Cultura Commestibile 271

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Numero

14 luglio 2018

Gian Marco Centinaio, ministro delle Politiche agricole

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Il turismo è il petrolio dell’Italia

Con la cultura non si mangia Giulio Tremonti (apocrifo)

Il petroliere del cambiamento Maschietto Editore


Vinci, 1995

La prima

immagine Ingresso di un appartamento a Sesto Fiorentino. Ho suonato il primo campanello con targhetta scritta in cinese ed è uscita questa bella ragazza che ha iniziato a parlare con me e con una vicina di casa che era sul pianerottolo. Ho scattato questa immagine mentre le due giovani stavano conversando. L’altra ragazza era italiana e tra le due sembrava esserci una grande intesa e una bella e lunga amicizia, La ragazza cinese parlava un italiano senza un accento particolare e con una proprietà di linguaggio davvero incredibile. Probabilmente la sua era una famiglia arrivata in Toscana molti anni prima e lei doveva aver seguito un percorso scolastico serio e proficuo. Ricordo di essere rimasto molto stupito per il suo italiano e le ho fatto anche dei complimenti. Se l’avesssi sentita parlare senza vederla in faccia non avrei mai pensato che si trattasse di una giovane cinese.

dall’archivio di Maurizio Berlincioni


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Diplomazia Le Sorelle Marx Renzi Angela I Cugini Engels

Silvio turco Lo Zio di Trotzky Rinasce l’asse Roma-Berlino Il fratello di Molotov

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Riunione di famiglia

In questo numero L’impresa di fare museo di Michele Morrocchi

Un arcipelago di suoni di Alessandro Michelucci

Musei popolari o populisti? di Francesca Merz

La cultura della politica dell’impegno e del fare di Elena Gonnelli

Galassia Dino Campana, una nuova guida di Dino Castrovilli

Architetti spontanei di Valentino Moradei Gabbrielli

Fra S.Giorgio e S.Felicita di M.Cristina François

BAU OUT Vie d’uscita possibili di Laura Monaldi

Walter Chappell Fra corpo e natura di Danilo Cecchi

Donne in barca di Luisa Moradei

Le trasformazioni del paesaggio di Biagio Guccione

Alla ricerca del Quarto Paesaggio di Simone Siliani

e Capino, Paolo Marini...

Direttore Simone Siliani

Illustrazioni di Lido Contemori e Massimo Cavezzali

Redazione Progetto Grafico Mariangela Arnavas, Gianni Biagi, Sara Chiarello, Emiliano Bacci Susanna Cressati, Carlo Cuppini, Remo Fattorini, Aldo Frangioni, Francesca Merz, Michele Morrocchi, Sara Nocentini, Sandra Salvato, Barbara Setti

Editore Maschietto Editore via del Rosso Fiorentino, 2/D - 50142 Firenze tel/fax +39 055 701111

Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012

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di Michele Morrocchi Mercoledì 4 luglio a Bottega Strozzi, nell’omonimo palazzo fiorentino, si è presentato il volume “Il museo diventa impresa” Celid editore, di Maurizio Vanni, museologo e docente di marketing cultural e, direttore del Lucca Center for Contemporary Arts (Lu.C.C.A.) insieme a Domenico Piraina direttore di Palazzo Reale a Milano, moderati dal nostro redattore Michele Morrocchi. Il libro di Maurizio Vanni è un testo agile ma è davvero un unicum in un contesto di tante pubblicazioni dedicate ai musei, è un libro che ha la caratteristica di essere utile sia agli addetti ai lavori ma anche per il grande pubblico, un libro che affronta il ruolo “nuovo” di un museo anche nel suo rapporto col territorio e con le imprese. Ed è proprio questo punto una delle forze di questo libro, che andrebbe fatto leggere obbligatoriamente agli addetti marketing delle imprese. Quello di cui parla questo libro è qualcosa di reale, il luogo in cui lo presentiamo, Bottega Strozzi ne è una dimostrazione plastica; seppure qui da noi ci siano una serie di resistenze, storiche, culturali, ma anche di linguaggio che Maurizio nel testo affronta benissimo. Il punto è che per avere le imprese a fianco dei musei bisogna parlare la loro stessa lingua. Il che vuol dire avere i conti in ordine da un lato, ma molto più profondamente significa usare un linguaggio che sia spendibile e che faccia capire i benefici non solo e non tanto economici ma del poter investire in cultura: mettere a profitto dei soldi spesi, le esperienze e il tempo e le risorse dedicate. Ma perché dovrebbe investire in cultura una impresa? È sufficiente il tema della defiscalizzazione, dell’art bonus? No a mio avviso. È certo un passo avanti, come primo elemento di un percorso che però deve essere più forte e più importante. Dico questo partendo anche dal contesto delle imprese italiane, in primis dal loro dimensionamento. Il libro e l’esperienza di Maurizio ci parlano di un museo non come veicolo di costruzione pubblicitaria, ma di edificazione identitaria. Viviamo in un’epoca in cui comunichiamo qualunque cosa, vendiamo prodotti attraverso esperienze, e non soltanto messaggi pubblicitari: il museo, i sistemi culturali sono o possono diventare un elemento centrale e fondamentale di un nuovo marketing. Ma per investire in un museo, le imprese lo devono trovare vivo, funzionante, accattivante e che quindi abbia fatto su di sé le operazioni che va a proporre alle imprese. Maurizio Vanni Questo libro non sono istruzioni per l’uso, sarebbe presuntuoso pensarlo, ma una forte sollecitazione a cambiare

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L’impresa di fare museo

paradigma, a cambiare l’ottica delle cose, alla fine basta poco per scoprire qualcosa che già c’è. Il mio percorso è partito dall’andare a cercare i punti forti che già abbiamo: il nostro museo rappresenta il nostro DNA, di chi vive in modo anche profondo, spirituale le nostre città. Un bel giorno qualcuno però qualcuno dice: “la cultura è anche valore economico”. Io sono partito proprio dall’analizzare la cultura come valore economico; partendo dal museo. Il museo diventa impresa non per stravolgere le sue funzioni tradizionali ma per allinearsi ad avere proposte contemporanee, network internazionali, avere quell’indipendenza economica che ti permette di raggiungere davvero gli obiettivi anche dal punto di vista socio economico e scientifico. Non c’è l’invenzione non c’è la genialità. Non c’è niente di straordinario in quello che c’è scritto nel libro. Ci si pone solo il deside-

rio di portare molte persone al museo, ma con coscienza e consapevolezza. Per fare questo, per parlare con i segmenti di pubblico di un museo bisogna intanto imparare a parlare lingue diverse. C’è spesso nei musei un riflesso aristocratico anti divulgativo, io ho fatto l’opposto: ho puntato tutto sulla divulgazione, sulla comprensività e sulla linearità dei passaggi. Perché alla fine un museo che non è frequentato forse non si può nemmeno chiamare museo. Provoco certo, ma un museo frequentato può permettersi di avere un rapporto con l’esterno, con il territorio, con le imprese. Al LU.C.C.A. abbiamo ottenuto quasi il 60% dei finanziamenti grazie a imprese private, che non hanno mai sponsorizzato ma che hanno avuto un ruolo fondamentale di partnership: loro ci hanno aiutato a sopravvivere e noi abbiamo lavorato insieme a loro per connetterli con i loro mercati. La cultu-


ra come straordinario e prezioso strumento di marketing per le imprese dimostrando al contempo che creare valore economico non significa trasformare il museo in un supermercato. Abbiamo però spesso uno stereotipo del privato nei musei, in questa città in modo particolare, in cui qualunque intervento privato viene visto come tradimento della missione museale. Naturalmente c’è anche un fondo di verità: i privati nel sistema museale italiano hanno anche spesso spolpato risorse. L’inserimento dei privati, però afferma Maurizio nel suo libro, garantisce invece equità sociale. Quindi ribalta completamente il concetto e ci dice il museo fa meglio il museo se il privato investe al suo interno. Non se ci mette dei soldi ma se diventa partner. È un cambiamento possibile? È qualcosa che a Milano, per esempio, avviene? E le politiche pubbliche di questi anni sono andate in questa direzione? Domenico Piraina Su questo tema ho lavorato molto sia nella pratica che nella teoria. A quelle persone che sostengono che il museo, la cultura in generale, non devono aprire la porta ai privati, io dico: “certo se il pubblico fosse in grado di fare tutto non ci sarebbe necessità di avere i privati”. Quando dico fare tutto vuol dire avere le risorse in termini di soldi, banalmente, in termini di personale, in termini di procedure per fare tutto. Quando invece noi direttori di musei siamo obbligati a lavorare in una situazione in cui le risorse pubbliche sono ormai quelle che sono o semplicemente le assunzioni non si possono fare. Bisogna cominciare anche a dire la verità. Nelle declaratorie delle professioni non esiste la figura dell’esperto di marketing museale, non esiste la figura dell’esperto di comunicazione culturale. Esistono amministrativi, architetti, ingegneri, geometri. Mentre i musei hanno bisogno di quelle figure lì, ma tu non le puoi prendere, perché non c’è proprio la casella prevista e non puoi fare concorsi per assumere quella tipologia di persone. Le procedure: per fare una gara di allestimento ci metti circa un anno. Prima devi fare la gara per selezionare l’architetto a cui affidare la progettazione dell’allestimento. Passano 5, 6 mesi. Poi lui fa il progetto in base alle indicazioni dei curatori e dopo devi fare un’altra gara per scegliere il soggetto a cui affidare la realizzazione dell’allestimento. Poi nel frattempo il secondo arrivato probabilmente ha fatto ricorso al TAR. Queste sono le realtà. Non c’è più oggi del problema di scelta se lavorare in collaborazione con il privato o non lavorarci. Noi non ci troviamo più in questa condizione di scelta.

Noi ci troviamo di fronte ad una strada obbligata, piaccia o non piaccia. È così. Se non si vuole questa cosa , la collaborazione con un soggetto privato, lì ci vogliono risorse economiche, personale, cambiare le procedure. Ma sono scelte costose e bisogna vedere se il pubblico se lo può permettere. Devi mettere i soldi in bilancio altrimenti sono chiacchere. C’è anche però una valutazione più generale. Perché abbiamo vissuto, almeno per 50 anni, creando dei totem. Delle cose che non esistono. A me è sempre stato detto che la Costituzione italiana nel promuovere lo sviluppo della cultura sostanzialmente si risolveva nella tutela e nella conservazione. Ponendo quindi la valorizzazione come un aspetto secondario. Quando invece la Costituzione dice un’altra cosa, dice che il fine della cultura è la promozione dello sviluppo umano. Non bisogna confondere i mezzi con i fini. La tutela è fondamentale, la conservazione è aspetto centrale, ma la tutela è un mezzo non è un fine. Il fine è lo sviluppo della persona umana. Alla quale contribuisce un altro mezzo che è la valorizzazione. La convenzione di Faro ha messo le cose abbastanza a posto per fortuna. Del 2005, sebbene sia stata sottoscritta dall’Italia nel 2016, dice esattamente le stesse che sto dicendo io. Cioè che il bene culturale deve essere messo al servizio della collettività, la quale può desumere dal bene culturale tanti tipi di valori, ivi compreso il valore economico. Non è più un’opinione è un fatto. C’è un documento ufficiale recepito anche dalla Repubblica italiana, che dice queste cose. Questo libro quindi va proprio nella direzione che ho sempre sostenuto e cioè che la gestione di un museo non si può fare a prescindere da considerazioni di carattere economico. Come nelle nostre famiglie. In una famiglia in cui hai difficoltà a mettere insieme il pranzo con la cena difficilmente ci sarà tempo per parlare della critica della ragion pura di Kant. Il bilancio del comune di Milano che destina alla cultura (musei, spettacolo, biblioteche), compresi gli stipendi non arriva a 60 milioni di Euro, mentre la sola Tate riceve dal governo di Londra 250 milioni di sterline; la “povera” Scala di Milano, riceve dal comune 6 milioni di Euro all’anno. Gli ottimi amministratori della Scala hanno trovato risorse dal privato. Vivono sulla bigliettazione e sui contributi dei privati. Ma questo non significa che se il privato ci mette i soldi quello diventa un museo privato. Negli Stati Uniti c’è certo il Metropolitan che non riceve soldi diretti dallo Stato ma con

la defiscalizzazione è come se le ricevesse. Perché cosa sono le defiscalizzazioni? Sono soldi che lo Stato dovrebbe introiettare ma vi rinuncia per scopi sociali. Quindi sono finanziati in maniera indiretta. Non esiste oggi un museo, se non piccolissimo, che non sia finanziato direttamente o indirettamente dal pubblico. Il problema vero quindi è come tu fai le cose. Che rapporto hai con il privato. A Milano ho adottato il seguente metodo, non solo io ma tutta l’amministrazione: le strategie le decide il pubblico. Punto. Come devono essere fatte le cose lo decide il pubblico; poi la gestione operativa, concreta, finalizzata a centrare quegli obiettivi che sono stati dati dal pubblico compete al privato. Perché il privato lo sa fare meglio, intanto perché è più veloce. Non deve chiedere il permesso per usare i suoi soldi. A noi interessa che le aziende che utilizzano, le persone che scelgono, rispettino certi criteri di capacità economica, finanziaria e etica che siano adeguati a una pubblica amministrazione. La collaborazione del privato è positiva però sempre laddove c’è una parte pubblica forte. Il pubblico deve essere più forte, i privati quando lavorano con noi ci chiedono di avere un interlocutore forte. La mia esperienza dice che il privato non ha interesse ad avere un pubblico debole perché pensa così di fare meglio i propri interessi, Non è così, è il privato stesso che chiede di avere a che fare con un interlocutore pubblico forte, autorevole. Perché sa benissimo che soprattutto in materia culturale senza il sostegno, materiale e immateriale, del pubblico non sarebbe in grado sostanzialmente di fare alcun che. Perché il grado di affidabilità e credibilità che serve nel campo della cultura lo possono dare solo le grandi istituzioni pubbliche, i grandi musei. Mentre è giusto che il privato laddove gli riesce, nelle regole, tragga un profitto. L’importante è farlo nelle regole. Però attenzione se tutto si risolve sulla gestione de il Colosseo o degli Uffizi o di Pompei, non andiamo da nessuna parte: ci sono migliaia di musei italiani in cui i privati non vanno perché andarci significherebbe perdere soldi a prescindere. Ritornando al tema del marketing, spiegando cosa può essere il marketing per un museo e per una impresa Vanni non arriva a spingersi a dire che il marketing è cultura ma tracciando le parole chiave di questa disciplina, si parla di “creatività, coraggio, fantasia, curiosità, scambio”. Se ci si riflette un secondo sono le parole che, forse attraverso uno stereotipo, associamo dall’ottocento all’artista. Il marke-

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ting, l’impresa, si è appropriato di queste parole, un po’ come il capitale si è appropriato dell’analisi marxista, la cultura sembra averne invece un po’ timore. Ha perso il coraggio? cosa deve fare per riappropriarsene? Può ancora farlo? Maurizio Vanni Parto dal mio percorso personale: ho fatto studi umanistici, sono museologo, critico d’arte poi mi sono approcciato all’economia, al marketing; perché dobbiamo partire dal presupposto fondamentale: se una industria culturale non ha un brand, si dimentichi di avvicinarsi non solo al privato ma anche al pubblico. È fuori gioco, non partecipa, non è interessante. Non viene visitato, perde credibilità, Se abbiamo un luogo che ha storia, reputazione, che in passato ha arricchito e difeso la propria collezione, conservandola, si può aprire uno spiraglio legato alla cultura del marketing. Ti ribalto il concetto: sono 6 anni che insegno marketing museale a Buenos Aires solo negli ultimi due mi fanno usare la parola marketing per la cultura. Perché non sopportavano un termine così troppo economico per un concetto pubblico di sistema museale. Poi hanno capito che i linguaggi si possono incrociare: il convincimento, la pubblicità mono codice, non funziona più. Occorre adattarsi al cambiamento sociale viviamo una crisi che a me appare antropologica: non abbiamo accettato il cambiamento e ci siamo scoloriti. Dobbiamo cambiare la strategia, imprese e musei: abbiamo però un interesse comune, dobbiamo avvicinare queste “nuove” persone. Cosa dice l’impresa? Ho magari un prodotto funzionale, un brand che funziona, ma non trova più quali sono i suoi mercati. La cultura potrebbe aiutarli con un codice comunicativo diverso, con nuove strategie. Allora il museo, disciplinando il rapporto con regole ferree, può diventare un luogo meravigliosamente aperto, attivo e interattivo, dove realmente gli interessi di pubblici diversi possono diventare interessanti a patto che ci sia ancora un desiderio di intraprendenza di non convenzionalità. La cultura può preparare emotivamente un pubblico per l’azienda, raccontando una storia di un prodotto e connettere una persona “diversa” a quel prodotto. La interconnessione diventa partnership, nessuno regala denaro. Il mecenatismo è occasionale. C’è invece l’azienda che ha bisogno di aprirsi a nuove opportunità e queste opportunità mettono in condizione la intraprendenza della cultura come veicolo esperienziale. In questo seno, per esempio Samsung ha scelto l’industria culturale, ha scelto modelli sociali, perché ha scelto una comunicazio-

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ne che connota lo stile di vita di chi sceglie i loro prodotti. Un museo diventa la piattaforma perfetta per questo, la piattaforma esperienziale ideale a prescindere. Attenzione però non deve decidere l’impresa: ci sono coordinate, regole e distinzioni. A noi chiedono “vorrei incontrare queste persone” e entrambi parliamo un codice economico. I nuovi mercati vanno intercettati, conosciuti, segmentati, coinvolti e vanno fidelizzate. Sto in modo ardito considerando i pubblici di un museo come clienti del museo e non mi pento. Perché alla fine quello a cui un museo deve aspirare non sono le persone che occasionalmente passano una volta nella vita da lì. Non ci interessano i visitatori che passano, in media 20/30 minuti per visitare un grande museo, che non vanno lì a meditare o a nutrirsi, vanno a farsi il selfie. Non è che non vogliamo questo pubblico, ma non può essere questo pubblico a cui aspirare. Se invece connotiamo il museo di servizi con una grandissima a cosa vogliono le persone, questa filosofia funziona e il cliente felice del museo può essere anche il cliente felice del brand. Al LU.C.C.A. non chiediamo al visitatore se è piaciuta la mostra ma se si è divertito, se ha avuto un momento bello e interessante e gli proponiamo una cialda olfattiva, un prodotto per trasmettere lo stesso profumo che senza saperlo ha odorato sul quadro su cui ha passato più tempo. Per rivivere in modo differito quell’esperienza emozionale odorando la stessa fragranza. Ovvio che c’è scienza e fantascienza: io questo lo chiamo giocosamente, inganno leale. Io vedo il museo come il nuovo luogo dove le persone possono rincontrarsi fisicamente e giocare con i sensi. Insomma, col marketing olfattivo Maurizio ha creato il museo Madeleine, un sogno per un amante di Proust come me. Però lancio

una provocazione, “facile fare investire in cultura Samsung”, difficile arrivarci a Samsung magari, ma poi per tipologia di prodotto e disponibilità economica diventa facile. Con imprese che non vengono dal mondo della moda, del design, della tecnologia si può fare lo stesso? Domenico Piraina È abbastanza semplice questa risposta: il coinvolgimento di ogni soggetto privato è possibile se apri un rapporto con lui, se si ragiona sui valori che vuole esprimere il museo ma anche l’azienda. Un museo può essere letto in mille modi, perché le opere d’arte per loro natura sono polisemiche. Già quando nasce ha una miriade di significati che poi si trasformano e cambiano nel tempo. Quindi se ogni opera può essere guardata in N modi diversi, moltiplicate questo per le cinquecento, mille, opere di un museo e pensate a quante opportunità possono esserci. Non può esistere che non ci sia la possibilità di identificare un aspetto di un museo, un aspetto valoriale, che non vada bene a qualunque tipo di azienda. Anche perché le aziende rappresentano esse stesse dei valori: una cultura organizzativa, rapporti con i propri mercati. Vanno fatti incontrare e si trova sicuramente il punto di sintesi che va a vantaggio di entrambi. Maurizio Vanni Il lavoro del curatore è ormai cambiato nel mondo. Un tempo si portava in valigetta un progetto, un programma e si andava a conoscere altri direttori. Oggi non funziona più così: nei paesi più progrediti non domandano più cosa gli abbiamo portato nella borsa, ma ti pongono un problema: per esempio che nel suo museo non vengono adolescenti, le famiglie fanno fatica, gli specialisti si lamentano degli orari. Chiedono una strategia, magari legata anche a esposizioni temporanee, che possa risolvergli questi problemi, questi bisogni. Si parte da ciò che


manca non da ciò che c’è. Dunque non è detto che una mostra bellissima possa andare bene a tutti i musei del mondo. Questo è il primo cambiamento. Il curatore deve conoscere delle strategie per essere efficace ed efficiente oltre che scientificamente rigoroso. Le aziende, i partner, devono essere approcciati allo stesso modo. Non si va a chiedere quanti soldi possono dare per una mostra ma a spiegare come possono fare più soldi tramite una nuova strategia. Noi come cultura, come museo, come piattaforma artistica siamo in grado di rispondere a qualche bisogno. Dunque qualunque azienda può essere interessata, può essere coinvolta. La cultura crea identità, identità che si può “appiccicare” all’impresa, suscitare un bell’effetto sul territorio, sui mercati. All’azienda non dobbiamo raccontare che portiamo con una mostra 150.000 persone che vedranno il loro logo. Del logo apposto nel catalogo o nella cartellonista non interessa più a nessuno. Dobbiamo dire loro che durante l’evento mostra alcune opere diverranno portatrici di messaggi, di metafore o semiofore che vanno nella direzione ricercata dall’azienda, verso il pubblico di riferimento di quell’azienda. Ecco allora che la prospettiva cambia. A Lucca lo abbiamo fatto con aziende metalmeccaniche che producono tissue paper, carta igienica e tovagliolini. Non è facile trovare bellezza attraverso una meravigliosa carta bianca le cui finalità sono note. Però abbiamo chiesto loro: “chi volete?” “il mondo. Però abbiamo una ottima mailing list” è stata la loro rispota. Nel libro c’è tutta la storia che è anche molto divertente. Si trattava di aziende in crisi di fronte alla concorrenza cinese; 12 aziende che si sono messe assieme anche grazie alla cultura. Abbiamo creato per loro un meraviglioso inganno reale, abbiamo fatto internazionalizzazione inbound facendo venire il mondo a Lucca, in tre strutture spettacolari, li abbiamo invitati a vivere la cultura, la città, il museo. Abbiamo trasformato la cultura in opportunità per queste aziende. Non sappiamo i contratti firmati, noi abbiamo raccontato la rete di queste imprese attraverso la piattaforma museale e attraverso il territorio ma la rete è tuttora in vita e sono diventate quindi competitive rispetto ai cinesi e si portano dietro una cultura che non è una mostra ma una filosofia di comunicazione. Tutto questo senza intaccare minimamente il valore e la funzione storica del museo. Abbiamo abusato dolcemente dei servizi e degli spazi neutrali. Abbiamo fatto del museo un’impresa e continuiamo a farlo.

Musei popolari o populisti? di Francesca Merz In questi ultimi tempi sembra che la parola “populismo” sia riapparsa prepotentemente sui nostri schermi, nuovamente alla ribalta su ogni fronte, prima di tutto quello politico, ma il populismo è molto altro, una vera e propria filosofia. Non è questa la sede per parlare della filosofia del populismo, ma per chi fosse interessato all’argomento mi permetto di consigliarvi l’interessante lettura di Nicolao Merker “Filosofie del populismo”, edito da Laterza, che spiega nel dettaglio le ragioni storiche, filosofiche e, direi quasi, antropologiche, della nascita dei populismi. Ciò che mi preme invece indagare in questo breve articolo è la contrapposizione culturale tra coloro che ritengono che i musei e i luoghi di cultura debbano essere preservati, quasi nascosti al popolo, e coloro che hanno invece perorato un’idea di cultura popolare, ma che subito ha finito col divenire populista. La prima è un’idea che pare antica, ora, ma che fino a qualche anno fa era in auge, secondo cui bastava e avanzava il ristretto circolo culturale di utenti affezionati, conoscitori, esperti, con i quali colloquiare di argomenti alti, che fossero l’archeologia, la storia dell’arte, o del merletto; ed ogni ingerenza del popolo, delle masse, della gente, era vista con una certa preoccupazione. Chi si doveva occupare della gestione della cultura amava tenerla per sé, e ci si preoccupava che essa fosse conservata, assai più di quanto non fosse la preoccupazione di renderla diffusa, il popolo doveva avvicinarsi alla cultura “già sapendo”. Ovviamente, come in ogni altro ambito sociale, a questa spinta elitaria, ne è succeduta per contrapposizione, subito dopo, una smaccatamente populista, populista e non popolare, per le ragioni che vi enuncerò: la cultura doveva essere

accessibile, diffusa, condivisa, e questo è ottimo, questa è la base di ogni democrazia che si rispetti, creare cultura nei propri cittadini permette loro di scegliere con consapevolezza, cognizione, senso civico, visione globale. Ma non è facile, è più facile, ed è stata questa la strada, definire dall’alto le “pillole” di cultura che si vogliono propinare al proprio pubblico, standardizzarle, renderle appetibili utilizzando mezzi di diffusione e medium ad esso congeniali, come farebbe una multinazionale di gelati o di pop corn: il museo doveva diventare un’esperienza, così ci siamo detti per anni, il marketing del tempo libero ci imponeva di considerare che il luogo di cultura, il museo per dirne una, era in stretta competizione con il centro commerciale, il parco divertimenti o il grande mall con sconti pazzi. Era vero, non c’era dubbio, erano questi i competitors per spendere il proprio tempo libero e i propri soldi, la strategia è stata quella di portare dunque una grande quantità di medium, ovvero metodologie comunicative, multimediali e esperienziali, che erano proprie di questi competitors, all’interno dei luoghi di cultura: la strategia poteva funzionare, spesso per avvicinare ambiti differenti si crea una relazione in cui i reciproci elementi si compenetrano, se fosse stata applicata con uno studio lungo, specifico, dettagliato (in molti casi lo è stato, portando a straordinarie novità ed esempi di grande rilievo) questa compenetrazione avrebbe sicuramente non solo portato più persone all’interno dei luoghi culturali, prima percepiti come chiusi e polverosi (non erano né chiusi né polverosi in molti casi, va detto anche questo) , ma avrebbe anche dato loro, grazie ai nuovi strumenti, maggiore consapevolezza e facilità nel dialogare con le opere d’arte. Ma la strada era in salita, e le salite non sono sempre piacevoli, dunque, da un improvviso exploit

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di coscienza culturale collettiva, ci siamo in molti casi, e molto presto, ritrovati a dover sorbirci tanta cultura populista: mostre esperienziali, blockbuster sempre uguali che giravano in lungo e in largo senza alcun riferimento al territorio, le cosiddette “mostre temporanee” hanno dato il meglio di sé, il mercato richiedeva questa formula: il contenuto doveva evidentemente essere semplificato per una comprensione più generale, ma da una semplificazione si è presto passati a ridicole esibizioni prive di contenuti, “the show must go on”, ma è servito anche questo, è stata una fase, a mio avviso non del tutto sprecata, perché ha permesso a chi come me fa questo da una vita, di prendere consapevolezza di un cambiamento necessario: da una parte non si poteva più ritenere che i musei fossero o potessero essere enclave di studiosi, che rifuggono le masse, quasi schifandole o avendone paura, dall’altra non si poteva pensare che un museo potesse essere apprezzato in modo congruo con milioni di persone che si spintonano senza coscienza di ciò che stanno vedendo. E il dibattito, lì, anzi direi, qui, si è arenato, in cerca di risposte. In molti casi le due correnti mantengono ancora abbastanza intatte le proprie posizioni: quelli che “gli fanno schifo tutte le mostre, le tecnologie etc perché sono un dispendio di denaro, investiamolo in altro”, e quelli che “siamo 4.0, diciamo tre cose e per il resto li stordiamo con un po’ di effetti speciali”. Nel mezzo, come avrete capito, c’è l’idea di cultura della sottoscritta, o di cultura popolare, se vogliamo chiamarla così, non populista, c’è l’abisso culturale (e fatemi dire politico) di un Paese diviso in due, che non trova il modo di raccontarsi che quelle relazioni tra arte, tecnologia, esperienza, gioco, come si potrebbe dire “tra il culturale e il ricreativo” devono essere costanti, nascere insieme. E’ da sempre che mi domando come

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questo possa essere fatto, e ogni volta è una nuova sfida, a volte vinta, a volte persa miseramente, perché non sempre budget, team, circostanze, permettono di sperimentare al massimo una vera e propria cultura popolare, ma, nel corso delle mie peregrinazioni tra meeting internazionali, molto mi è servito confrontarmi con i musei africani, in particolare con quelli marocchini, e con alcune esperienze di nascita di un museo dal basso. L’occasione dei fortunati incontri è stata la conferenza “we are museum” che quest’anno si è tenuta per l’appunto a Marrakech, e alla quale hanno partecipato musei da tutto il mondo. L’argomento generale della conferenza era quanto mai interessante: il patrimonio immateriale, come conservarlo, come tramandarlo. Per patrimonio immateriale si intende tutto ciò che riguarda la storia sociale, antropologica e artistica di una comunità, tale patrimonio, come potete ben immaginare, riguarda ogni aspetto della vita sociale: cibo, musica, arte, sport, racconti tramandati oralmente. L’idea, assolutamente necessaria per le comunità non ancora totalmente inghiottite dal consumismo e dalla globalizzazione capitalistica, è quella che sia imprescindibile riconoscersi in un’identità e in una storia comunitaria, proprio per essere poi in grado, tramite il riconoscimento di noi stessi, di riconoscere gli altri, le differenze, di accettarle e comprenderle in maniera profonda e costruttiva. La nascita di veri e propri musei di cultura immateriale ha però una peculiarità, ovvero comporta comporta la necessità di coinvolgere il “popolo”, ovvero le persone comuni, depositarie di quelle conoscenze, fin da subito nell’ideazione scientifica e nella costruzione dei contenuti all’interno dei percorsi espositivi. Queste esperienze mi hanno illuminato, devo dirlo sinceramente, poiché se, come io ritengo, il vero dramma della società moderna è questa totale incapacità comunicativa tra la

fascia di cosiddetti intellettuali, e la base della società, solo una nascita della cultura dal basso, ma sempre accompagnata da professionisti, può colmare questo gap, ed evitare che nascano progetti culturali “calati dall’alto” da intellettuali troppo autoreferenziali, o, d’altro canto, progetti culturali smaccatamente populisti, senza alcun riguardo o rispetto per i contenuti scientifici da tramandare. Questa strategia, per ora utilizzata giocoforza, per la nascita di musei di cultura immateriale, potrebbe forse essere la chiave per la nascita di nuovi luoghi della cultura anche materiale? Ovviamente il discorso sarebbe assai ampio, ma credo di essere stata già sufficientemente prolissa, mi auguro che questa mia breve riflessione possa far riflettere tutti noi sulla necessità di un incontro reale tra correnti troppo spesso manichee, ora più urgente che mai. Concludo questa mia brevissima disamina dichiarando in essa una mancanza, che spero possa essere oggetto di un successivo articolo, ovvero quella relativa ai conti economici dell’istituzione museale, e a come questa idea di nascita del percorso espositivo “dal basso” possa integrarsi con il bilancio dell’istituzione e con gli investimenti da parte del pubblico e del privato. Finisco, e stavolta davvero, prendendo lo spunto da un’osservazione fatta da un amico, che, leggendo questa mia riflessione, giustamente mi ha segnalato che esistono già vie di mezzo, incontri virtuosi. Ne esistono eccome, conosco esempi di straordinaria portata e lungimiranza, e non voglio assolutamente negarli, tutt’altro, proprio la loro esistenza, e il loro esempio, testimonia che non debbano essere solo esperimenti occasionali, ma che questa strada debba e possa essere un modello culturale di sviluppo, a cui dare una teorizzazione specifica, delle linee guida, un protocollo di intenti, e un piano economico specifico di fattibilità.


di Laura Monaldi Nel suo sedicesimo anno d’età la rivista d’autore BAU Contenitore di Cultura Contemporanea torna con la quindicesima edizione del periodico artistico più innovativo di sempre, approdato in numerosi musei, biblioteche e importanti collezioni: dal MART di Rovereto alla Tate Modern di Londra, BAU è riuscita a coinvolgere dalla sua nascita «oltre 800 autori provenienti da ogni angolo del pianeta» e quest’anno propone una rassegna imperdibile incentrata sul concetto di «out», declinato nelle sue più svariate accezioni. Le opere inserite nel cofanetto a forma cubica, ideato e progettato da Gumdesign, riflettono e sperimentano l’idea del “fuori”, intesa come uscita, protesta e innovazione. Dall’immagine dell’esserci alla nozione dell’assenza, BAU ha voluto stimolare l’Arte Contemporanea spingendola “fuori” dai canoni, «lontano dall’ufficialità e dalla omologazione culturale», invitando artisti e intellettuali di varia estrazione e portandoli a un’introspezione inedita e originale, che contraddistingue da sempre la vena creativa e poetica della rivista. Da sabato 14 luglio al 31 agosto sarà possibile visitare la mostra BAU OUT - vie d’uscita possibili, con esposizione dei lavori originali realizzati per la rivista da oltre 80 autori internazionali, che hanno interpretato l’ «out» nella consapevolezza che oggi come non mai l’artista debba porsi operativamente in un “fuori gioco” dinamico e propositivo, degno di un progresso positivo capace di far sopravvivere la Cultura nel vasto degrado intellettuale della nostra attualità. All’inaugurazione di sabato 14 luglio alcuni autori di BAU 15 proporranno installazioni, proiezioni, azioni sonore e performance, tra cui: Francesco Bernabei (esperimento), Antonino Bove / Luca Brocchini / Gabriele Menconi (Dialogo con Psiche, performance), Luciano Federighi (piano blues), Aldo Frangioni (Fuoriditesta, video), Ignazio Lago (In(+)Out of the Lake, azione sonora), Valentina Lapolla / Rachel Morellet / Eva Sauer / Tatiana Villani (Manifesto, installazione), Vieri Parenti (Get Out, installazione), Rossano Brazzi Band (Auting, canzone interattiva), Walter Rovere (Today’s News 1968-2018, performance), Samora (video-azione sonora). autori di bau out: Vincenzo Agnetti, Silvia Ancillotti, Anonimo, Roberto Baccelli, Simon Balestrazzi, Luigi Ballerini, Eli Benveniste, Francesco Bernabei, Carla Bertola, Emanuela Biancuzzi, Maicol Borghetti, Maria Luisa Borra, Jean-Francoise Bory, Luca

Brocchini, Giuseppe Calandriello, Felipe Cardeña, Mauro Chiarotto, Filippo Ciavoli Cortelli, Claudio Costa, Corrado Costa, Graziano Dovichi, Liliana Ebalginelli, Luciano Federighi, Fernanda Fedi, Giovanni Fontana, Gionata Francesconi, Claudio Francia, Aldo Frangioni, Carlo Galli, Marco Galli, Delio Gennai, Stefano Gentile, Gino Gini, Chiara Giorgetti, Antonio Gomez, Ezio Gribaudo, Riccardo Gusmaroli, Jørgen Haugen Sørensen, Maria Assunta Karini - Francesco Paladino, Margherita Labbe, Ignazio Lago, Valentina Lapolla - Rachel Morellet - Eva Sauer - Tatiana Villani, Massimiliano Luchetti, Luciano Maciotta, Giorgio Marconi, Gabriele Menconi, Giulia

Niccolai, Now! (Roberto Cagnoli - Marco Cencetti), Angela Palese, Lorenzo Paoli, Vieri Parenti, Antonio Peruz, Guido Peruz, Luigi Petracchi, Lamberto Pignotti, Margherita Levo Rosenberg, Rossano Brazzi, Manitù Rossi, Ornella Rovera, Walter Rovere, Kristina Rubine, Stefano Ruggia, Massimo Salvoni, Samora (Enrico Marani), Antonella Sassanelli, Renato Sclaunich, Alvise Simonazzi, Morten Søndergaard, Giulia Spanghero, Adriano Spatola, Alessandro Squilloni, HR-Stamenov, Teho Teardo, Nicoletta Testi, Stefano Turrini, Tommaso Vassalle, Giangrazio Verna, Daniele Virgilio, Alberto Vitacchio, William Xerra, Aida M. Zoppetti, Emiliano Zucchini.

BAU Vie d’uscita OUT possibili

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Le Sorelle Marx

Diplomazia

Che onore, cari lettori: siamo state chiamate a fare da interpreti al colloquio riservato fra Angela Merkel e Donald Trump, qualche giorno fa, al vertice della NATO a Bruxelles. E possiamo svelare (parzialmente tradotto) ai nostri affezionatissimi lettori il vero contenuto di quel dialogo a porte chiuse. Ha iniziato Trump, cercando di fare il simpatico galante: “Good morning, my dear Angela. How are you today? Sei pronta per discutere con me di merci e comerci?” La Merkel, un po’ innervosita – giustamente – dai tweet e dalle dichiarazioni del presidente USA, ha subito ricambiato le gentili parole di Trump: “Merci un Kaiser, Donald! Du bist ein alter Idiot [trad. Sei un vecchio idiota]. Io con te non parlo di niente, se non ritiri offese a mia Grande Germania!” “But, please, Angela, non arrabbiare: io scherzavo. Non volevo offendere te e Germania” “Zum Teufel, Donald! Non mi interessa offese a me: prima di te c’è stato quel vecchio Schwein [porco] di Berlusconi che mi ha chiamato Kulona inchiafabile, ma come vedi io sono ancora qui e lui è verpiss dich [andato a pisciare]. Quindi cosa mi freca di tua offesa a me. Ma tu non toccare mia Germania! Noi non siamo dipendenti da Russia!

Il fratello di Molotov

Rinasce l’asse Roma-Berlino

Certamente inconsapevoli degli atti che stavano compiendo i tre ministri degli Interni di Italia, Austria e Germania hanno riproposto sulla scena della storia “le potenze dell’Asse”. Al grido di “indietro i migranti pezzenti” i tre hanno sancito una storica riedizione dell’Asse fra Roma e Berlino. Con l’Austria nel ruolo di usciere per tenere aperto il Brennero. Le prossime mosse del terzetto, guidate dal Ministro dell’Interno Italiano, saranno rivolte verso

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Noi non torneremo mai più in Russia dopo grande ritirata di Seconda Guerra Mondiale. Con il loro gas noi ci cuociamo i wurstel mit Sauerkraut, kapito vecchio posaune [trombone]?” “Oh, comm’on Angela, I was only kidding! Stavo scherzando. Io amo Tedeschia: mio antenato Friedrich veniva da Kallstadt, in tuo paese. Poi ho sposato donna di Mittleuropa! Dai, peace & love” “Peace & Love, diese Fick [‘sta ceppa]. Tu ora chiedi skusa formalmente a Germania, non Tedeschia, Schwachkopf [scemo]. E poi lascia stare quella santa donna di Melania, che è troppo brava a sopportare le tue piffle [scemenze]” “Ma Angela, che caratterino che tu hai! E’ proprio vero che vieni da Germania Komunista. Ma noi fuck the Commies!” “Ma allora vuoi proprio la guerra, Amerikano Scheiße! Io ritiro tutte le Wolkswagen dal mercato amerikano e ti do un calcio nelle Bällen!” “No, ti prego, le balls, no, please. Guarda, risolvo io con uno dei miei tweet: “Stiamo facendo un grande meeting, discutiamo di spese militari e abbiamo colloqui sul commercio. Abbiamo un ottimo rapporto con la cancelliera, abbiamo buoni rapporti con la Germania”. “Ja, allora io scrivo questo: #Merkel, Usa buon partner,vorrei continuare a cooperare. ‘Colloquio con #Trump positivo, spero ce ne siano altri’

l’occupazione della Libia con l’obbiettivo di eliminare all’origine la fonte da dove sgorgano i migranti e interventi anche in Eritrea e Etiopia altri paesi che non sanno tenere a bada i migranti e se li lasciano scappare. Il ministro dell’Interno italiano sta già pensando a rinominare il ministero in “Ministero dell’Interno e delle terre d’oltremare”. Qualcuno informi il Ministro italiano come è finita una storia analoga qualche tempo fa.

Lo Zio di Trotzky

Silvio turco

Silvio Berlusconi è annoiato: non è più in Parlamento, non decide più le sorti del centrodestra, non ha più neppure il Milan e Dell’Utri è stato scarcerato. Il vecchio leone non ha più battaglie da combattere e anche quelle nel talamo assomigliano sempre di più a piccole scaramucce che a veri e propri combattimenti. Per questo ha scelto il ruolo di vecchio saggio, in grado di dispensare consigli (non richiesti) a vari personaggi sul proscenio internazionale, convinto di essere una sorta di Napoleone in pensione, senza però la sua Sant’Elena. Così ha preso ad interessarsi a cose turche... nel senso del paese sul Bosforo. E’ stato visto spassarsela alla cerimonia di insediamento di Erdogan e alla cena per le autorità nel sontuoso palazzo presidenziale Ak Saray di Ankara. Ma già che si trovava da quelle parti, ha pensato bene di chiamare Adnan Oktay, il telepredicatore turco recentemente arrestato accusato di molti reati. Oktay, scrittore e filosofo, che amava circondarsi di belle donne discinte e siliconate (le sue “gattine”, così le chiamava) e organizzava sontuosi banchetti, è autore di oltre 300 libri, fra i quali “L’Atlante della Creazione”, nel quale affermava che le teorie evoluzioniste di Darwin sarebbero state alla radice del terrorismo mondiale: è uno dei massimi esponenti del “creazionismo islamico”. Saputo del suo ingiusto arresto, Berlusconi non ha esitato a telefonargli per dargli qualche buon consiglio: “Pronto Adnan, vecchio pirata, come te la passi? Non bene? Eh lo so: questi porci di magistrati. Sono toghe rosse, lo so. Ma tu non demoralizzarti, che c’è qui il tuo Silvietto a darti buoni consigli (gratis eh, tranquillo). Senti, prima di tutto nega, sempre: questo Darwin digli subito che non lo conosci o al massimo ti è stato presentato a qualche cocktail e che ci hai scambiato solo qualche parola. Capito? Poi, niente giochetti erotici en travesti: son cene eleganti. Al tuo magistrato – come si chiama? Ah Edmundus Bruti Kurtarılmış, cioè Liberato... uhm, il nome mi è famigliare – comunque a lui non rispondere. Ah, e quella giovane modella Itir Esen: prima di tutto ha 28 anni, non 17; e poi tu digli che è figlia di Bashar al-Assad e che volevi solo aiutarla: vedrai, andrà tutto a posto. Ciao, pirlone!”


Nel migliore dei Lidi possibili

disegno di Lido Contemori

didascalia di Aldo Frangioni

Le uniche imbarcazioni autorizzate ad attraccare nei porti italiani saranno quelle di carta purché prive di presenza di vita, compreso qualsiasi tipo di insetti provenienti dal centro Africa

I Cugini Engels

Renzi Angela

Renzi sta lavorando al suo rilancio in grande stile; una sorta di musiliana Grande Azione Parallela, con la quale riportarlo in vetta allo star system politico: la conduzione di una trasmissione televisiva su un canale Mediaset per raccontare al grande pubblico la cultura, la storia e le bellezze di Firenze dall’antichità fino ad oggi. E’ già al lavoro con il suo staff, il pistillo del giglio magico. “Marchino, bisogna fare una trasmissione fenomenale. Senti che titolo che ho trovato: “Firenze, la ganza bellezza!” Eh, che dici? Forte, vero? Bisogna trovare una grande colonna sonora. Come quella che fa “Garrisce al vento il labaro viola...”. E poi ospiti d’onore, personaggi di indiscussa fiorentinità” “Ma, scusa Matteo, chiamiamo Nardella, così ci fa la colonna sonora con il suo violino suonando “Primavera fiorentina”. Il sindaco è sempre il sindaco”. “Oh Marco, ma sei scemo? Ho detto indiscussa fiorentinità! E dove è nato Nardella? A Torre del Greco, grullo! Poi con qui’ violino stridulo mi fa venire i ranocchi allo stomaco. Quanto al suo essere sindaco, lasce-

rei perdere: a parte il fatto che ce l’ho messo io, ma ti risulta che abbia mai fatto qualcosa senza che io lo volessi? No, e allora, niente Nardella” “Allora, Matteo, ho un’altra grandissima idea: Eugenio Giani. Lui sa tutto di Firenze. Gli facciamo fare il consulente scientifico” “Ecco un’altra bella stronzata: marco, guarda che ti licenzio e tu torni a fare il portavoce di Manciulli, eh! Giani non ce lo voglio: con tutte le su’ bischerate su Firenze, mi rovina la piazza. E poi dopo torna a rompermi le scatole con quella sua pretesa assurda di voler fare il sindaco di Firenze. No, no, no: Eugenio stia alla Regione, che è tutto grasso che cola!” “Allora chiamiamo qualche storico dell’arte della Soprintendenza ai monumenti: loro se ne intendono, no?” “Sì, di scartoffie burocratiche s’intendo, quelli! Li ho già rottamati una volta: non li voglio più vedere, loro con tutti que’ sassi vecchi che tutelano. Guarda lascia perdere: non pensare che ti si fonde il cervello. C’ho io la soluzione. Si prende la Maria Elena e gli si fa fare la Granduchessa Eleonora e Francesco Bonifazi lo vestiamo da Cosimo de’ Medici e loro passeggiano per la città a braccetto a spiegare le bellezze di Firenze. Poi, arrivo io, il Magnifico naturalmente e spiego come ho

fatto a fare grande Firenze. A Marco Carrai gli facciamo interpretare Giovanni dalla Bande Nere, che tanto era piccino e cattivo come lui e gli facciamo spiegare l’arte della guerra, mentre passeggia per la nuova pista dell’aeroporto. A Luca Lotti gli faccio fare Luca Pitti che fece ammazzare i partigiani della Repubblica per ingraziarsi Cosimo, che mi sembra un ruolo che ben gli si addice. Poi si prende don Alessandro Santoro e gli si fa fare il Savonarola, così si brucia in piazza della Signoria (solo nel film eh, s’intende). Alla Rosa Maria De Giorgi le facciamo fare Caterina de’ Medici che era esperta di guerre di religione, così si sbizzarrisce nella sua passione. Per fare Lucrezia Tornabuoni, madre di Lorenzo, potrei chiedere alla Stefania Saccardi... oddio, non è proprio che gli si addica tanto la parte della madre di un uomo così bello e perfetto, ma si fa con quel che c’è. Al mio amico Sardelli gli faccio fare la colonna sonora, però deve promettermi di suonare con il flauto l’Alluvione di Marasco, sennò calci in culo e via. Per la fotografia si chiama il Maurizio Seracini così la smette di rompermi le scatole con quel suo laser per cercare la Battaglia di Anghiari. Il regista lo faccio io, ovviamente. Il successo è assicurato. D’altra parte Silvio me lo aveva detto che mi avrebbe assunto a fare il conduttore televisivo...”

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di Elena Gonnelli Gianfranco Bartolini, classe 1927, nasce a Fiesole il 17 gennaio e proprio questa terra, dove abiterà fino alla sua scomparsa nell’ottobre del 1992 segna in modo indelebile la sua attività, politica e istituzionale. Autodidatta (ha la quinta elementare), figlio della sua generazione, dove il mestiere si imparava “a bottega”, all’età di otto anni inizia a lavorare come fabbro presso il negozio del padre Domenico in via Matteotti a Fiesole. A quattordici era già operaio allo stabilimento delle Officine Galileo dove l’impegno politico e antifascista comincia a farsi largo nell’indole di un ragazzo che mostrava ferme convinzioni culturali. Più volte ricordato come uomo ‘del fare’, Bartolini sussume pienamente quel clima di militanza collettiva che caratterizza gli anni successivi al dopoguerra, avendo già partecipato come partigiano alla lotta di liberazione nel 1944. Dopo aver rivestito il ruolo di Segretario nella Commissione interna della grande fabbrica fiorentina è chiamato alla segreteria della Camera Confederale del Lavoro di Firenze, diventandone segretario nel 1965. Solo 6 anni più tardi, nel 1971, ebbe l’incarico di segretario regionale della CGIL, entrando nel Direttivo nazionale della CGIL e della Federazione nazionale CGIL-CISL-UIL. Ma il legame con le radici rimase sempre inalterato e l’impegno politico lo vide entrare nell’amministrazione comunale di Fiesole giovanissimo. Già nel 1951, all’età di 24 anni, capolista del Partito comunista, riportò 215 voti di preferenza a fronte dei 644 voti ottenuti da Luigi Casini, rappresentante del Partito socialista e figura emblematica dell’antifascismo fiesolano. Alle elezioni amministrative successive viene rieletto e riconfermato Assessore al Bilancio, ruolo che manterrà fino al 1964. D’altro canto l’economia era la sua “fissazione”, non solo per retaggio sindacale, ma anche per la convinzione che il modello toscano dei distretti fosse un successo e che quindi intrecciare impresa, infrastrutture, attrezzature del territorio, mondo dell’università e della ricerca fosse il perno sul quale progettare il futuro. Sarà il 1975 a segnare la sua piena maturità politica, quando già Consigliere provinciale a Firenze, è eletto con la seconda legislatura al Consiglio della Regione Toscana. Con 9.488 preferenze e diventa Vicepresidente della Giunta Regionale (Vicepresidente di Lelio Lagorio e, dal settembre 1978, di Mario Leone) con la responsabilità diretta della programmazione economica e del bi-

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lancio. Dal 31 maggio 1983 diventa Presidente della Giunta, carica che assume, pur modesto e schivo di carattere, con il fermo impegno di tentare la ricerca di soluzioni di governo e la collaborazione con realtà internazionali facevano perno sull’idea e sulla pratica della programmazione. Bartolini non perse occasione per intrecciare rapporti di varia natura: il dialogo e il confronto si sviluppava verso ogni espressione della società toscana partendo dalla cittadinanza, passando per il mondo dell’industria e dell’imprenditoria, rivolgendosi all’associazionismo e alle cariche vescovili, fino alle più alte sfere istituzionali. Questa fitta rete di relazioni rispecchiava la sua naturale tendenza alla concretezza nell’agire locale, legandosi, d’altra parte, a un’interpretazione dei fatti globale e internazionale. Non solo sull’economia tout-court si basava però la sua azione di governo: la difesa del suolo, il regionalismo, l’autonomia statuaria, le “aree vaste” come risposta alla crisi della società toscana. Venerdì 13 luglio nel Palazzo del Pegaso

(via Cavour 4, Firenze) è stata inaugurata la mostra su Gianfranco Bartolini, curata dalla dott.sa Elena Gonnelli, organizzata dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea (ISRT) e dal Consiglio regionale della Toscana. Attraverso un percorso espositivo che si articola nelle sale superiori del Consiglio Regionale, si “farà parlare i documenti” per mostrare le tappe più significativa della variegata esperienza di Bartolini, lavoratore, sindacalista, amministratore, pagine significative della storia toscana e del governo regionale. L’iniziativa nasce dalla volontà di promuovere la conoscenza di una figura significativa della storia sociale e politica della Regione a partire dalla valorizzazione del patrimonio documentario recentemente acquisito dall’ISRT mediante una donazione degli eredi. La mostra e l’archivio ci offrono lo spunto per riflettere sull’esperienza e, come amava ripetere Bartolini, approfondirla per meglio comprendere il presente e tentare di stare al passo con le trasformazioni, per evitare che siano esse a metterci da parte.

Gianfranco Bartolini

Foto di Paolo della Bella

La cultura della politica dell’impegno e del fare


Musica

Maestro di Alessandro Michelucci L’arcipelago indonesiano comprende oltre 13000 isole e forma lo stato insulare più grande del pianeta. Abitato da 230 milioni di musulmani, è il più popoloso paese a maggioranza islamica. In termini musicali ha molto da offrire: dalle tipiche orchestre di metallofoni (gamelan) al pop di Anggun, dal pianista prodigio Joey Alexander al chitarrista Dewa Budjana, del quale abbiamo parlato nel numero 232. Budjana è soltanto uno dei musicisti indonesiani che negli ultimi anni stanno guadagnando un certo seguito grazie a Moonjune, l’etichetta indipendente americana guidata da Leonardo Pavkovic. Degno della massima attenzione è anche Dwiki Dharmawan, pianista jazz nato nel 1966 a Bandung, la città nota per aver ospitato la riunione mondiale che segnò la nascita del Movimento dei Non Allineati (18-24 aprile 1955). Attivo nella scena indonesiana dai primi anni Ottanta, il pianista fonda poi Krakatau, un gruppo che fonde jazz e gamelan. Il nome (in italiano Krakatoa) fa riferimento all’isola vulcanica situata fra Giava e Sumatra. Il gruppo realizza vari dischi guadagnando un notevole successo in patria e in altri paesi asiatici. Dharmawan opta poi per la carriera solista, che inaugura con Nuansa (2002). Compositore eclettico e originale, l’artista indonesiano è fortemente legato al retaggio multiculturale della sua terra: da Giava a Bali, da Sumatra alle Molucche, l’arcipelago offre una grande varietà di lingue, culture e tradizioni musicali. In un certo senso Dharmawan è la proiezione musicale di questa ricchezza: i titoli dei brani e gli strumenti tradizionali che affiancano quelli moderni lo attestano chiaramente. Ma non basta. Col passrae del tempo la sua sensibilità lo porta a collaborare anche con musicisti israeliani e polacchi, americani e catalani, svizzeri e vietnamiti. World Peace Orchestra (2008) è il frutto di quello che una volta si chiamava supergruppo: insieme a Dwiki troviamo Gilad Atzmon, sassofonista israeliano, e il kuwaitiano Kamal Musallam, affermato suonatore di oud (cordofono analogo al liuto).

Un arcipelago di suoni

Il primo contatto con Leonardo Pavkovic avviene a New York nello stesso periodo. Il fondatore dell’etichetta Moonjune, già interessato da tempo al panorama musicale indonesiano, propone a Dharmawan di entrare nella sua scuderia. Diversi anni dopo vede la luce il primo frutto della loro collaborazione, So Far So Close (2015). Nel disco compaiono alcuni artisti indonesiani già legati all’etichetta americana, come i chitarristi Dewa Budjana e Tohpati. La presenza del celebre violinista americano Jerry Goodman (The Flock, Mahavishnu Orchestra) conferma un tratto distintivo dell’etichetta, che promuove la collaborazione fra musicisti poco noti e colleghi di fama mondiale, fra i quali Tony Levin (King Crimson) e Soft Machine. Nel successivo Pasar Klewer (2017) il pianista riafferma il proprio stile inconfondibile, dove

Il senso della vita

il jazz si fonde con gli stimoli provenienti dalla terra natia. Lo stesso titolo fa riferimento al più grande mercato di tessuti che si trova in Indonesia. La rivista inglese JazzWise, una delle principali pubblicazioni specializzate, lo inserisce fra i dischi dell’anno. Il nuovo lavoro del pianista, Rumah Batu (“Casa di petra” in lingua bahasa) conferma il suo tocco elegante, spesso percussivo, e la sua vena compositiva felice, esuberante ma sempre lontana dall’effettismo. Quasi tutti i musicisti che lo affiancano sono asiatici: gli israeliani Asaf Sirkis (batteria) e Yaron Stavi (basso), vari indonesiani e il celebre chitarrista franco-vietnamita Nguyên Lê, già collaboratore di Fresu, Rava e altri jazzisti prestigiosi. Per lungo tempo il jazz era stato praticamente monopolio dei musicisti americani. Poi si sono imposti gli europei, grazie anche al forte contributo dei paesi germanici e nordici. Oggi anche questo duopolio euro-americano sta cominciando a vacillare: i jazzisti asiatici - giapponesi, indonesiani, turchi – rappresentano una squadra sempre più numerosa e sempre più interessante.

di Massimo Cavezzali

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di Dino Castrovilli La poesia di Dino Campana continua a incantare, non solo i comuni lettori (che per il fatto di esserlo di Campana non sono più “comuni” ma speciali!)”: spesso vediamo coinvolti emotivamente anche gli studiosi. Attratti, lettori e studiosi, anche dal mistero che attraversa non solo la vita di Dino Campana, fitta di leggende, a volte create quasi ad arte dal protagonista, a volte da suoi contemporanei o da quelli che a vario titolo si sono occupati di lui, ma soprattutto la sua opera, edito o inedita -, che si presenta sempre di più come scrittura - non importa se poesia o prosa - mirabilmente stratificata, come le sue “rocce” (Meschiari), ricchissima di riferimenti (“link”, diremmo oggi), citazioni e rimandi, non sempre facili da scoprire. La tentazione Campana non ha risparmiato Costanza Geddes da Filicaia, docente di letteratura italiana contemporanea all’università di Macerata, che da Franco Cesati ha da qualche mese pubblicato “Dino Campana. L’’universo mondo’ dei ‘Canti Orfici’ e altri studi”: e non poteva essere diversamente, se si ha avuto la fortuna di seguire un seminario (l’ultimo!) di studi dedicati a Dino Campana da Giorgio Luti (anno accademico 1994-95) e di aver lavorato con Marcello Verdenelli, al quale si devono alcune pietre miliari della bibliografia campaniana, compresi due volumi sulla... bibliografia campaniana, dal 1912 ai tempi nostri. In un centinaio di pagine - complice il corpo piccolo dei caratteri il libro sembra un libretto, in realtà è lungo e soprattutto “denso” - la studiosa e docente fiorentina ci consegna, in una veste organica e forse “definitiva”, i frutti di quindici anni di lavoro su Dino Campana: ricerche, intuizioni, interpretazioni, non necessariamente tutte condivisibili ma certamente molto leggibili, pregio questo davvero notevole, soprattutto se si tratta dell’incontro con Dino Campana. Ma perché parlare di una nuova “guida a Campana”? Perché pur essendo un libro anche accademico, con il dovuto apparato critico e bibliografico, “L’universo mondo...” sorprende per la non comune facilità di lettura e per l’approccio totale a Campana: vita - una vicenda biografica che tanto peso ha avuto nella produzione letteraria dell’autore, che seguendo quasi alla lettera l’amato Nietzsche, è riuscito a carissimo prezzo a fondere arte e vita - e opera, della quale viene colta, e analizzata fin nei minimi dettagli (stride l’esiguo spazio dedicato ad una

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Galassia Dino Campana, una nuova guida

delle più potenti e musicali poesie dei Canti Orfici, “Barche amorrate”) la forte valenza lirica e la sua novità, capace di smuovere le acque sin troppo tranquille della letteratura italiana dei primi decenni del Novecento e vengono fornite, con una capacità di sintesi ammirevole, molte “chiavi di accesso” alla comprensione del testo. Aperto da una presentazione di Fiorenza Ceragioli, massima (insieme al Maura del Serra) studiosa campaniana vivente, alla quale dobbiamo una fondamentale edizione critica dei Canti Orfici, il libro di Costanza Geddes da Filicaia si articola in tre capitoli, dedicati il primo ai Canti Orfici, il libro unico (intanto perché, per quanto non esente da errori di stampa e tirato dal tipografo-editore Ravagli in lotti dai tipi di carta più diversi, è il solo pubblicato in vita da Dino Campana, e sotto la sua diretta supervisione, poi perché si pone davvero come un oggetto alieno, al pari del suo autore, rispetto alle mode letterarie e all’establishment intellettuale del suo tempo), di Dino Campana, il secondo al “Più lungo giorno”, il manoscritto che Campana consegnò a Giovanni Papini e Ardengo Soffici nel dicembre del 1913 e da quest’ultimo “smarrito” (fu ritrovato nel 1971 dalla figlia di Soffici nella casa di Poggio a Caiano) e il terzo al restante materiale campaniano conosciuto sino ad

oggi: l’epistolario (soprattutto con la scrittrice Sibilla Aleramo), i “Taccuinetti” (faentino e marradese), il “Quaderno”, spesso pubblicati senza il confronto con l’originale, (perché “smarrito”, come i “Canti”) oppure male interpretato e/o arbitrariamente ricomposto. A proposito del secondo capitolo, dove si analizza perché tre poesie contenute nel manoscritto smarrito non siano state ricomprese da Campana nei Canti Orfici (ormai è abbastanza provato che il poeta non riscrisse tutto a memoria, come egli invece sosteneva, ma che abbia attinto ad altri appunti che aveva, fortunatamente per lui, e per noi, conservato) fa piacere riscontrare qualche piccola accattivante prova della modernità e della cultura multimediale dell’autrice (che sarebbero piaciute a Campana): parafrasando Ivory intitola il capitolo “Quel che resta del Più lungo giorno” e, parlando della poesia “Traguardo” (una specie di versione ridotta di “Giro d’Italia in bicicletta (1° arrivato al traguardo di Marradi”) e in generale dell’interesse di Campana per la bicicletta, cita ben tre canzoni d’autore: “Bartali” di Paolo Conte, “Coppi” di Gino Paoli e “Il bandito e il campione”, portata al successo da Francesco De Gregori ma scritta - rendiamogli l’onore che si merita - da suo fratello maggiore, Luigi Grechi.


di Biagio Guccione Se esaminiamo gli ultimi decenni la trasformazione del paesaggio rispetto a quella dei secoli passati è più veloce, i cambiamenti ci appaiono incontrollabili. Tutto questo accade sotto i nostri occhi in una rapida evoluzione che distrattamente talvolta non cogliamo. Una collina a vigneto che abbiamo ammirato per anni è tale dieci anni prima e continua ad esserlo dieci anni dopo. Ma è tanto cambiata. Forse l’orditura si è conservata, forse anche il vitigno, ma spesso i sostegni sono cambiati e con il sostegno tutto quello che ad esso è interconnesso. Questi tipi di trasformazione spesso si tenta di normarli , al fine di alterare il meno possibile l’assetto attuale e nel contempo venire incontro all’esigenza più ovvia e scontata che è quella di rendere l’attività umana nel paesaggio remunerativa. Pena l’abbandono, pena il degrado. Non a caso la Convenzione Europea del paesaggio, consapevole del fatto che non si fa paesaggio contro la volontà degli abitanti e dei proprietari, al primo articolo pone un enunciato che già qualcuno afferma essere molto rischioso. a. “Paesaggio” designa una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni; [...] c. “Obiettivo di qualità paesaggistica” designa la formulazione da parte delle autorità pubbliche competenti, per un determinato paesaggio, delle aspirazioni delle popolazioni per quanto riguarda le caratteristiche paesaggistiche del loro ambiente di vita. Appare evidente la centralità dei bisogni della popolazione, al di fuori dei quali non ci può essere salvaguardia. La politica del paesaggio ha come primo compito di mediare nei conflitti tra coloro che vogliono la salvaguardia dei valori storici del paesaggio , quelle permanenze ereditate da passato che – per dirla con Sereni - la “legge d’inerzia” ha fatto arrivare sino ai giorni nostri e che costituisce in molti casi il valore aggiunto di molti edifici sparsi nella campagna. E’ innegabile infatti che, al di là del valore in sé, il pregio di certe case coloniche, cascine, ville, casali, ecc. sta nel suo rapporto equilibrato con le tessiture agrarie tradizionale, e infatti basta la sola trasformazione produttiva a mettere a rischio il pregio di quella che volgarmente chiamiamo “ cornice paesaggistica”. Sorge spontaneo l’interrogativo che da anni si pongono i cultori del paesaggio: che cosa

Paesaggio

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tra ripristino e creazione si deve salvaguardare, che cosa si può trasformare? Domanda difficile, alla quale nessuno ha il coraggio di rispondere con onestà intellettuale e morale o spregiudicatezza, anche se poi certi esiti emergono nella pratica quotidiana. Anche la convenzione apre ad ogni tipo di soluzione e così conclude nell’ultimo comma dell’art. 1: “Pianificazione dei paesaggi” indica le azioni fortemente lungimiranti, volte alla valorizzazione, al ripristino o alla creazione di paesaggi. “Ripristino e/o creazione”. Questa è la vera questione. A tale proposito scrive Guido Ferrara, nella scia coerente dell’approccio

paesaggistico a questa tematica: “...il problema base, da porre sotto controllo, è il cambiamento, la trasformazione: ovvero o impariamo a trasformare, tenendo opportunamente conto delle ‘armoniose relazioni’ possibili, o siamo perduti. Credo proprio che sia arrivato il momento di pensare che un problema di questo genere non può trovare alcuna risposta nei «nulla osta» ex post distribuiti da una commissione o da un funzionario onnisciente, anche perché costui, in verità, poco o nulla conosce di quel complesso ‘sistema paesistico’ da mettere alla base di ogni decisione, almeno fin quando permane l’assenza di un piano del paesaggio.” Vigneto Vermentino (Foto A.Meli)

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di Danilo Cecchi Lo sguardo dei fotografi sulla natura può declinarsi in molti modi, da quello puramente scientifico e freddamente catalogatore, fino a quello curioso ed indagatore, attento a cogliere nel mondo naturale dei significati nascosti e delle simbologie spirituali, con tutte le sfumature intermedie fra questi due estremi. Lo sguardo del fotografo americano Walter Landon Chappell (1925-2000) tende ad evidenziare la vitalità della natura in parallelo con la vitalità del corpo umano, ricercando dei sottili legami psicologici ancora prima che delle analogie formali fra i due mondi, quello individuale e quello dell’intero creato. Walter nasce a Portland e vive i primi anni della sua vita in una riserva indiana, a diciassette anni conosce Minor White, che incontra di nuovo dopo il servizio militare, e con il quale collabora nei primi anni Cinquanta, come assistente nei corsi di fotografia, e con la realizzazione di foto e testi, come redattore della rivista “Aperture”, fondata da White nel 1952. Vive a New York fra il 1957 ed il 1961, si trasferisce nel 1962 in California a Big Sur, poi a San Francisco nel 1970, nelle Hawaii nel 1984 ed infine nel New Mexico, nel villaggio di El Rito. Nel corso della sua vita movimentata pratica la fotografia, la filosofia e la poesia, costruisce tre case e venticinque camere oscure, dopo la morte nel 1959 della prima moglie si risposa, fino al 1984, e da diverse relazioni ha sette figli, oltre ad una figlia adottiva. Convinto assertore della fotografia come arte autonoma, rifiuta ogni tipo di compromesso di tipo commerciale, affascinato dal rapporto vitalista fra l’uomo e la natura, sceglie un modello di vita che lo isola e lo allontana dalle abitudini del gruppo sociale dominante. Le sue immagini risentono dell’insegnamento di Edward Weston e di Minor White e della frequentazione con Paul Caponigro, e soprattutto riflettono le sue scelte ideologiche e di vita, esaltano il flusso di energia che scorre fra i corpi e gli elementi naturali, i legami di carattere sessuale e mistico, la celebrazione dell’amore come l’energia che regola il cosmo e l’esaltazione della vita come il flusso ciclico che ripropone l’eterno inizio e l’eterna rinascita. Il suo modello di vita si avvicina alla controcultura dei giovani americani che all’epoca sono in cerca della verità e di realtà alternative, ma fatalmente, lo rendono inviso alla così detta “maggioranza silenziosa”, quella che detiene il potere politico ed economico. Nonostante le numerose esposizioni ed i numerosi riconoscimenti ottenuti, e nonostante sia considerato, ancora in vita, come uno dei più importanti fotografi americani del secondo Novecento, le sue immagini vengono ritenute eccessivamente esplicite e scabrose, fino al rifiuto

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degli editori della pubblicazione del libro “World of Flesh”, che rimane inedito. Le sue ricerche visive si estendono dalla raffigurazione dei corpi nudi, carichi di vitalità e sensualità, alle corrispondenti forme della natura, rocce, erosioni, vegetazione e corsi d’acqua, con immagini che mettono insieme i due mondi, ambientando spesso i corpi nudi nella natura incontaminata. Dalla cultura dei nativi americani e dallo studio delle filosofie orientali Chappell assorbe la

Walter Chappell Fra corpo e natura

concezione della unità del mondo vivente, in cui ogni cosa trova una corrispondenza in tutte le altre cose, sia al livello fisico che al livello più profondo dell’animo umano. Nelle sue immagini, estremamente rigorose e nette, tratta il mondo come una creatura pulsante di vita e di energia, in continuo movimento ed in continua trasformazione, in continua connessione con il livello interiore e psichico. Le sue ultime immagini riflettono le sue ricerche sull’aura vitale che circonda e pulsa attorno alle piante, sotto forma di movimento di elettroni registrati ad alta frequenza. A tredici anni dalla morte gli viene dedicato il libro“Walter Chappell - Eterna Impermanenza”.


di Paolo Marini

Disegno di Paolo Marini

“Parlo per esperienza personale. Nella mia vita ho incontrato centinaia di persone che mi hanno chiesto: “Allora, scemo, quando pensi di smettere con i film e di trovare un lavoro?”. E se è vero per me, deve essere vero per dozzine di altri incompetenti, il cui talento è spesso inferiore al mio. Questo sistema potrebbe essere applicato anche in altri campi. Sono sicuro che molti candidati politici vengono sconfitti perché il pubblico ha avuto la possibilità di vederli in faccia. La prossima grande vittoria politica andrà al partito così astuto da non presentare un capolista” Groucho Marx The New York Post”, luglio 1947

I pensieri di

Capino

Più di venti anni fa, nel Salone dei Duecento in Palazzo Vecchio, un mio amico (Ugo Caffaz, allora Capo gruppo del partito di maggioranza) si rivolse a chi, dai banchi dell’opposizione, affermava di voler assicurare diritti “prima di tutto ai fiorentini”, con tono forte, chiedendogli: “La mia famiglia è qui dal 1400; basta perché possiamo considerarci fiorentini?”. E’ bastato cambiare millennio (anche se non ancora la maggioranza consiliare) per sentir affermare perfino dal Sindaco di quella stessa città la legittimazione a riservare maggior attenzione nella attribuzione di qualche beneficio derivante dall’attività

Marxismi Nessuno è perfetto, e tanto meno “puro” amministrativa a coloro che sono fiorentini. Mi sono fermato a pensare e, scoraggiato dalle mutevolezze della politica, mi sono affidato alla matematica e ho calcolato quante sono state le persone che 22 generazioni prima della nostra (più o meno all’epoca in cui arrivarono a Firenze gli antenati di Caffaz) potrebbero risultare negli alberi genealogici mio o del mio amico. Sono più di 4 milioni (2 alla ventiduesima)! Così tanti furono coloro che, all’epoca, iniziarono a generare figli che, a loro volta, all’interno di un immenso gruppo, composto oltre che da loro stessi anche dai loro fratelli e sorelle (giunti all’età dell’amore) trovarono il / la partner (anche molti secoli prima che questo termine fosse in voga) con cui hanno concepito essi stessi un Figlio, o una Figlia. E così, di secolo in secolo, in un ideale

zoom fino a quegli 8 Uomini ed altrettante Donne che sarebbero stati i Trisnonni, miei ed all’altro gruppo che, di amplesso in amplesso, avrebbe posto le basi per la nascita di Ugo Caffaz. Noi due siamo quasi coetanei e chi sa che, in questo enorme rimescolio di geni che ha occupato quasi metà millennio, non sarebbe possibile trovare punti di più o meno lontani “apparentamenti”. Quanto a me, non so di quali possano essere stati i movimenti migratori (se non quelli che portarono coloro che sarebbero stati i miei Genitori a lasciare le campagne di Verona ed a stabilirsi a Firenze) di quei 4 milioni di lontano miei antenati. Potrebbe perfino risultare che qualche avo sia transitato da Pontida od anche da Rignano sull’Arno. Nessuno è perfetto, e tanto meno “puro”. Anche se il concetto pare non essere alla portata di tutti.

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Donne in barca di Luisa Moradei La città di Firenze, prima in Europa, ha accolto nei giorni scorsi l’edizione 2018 del Festival mondiale IBCPC di Dragon Boat (donne operate di tumore al seno). Le 120 squadre che hanno preso parte a questo importante evento, prima di approdare in Arno per le prove sportive, si sono presentate alla città sfilando per le vie con i loro abiti festosi e variopinti; quasi 4.000 donne provenienti da tutte le parti del mondo riunite per comunicare un messaggio di speranza. Il loro sorriso e la fantasmagoria di colori che le avvolgeva (rosa dominante) costituivano un vero e proprio inno alla vita che è esploso in piazza della Signoria davanti alle autorità cittadine che le ha calorosamente accolte. Le gare si sono svolte in Arno nel tratto compreso tra il ponte della tramvia e la passerella dell’Isolotto. E’ bene ribadire che si è trattato di una competizione sportiva non agonistica sebbene fosse evidente l’estremo impegno di ciascuna squadra nel raggiungere il traguardo. Le abbiamo seguite ai pontili d’imbarco per cogliere l’emozione prima di salire su quella lunga barca con testa e coda di drago, le abbiamo viste pagaiare con vigore fra spruzzi d’acqua e ritmo di tamburo, le abbiamo viste scendere dall’imbarcazione stremate, con le lacrime di gioia mescolate al sudore, dopo aver percorso 500 lunghi e faticosi metri a colpi di pagaia sotto il sole cocente. Abbiamo visto squadre che si avvicendavano una dietro l’altra per gareggiare e rendere manifesta la loro forza contro la malattia, per comunicare che la vita dopo il cancro si è arricchita di una linfa nuova, quella della condivisione con altre donne, le abbiamo viste felici e consapevoli della loro forza che si irradiava a tutti i presenti. Ognuna di loro aveva vinto la propria gara, aveva raggiunto il proprio traguardo; se competizione c’è stata era nei confronti della malattia. Con i loro animi forti e decisi hanno vinto per la vita. Percorrendo il lungarno delle Cascine, dove era allestito il campo gara, si potevano incontrare donne di tutto il mondo dalla Nuova Zelanda al Brasile,

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al Sud Africa, Singapore, Canada, Australia, U.S.A. ed Europa, fra cui spiccavano numerosissime italiane. Quello che stupiva era vedere queste donne che non si conoscevano, non parlavano la stessa lingua, non avevano la stessa età ma avevano comunque la voglia di comunicare e condividere , nell’attimo dell’abbraccio, la loro esperienza drammatica e al tempo stesso la loro incontenibile gioia di vivere. Alla verifica dei risultati finali, la squadra fiorentina Florence Dragon Lady LILT ha avuto la sorpresa e la soddisfazione di vedersi aggiudicato il 4° posto su 120 squadre partecipanti; tutto l’equipaggio si è stretto con entusiasmo attorno agli allenatori Alessandro Piccardi e Andrea Giommi, alla capitana “Joly” alle timoniere e alle tamburine. Non c’è che dire…le Florence sono una grande squadra! La manifestazione ha raggiunto il climax con

la cerimonia dei fiori durante la quale 18 barche, in rappresentanza dei paesi partecipanti, si sono schierate in mezzo all’Arno per rendere omaggio con un minuto di silenzio alle donne che non sono sopravvissute alla malattia. Rotto il silenzio, in un tripudio catartico, sono state lanciate in acqua 3.000 gerbere rosa in ricordo di queste donne. Le rive del fiume erano gremite di persone, da un lato la macchia rosa di tutte le atlete e dall’altro le migliaia di partecipanti convenuti a sostenere la manifestazione. L’evento si è concluso in un clima vibrante di grande partecipazione. Le numerose autorità cittadine e internazionali che si sono avvicendate sul palco hanno sottolineato l’importanza della prevenzione del tumore al seno e Lucia De Ranieri, presidente del festival, ha dichiarato con coraggio “La sfida è dentro di noi, insieme possiamo vincere la malattia”.


Fra S.Giorgio di M.Cristina François Come la Chiesa di S.Jacopo sopr’Arno, la Chiesa di S.Giorgio alla Costa (o allo Spirito Santo) ha condiviso con la vicina S.Felicita parte della sua storia e del suo Patrimonio. Se pur causati da ragioni diverse, i danni subiti da S.Jacopo per l’alluvione del 1966 e i danni di usura metereologica di S.Giorgio hanno fatto sì che per salvaguardarne il Patrimonio esso sia stato parzialmente trasferito in entrambi i casi in S.Felicita. Dopo aver affrontato la questione relativamente a S.Jacopo [“Cu.Co.” nn.266267-268], tratterò ora di S.Giorgio. Le prime notizie documentarie che hanno collegato fra loro per ragioni storiche le due Chiese di S.Felicita e S.Giorgio risalgono a un doc. dell’ASPSF che segnala come alla Restaurazione Lorenese avvenuta nel 1814 sotto Ferdinando III, il Parroco filo-napoleonico Don Luigi Galeotti già incaricato in S.Felicita “dall’intruso Pastore il Barone Eustachio D’Osmond, […] venne destituito da tale ufficio dalla legittima Autorità Ecclesiastica” e fu mandato a vivere “nella casa segnata dal numero comunale 64 in Via De’ Bardi” mentre “fu eletto Economo Spirituale di questa Chiesa [S.Felicita] il Parroco di S.Giorgio sulla Costa cioè il Sacerdote Giuseppe Balocchi”. Questo Parroco entrò in servizio il 26 Marzo 1814 [Ms.730, a.1814, pp. 414-415]. Col passar degli anni, soltanto alcuni sacerdoti ricevettero il doppio incarico di S.Felicita e di S.Giorgio, fra questi pure gli ultimi tre Parroci di S.Felicita. Per S.Giorgio la soluzione di risanamento, sia rivolta all’apparato murario che alle opere, non è stata altrettanto felice e di rapida realizzazione come fu quella di S.Jacopo che, colpito da un evento tanto traumatico, ricevette soccorsi e sponsorizzazioni immediati. S.Giorgio, invece, si spegneva pian piano, dimenticato dai più anche perché sostituito agevolmente nelle sue attività liturgiche e parrocchiali da S.Felicita. Restò molto a lungo puntellato al suo interno e, più tardi, anche all’esterno. Durante i miei anni di presenza in S.Felicita anche come Archivista ebbi modo di constatare che le problematiche riguardanti l’edificio di S.Giorgio erano dovute a fattori atmosferici che gradatamente l’avevano portato a necessitare di restauri urgentissimi: le principali riparazioni a una trave pericolante e al

e S.Felicita

tetto rimandavano solo temporaneamente una situazione sempre più a rischio, soprattutto per la presenza in situ di tele, tavole, affreschi e stucchi di notevole interesse artistico. Per la salvaguardia dell’edificio e delle sue opere d’arte, nel gennaio 2017 fu sollecitato dal Sindacato “CONF.SAL-UNSA Beni Culturali” il Sequestro cautelativo finalizzato ad evitare danni irreparabili. A seguito di questa premurosa sollecitazione su lavori in programma, furono ripresi i restauri all’esterno dell’edificio ecclesiale e, soprattutto, furono effettuate riparazioni, questa volta definitive, al tetto. Umidità da discesa e da risalita, degrado dell’impermeabilizzazione della copertura, tegole mancanti e conseguente dilavamento, furono le principali cause del degrado che aveva colpito S.Giorgio. I Parroci di S.Felicita avevano nel tempo fatto portare al riparo, nella loro Chiesa e in ambienti adiacenti, arredi e strumenti liturgici utilizzabili in quel contesto, tra cui lo straordinario Organo cinquecentesco di Onofrio Zeffirini. Procedo ora qui di seguito a redigere una lista di oggetti appartenenti a S.Giorgio pur essendo depositati in S.Felicita: A. 2 grandi candelabri barocchi in legno riccamente scolpito, intarsiato e dorato, alti circa cm 230, riconducibili al 1705; di artista ignoto, ma di rimarchevole bel-

lezza per l’esecuzione dell’ornato. Una Colomba dello Spirito Santo è scolpita alla base dei due manufatti, quale segno di appartenenza a S.Giorgio. Furono portati in S.Felicita intorno al 1990. La fig.1 mostra che nella loro sede i due candelabri conservavano ciascuno le proprie ‘piogge’ per l’inserimento delle candele. B. 14 panche con inginocchiatoio, in legno chiaro, manufatto del XX sec. C. 2 inginocchiatoi lignei, ciascuno con 4 colonnine, legno di ciliegio (?). Inventariati dalla Curia col n.05034 come appartenenti a S.Felicita. D. 1 colonna lignea tortile, intagliata a racemi, dipinta oro, bianco e verde pallido, sormontata da leggio, per uso di ambone. E. 1 colonna gemella della precedente, ma sormontata da un piedistallo circolare, per uso di sostegno. Entrambe le colonnine sono inventariate dalla Curia coi nn.0409 e 0552 come appartenenti a S.Felicita. F. 4 Colonnine lignee tortili, color mogano superiormente sormontate da una base per uso sostegno (forse per piante). La Curia ne ha inventariate 3 coi nn.0999a-1000a-1001a, come appartenenti a S.Felicita. G. 1 cornice lignea, dorata e intagliata (XIX-XX sec.) per un dipinto a olio di S.Rita da Cascia; l’opera è recente e puramente devozionale mentre la cornice è manufatto di qualche interesse. H. 1 Organo a canne, mesotonico, costruito ante 1572 dal celeberrimo organaro O.Zefferini. Fu restaurato e trasferito nel 1996 in S. Felicita. Fino al 2009/2010 risultavano ancora in S.Giorgio: parati liturgici antichi e bellissimi dentro il Diakonikon, stanzetta nel fianco NORD della Chiesa e posta di faccia alla Sagrestia; alcuni faldoni e fascicoli manoscritti e Messali a stampa, dentro e sopra il bancone di Sagrestia; dipinti e arredi in appoggio, in Sagrestia e nel Coro delle Monache. Nell’attuale rilancio di S.Giorgio - sia religioso che artistico - questi ultimi arredi citati, opportunamente restaurati potrebbero ritrovarsi in S.Giorgio di nuovo affiancati agli altri manufatti che dall’alto della Costa sono scesi in S.Felicita. Mancherebbe all’appello la “Madonna in trono” di Giotto davanti alla quale, in visita al Monastero di S.Giorgio, Savonarola restò verosimilmente in meditazione.

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di Simone Siliani Virgilio Sieni è oggi, a Firenze, uno dei pochissimi (potrei contarli sulle dita di una sola mano) che ha le capacità intellettuali, la credibilità culturale e la sensibilità sociale per fare un discorso sulla bellezza senza cadere nella trita retorica di cui si sono riempiti la bocca le ultime amministrazioni (locali e nazionali) e di cui sono state pasturate schiere di intellettuali, operatori culturali e imprenditori. Così, il “Quarto Paesaggio. Un’esperienza urbana della bellezza”, programma di azioni, riflessioni, performance e luoghi di Sieni (giugno-settembre 2018), è esattamente l’antiretorica della bellezza, perché ricerca e la trova laddove è ancora viva la interconnessione dialettica e dinamica fra il costruito, la natura, l’uomo in tutte le sue rappresentazioni, e non la fissità statuaria del centro storico gettato in pasto al turismo di massa e finalizzato ad ingrassare la rendita di posizione. In questa esperienza dell’(anti)bellezza, che va dalla Palazzina dell’Indiano delle Cascine, all’Isolotto, fino alle Piagge, Sieni non teme di affrontare le difficoltà di accesso ai luoghi né la loro complessa e controversa fruibilità (penso alla parte finale del Parco delle Cascine, di ben più difficile valorizzazione della parte monumentale iniziale). Anzi questa sfida è ciò che fa sgorgare il vero lavoro artistico e culturale. Troppo facile (e impossibile, allo stesso tempo ma in senso opposto) mettere un’opera d’arte contemporanea in piazza della Signoria o in S.Croce e attendere che l’orda turistica e i flash dei media globale ne illuminino grandezza o mediocrità. Ben più difficile e diverso prendere una palazzina dimenticata da tempo in fondo al parco, stretta fra il fiume, il ponte e Novoli e farne un centro d’arte e di vita, attivo, di cui si approprino i cittadini increduli della sua stessa esistenza. Ma perché meravigliarsi di questa amnesia collettiva su questi luoghi di frangia da parte dei nativi? Sono stati, anche loro, nutriti di retorica sulla “città più bella del mondo”, su “la bellezza che salverà il mondo”, sul “nuovo Rinascimento fiorentino”, intendendo con ciò il centro storico come entità avulsa dal resto della città, dove pure si svolge la vita con tutte le sue difficoltà, contraddizioni e contrasti che, però, sono la vera bellezza. In fondo che colpa avevano loro se gli veniva continuamente ricordato di essere privilegiati a vivere in questa meravigliosa città (che, per inciso non era per loro – che infatti non la conoscono – ma per

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Alla ricerca del Quarto Paesaggio


le masse di turisti e per chi da quel turismo cerca di trarre il massimo profitto nel minor tempo possibile), ma per il loro tempo libero gli venivano propinati “i Gigli” e altri simili parchi giochi del consumo? Invece Virglio Sieni, fin dai tempi di Cantieri Goldonetta, cerca di entrare in sintonia con il cuore pulsante di quell’ordito di vite straordinariamente ordinarie che abitano ai margini, lontano dai riflettori dello star system turistico; ed è tutt’uno con l’ambiente, naturale e artificiale, costruito e decostruito, storico anch’esso o in continua trasformazione creativa. Un percorso che dalla Palazzina dell’Indiano (Progetto PIA – Palazzina Indiano Arte) si addentra fino alle viscere di quel mondo a sé, senza veri confini fisici, ma che costituisce l’ultimo pezzo di architettura e storia sociale e democratica della città (fino almeno al recupero delle Murate, s’intende) che è l’Isolotto; per poi sfondare alle Piagge con la Scuola di Musica di Fiesole che da qualche anno ha spostato in questa lontana periferia il campo di battaglia della sfida culturale e di civiltà che intraprese Piero Farulli quando intese con la “sua” scuola portare la musica a tutti (e non ai soli addetti ai lavori), di ogni gruppo sociale o etnico. Li vedevo e ascoltavi, increduli, i miei concittadini che arrivavano, come fossero giunti in una terra straniera e ignota, alla Palazzina dell’Indiano e si aggiravano spaesati fra l’Arno, la Palazzina e il ponte: che potesse esistere un luogo come quello restava fuori dal loro orizzonte cognitivo. Quelli della mia età forse conservano qualche lontano ricordo delle gite della domenica mattina, uno dei rari momenti con i babbi, dallo zoo all’inizio fino al monumento del Maharaja (il maragià, alla fiorentina) alla fine del parco delle Cascine. Ma tutte le generazioni successive hanno perso ogni cognizione di quel (non)luogo. Che ora torna vivo, o meglio si apre anche ad un’altra vita, quella creativa dell’arte. La danza sul greto dell’Arno, la musica sull’erba, le “passeggiate racconto per giardinieri planetari”, le lezioni sul gesto, gli incontri sull’architettura, l’orto, lo spazio espositivo, la scuola ippica: tutto è lì per narrare un’altra idea di bellezza. Viva, come quella che inizierà il 19 luglio in piazza dei Tigli all’Isolotto con la scultura pubblica e il “Ballo 1960” ispirati alla foto in bianco e nero del 1960 del bambino che pianta un alberello all’Isolotto: da questo gesto (appunto), semplice, vitale, umano, sgorga la memoria e, attraverso l’arte, ci rivela un paesaggio vivo, ancora,

davanti a noi e in cui siamo invitati a entrare come soggetti attivi, protagonisti, non consumatori feticisti di totem cristallizzati di algida bellezza. Il titolo della rassegna rimanda, come è ovvio, al Manifesto del Terzo Paesaggio, di Gilles Clément di cui, mi pare, il Quarto Paesaggio di Virgilio Sieni rappresenta una variante innovativa. Per Clément, il Terzo Paesaggio era un “frammento indeciso del giardino planetario”, un insieme di luoghi abbandonati dall’uomo, luoghi di frangia, di margini che tuttavia raccolgono “una diversità biologica che non è a tutt’oggi rubricata come ricchezza”. Uno spazio che “non esprime né potere, né sottomissione al potere”. Questo “rifugio di diversità” che è il Quarto Paesaggio di Sieni è la sede “indecisa” - nel senso che non vi opera la decisione umana di creare amministrativamente una riserva naturale o una previsione urbanistica, ma tutto è lasciato alla libera interazione fra gli esseri biologici che compongono il territorio – della biodiversità culturale. Il “programma” che si svolge alla Palazzina Indiano Arte sfugge alla catalogazione della bellezza così artificiosamente definita nel centro storico proprio per essere destinata ad un’unica forma di fruizione e di sfruttamento economico. La partecipazione spontanea degli esseri biologici, la collaborazione di tanti e diversi operatori culturali. La distanza dai flussi massificatori del turismo garantiscono la biodiversità culturale. Che è poi anche la proposta di “un nuovo modello democratico di città, che riscopra l’aperto e il vuoto come elementi equilibratori e positivi per il libero pensiero e la circolazione delle idee”. Ma, del resto, cosa è la democrazia se non un ambiente sociale e istituzionale dove è garantita la biodiversità delle idee, un parco senza confini dove la diversità culturale è valore e la omologazione il peggiore dei pericoli. Come quelli del Terzo Paesaggio di Clément, anche gli spazi frequentati da Virgilio Sieni sono indecisi, “privi di funzione sui quali è difficile posare un nome”. Terreni sfuggiti alla pianificazione ordinatrice, oppure abbandonati in seguito ad una dismissione recente, residuali perché abitati da funzioni non programmate e scontate. Ma nel Quarto Paesaggio di Sieni interviene un elemento ordinatore, quasi demiurgico direi, svolto dalla complessa relazione fra l’artista e l’ambiente, “per tracciare mappe poetiche sulla rigenerazione del territorio e sulla riscrittura di una geografia di dettagli attraverso comunità del gesto”.

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di Valentino Moradei Gabbrielli E’ passato davvero tanto tempo da quando alla fine degli anni settanta, le spiagge di Cala Violina e del Parco dell’Uccellina ora Parco della Maremma, rappresentavano l’“alternativa” a chi rifuggiva la balneazione dei Lidi e dei campeggi sul mare, per una sana balneazione sulla spiaggia libera. Eravamo io, Monica, Caterina e Michele, lei una lussemburghese ribelle e con un bel laboratorio di oreficeria in Via Dei Federighi. Michele, il suo ragazzo, un neolaureato architetto di Vasto. Ricordo che oltre a godersi quel bel posto, che è il Golfo di Cala Violina, seguivamo con curiosità le manovre di Michele, che trottando sulla lunga spiaggia libera, raccoglieva canne frasche e tronchi oltre a pezzi di spago e cordame gettato dal mare sulla spiaggia, tentando di imbrigliare asciugamani e vestiti in un patchwork di colori e materiali compositi suscitando la nostra ironia. Rincorreva un progetto di edificazione che avrebbe dovuto coniugare una precoce bioarchitettura e l’esigenza che avevamo di riparo dal sole e dal vento. Erano toccanti l’impegno e la serietà accompagnata da grande passione con la quale tentava di realizzare un riparo che forse sentiva e viveva come il suo primo “impegno progettuale” che non riuscivamo a contrastare né tantomeno a disarmare con le nostre battute ironiche. “Il Riparo”, qualcosa che definiamo con difficoltà. Un concetto più che una forma. Chiarissimo però nel suo significato di luogo protettivo di luogo di primo soccorso, che risponde certamente a paure di antichissima memoria. Negli anni ’90 e oltre, abbiamo frequentato regolarmente la costa a sud di Livorno e le pinete di Marina di Bibbona. La spiaggia libera era al tramonto una palestra per quella popolazione più selvatica di amanti della natura, che con il calare del sole s’impossessavano di ogni ramo e tronco, pezzi di legno e cannicci e ogni altro materiale levigato dal continuo strascico sulla sabbia, che il mare sbatteva ogni giorno sulla costa per costruire capanne di memoria antica, cucendoli insieme usando cordami e pezzi di spago sintetico raccolti durante lunghe passeggiate. Era un continuo fiorire di nuove strutture, dalle semplici alle più complesse. Talvolta ambiziose e addirittura civettuole da tradire ambizioni architettoniche. Non mancavano esempi fondati su piante articolate.

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Architetti

spontanei

Durante la giornata, venivano “abitate” dai bagnanti di passaggio, arricchite ogni sera da infaticabili manovali e “architetti”. Una presenza piacevole quella dei capanni sulla spiaggia che ci ha accompagnati per oltre un decennio. Visitando oggi il Parco della Maremma e camminando lungo l’ampia e lunga spiaggia libera che costeggia i Monti dell’Uccellina, abbiamo incontrato con piacevole sorpresa un numero notevole di esempi costruttivi primordiali co-

stituiti da legname e similari portati dal mare sulla spiaggia. Quasi un catalogo dell’architettura primordiale. Rifletto su quanto sia profondo e indelebilmente legato all’animale uomo lo spirito di sopravvivenza e il suo bisogno di avere un ricovero anche quando non ne esiste la necessità. La costruzione di questi capanni, è forse da interpretare come un’esercitazione di protezione civile in previsione di una calamità naturale, oppure come un rito tribale?


di Achille Falco Oltre 15 metri di pannelli di cartone corrono lungo un muro della galleria. Un affastellamento di disegni dal 1965 al 2009 che portano all’immaginazione un grande tavolo da lavoro sul quale l’artista ha voluto esporre i suoi disegni. La semplicità del materiale di supporto – o di appoggio – diminuisce la distanza tra arte – troppe volte considerata elitaria e di palazzo – e fruitore. Cornici, vetri, passpartout ed altri orpelli scansano le depravazioni del pur necessario mercato dell’arte cosicché lo spettatore possa godere del dialogo, a faccia a faccia, con l’artista che gli si pone intimo e privo di ogni difesa oggettiva. Comincio a camminare lungo questi disegni e noto che la matita, il carboncino o il pastello marcano segni contraddittori: è come se cercassero un altrove posto tra naturalismo, anti-naturalismo e tra astratto e figurativo. I volti, così come le anatomie, non sono mimetici ma allusivi a quel mondo umano; metaforici: mi rassicura Stengel quando dice “Sono uno di voi, sempre!”. Il segno nervoso della matita disegna un volto che si mischia a dolci

Karl Stengel uno di noi ombre di natiche e interni coscia femminili; i colori dei disegni astratti vegliano sui volti umani e, in certi altri, quando astratto e figurativo non si uniscono in uno stesso disegno, sembrano suggerire qualcosa l’uno dell’altro. Mi viene da pensare che nell’ormai decretata distanza tra i due poli, dove nell’uno si agitano le armi di Mondrian e nell’altro quelle di Michelangelo, la contesa tra puro spirito e carne sembra avere Stengel come pacificatore: astrattismo e figurativo collaborano alla stessa causa in una virtuosa contaminazione. Del resto, cos’ è l’astratto se non la trascendenza alla quale tutti noi incliniamo? Cosa se non quel guazzo di sensazioni troppo difficili da dire e catalogare? E ancora: chi meglio di un astrattista può consapevolmente disegnare volti? In questa passeggiata con Stengel lungo il pannello in cartone, mi fermo ad un

certo punto davanti ad un disegno in cui il pastello, calcato con forza, vergherebbe anche lo spirito degli animi più dimessi. Mi sembra di essere nel pieno di una sinfonia: quando essa incalza verso il punto apicale, e il direttore d’orchestra scarica sanguigno tutto quel che ha raccolto, liberando l’estasi degli ascoltatori. In quei cromatismi, l’anima si riscatta e dice ‘questo sono io’. Gli astratti volti umani, disegnati febbrilmente da Stengel, non accettano i benefici illusori della mistificazione e del puro estetismo ma calcano, semmai, la via della ricerca con – come Stengel cita Goethe – “l’occhio che sente, la mano che vede”. La galleria d’arte Zetaeffe in via Maggio 47/r – che spesso ha la stessa funzione demiurgica del critico, interpretando l’artista con l’allestimento della mostra – terrà aperta l’esposizione (a libera entrata) fino al 31 luglio.

23 14 LUGLIO 2018


Venere ritrovata

24 14 LUGLIO 2018

di Carlo Cantini


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