamento, a professionalizzarsi, ad attrarre pubblici nuovi, a trovare l’equilibrio tra valore intrinseco e strumentale della propria azione. Questo valore strumentale tuttavia, non può e non deve limitarsi al conto delle presenze, all’aumento dei turisti o dell’indotto. Sono questi elementi importanti, naturalmente (e chi fa impresa culturale lo sa bene), ma non si possono dimenticare altri dati da tenere in considerazione e imparare a misurare: l’impatto sociale che le iniziative culturali generano sui territori e sulle comunità, il coinvolgimento di persone fino a poco tempo fa escluse dalla fruizione, il senso di identità e di comunità, il valore civico, la restituzione di territori depressi ai cittadini e molti altri ancora. Esistono diverse strade, e molte ancora si stanno sperimentando, per misurare l’impatto sociale delle iniziative culturali. Lo chiedono molti investitori, lo esigono le fondazioni bancarie nei loro bandi, lo delinea la riforma del terzo settore col bilancio sociale, lo certifica il sempre più diffuso uso, in Europa e in Italia, del termine welfare culturale. Ognuno dei soggetti della filiera dell’industria culturale farà la propria parte, ma è necessario che le amministrazioni, nelle loro azioni di politiche pubbliche, conoscano, riconoscano e sostengano il valore di questo lavoro. È essenziale che partecipino a questo dibattito, per costruire nuovi modelli e definire politiche, che riescano sempre più a unire produzione culturale, protezione sociale e sostenibilità economica.
di Gabriella Fiori Incoraggiata dalla domanda di una rivista che amo su cosa è per me la poesia, mi sono messa alla ricerca dei poeti che hanno contato in età della mia vita. Per primo trovo Victor Hugo (Besançon, 1802- Paris, 1885). Avevo sei anni, mia madre per insegnarmi il francese mi faceva imparare a memoria le poesie più facili e più interessanti per una bambina della sua raccolta dedicata ai nipotini Georges e Jeanne (1868-1869), figli del figlio Charles (1826-1871), morto prematuramente. Ricordo Jeanne songeait sur l’herbe assise, grave et rose (Jeanne sognava-pensava seduta sull’erba, grave e rosea). Al tenero avo che le chiede cosa desideri, finisce per rispondere levando il mignolo a indicare la lune immense (la luna immensa). L’Art d’etre grand père (L’arte di essere nonno) è un tenero libro che Hugo scrisse a 75 anni; egli ha una vera adorazione per l’infanzia, dice : L’uomo è rame e piombo; il bambino è oro. A Hauteville House Guernaisey – 1856, seconda fase dell’esilio, un terzo delle spese andava in doni, fra questi un pranzo per 40 bambini poveri del luogo. Evoca la propria infanzia fin dalla nascita cui, troppo delicato, “una chimera”, temevano non sopravvivesse. Fu la madre “ostinata” a salvarlo, la madre il cui amore è “Pane meraviglioso che un dio spartisce e moltiplica!”perché tutti e ciascuno ne abbiano in parti uguali. Questo esclama nel 1831 per la sua prima raccolta poetica volutamente intima, Feuilles d’automne (Foglie d’autunno) che vuole rivolgersi all’ “uomo tutto intero” perché “le rivoluzioni trasformano tutto salvo l’uomo”; e c’era stata quella del 1830. Data la ricchezza multiforme della sua opera di drammaturgo, romanziere, poeta, saggista, libellista, oratore politico, disegnatore suggestivo e fotografo, non mi resta che sfiorarlo. Per la sua capacità di esaltare e di intenerire, per la sua vitalità nei sentimenti (la moglie Adèle Foucher, sposata in segreto nel 1822, dopo la morte della madre, ebbero 4 figli e rimasero amici tutta la vita; l’amante della vita dal 1833, la bellissima attrice Juliette Drouet, più impaziente di Adèle riguardo alle altre relazioni di Hugo), nella ricerca, nell’osservazione e nella lealtà politica verso la propria evoluzione da legittimista, a bonapartista a liberale, egli, sempre meditativo sulla morte, ma attento alla sua “vita prossima”, non deprime mai, anche per la
Victor Hugo, poeta sua sincerità nel dolore. Spesso era solito leggere i suoi versi “in seno all’intimità” di pochi amici (Sainte-Beuve). Era destinato a sconvolgere, fin dai 25 anni, quando con la Prefazione al suo dramma Cromwell distrugge la teoria delle tre unità aristoteliche per serbare solo l’unità d’azione, in un luogo e in un tempo determinati che deve avvincere il lettore e spiegargli il dramma dei personaggi. Il dramma è il reale che implica sempre una lotta per l’uomo, il cui corpo appartiene al secolo, al mondo e l’anima al cielo, la vera patria. Il sublime e il grottesco convivono in contrasto nel reale: trovare la loro “armonia” è compito del poeta. Posso distinguere due aspetti principali della sua arte che danno luogo ai due filoni fondamentali: storico-drammatico-visionario; familiare, dialogico con sé stesso e con la natura. I due si possono mischiare nel profondo dell’essere perché “nulla è più intimo della poesia”. Essa parla il linguaggio dell’anima che è espressione dell’entusiasmo e della rêverie . Così che il filo interiore sempre esistente passa per L’Anima. (da Odi e Ballate, 1822-28).
“Tu, che ai dolori dell’uomo un Dio nascosto invita,/Compagna sotto i cieli dell’umile umanità,/Passeggera immortale, schiava della vita/E regina dell’eternità,/Anima!Negli istanti felici come nelle ore luttuose, /In fondo alle mie tenebre risplendi...” (trad. di Leonello Sozzi, 2002). Risuona questa supplica nel commento del suo diario “Cose viste” per la morte del figlio Charles, 13 marzo 1871. Alla chiusura della bara per cui il corpo sparisce “per l’eternità” Hugo esclama : “Se non credessi all’anima, non vivrei un’ora di più”. Noto in tutto il mondo di allora (anche in Italia, quanti bambini nella campagna toscana intorno a Pescia furono chiamati Vittorugo!) ebbe funerali di Stato, seguiti da un milione di persone e fu sepolto al Pantheon di Parigi. Per noi oggi è bello ricordate che, nel 1852-1854, Hugo parlò insistentemente della necessità di una unione europea con una moneta unica. Per una prima lettura di Hugo poeta, consiglio Victor Hugo, Poesie, Oscar classici Mondadori, 2002; curatore il francesista Lionello Sozzi, oggi scomparso.
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di Danilo Cecchi Si è spento alla venerabile età di 102 anni il fotografo americano David Douglas Duncan (DDD) (1916-2018), noto per le immagini di guerra scattate al seguito dell’esercito americano durante la seconda guerra mondiale, la guerra di Corea e la guerra del Vietnam, ma anche per i numerosi ritratti di Picasso, scattati nell’intimità delle sue abitazioni e dei suoi laboratori. Nato a Kansas City nel Missouri, DDD studia archeologia, zoologia e spagnolo, laureandosi nel 1938. Appassionato di fotografia, si arruola dopo Pearl Harbour nel corpo dei Marines e viene inviato, con il grado di tenente e con mansioni di fotografo, nel sud del Pacifico, dove partecipa in prima linea a numerosi combattimenti, compresa la battaglia di Okinawa. Le sue immagini di guerra vengono diffuse dalla stampa americana, e sono talmente efficaci che al termine del conflitto viene contattato e poi assunto dalla prestigiosa rivista Life, per conto della quale fotografa all’inizio degli anni Cinquanta la guerra di Corea, firmando molte copertine. In seguito viene inviato in Turchia, Europa Orientale, Africa e Medio Oriente, e nel 1967 va a fotografare la guerra del Vietnam. Diversamente dalle immagini della propaganda militare, generalmente piene di retorica, truppe e mezzi schierati ordinatamente, bandiere che garriscono al vento, possenti navi che solcano i mari ed aerei che solcano i cieli, le immagini di DDD vengono scattate dal punto di vista dei soldati in prima linea, mostrano il volto degli uomini e dei commilitoni, il coraggio e la paura, la determinazione e le esitazioni, le lunghe attese e le azioni rapide, le avanzate e gli arretramenti. Condividendo gomito a gomito le giornate, le esperienze, i timori ed i disagi dei soldati americani, DDD mostra la guerra da un punto di vista non convenzionale, non parla di eroismo e di patriottismo, non parla di orgoglio e di vittoria, parla di sopravvivenza e di solidarietà, di ostinazione e di fragilità, di forza e di umanità. Quelli che compaiono sulle copertine e sulle pagine di Life sono i volti e gli sguardi dei soldati, le loro espressioni, i loro gesti, il loro essere degli uomini proiettati in una situazione paradossale, dove si gioca in ogni istante con la vita e con la morte, dove ogni certezza viene cancellata, dove ogni momento può rivelarsi decisivo, ogni esitazione può diventare fatale. Ad un anno esatto dall’inizio della guerra di Corea, DDD pubblica nel giugno del 1951 il libro “This is war!” organizzato in tre parti, “Collina - Città - Ritirata/inferno”, ciascuna delle quali è introdotta da un testo scritto dallo stesso DDD ed è illustrata da fotografie prive di didascalie. Il libro, ripubblicato più volte, non vuole mostrare la guerra in
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sé, ma come la guerra cambia le persone, quello che la guerra può fare agli uomini che ne vengono coinvolti. Il suo punto di vista sulla guerra si precisa ancora meglio quando decide di tornare in prima linea per documentare la guerra del Vietnam, la più lunga delle guerre che hanno impegnato gli Stati Uniti nel Novecento, ancora più disastrosa della guerra di secessione di un secolo prima. Nel 1968 pubblica il libro “I Protest!” sui giorni dell’assedio di Khe Sanh, e nel 1970 pubblica il libro “War without heroes”. “Ho voluto mostrare quello che un uomo sopporta quando il suo paese decide di andare in guerra, con o senza il suo accordo personale sulla giustizia della causa. Ho voluto mostra-
re il cameratismo che lega gli uomini quando combattono un pericolo comune, il modo in cui vivono e muoiono, l’agonia, la sofferenza, la terribile confusione, l’eroismo che è moneta quotidiana tra quegli uomini che in realtà sparano con dei fucili puntati su altri uomini, conosciuti solo come “il nemico”. Dopo avere documentato una guerra vinta contro il Giappone ed una guerra mai dichiarata e pareggiata contro la Corea del Nord, nel documentare la guerra perduta contro il Vietnam del Nord, DDD abbandona la sua imparzialità e critica apertamente la gestione della guerra da parte del governo degli Stati Uniti. Con le sue vigorose immagini ancora prima che con le sue parole.
David Douglas Duncan This is war!
di Andrea Ponsi
Disegnare la Toscana Crete Senesi
Immagine del paesaggio nella sua massima astrazione, le Crete Senesi ci immergono in un’ atmosfera surreale, metafisica. I campi coltivati a giropoggio e a tagliapoggio in inverno diventano solchi d’aratro tracciati da un pettine gigante, in primavera soffici tappeti verdi; d’estate, onde di grano.Le Crete sono il centro simbolico della Toscana, il suo cuore, l’elemento primario, originale e riconoscibile del suo territorio. ************** I nastri colorati delle colture scivolano nella fluidità acquosa del declivio. I cipressi ombreggiano la villa e fanno da palizzata ai venti. Più in là, adagiati su cucuzzoli a controllare il territorio, altri casali, anch’essi riconoscibili dalla presenza delle querce e dei cipressi.
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La madre di tutte le battaglie di Paolo Marini La filosofia è la madre di tutte le battaglie. Governa ogni nostra scelta, anche senza che ce ne accorgiamo. E’ puerile affermarne l’astrattezza, la lontananza dalle questioni concrete dell’uomo: vecchio pregiudizio, duro a morire, che non è frutto di ignoranza ma forse di una cosa peggiore dell’ignoranza: la mancanza di un (qualsivoglia) desiderio di conoscenza. Questa forma di indifferenza o di neghittosità rischia di trasformare l’uomo in un vegetale. Bisogna tuttavia sostenere, per un minimo di coerenza, come anche tale inedia potrebbe essere frutto di una decisione riconducibile ad una filosofia: non certo quella del “so di non sapere”, semmai quella del “non me ne frega di sapere”. Più spesso, almeno in apparenza, è una scelta neppure riflessa. In ogni può rivelarsi, nel breve termine, assai comoda e/o conveniente. Ma alla lunga non si può vivere addormentati da forze compulsive - che spingono in recessi oscuri, nel dominio della tecnologia, dell’ideologia dell’habeo ergo sum, di un culto della superficie che appiattisce e chiude ogni fenomeno, ogni momento dell’esistenza, in un cupo grigiore - senza finire impantanati in uno pericoloso stagno esistenziale. Una proattività intellettuale, il tentativo di interpretare ciò che ci circonda, il porsi continuamente delle domande e l’elaborazione di idee, sono il pane di un’esistenza. La scelta del vegetale porta in un vicolo cieco. E’ la fine della individualità, di ogni bellezza: anche una grande disponibilità di mezzi può risultare vana se il loro impiego avviene senza la benché minima direzione, senza un progetto. E non solo: con la scelta del vegetale si finisce per accettare ciò che viene propinato quale unica chance a disposizione. E’ il presupposto della massificazione, la dismissione sistematica di quella coscienza (critica) che aiuta a individuare le trappole, le certezze fasulle, a smascherare quei sistemi che schiacciano la personalità, l’individualità. E’ quindi il viatico ad un potere illimitato di pochi, che non è necessariamente o solo quello dei
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gerarchi dei regimi autoritari, ma anche l’onnipotenza concessa ai reggitori delle democrazie moderne, che sono divenute subdoli, inaspettati modelli di distruzione della molteplicità e della ricchezza individuale, della libertà e del diritto. Filosofia è uno stile di vita, necessario a riprendere/mantenere la consapevolezza e il controllo della propria individualità, della qualità del rapporto con gli altri. Non ci sono autorità da compiacere o a cui chinare la testa: non i filosofi del passato (per quanto, evidentemente, giovi alquanto indagarli, studiarli, soprattutto per l’apprezzamento compiuto del ‘metodo’ filosofico); né (a maggior ragione) quelli contemporanei; non
gli intellettuali o i maître à penser, sovente troppo paghi delle mance riscosse per non disturbare i manovratori; tantomeno i manovratori, che per diventare tali hanno abbracciato il culto del possesso, un’idea nichilista, mortifera. La conoscenza non è, del resto, un prodotto. Ma un processo, una realtà in continuo divenire. C’è un punto fermo da non smarrire mai nel cammino di buoni cercatori: la propria coscienza. E, per coloro cui sta a cuore, c’è un Dio da cercare, da scoprire, da gustare ogni giorno: il Tesoro più importante della vita.
A Ohanjanyan il Premio Enrico Marinelli a cura di Aldo Frangioni Mikael Ohanjanyan, armeno classe ‘76, ha vinto il Premio Enrico Marinelli Contemporary Art Award con un’opera dal titolo La Soglia è la Sorgente, che sarà presentata al pubblico il prossimo ottobre, e sarà realizzata in Toscana avvalendosi di artigiani locali; la scultura verrà poi esposta temporaneamente nel Museo dell’Opera del Duomo per un periodo di sei mesi. Agli artisti in gara era stato chiesto di presentare un rendering in 3D della loro opera, accompagnato da una descrizione dettagliata, ispirata al tema della ‘Speranza’ che è descritta da Timothy Verdon, direttore del Museo dell’Opera del Duomo e membro del comitato tecnico del premio: “La Speranza è una virtù teologica, la speranza in Dio e nella sua salvezza. Oggi, anche quando essa ha ancora un contenuto religioso, la speranza riguarda le persone e le situazioni concrete, e soprattutto il loro potenziale di cambiare. Gli artisti del concorso potevano orientarsi su problematiche e aspirazioni del nostro tempo: l’immigrazione, la pace, la prosperità umana”.
I pensieri di
Capino
Una sola volta abbiamo ripetutamente riso di fronte ad un riporto: lo abbiamo fatto ogni volta che, in TV, appariva l’immagine seriosa di Schifani “prima maniera”. Ma se (come l’Italia ha fatto con colui che, per anni, era – forse a sua stessa insaputa - la seconda carica dello Stato), cancelliamo la prima sillaba della parola “riporto”, pensiamo a tutte le immagini che ci vengono alla mente ogni volta che pronunciamo quelle due sillabe, sole o associate ad altre espressioni. Sono tutte immagini di sconfinata libertà, di bontà e di bellezza:
Le motivazioni espresse dalla giuria - composta da Micol Forti, direttrice della Collezione di Arte Contemporanea dei Musei Vaticani, David Stuart Elliott, vice direttore e curatore senior presso il RMCA di Guangzhou, Antonio Natali, consigliere dell’Opera di S. Maria del Fiore, Christian Oxenius, scrittore e curatore indipendente della Kunsthalle di Osnabrück, Denys Zacharopoulos, direttore artistico della Galleria Municipale, Museo e Collezione della Città di Atene, e presieduta dalla curatrice di fama internazionale Adelina Von Furstenberg - sono le seguenti:
Immagini di bellezza
- “porto di mare”, non si usa forse, per indicare un luogo dove è bello arrivare assieme a tanti altri, o veder arrivare persone diverse, lì confluite magari con le più diverse caratterizzazioni, motivazioni e attese? - il Porto è un buonissimo vino liquoroso... portoghese; - quanta bellezza evoca il solo nome di Portofino, uno dei più begli approdi del Golfo del Tigullio; - “Portobello”, non fa ricordare forse i simpatici sforzi prodotti da altri per farci percepire gli incerti vocalizzi di un pappagallo che sapevamo esser variopinto, anche se dal monitor che osservavamo dal divano di casa ci appariva in varie tonalità di grigio? - e l’udire poche parole da chi hai invitato a cena, precedute da “io porto...”, non ti dà immediatamente la riprova che l’invito è stato gradito e la certezza che la tavola sarà ancora più ricca? - “supporto” non è forse un sostegno, un
“La comprensione teorica, sociale e umana di Mikayel Ohanjanyan verso la nozione contemporanea di Speranza, è molto convincente e coraggiosa. Tuttavia Ohanjanyan offre alla Speranza una consapevolezza che, traversando la memoria e gli elementi della realtà, ci porta alla materialità della sua trasformazione nella fusione con la pietra vulcanica. Quest’opera si riferisce a una linea ben precisa delle arti contemporanee, passando dalla Land Art e dall’Arte Povera a Joseph Beuys, considerando la memoria e la natura dei materiali come vettori di vita e cambiamento”.
aiuto, che appare gradito, ed a volte, essenziale? Insomma, come si permette uno che ha giurato sulla Costituzione non solo di ipotizzare quel tragico ossimoro, mai udito fino a qualche settimana fa, che risuona: “la chiusura dei porti”? Per quanto tempo ancora, assisteremo disorientati ed increduli ad una violenza lessicale che sottende, e forse ne è premonitrice, tentativi sempre più “arditi” di perpetrare, ai nostri danni, furti ben più corposi? E quanto tempo ancora dovrà passare prima che si oda una autorevole voce di dissenso? E speriamo proprio che non sia (magari da sola) quella della Accademia della Crusca. Sarebbe un segnale triste se dalla Villa Medicea di Castello si potesse solo soffermarsi sul dito e non sulla Luna... vistosamente calante, verso cui quel dito invita ad indirizzare un preoccupato sguardo.
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S.Felicita di M.Cristina François In previsione di un ordinamento dei dipinti di S.Felicita (tele, tavole, affreschi staccati) di norma non visibili e al fine di razionalizzare lo stato presente di queste opere nate dalla secolare devozione di committenti e artisti, e che sono attualmente senza un luogo dove risultino stabilmente depositate, propongo qui un loro Elenco. Al 6 maggio 2016 tali dipinti si trovavano sparsi in più ambienti del complesso ecclesiale. In questo Elenco sono comprese anche le opere in appoggio pertinenti S.Jacopo sopr’Arno [Cu.Co. n.258, pp.28-29]. In relazione a ognuno di questi dipinti, segnalo, dove esso esiste, il numero di Inventario della Sovrintendenza, versione cartacea, redatto nel 1980 [Inv.S.] nonché il numero dell’ultimo Inventario della Curia, versione digitale, redatto nel 2013 [Inv.C.]. Le opere non sono state tutte inventariate. Le loro misure non sempre sono a corredo delle schede. In mancanza di documentazione e/o di attribuzione l’autore è da considerarsi ignoto. Non ho preso in considerazione le stampe anche se storiche. Al di là di un loro effettivo valore artistico, queste stampe sono utili per lo studio della devozione, del culto e delle liturgie. L’Elenco è il seguente: 1 “Vecchio Profeta”, affresco staccato e rimontato su tela, cm 55x48, 1388 ca., attribuito a Niccolò di Pietro Gerini [Inv.S. n.160 - Inv.C. n.4541]; risulta mancante dall’agosto/settembre 2012. 2 - “Giovane Profeta”, affresco staccato e rimontato su tela, cm55x48, 1388 ca., attribuito a Niccolò di Pietro Gerini [Inv.S. n.159 - Inv.C. n.4751]. 3 - “Assunta”, tavola centinata alluvionata trasferita su tela, cm285x162, XVI secolo; proviene da S.Jacopo. 4 - “Battesimo di Gesù”, olio su tela, cm150x110, II metà XVI secolo, con cornice; proviene dalla Compagnia del SS.mo Sacramento di S.Felicita [Inv.S. n.198 - Inv.C. n.494041]. 5 - “Incontro di Gesù con S.Giovannino”, olio su tela, cm150x110, II metà XVI secolo, con cornice; proviene dalla Compagnia del SS.mo Sacramento di S.Felicita [Inv.S. n.197 - Inv.C. n.4946-47]. 6 - “Sa-
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cra Famiglia con S.Giovannino”, tempera su tavola, cm78x63, XVI secolo; proviene da S.Jacopo [Inv.S. n.152]. 7 - “Adorazione dei Magi”, olio su tela, cm.172x230, post 1590, anno di immatricolazione all’Accademia delle Arti del Disegno del pittore Francesco Curradi; proviene da S.Jacopo. 8
- “Cena in Emmaus”, olio su tela, cm102x128, XVII secolo; scomparso dopo il 1980 data della sua inventariazione, proveniva dalla Compagnia del SS.mo Sacramento di S.Felicita, [Inv.S. n.151]. 9 - “Addolorata”, olio su tela, cm100x50, I metà del XVII secolo, maniera di Francesco Cur-
Il patrimonio invisibile radi [Inv.S. n.161 - Inv.C. n.4942]; risulta mancante dall’agosto-settembre 2012. 10 “S.Francesco adorante il Crocefisso”, olio su tela, cm77x64, inizi XVII secolo, da Ludovico Cigoli; proviene da S.Jacopo [Inv.C. n.4654]. 11 - “Il miracolo dell’indemoniata guarita da un Santo Vescovo” detta anche “l’Ossessa”, olio su tela, cm263x189, XVII secolo; proviene da S.Jacopo. 12 - “Nostra Signora dell’Orto”, olio su tela, XVIIs., con sua cornice. 13 - “S.Cecilia che suona con gli Angeli”, sipario dell’organo di G.B. Contini, tempera su tela, XVIII secolo, documentato da chi scrive come opera di Pier Dandini. 14 - “Martirio di S.Bartolomeo”, olio su tela, cm116x87, XVII secolo; proviene da S.Jacopo [Inv.C. n.4655]. 15 “Cristo mostra la piaga del costato”, olio su tela, XVII secolo, con cornice, dal Volterrano; potrebbe provenire da S.Jacopo. 16 “Compianto su Cristo morto”, olio su tela, XVII secolo, con cornice e cartiglio recante la scritta “Sic Deus dilexit nos”; potrebbe provenire da S.Jacopo. 17 - “Compianto”, tavola per paliotto della Settimana Santa, XVII secolo, con sua cornice. 18 - “Cristo morto”, olio su tela per paliotto della Settimana Santa, XVIIs. [Inv.C. n.0970]. 19 “San Jacopo”, olio su tela di forma ovata, XVII-XVIII secolo; potrebbe provenire da S.Jacopo. 20 - “Arcangelo Raffaele e Tobiolo”, olio su tela, cm110x98, XVII-XVIII secolo, con cornice, da F.Morandini detto il Poppi; proviene da S.Jacopo [Inv.S. n.146 - Inv.C. n.5004-05]. 21 - “Sacra Famiglia con S.Giovannino”, olio su tavola?, cm73x63?, XVI-XVII secolo, con sua cornice a cassetta [Inv.C. n.4657-58]. 22 “S.Francesco da Paola”, olio su tela di forma ovata, XVII-XVIII secolo, con sua cornice alla salvadora; potrebbe identificarsi con opera che apparteneva a S.Jacopo sia per il soggetto che per il formato, ma le misure non corrispondono [Inv.C. n.4924-25]. 23 - “Preghiera nell’Orto del Getsemani”, olio su tela, cm144x94,5, datato al 1722 come opera di Pietro Maria Paolini grazie a un documento d’archivio rintracciato da chi
scrive. 24 - “Albero genealogico delle Monache di S.Felicita”, tela dipinta a grisaille, non sono conosciute le misure esatte, ma l’ingombro è notevole (lunga oltre m.7 e alta circa m.4), 1738, di Giovan Battista Dei. 25 - “Madonna del Buon Consiglio”, olio su tavola, metà XVIII secolo, con sua cornice, a partire da documenti coevi è riferibile a Violante Beatrice Siries Cerruoti [Inv.C. dal n.4637 al n.4647]. 26 - “Trasporto al sepolcro” dalla Via Crucis Stazione XIV, olio su tela, documentato da chi scrive al 1749, con sua cornice [Inv.C. n.4520]. 27 - “La Visitazione”, olio su tela, XVIII secolo, con sua cornice. 28 - “Lo Spirito Santo”, tempera su tela; costituiva il ‘cielo’ del pulpito del Predicatore della Compagnia del SS.mo Sacramento di S.Felicita, XVIII secolo? 29 - “S.Maria Maddalena de’ Pazzi”, olio su tavola, XVIII-XIX secolo, con sua cornice, alla maniera di F. Curradi [Inv.C. n.4951-52]; proviene da S.Jacopo. 30 - “S.Maria Maddalena de’ Pazzi”, olio su tela, XVIII secolo, da F.Curradi [Inv.C. n.4769]. 31 - “Immacolata della Schola de’ Cherici”, tempera su tela, ritagliata e riportata a découpage su altra tela ottocentesca, XVIII secolo, con cornice [Inv.C. n.5261-62]. 32 - “S.Domenico”, olio su tela, XVIII-XIX secolo, da un prototipo nella Sagrestia della Chiesa di S. Marco a Firenze. 33 - “Immacolata”, tempera su rame, XIX secolo, con sua cornice [Inv.C. n.474647]. 34 - “San Stanislao Khosta”, olio su tela, XIX secolo. 35 - “Sacra Famiglia con S.Giovannino e S.Elisabetta”, olio su tavola, XVIII-XIX secolo, dal dipinto di Raffaello oggi al Louvre, con sua cornice [Inv.C. n.5621-22]. 36 - “Il Redentore con Sacro Cuore”, tempera su tavola alla maniera del Beato Angelico (per uno sportello di tabernacolo); le ‘balaustrine’ lignee del manufatto sono mancanti dal 2011(?); grazie a un documento reperito da chi scrive la tempera è di Gaetano Gaglier, 1841 [Inv.C. n.5571]. 37 - “Volto Santo”, olio su tela, cm63,2x49,1, II metà del XIX secolo, documentato dalla scrivente come opera di An-
tonio Ciseri, con sua cornice alla salvadora [Inv.C. n.5007-08]. 38 - “Il Giudizio finale”, tempera su tavola monocroma, XIX secolo, proviene da uno dei pannelli della “macchina da morti” [Inv.C. n.0965]. 39 “Visione di Ezechiele: la valle delle ossa inaridite”, tempera su tavola monocroma, XIX secolo, proviene da uno dei pannelli della “macchina da morti” [Inv.C. n.0971]. 40 - “Mater Dei con Gesù Bambino e S. Giovannino”, sipario/arazzo dipinto a tempera, di grandi dimensioni, fine XIX secolo, alla maniera di Bouguereau. 41 - “Madonna della medaglia”, stendardo dipinto a tempera su tela, 1860 termine post quem: questa iconografia nacque con le “Figlie di Maria e di sant’Agnese” istituite la prima volta in Italia in quell’anno nella chiesa romana di S.Giovanni dei Fiorentini [Inv.C. n.4649]. La quantità delle opere qui elencate e l’impossibilità di verificarne ad oggi la consistenza materiale (tavola o tela? olio o tempera? misure) rendono necessaria una revisione puntuale in caso di riutilizzo, da parte degli addetti ai lavori, delle informazioni consegnate in questa lista. Nella speranza che i dipinti abbiano una loro consona collocazione alla quale l’odierno storico dell’arte, lo studioso di opere e manufatti sacri, e il devoto possano riferirsi con certezza ho qui inserito [fig.1, contrassegnati con asterisco i locali in questione] a titolo d’esempio una pianta del 1820 dove si considera il primo piano della Canonica e quegli ambienti dove un tempo erano appunto degnamente depositati gli arredi e le opere prive di sede fissa. Anche adesso questi spazi potrebbero essere adibiti alla collocazione ordinata dei dipinti elencati. Si tratta della “Stanza della Guardaroba del Priore”, della “Guardaroba degli Operai dell’Opera” (detta più recentemente “Stanza del Tesoro”), della Biblioteca/Archivio (in via di trasferimento per una sua visibilità e fruibilità) e di altri ambienti attigui che non hanno al presente funzione specifica. Per le attribuzioni di questo articolo ringrazio A. N. che considero mio Maestro.
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di Angela Rosi Ambarabà ciccì coccò, Notti InColore 2018, ci vestiamo di bianco per entrare in questa notte perché il colore di oggi è il bianco e i negozi di Certaldo l’omaggiano con performance artistiche a “cielo aperto” e nelle vetrine. Il colore bianco lascia spazio agli abbracci temporanei perché l’abbraccio in questo momento storico ha un significato particolare, di accoglienza, di sostegno e contenimento, di affetto e tanto altro. Sopra i nostri abiti bianchi vestiamo le maglie relazionali dell’artista Manuela Mancioppi “Temporary relation ships second skin” e andiamo per le strade di Certaldo a coinvolgere e abbracciare le persone. Le loro difese cadono facilmente e spesso non scappano anzi ci accolgono con sorrisi e ringraziamenti. Non sempre è facile abbracciare e farsi abbracciare, soprattutto da estranei. L’abbraccio porta in sé significati profondi, fiducia nell’altro, lasciarsi andare, far cadere le nostre barriere e stasera sembra che i limiti siano elastici come lo sono le maglie di Manuela. Il negozio Guardaroba ospita Manuela e le sue maglie sono in vetrina, alcune persone sono entrate per comprarle senza rendersi conto che le maniche della maglieria sono unite le une alle altre perché questi abiti hanno una particolarità, devono essere indossati minimo da due persone. La second skin, dello stesso
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Notti in bianco colore della pelle, ci unisce in relazioni temporanee che esistono nel tempo della performance. Indossiamo maglie da sei, poi da tre e infine da due persone, gli abbracci alle persone sono brevi, il nostro intervento è circoscritto ma lascia spazio al coinvolgimento emotivo e al sorriso, a far abbracciare coppie anziane e coppie giovani con bimbi piccoli. Tra la folla alle volte percepiamo il bisogno di essere abbracciati e lo facciamo così, insieme, senza dirsi niente. Chissà le maglie di Manuela hanno il potere di farci sentire un unico essere per un tempo limitato. Qui ognuno di noi mette in condivisione la sua personalità in una relazione che unisce e trasmette il senso di accoglienza e soprattutto la possibilità di aprire i nostri confini agli altri in un periodo dove, purtroppo, i confini degli individui e dei paesi si stanno chiudendo sempre più con la propaganda della paura e dell’intolleranza. Sono grata a “Temporary relation ships second skin” perché ci insegna ad incontrare il mondo senza paura dell’altro disponibili ad uno scambio creativo. L’evento Ambarabà ciccì coccò, Notti InColore 2018, è curato dall’artista Gloria Campriani, la performance è di Manuela Mancioppi con la collaborazione di Angela Rosi e Elisa Prati, le foto sono di Pietro Schillaci.
di Simonetta Zanuccoli L’accademico Francoise Benhamou, specialista in economia della cultura, ne è entusiasta “è riuscito in pochissimi giorni a raggiungere un numero di persone infinitamente superiore a quelle che visitano il museo in un anno e, attraverso un canale non convenzionale, arrivare a un nuovo pubblico più giovane. Un incredibile colpo pubblicitario”. Parla naturalmente della clip di 6 minuti Apeshit, con 30 milioni di visualizzazioni nei primi 5 giorni, che i cantanti Beyoncé e Jay-Z hanno girato nelle sale più famose del Louvre per lanciare sul mercato il nuovo album Every thing is love. Alcuni sono rimasti entusiasti dell’iniziativa della veneranda istituzione parigina, residenza dei re di Francia dal XIV secolo e simbolo del potere (sfruttato in tal senso da Emmanuel Macron la sera della vittoria alle elezioni presidenziali). Il New York Time ha interpretato questa clip come una rivendicazione razziale: non a caso i primi piani isolano personaggi di colore come ne Le nozze di Cana del Veronese o Il ritratto di una negra di Marie Guellemine Benoist. La coppia nera di cantanti vuole rappresentare, secondo il giornale americano, in un luogo simbolo, tutti quelli esclusi dalla storia che attraverso il loro talento ne diventano partecipi. Altri hanno gridato alla profanazione e ne hanno criticato la volgarità perchè, anche se il museo non è nuovo a queste iniziative, forse questa volta la logica commerciale è stata spinta all’estremo. Le riprese con cantanti e ballerini si sono svolte in grande segreto nelle notti del 31 maggio e il primo giugno. Il Louvre si rifiuta di rivelare quanto ha incassato ma è facile dedurre, secondo le tariffe in vigore, che dovrebbe trattarsi di una cifra, anche modesta per il contesto, attorno ai 40.000 euro. L’utilizzo di musei come set di cinema, pubblicità o eventi commerciali non è una novità dopo i tagli delle sovvenzioni pubbliche, ma il Louvre è stato un precursore già dagli anni 60 con la famosa serie Belphégor con Juliette Greco. Un ufficio apposito fornisce a produttori cinematografici, fotografi di pubblicità, sfilate di moda, feste private... il tariffario degli affitti degli spazi esterni (più economici) del Jardin des Tuileriers e Carrousel, e di quelli interni offerti di martedì, giorno di chiusura al pubblico, o di sera, e anche del parcheggio dei veicoli che contengono le attrezzature necessarie.
La musica al Louvre C’è anche la possibilità di accordi diversi come quello con la Citroen alla quale è stato permesso di girare 3 spot pubblicitari in cambio di un investimento nelle collezioni del museo o con il cantante Will.i.am dei Black Eyed Peas che per una clip nelle sale del museo ha accettato di girare un breve documentario per promuovere, insieme al curatore, l’apertura di una nuova sezione. Comunque dopo il fulminante successo di Apeshit, Jean-Luc Martinez, direttore del Louvre dal 2013 e appena riconfermato fino al 2021, ha già pensato di creare in tempi brevi un percorso di visita ispirato al videoclip che si affianca a quello già esistente e di grande successo che ripercorre i luoghi del museo dove sono state girate alcune scene del film Codice da Vinci. Il fattore economico è entrato in maniera preponderante nella gestione dei musei
francesi per sanare le perdite della caduta di frequentazioni di questi ultimi anni macchiati da diversi attentati. Il Ministero della Cultura sta pensando di sfruttare la fama mondiale di alcuni musei come il D’Orsay, il Beauborg e lo stesso Louvre offrendone ad altri paesi, partendo da quelli emergenti come la Cina e l’India, il marchio e il know-how. Un’agenzia appositamente creata sarà responsabile della ricerca di progetti in tutto il mondo e fornirà oltre al nome e il prestigio di un grande museo anche la competenza di architetti, curatori, restauratori, allestitori... Il denaro delle licenze dovrebbe contribuire a pagare alcuni dei costi di manutenzione, finanziare acquisizioni e sviluppare nuovi progetti. Qualcuno, malignamente, ha scritto parafrasando la pubblicità di Master card: prendi possesso della storia, non ha prezzo.
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