Cultura Commestibile 272

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Numero

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Con la cultura non si mangia Giulio Tremonti (apocrifo)

“A Pisa si dà risalto in tutti i modi (si stampano cartoline e manifesti, magliette e souvenir di ogni tipo, persino tazzine, piatti e bicchieri) per pubblicizzare quel modestissimo e banalissimo murale di ispirazione metropolitana che è Tuttomondo del newyorkese Keith Haring, che qualche mente perversa (e profondamente, grottescamente radical chic) autorizzò una trentina d’anni fa ad essere realizzato sul muro del convento di Sant’Antonio”. Andrea Buscemi assessore alla cultura del Comune di Pisa

Arte degenerata Maschietto Editore


Firenze, 1969

dall’archivio di Maurizio Berlincioni

La prima

immagine

Firenze 1969, siamo in uno dei tanti laboratori di pelletteria a Brozzi. Lo spettacolo è sempre lo stesso, uomini e donne tutti indaffarati nella routine della produzione di oggetti di pelletteria. Siamo in un laboratorio di medie dimensioni e come al solito si nota la presenza di alcuni piccoli che, invece di essere a scuola come tutti i loro coetanei, si aggirano per il capannone dove i genitori lavorano senza interruzione dalla mattina alla sera. L’ambiente tutto sommato era abbastanza accettabile rispetto ad altri laboratori più piccoli che avevo già visitato e dove spesso le condizioni di lavoro degli operai erano decisamente più precarie. Purtroppo però, anche qui si respirava un’aria abbastanza discutibile dovuta all’utilizzo dei mastici necessari per la confezione delle borse


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Cinegiornale Le Sorelle Marx Il quasi assessore orma assessorre I Cugini Engels

Pensa Dario, pensa Lo Zio di Trotzky

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Riunione di famiglia

In questo numero Antigone, ancora di Simone Siliani

Canto nomade di Alessandro Michelucci

Una nuova porta per le Cappelle Medicee di John Stammer

La Pineta di Viareggio disvela le sue ossa di Alessandra Mollica Sarti

L’organo Zeffirini tra S.Felicita e S.Giorgio di M.Cristina François

Il Cammino di San Bartolomeo di Valentino Moradei Gabbrielli

Ihei Kimura Fotografo umanista giapponese di Danilo Cecchi

Il post macchiaiolo riluttante di Paolo Marini

Le trasformazioni del paesaggio: analisi, norme e progettazione di Biagio Guccione

Walking Thérapie, una cura che funziona di Michele Morrocchi

e Capino...

Direttore Simone Siliani

Illustrazioni di Lido Contemori e Massimo Cavezzali

Redazione Progetto Grafico Mariangela Arnavas, Gianni Biagi, Sara Chiarello, Emiliano Bacci Susanna Cressati, Carlo Cuppini, Remo Fattorini, Aldo Frangioni, Francesca Merz, Michele Morrocchi, Sara Nocentini, Sandra Salvato, Barbara Setti

Editore Maschietto Editore via del Rosso Fiorentino, 2/D - 50142 Firenze tel/fax +39 055 701111

Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012

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di Simone Siliani Torno a salire, come ogni anno, il ruvido sentiero che porta alle cuspidi architetture del cimitero di guerra germanico al Passo della Futa per il lavoro teatrale di Archivio Zeta. Come 15 anni fa, “Antigone”, il classico di Sofocle che assume nuova attualità ad ogni giro di decennio, insieme alla potenza universale del suo discorso sul potere. Resta questa l’architrave della riduzione teatrale di Archivio Zeta. Qui al cimitero di guerra germanico, il tema del potere assume rilievi e significati drammatici: i 31.000 soldati tedeschi morti fra il 1944 e il 1945 sulla Linea Gotica sono il tributo di sangue pagato dal più tragico dei progetti politici di coagulare il potere nelle mani di un solo uomo e di un regime dispotico. Ma come angosciosamente urla Emone al padre Creonte, “Nessuna città appartiene a un solo uomo”; e alla risposta razionale di Creonte che “una città è di chi la comanda”, Emone (e la storia) può replicare solo con il più tragico dei vaticini: “Tu dovresti regnare in un deserto”. Ed è, infatti, in questo deserto di tombe tutte uguali, di soldati semplici e korporal, nessuno innocente e in gran parte colpevoli, che vago ascoltando il dialogo disperato fra Creonte e Emone sull’assurdità del potere, mentre l’occhio cade sulle date di nascita (… 1926... ragazzini morti su questi monti, lontani dai genitori, per un disegno politico che dubito abbiano davvero mai compreso). Il dialogo sul potere, sulle leggi della città (cioè dello Stato) dell’”Antigone”, resta uno dei capolavori della scienza politica di tutti i tempi, ma anche un capolavoro della poesia. Archivio Zeta lo rende in tutta la sua drammaticità, in un equilibrio straordinario fra passato, presente e una dimensione atemporale dove si collocano poche opere dell’ingegno umano. Creonte è prima all’apogeo del potere assoluto e poi rovina tragicamente, l’uomo e il regime. Ma il dilemma, sempre attuale, dell’obbedienza cieca alle leggi dello Stato quale essenza del potere, può apparire anacronistico, oggi che il potere si esplica sempre di più attraverso forme partigiane se non personalistiche finalizzate non al bene comune ma a quello personale o della propria cerchia di fedelissimi. Eppure qui sono posti i temi fondamentali della crisi dei regimi politici moderni, democrazia compresa. In primo luogo il tema del potere assoluto delle leggi, per servire le quali soltanto il potere si materializza in un uomo o nel tro-

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Antigone, ancora no: “E’ impossibile penetrare a fondo anima intelligenza carattere di un uomo, se costui non ha rivelato se stesso nell’esercizio del potere e delle leggi”, dice Creonte. E quindi il potere deriva direttamente dalle leggi che, in quanto tali, sono giuste: a queste soltanto deve rispondere l’uomo che detiene il potere e, del resto, solo in virtù di essere egli si manifesta pienamente come uomo. Ma chi stabilisce che quelle leggi siano giuste in assoluto e, dunque, che da esse scaturisca un potere perfettamente legittimo? Questa è la domanda angosciosa con cui Emone e, prima ancora, Antigone mettono in crisi Creonte. Vi sono leggi “naturali” superiori a quelle della città, che sono pur sempre forgiate dagli uomini e non dagli dei: in questo crede Antigone e a questo imperativo morale obbedisce, a costo della sua vita. Vi è uno spazio di riflessione anche di fronte a questa certezza assoluta di Antigone, oggi che il confine assoluto della vita si sposta continuamente in terreni dove l’uomo – con il dominio sulla tecnologia attraverso la scienza – può determinare o almeno influenzare

queste leggi “naturali”. Ma sarebbe una forzatura aprire queste riflessioni qui, all’altezza del testo di Sofocle a cui Archivio Zeta si attiene. Non dobbiamo neppure sottovalutare il fatto che Antigone è una donna e da questa donna giunge la sfida, sfrontata ed estrema, al potere. In una società che non contemplava neppure questa possibilità, tanto che nello scontro dialettico fra Creonte ed Emone su una cosa concordano i due e cioè che “a nessun costo bisogna lasciarsi vincere da una donna. E’ pur sempre preferibile soccombere a un uomo, se è necessario: almeno nessuno dirà che siamo più deboli di una donna”. Sono piuttosto le domande sollevate da Emone che scalfiscono la marmorea certezza sul potere e le leggi di Creonte. Ed è, proprio alla Futa, uno dei due cardini del lavoro di Archivio Zeta. Di chi è veramente quel potere che Creonte esercita al servizio della legge? Se il fine è il bene della città e della comunità che la abita, allora il rischio maggiore che il potere può correre è quello di deviare da questo fine per condiziona-


re la comunità e ridurre la libertà dei suoi abitanti che, infine, sono se non la sorgente, almeno il bacino entro cui deve defluire l’applicazione delle leggi. Ma oggi, come ieri, il potere ha sviluppato modi subdoli e raffinati per condizionare la libertà e non ha più la necessità di manifestarsi in camicia nera e passo dell’oca per imporsi. Siamo all’autoreferenzialità assoluta del potere, al solipsismo che interrompe ogni dialettica: “il tuo sguardo – dice Emone al padre – intimidisce il semplice cittadino, impedendogli di esprimere ciò che ti potrebbe dispiacere”. Quando un regime politico concentra il potere, sono sempre di più l’autocensura dei cittadini, la tendenza omologatrice del pensiero critico, il trasformismo per godere anche marginalmente di alcune briciole del potere dispensate dalla sua tavola imbandita, il controllo (“lo sguardo”) sulla vita dei cittadini magari svolto in nome della loro sicurezza, che trasformano in assoluto un potere che nasce per servire il popolo. Mentre, seppure mai citata, è la democrazia il regime che garantisce maggiormente contro il potere assoluto. Naturalmente laddove la democrazia mantiene la sua essenza di fondo, che non è solo un metodo per eleggere i propri rappresentanti e i delegati a prendere le decisioni, bensì la discussione e la dialettica per formare (e anche cambiare) una convinzione, cioè un potere. Emone lo dichiara, per il bene di Creonte (cioè per il regime che egli incarna e per la città): “No, non trincerarti nell’idea che solo ciò che dici tu, e nient’altro, sia giusto. Quanti presumono di aver sempre ragione, o di possedere una

lingua e un animo superiori, ebbene, una volta scrutati a fondo rivelano il loro vuoto interiore. Anzi fa onore a un uomo, per quanto saggio egli sia, continuare ad imparare senza chiudersi nell’ostinazione. … Coraggio, arrenditi, e concedi al tuo animo un qualche cambiamento”. E’ questa l’essenza della salute dei regimi politici, la disposizione all’ascolto, al dialogo, al cambiamento. Fin quando la democrazia mantiene questa disposizione, essa rimane il regime strutturalmente più giusto; quando esso elegge rappresentanti che perdono questa disposizione nella convinzione inappellabile di conoscere da soli il bene della città ed esercitarlo senza alcuna forma di dialettica, allora la democrazia inizia a trasformarsi in un altro regime, degenera e rischia il crollo. Infatti, Emone lo dice più volte: “dico queste cose, Creonte, per il tuo bene”. Così come lo dirà, con più efficacia per via del vaticinio di morte, l’indovino Tiresia. “Cambia idea, fatti vincere dal dubbio, abbandona la cieca osservanza di leggi umane che ti porteranno a compiere la più grande delle ingiustizie”: questo l’appello straziante di Emone a Creonte. E’ un appello tragico perché inascoltato. Emone non sa l’argomento forte che conosce Tiresia, cioè la previsione del lutto che si abbatterà su Creonte-uomo che lo porterà alla rovina. Ma Tiresia vede bene non solo il futuro, bensì il presente: “Per tuo volere la città è malata: tutti gli altari, tutti i nostri bracieri sono contaminati da brandelli di carne che uccelli e cani hanno strappato a quel misero caduto, al figlio di Edipo. Perciò gli dei non

accettano più da noi preghiere e sacrifici... Cedi pertanto di fronte a un morto, non voler colpire un cadavere: bella prodezza uccidere nuovamente un morto! Parlo per il tuo bene...”. Ecco, qui, il secondo perno della riduzione teatrale della tragedia realizzata da Archivio Zeta: la nostra città è malata perché lasciamo insepolti, abbandonati al loro tragico destino migliaia di esseri umani nel mare che bagna la città. Gli dei non ascoltano le nostre preghiere perché esse sono ipocrite ed egoiste. I nostri sacrifici sono inutili perché chi ha il “potere di adottare qualsiasi misura”, colui a cui la città ha affidato il potere, lo sta usando per applicare leggi disumane che pure ritiene assolute. “Si chiudano i porti e si applichino le leggi: chi non ha diritto non entra; nessuna compassione, nessun “buonismo”; se non puoi entrare crepa pure in mare, non è compito mio; io mi occupo prima dei miei, dei cittadini ligi alle nostre leggi; coloro che le violano o si pongono all’esterno di esse, possono pure perdersi; non mi convincerete a cambiare idea perché io sono nel giusto assoluto!” Quando il potere pronuncia queste parole ha già imboccato il piano inclinato della sua (e nostra) rovina. Non c’è Tiresia che tenga e che gli domandi “C’è uomo che sappia, che intenda che saggezza è il bene supremo?”. Il potere reagisce rabbiosamente a questi presagi di sventura; accusa i Tiresia di nefandezze, di essere avidi di denaro e di ricercare vili guadagni. E’, fuor di metafora, la reazione di Salvini alle denunce umanitarie di Saviano. La denuncia di Archivio Zeta al Passo della Futa è muta eppure urla il dolore e la follia di una società che ha perso saggezza e compassione, incapace di provare sentimenti di solidarietà e finanche pietà per i morti innocenti, accecata dalla legge dell’egoismo e della paura, e che affida tutto il potere a chi farà il lavoro sporco per loro. La tragedia di Sofocle termina con il suicidio di Antigone la giusta e di Emone il compassionevole; ma noi sappiamo che ben presto arriverà anche la rovina di Creonte e di Euridice. Non è necessario essere Tiresia, per sapere in quale orrido di inumanità ci condurrà l’assolutismo egoista di Creonte. Il coro sofocleo sembra anticipare il naufragio nel quale ancora oggi siamo coinvolti: “...se da urto divino è scossa la casa, irrompe ogni disastro e incalzando dilaga: come quando il fiotto marino sospinto da furiose raffiche tracie, trascorre l’abisso subacqueo e dal fondo la sabbia scura risucchia e ne gemono sordi i promonitori battuti dalle onde e dai venti”.

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Le Sorelle Marx

Cinegiornale

Ci sono incipit che fanno la Storia. Chi non ricorda il drammatico “Un’ora, segnata dal destino, batte nel cielo della nostra patria. L’ora delle decisioni irrevocabili.”? Eh, quando c’era Lui, caro lei, non si scherzava mica. Era l’anno XIX dell’era fascista e le note imperiali del Cinegiornale scandivano gli annunci storici. Ma non da meno fu il discorso di Winston Churchill alla Camera dei Comuni nel 1940: “Non ho nulla da offrire se non sangue, fatica, lacrime e sudore. Abbiamo davanti a noi un calvario del tipo più grave. Abbiamo davanti a noi molti, molti lunghi mesi di lotta e di sofferenza”. E forse ancora più roboante ed epico è l’incipit della Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti d’America: “Quando nel corso di eventi umani, sorge la necessità che un popolo sciolga i legami politici che lo hanno stretto a un altro popolo e assuma tra le potenze della terra lo stato di potenza separata e uguale a cui le Leggi della Natura e del Dio della

Lo Zio di Trotzky

Pensa Dario, pensa

E’ una radiosa giornata di luglio e il sindaco Dario Nardella rientra, giulivo e festante, dall’inaugurazione della seconda linea tramviaria di Firenze. Sale a tre a tre i gradini di Palazzo Vecchio per raggiungere il suo studio nella sala di Clemente VII e appena entrato riceve una telefonata dal Nazzareno. “Pronto Matteo!!!! Hai visto che ganzata? Ho inaugurato la nuova linea del tram! Epico! Storica data! Una roba da non credere! Siamo finalmente una città europea!” Gelo per cinque secondi dall’altra parte della cornetta, poi un sibilo, agghiacciante: “Senti, testa a barbabietola, che cosa avresti fatto e soprattutto detto te??? Razza di zucca vuota, suonatore fallito di violino: hai scritto te questa enorme bestialità che leggo nella tua Newslet-

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Natura gli danno diritto, un conveniente riguardo alle opinioni dell’umanità richiede che quel popolo dichiari le ragioni per cui è costretto alla secessione”. Ecco a Grandi Uomini come questi si è, di sicuro, ispirato il nostro Sindaco di Fiorenza, Dario Nardella, celebrando l’inaugurazione, nientepopodimenoche, la seconda linea del tram: ”Ci sono momenti in cui una comunità dimostra di essere all’altezza della sua storia. Ci sono momenti in cui il coraggio fa la differenza nel realizzare un sogno. ... Ci sono momenti in cui ti senti orgoglioso di vivere nella comunità della più bella città del mondo. Questo è il momento di Firenze... ... con la nuova tramvia Firenze dimostra di essere una città tenace, forte, legata al proprio passato, determinata nel presente e orgogliosa del proprio futuro”. E intanto scorrono i titoli di coda del Cinegiornale dell’anno V dell’era nardellica, con sottofondo note soffuse di... violino.

ter? “ Ci sono momenti in cui ti rendi conto quanto sia più difficile fare una cosa che non fare niente, ma quanto sia immensamente più bello gustare il risultato di un sacrificio.” Può darsi che ti stessi riferendo a me, o immenso idiota?” “Ma...ma... no... ehm... non ti inquietare Matteo: figurati se volevo esprimere una idea sul tuo operato di sindaco...” “Oh scemo, intanto già la frase “esprimere una idea” è avulsa dal tuo vocabolario; a meno che non sia un’idea mia, ovviamente. Io te lo avevo detto, o no,di non fare nulla su quella questione del tram, così come ho fatto (o non ho fatto) io? Allora, te caro testa a tromba, vai sul tuo blogghettino di merda e cancelli questa frase equivoca, capito?!”

I Cugini Engels Il quasi assessore ormai assessore Il quasi assessore Massimo Fratini si è svegliato il lunedi mattina 16 luglio con un sorriso. Oggi finalmente avrebbe potuto coronare il suo sogno proibito. No non è quello che pensate voi infidi e mal pensanti abitanti di Firenze. Non penserete mica che il quasi assessore Fratini agognasse così tanto la seduta (a dire il vero un po’ scomoda) nella sala degli Otto di Palazzo Vecchio! Lui l’assessore lo farà solo per spirito di servizio. E’ questo che intendeva dire quando apostrofò il povero sindaco Nardella con le parole: “Sono sicuro che Dario manterrà la parola data per farmi diventare assessore. Lui sa perchè”. Queste parole erano state travisate e molti in mala fede gli avevano attribuito oscuri messaggi trasversali. Niente di tutto questo. Solo un grande spirito civico può spingere un uomo a voler fare l’assessore per pochi mesi. No il quasi assessore Fratini sorrideva perché finalmente poteva prendere il tram senza pagare il biglietto. Questa storia di non pagare il biglietto lo aveva sempre intrigato ma il suo altissimo senso civico non gli aveva mai permesso di farlo. Ora invece lo poteva fare; e con il consenso del suo amato Sindaco. Una giornata memorabile per Fratini e per la città di Firenze, e anche per la fu assessore Concia. “Ma...Matteo... l’ho appena mandata a migliaia di fiorentini... mi dispiace... sono costernato... non intendevo...” “Ah sì? Allora nemmeno io intendevo farti sindaco, capito? Guarda si è appena liberato un posto nella banda municipale di Torre del Greco: prepara le valige, grulllino! Ah, e poi, non ti provare a finire la linea fino all’aeroporto di Peretola fino a quando non sarà realizzata la nuova pista, capito?” “Ma... Matteo... i lavori sono bloccati per problemi con le ditte... non so dire quando finiranno... ci vorrà molto tempo, penso...” “Ah sì? Ma guarda un po’! E secondo te, chi tu pensi che li abbia architettati quei problemucci fra le imprese? Oh doddo, sveglia!!! Poi, te l’ho già detto, tu non sei autorizzato a pensare!”


Nel migliore dei Lidi possibili

disegno di Lido Contemori

didascalia di Aldo Frangioni

In confini della Nuova Unione Europea

Il senso della vita

di Massimo Cavezzali

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di John Stammer Il concorso per il progetto della nuova uscita delle Cappelle Medicee si è concluso, nei tempi dati, e con un bel progetto vincitore. Le condizioni del concorso, date dalla posizione predefinita della scala di uscita e dall’ imprescidibile confronto con la fabbrica brunelleschiana e con la facciata della Sagrestia Vecchia, hanno quasi imposto soluzioni molto semplici e nel complesso abbastanza uniformi. In questo contesto il progetto di Paolo Zermani riesce distinguersi per la estrema semplicità del linguaggio che diventa raffinatezza. Il muro concavo che racchiude la scala con la quale si esce dal sottosuolo, in faccia al lato nord del transetto nella piccola piazzetta restituita alla vita urbana, rappresenta bene questa raffinatezza. Il muro infatti si manifesta come tale e non come un volume; questa caratteristica è volutamente accentuata dalla copertura della scala che è una lastra di vetro trasparente leggermente incassata rispetto alla sommità del muro in modo tale da essere praticamente invisibile.Il progetto mette in luce l’abilità progettuale di Zermani di muoversi con disinvoltura e attenzione nell’uso delle masse compatte. Abilità che è accentuata dalla collocazione della panca urbana che sembra casualmente collocata, in ricercata asimettria, nel contesto della piazzetta. Ma la collocazione, a ben guardare, riprende la muratura sottostante di un ritrovato muro urbano e si pone in rapporto diretto con il muro che racchiude la scala. I due oggetti evocano infatti un sepolcro (il

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PLANIMETRIA

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muro che delimita la scala) scoperchiato (la panca di città) rifacendosi, per esplicita ammissione nella relazione di progetto, alle opere di Piero della Francesca a Sansepolcro (La Resurrezione) e di Beato Angelico

al Museo di San Marco (Il Giudizio Universale). Una citazione che conferma la ricercata raffinatezza del progetto. I lavori dovrebbero cominciare entro la fine dell’anno corrente.

Una nuova porta per le Cappelle Medicee


Musica

Maestro

Canto nomade

di Alessandro Michelucci L’Europa è ricca di strade che hanno segnato la sua storia nel corso dei secoli, mettendo in contatto culture e popoli lontani. Basti pensare alla Via Egnatia (o Ignazia), naturale proseguimento dell’Appia antica. Oppure alla Via Francigena, percorsa durante il Medioevo dai pellegrini provenienti da varie regioni e diretti a Roma. Questa non è propriamente una via, ma un articolato sistema viario che tocca molti paesi europei. Nel 1994 il Consiglio d’Europa ha riconosciuto la sua importanza storica dichiarandola “itinerario culturale europeo”, come già aveva fatto alcuni anni prima col cammino di Santiago di Compostela, che attraversa Francia, Portogallo e Spagna. Grazie a questo riconoscimento la Via Francigena è diventata oggetto di un’intensa attenzione culturale: conferenze, guide, libri, mostre. Ma un aspetto importante di questo lungo percorso era stato ampiamente trascurato: quello musicale. A colmare questa lacuna ha provveduto Giovannangelo de Gennaro, un eccellente polistrumentista pugliese. Il suo CD Via. Immagini sonore di un viandante (Radici Music, 2018) è il frutto di un lungo viaggio a piedi (circa 450 km) con cui l’artista ha traversato la Puglia da nord a sud. Musicista sensibile e raffinato, profondo conoscitore del patrimonio medievale, questo artista originario di Molfetta vanta un percorso articolato e stimolante: ascoltare la sua musica significa addentrarsi nel labirinto delle tante tradizioni mediterranee, sia profane che religiose. Ha collaborato, sia come solista che come direttore dell’Ensemble Calixtinus, con artisti di rilievo: dall’Ensemble Micrologus a Vinicio Capossela, da Angelo Branduardi a Faraualla. Con questo gruppo vocale femminile, anch’esso pugliese, l’Ensemble Calixtinus ha inciso il bel CD Miragre! Le cantigas de Santa Maria nell’Adriatico di Bisanzio (Digressione, 2012). Ma fermiamoci qui: vogliamo parlare del suo nuovo CD, quindi non possiamo esaurire lo spazio a nostra disposizione con det-

tagli biografici. De Gennaro doveva fare questo disco. Con Via. Immagini sonore di un viandante, infatti, il musicista pugliese ha esaudito un desiderio molto forte: dopo tanti lavori realizzati con altri, sentiva il bisogno di costruirne uno tutto suo. Voleva ascoltare se stesso e trasformare in musica certe sensazioni, così che le note fossero la proiezione sonora della sua sensibilità. In teoria è questo che dovrebbe essere la musica, ma sappiamo bene che spesso non lo è, condizionata com’è da esigenze commerciali. Il disco è un viaggio che si articola in sette brani, o per meglio dire sette stazioni, come si addice a un pellegrino. Le note di copertina, scritte dal musicista stesso, descrivono le

sensazioni che segnano le varie tappe. Polistrumentista capace ed elegante, de Gennaro canta e suona numerosi strumenti: ciaramella, cornamusa, flauto, organistrum (antenato della ghironda) e viella. I toni chiestatici di “Dialogo” si alternano a quelli ascetici di “Contemplazione”, ma anche all’avvolgente quiete mistica di “In Principio” e “Labirinto”. Il brano finale, “Conclusione”, traduce in musica la sensazione di pace che segna l’arrivo. Musicista pellegrino, De Gennaro è sempre in movimento, come la vita stessa. Cammina ed entra in comunione con tutto quello che incontra: un fiume, un tramonto, un altro musicista. Quindi arriva, ma solo per preparare una nuova partenza.

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di Alessandra Mollica Sarti “L’anima ha bisogno di bellezza e perdere bellezza implica molte conseguenze” Da “Politica della bellezza” di James Hillman Nel riflesso del mondo che abitiamo ci troviamo sempre più intrappolati nel mito del progresso, della crescita e del pensiero tecnologico perfetto. Umanamente deprivati ci aggiriamo sviliti, distaccati e depressi, in una parola infelici. Le relazioni tra gli esseri sempre più complicate e standardizzate, appaiono come il frutto di proiezioni frammentate di un ego collettivo, a sua volta inorgoglito e dispettoso. Il desiderio si è trasformato in bisogno, sul quale si basano le interazioni fra gli esseri. Viviamo in una bolla di seduttivo artificio, isolati ed impauriti, ipnotizzati dall’illusorio mantra dell’avidità che ci vuole materialisticamente legati all’idea che l’universo sia solo materia e oggetto, passabile quindi di sfruttamento selvaggio. Ci aggiriamo confusi e dispersi in città sature di oggetti chiaramente inutili, sempre più brutti ed inquinanti. Perennemente in cerca , animati da una sorda fame, divoratrice di ulteriori spazi, dove poter replicare il pensiero distorto e criminale che sorge dal profitto e dall’ indifferenza verso la vita, la bellezza, la salubrità dei luoghi e degli esseri viventi. La separazione dal mondo naturale, illusi dalla perfezione di un mondo privilegiato ricco di comfort, ha progressivamente disossato il Pianeta e dato che: il Microcosmo si specchia nel Macrocosmo, l’uomo stesso ne risulta disossato mostrandosi inerme e sconfitto. In tutto questo, dove si è rifugiata l’Anima Mundi? Non può certo trovarsi nel grigio unico delle gabbie di asfalto e di cemento, che ne inceneriscono ogni residuo vitale, otturando i pori della Terra e soffocandone ogni respiro. Dove si trova dunque? E’ partendo da questo mito perverso del cemento e dell’asfalto che presento il progetto che il Collettivo Dada Boom e il Collettivo Superazione nel loro desiderio di bellezza hanno posto in essere, invitando artisti da ogni luogo ad offrire la loro opera destinandola al Museo popolare della Pineta di levante in Viareggio. Lo scopo lo conoscerete direttamente dalle parole dei collettivi organizzatori che quì sono felice di dar voce. Se l’anima, come diceva Plotino, “è sempre un’Afrodite”, allora essa ha sempre a che fare con la bellezza. Da “Politica della bellezza” di James Hillman

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La Pineta di Viareggio

disvela le sue ossa Asse, Ettore Morandi

Sabato 14 è stato inaugurato con una festa il Museo Popolare della Pineta. Ad libitum si possono vedere le opere donate dai molti artisti artisti da ogni luogo che hanno aderito alla richiesta di trasformare in un museo a cielo aperto il pezzo di pineta che il “progetto asse di penetrazione” vorrebbe abbattere per creare una nuova via di collegamento verso il mare. Il Museo della Pineta nasce come azione collettiva in difesa del patrimonio naturalistico viareggino, contro il progetto devastante di una vera e propria superstrada a ridosso del Parco, in appoggio al Coordinamento No Asse e promosso dai due collettivi artistici Dada Boom e Superazione. La festa inaugurale è iniziata alle ore 18:00 con la cerimonia presieduta dal direttore artistico del museo dott. Muschio Selvatico, dalla dott. ssa Fortunata Intemperie, dal Responsabile tecnico: Sig. Manufatto Naturale, dalla Responsabile ambiente: Sig.ra Costanza Riciclabile.

Madrina della cerimonia la Signora Francesca Pepi, curatrice indipendente e fondatrice dell’Associazione Fuori dal museo, che ha tagliato il nastro inaugurale. All’inaugurazione erano già presenti le opere che i primi 35 artisti hanno appositamente creato per la pineta. Il Museo sarà poi in continuo aggiornamento per permettere ai tanti altri artisti che si sono detti interessati (come anche alle persone comuni) di esporre una propria creazione negli spazi di questo nuovo Museo Popolare che intende difendere, con gli strumenti dell’arte e della creatività, un impotante pezzo del territorio viareggino dalla solita speculazione utile ai “soliti pochi”. Si vuole così proporre un’altra idea di città e di comunità: inclusiva, solidale, dove la tutela dell’ambiente, della salute, dei diritti e del benessere degli esseri viventi siano al centro e dove la partecipazione sia reale, diffusa e democratica.


di Biagio Guccione

Alla base di ogni intervento vi è l’analisi del Paesaggio esistente.

Le interazioni tra risorse naturali, culturali e percettive costituiscono la base delle interpretazioni diagnostiche e delle valutazioni delle potenzialità di uso e gestione delle risorse del Paesaggio. È prerogativa di chi mette mano ad un Paesaggio indagare sui suoi valori naturali, storici e visuali. Queste letture possono apparire oramai scontate; tuttavia, non sono mai semplici soprattutto quelle che paiono più immediate come la geologia, l’idrografia, la vegetazione; ciò si evidenzia quando debbono essere utilizzate e confrontate, e ciò in quanto esse sono e diverranno strutture complesse, strutture portanti del Paesaggio. Usare questi dati per una diagnosi corretta è un’operazione che richiede la messa a punto di metodiche sempre più raffinate e ponderate. Averne l’esatta cognizione dà la possibilità di iniziare a intervenire sull’esistente. Conoscere per creare nuovi assetti.

È facile ripercorrere i segni che l’uomo ha lasciato nel paesaggio: castelli, pievi, case coloniche, terrazzamenti. È difficile salvaguardare e mantenere questo ricco e complesso palinsesto di memorie. Percepire il Paesaggio è prima di tutto saper guardare il Paesaggio, poi saperlo interpretare. Il fotografo, il pittore, il poeta, il cantante, eccetera, possono cogliere una immagine di Paesaggio. Ma quello che il paesaggista

Le trasformazioni del paesaggio analisi, norme e progettazione

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propone è uno studio della visibilità più tecnico e più scientifico che in modo oggettivo vagli i punti di massima visibilità, vagli la fragilità visuale e le enclave più protette. È dalla percezione che nasce anche il bisogno di salvaguardia. Attraverso l’intervisibilità è possibile trovare i posti più adatti persino per l’eolico, il solare e così via. Certamente, gli studi sul Paesaggio e sui valori da salvaguardare nel tempo si sono fatti più approfonditi e sono stati affinati sempre più. Le proposte strategiche che vengono suggerite puntano al “contenimento e riduzione dei processi di frammentazione paesaggistica”; questo è possibile solo attraverso “politiche di deframmentazione per il recupero di continuità paesaggistica e reticolarità ecologica”. Quando diciamo politiche, diciamo “gestione”, non diciamo norme.

Le norme ci vogliono, non se ne può fare a meno, ma se queste norme non sono supportate da una politica convinta di difesa, restauro, ricomposizione e creazione di nuovi

paesaggio, le norme diventano come le “grida manzoniane” o addirittura controproducenti. C’è un’immagine divertente che gira nel web, che mette a confronto la famosa casa sulla cascata di Wright, con un’ipotetica casa sulla cascata fatta a norma. Un obbrobrio. Infatti, come spesso sostiene Guido Ferrara, quello che è sotto i nostri occhi è un paesaggio frutto di un “disastro a norma”. Ma al tempo stesso quale sovrintendente oggi darebbe l’autorizzazione a realizzare l’acquedotto romano? Chi sarebbe d’accordo con un altro Frank Lloyd Wright a dargli la possibilità di realizzare la “Casa sulla cascata”? Credo solo qualche funzionario “irresponsabile”, ma in ogni modo si tratta di due capolavori della storia dell’architettura. Uno di 23 secoli fa e l’altro del secolo scorso! La filosofia che ci deve guidare è la “speranza progettuale”. Ma da qui bisogna ripartire, per trovare nuove strade per le trasformazioni compatibili. Dunque non è sulla Norma che possiamo puntare per la salvaguardia ma su due assi fondamentali: le buone pratiche e la partecipazione .

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di Danilo Cecchi Come tutti sanno, con il termine “fotografia umanista” si indica quel tipo di fotografia che mette l’uomo (l’umanità) ed i suoi comportamenti al centro dell’interesse, trascurando gli altri temi considerati invece marginali, o comunque secondari e subordinati, come il paesaggio, l’architettura, il ritratto in studio e la composizione fine a se stessa. Affondando le sue radici nei principi del realismo ottocentesco, la “fotografia umanista” viene coltivata principalmente in Europa e soprattutto in Francia, già nel periodo fra le due guerre, e poi in maniera più decisa ed estesa dagli anni Cinquanta in poi. Praticata prevalentemente all’aperto e negli ambienti urbani, e per questo spesso avvicinata e talvolta confusa con la fotografia di strada, o “street photography”, la fotografia umanista si diffonde al di fuori dei confini francesi ed europei, verso le Americhe e verso il Giappone. Uno fra i principali, se non il principale, fra i fotografi umanisti giapponesi è Ihei Kimura (1901-1974), che inizia a fotografare giovanissimo, apre uno studio fotografico a Tokyo nel 1924, e dai primi anni Trenta comincia ad utilizzare la Leica, realizzando immagini tratte dalla vita reale, del tutto diverse da quelle di moda all’epoca. Diventa collaboratore di alcuni editori, giapponesi e stranieri, fonda con alcuni colleghi la rivista Koga pubblicando anche le immagini dei maggiori fotografi europei, nel 1933 si unisce al gruppo foto realista “Nippon Kobo” (laboratorio giapponese), dopo lo scioglimento del gruppo fonda nel 1934 il gruppo alternativo “Chuo Kobo” (laboratorio centrale), e durante il conflitto viene inviato in Manciuria. Negli anni del dopoguerra continua a distinguersi, nel 1950 diventa fondatore e primo presidente dell’associazione dei fotografi professionisti giapponesi, nel 1951 viene profondamente segnato visitando una mostra di Cartier-Bresson, ed a metà degli anni Cinquanta visita l’Europa e Parigi, diventa assistente di Werner Bischof ed incontra Capa e Doisneau. A Parigi realizza le sue prime fotografie a colori, che saranno pubblicate solo vent’anni più tardi, nel 1974, l’anno della sua morte. Dopo il suo rientro in Giappone si concentra sulla fotografia della vita rurale ad Akita, nel nord dell’isola di Honshu, dove torna per ventuno volte fra il 1952 ed il 1971. Nelle sue immagini racconta con garbo e delicatezza le profonde trasformazioni del mondo giapponese, dai primi anni Trenta fino ai primi anni Settanta, rivolgendo il proprio sguardo sulle persone, soprattutto sulle donne e sui bambini, registrando il cambiamento dei costumi, delle abitudini, dei comportamenti, delle idee, ma anche la conservazione di usi e tradizioni di fronte all’incalzare della mo-

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dernità e della tecnologia. Come nella migliore tradizione umanista, non si limita a registrare ed a documentare gli accadimenti, ma entra nel vivo delle questioni, mettendo in risalto il lato umano, personale ed individuale, intimamente partecipe delle vicende narrate. Della fotografia era solito dire: “Innamorati dei tuoi argomenti, altrimenti non puoi fare delle belle foto. “ I suoi “argomenti” erano le persone, ed il suo concetto di “bello” non riguardava solo l’ele-

ganza o la precisione dell’inquadratura e della composizione. Considerato uno dei maggiori protagonisti dello “shashin-kai” (mondo della fotografia) giapponese del periodo Showa, Ihei Kimura rimane ancora oggi un riferimento per la cultura fotografica del suo paese, un modello con cui confrontarsi. Dopo la sua morte è stato istituito dall’editore di Asahi Camera il Premio Ihei Kimura, e le sue opere vengono rieditate in sofisticati e preziosi libri fotografici.

Ihei Kimura Fotografo umanista giapponese


I pensieri di

Capino

La collezione “Primavera Estate 2018”, in politica (per l’eco che giunge sulle nostre spiagge a noi, Guardiacoste stagionali), ci sta riservando tante, inattese, novità. I colori che vanno di più, si sa, sono il verde ed il giallo, e (fatto davvero inusitato) molti capi di abbigliamento, pur se palesemente taroccati, vengono immessi sul mercato con il marchio “Conte of Florence” (a insaputa del titolare dello stesso). Come noto (sarà colpa dei “cambiamenti climatici”?) si sono mandati in soffitta i Governi balneari. Ora, ogni occasione che, in passato, avrebbe potuto portare alle dimissioni di qualche Ministro e poi, in rapida successione, all’insediamento di un nuovo Governo, conduce solo a dover registrare rassicuranti dichiarazioni secondo cui tutto ciò che accade è previsto nel “contratto”. Francamente, dobbiamo ammettere (nostro malgrado) che la dose media settimanale di ironia cui cerchiamo di fare appello, inizia a flettere e così siamo portati a ritenere improbabili alcune pattuizioni che ci è stato riferito sarebbero contenute –qua e là- nel suddetto “contratto”.

I colori del contratto Ma, poiché “i signori della (ed alla) moda” sembrano in grado di lanciare sul mercato prodotti del tutto nuovi, si riportano le indiscrezioni ricevute, da fonte accreditata: * Istruzione per i Pompieri: nel caso si prospetti la necessità, per pericolo immediato di crollo, di disporre l’immediato sgombero di un edificio, dovranno preventivamente essere individuate le strutture disponibili ad accogliere gli sfollati; * Istruzione per i Controllori di volo: diffidare delle richieste di autorizzazione di atterraggio urgente; occorre farsi dare l’elenco dei passeggeri, con “spelling”, al fine di esser ben certi di poter escludere vi siano soggetti presenti nella banca dati del Viminale; * Istruzione per il Clero: fornire periodicamente al Ministro dell’Interno riedizioni aggiornate del Vangelo, corone del rosario e quant’altro possa esser richiesto per eccitare (se non la fede, che non è nel contratto) la credulità popolare; * Istruzione per i Dirigenti e Funzionari dello Stato: prima di esprimere (a loro rischio e pericolo) un parere di competenza, occorre si informino su quale sia stato il parere già twittato dal Ministro dell’Interno o, in subordine, dal Ministro di riferimento. E che l’autunno, che un tempo si sarebbe potuto prevedere caldo, possa almeno esser tiepido.

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Il post macchiaiolo riluttante di Paolo Marini Oscar Ghiglia? E’ un fenomeno strano: il nome non è, come si dice, tra quelli di grido eppure l’ho (si fa per dire) incontrato in tantissime mostre, in varie città d’Italia, ove si lasciava notare per le due o tre sue manifatture, invariabilmente prodotti di un’arte a sé, perlomeno rispetto alla cornice a lui contemporanea. In effetti ebbe a dire della sua arte Lewellyn Lloyd: “originalissima non somigliante a nessun’altra, che non ha punti di riferimento né coi macchiaioli toscani né con l’impressionismo francese”. Ecco che, tuttavia, la percezione della sua opera mi suggerisce che la macchia toscana non possa non essere stata un riferimento, da cui pure avrebbe preso le mosse per portarsi subito o rapidamente altrove. Nel suo “Paulo con la barca” (1918 ca.) le forme sono nitide, non si danno, non nascono dal colore (o meglio, dall’accostamento dei colori), perché il colore è rilasciato entro linee ondulate o anche geometrie semplici, comunque predefinite; non vi insistono ‘macchie’, bensì delicati gradienti cromatici e assai spesso distese campiture; così, il pittore ha soprattutto dato respiro ad una sapiente, efficace gestione della luce e, non in ultimo, ha riproposto il tema del disegno, che altrove era come nascosto o addirittura scomparso. Se dovessi definirlo, lo direi in ogni caso un post-macchiaiolo perché la sua pennellata mi pare un superamento/sublimazione della macchia: una pennellata non avulsa ma al contrario sapida di una conoscenza e/o di una sperimentazione di quella. Senonché le mie son chiacchiere e per di più profane. Credo varrà la pena di visitare la mostra viareggina “Oscar Ghiglia. Classico e moderno”, al Centro Matteucci di Viareggio fino al 4 novembre, inaugurata da pochi giorni e di cui è curatrice Elisabetta Matteucci: ci sono circa 50 tele dell’artista (tra cui quella sopra menzionata), tutte da collezioni private, distribuite come di consueto in sezioni che rappresentano le tappe di una evoluzione. Vi si aggiungono due opere dell’amico Modigliani, provenienti dalla Pinacoteca di Brera e dalla GAM di Torino, per offrire un riferimento

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obiettivo dello stretto rapporto e delle reciproche influenze tra i due artisti. A giudicare dallo stile della sua pittura, che non è appariscente ma suscita meraviglia per il nitore, che attrae perché non è e non sa di avanguardia, di sperimentalismi ed ispira ai personaggi sulla tela una sorta di fissità non grave, evocativa dei momenti, dei silenzi della quotidianità, ebbene, a partire da tutto questo ho immaginato che Oscar Ghiglia fosse uomo di non troppe parole. Si dà per certo che avesse una carattere scontroso, non molto aperto alle relazioni sociali. Mi pareva di avere catturato dalla sua pittura, come scrive la curatrice, una certa “indole meditativa, sensibile e spesso reticente” che peraltro lo avrebbe condotto “a trincerarsi in uno spazio esclusivo sottraendosi, anche una volta raggiunto il successo, alla competizione di mostre e concorsi”. All’amico Gustavo Sforni ebbe a dire: “le persone che avvicino sono insopportabili e fan

parte di quel gregge insopportabile che forma l’umanità”. Queste qualità dell’uomo, tutt’altro che sgradite, mi hanno fatto pensare ad un altro grande pittore, statunitense e praticamente coevo, Edward Hopper, al senso di solitudine, alla difficoltà se non alla impossibilità di comunicare che trasudano le sue tele e al fatto che egli stesso, “riservato e discreto” (Lucia Aquino), abbia condotto una vita per nulla spericolata e incline alla mondanità. Ghiglia e Hopper – ciascuno con il proprio timbro inconfondibile – sono accomunati dalla scelta di avere assecondato percorsi pittorici segnatamente personali, tutt’altro che modaioli. Questo è forse il messaggio più importante che ci hanno consegnato. Chi l’ha detto che l’artista debba proprio sguazzare nel mare del suo tempo e soprattutto rappresentare i vieti e abusati “genio e sregolatezza”?


L’organo Zeffirini di M.Cristina François Per le notizie tecniche relative all’Organo cinquecentesco [fig.1] del cortonese Onofrio Zeffirini (alias Zefferini) sono debitrice a Massimo Nigi (già Responsabile presso la Soprintendenza del Settore Restauro e Conservazione degli Organi Antichi) e agli organari: Pier Paolo Donati che ne iniziò il restauro e Riccardo Lorenzini che lo portò a compimento. Questo strumento si trova oggi in S.Felicita. Lo si può vedere nel Coretto “in cornu Epistolæ” di fronte all’altro Organo attribuito ad un allievo dello Zeffirini: G.B.Contini. L’Organo Zeffirini non fu costruito per S.Felicita, ma per la Chiesa di S.Giorgio alla Costa annessa al Monastero dello Spirito Santo, dove risiedevano Monache Benedettine Vallombrosane di clausura. O.Zeffirini, uno dei migliori organari d’Italia. Fu quasi esclusivamente al servizio di questo Ordine del quale facevano parte anche le Monache di S.Felicita. Il clavier dell’Organo - strumento databile ante 1572 - contava 42 tasti di bosso e ebano. In origine nel clavier mancavano i primi 3 tasti gravi (cioè il MIREUT) poco utili a voci di Monache. Anche l’Ottava è raddoppiata per dare più forza al registro unisono della voce femminile. Nel contesto di S.Giorgio l’Organo era albergato a quota del Coro Maggiore delle Monache e posto al centro del fianco sud della Chiesa, in diretta comunicazione con la Clausura: la monaca alla tastiera suonava non vista dietro la mostra d’organo. Trasportato il 16 marzo 1995 in S.Felicita per urgenti ragioni conservative dopo accurato restauro è stato allogato nel Coretto settecentesco delle Monache Corali che avevano cantato celate dietro le gelosie dorate di questa Chiesa. Le gelosie vennero tolte per consentire all’organaro R.Lorenzini di inserire l’Armadio d’Organo costruito allo scopo di adattare lo strumento alla nuova sede. Il Sagrestano Alvaro F. ebbe cura di custodire all’epoca queste grate che così sono arrivate fino a noi. Caratteristica dell’Organo Zeffirini è l’estrema leggerezza del tocco studiata per mani femminili. Fra le Monache che lo suonarono in S.Giorgio si ricorda la figlia primogenita di Galileo Galilei, Suor Maria Celeste che, prima di prendere il velo, aveva abitato insieme al padre la casa

fra S.Felicita e S.Giorgio

sulla Costa San Giorgio poco distante dal Monastero annesso alla Chiesa omonima. Tra il XVII e il XVIII secolo furono aggiunti i tasti gravi (MIREUT). Nel 1771, gli allora più grandi organari di Pistoia, Antonio e Filippo Tronci, modificarono la tastiera dell’Organo. Di questo intervento resta un cartiglio all’interno dello strumento [fig.2]. Nel XIX secolo i 13 tasti della pedaliera a leggio dei due fratelli pistoiesi era stata ridotta a 8. Di restauro in restauro, l’Organo Zeffirini ci è giunto in eccezionali buone condizioni. Perfino il somiere è quello originale, come pure le canne d’organo che sono ancora le stesse dello Zeffirini. Come ho detto, a causa delle gravi condizioni in cui già versava la Chiesa di S.Giorgio nel 1979 [n.271 “Cu.Co.”] ne fu affidato il restauro al Laboratorio diretto da P.P. Donati che recuperò lo strumento riportandolo al suo antico impianto cinquecentesco, ripristinando il Tremolo ed eliminando le aggiunte dei Tronci. Nel 1995, affinché

della storia di questo Organo nulla andasse perduto furono ripristinate le aggiunte dei Tronci e furono estesi rispettivamente: i registri a manette che si trovano a destra della tastiera (da 6 a 8), la tastiera (da 42 a 45 tasti), la pedaliera (da 8 a 13 tasti), il MIREUT, e alla pedaliera fu affiancato il pedale col Tamburo. L’Organo è mesotonico in quanto ha la prima Ottava corta (Corista: La 402, temperamento mesotonico a ¼ di comma). Il restauro del 1995 è stato terminato dal succitato R.Lorenzini da cui ho ripreso le seguenti notizie: “Il repertorio timbrico di base - intatto dopo quattro secoli [l’organaro scrive nel XX sec.] ammonta a sei file di canne, cioè a sei registri. Ma non poche sono, ed erano, le possibilità di comporre questo apparentemente scarso materiale fonico: scarso solo pensando ad un organo nordeuropeo. C’era un’altra cultura dell’‘Ars combinatoria’ e in tanti, sul finire del ‘500, ci hanno testimoniato perché e quando aggiungere, p. es., il Flauto al Principale, o usare un certo registro ed un altro no. Anche quelle monache cui questo strumento fu destinato usarono la loro fantasia, il loro gusto, nel variare la sonorità da un versetto all’altro di un qualche Magnificat”. Attualmente, per la buona conservazione di questo straordinario strumento, ci sarebbe da ricordare a chi di dovere qualche fondamentale accorgimento: farlo suonare periodicamente da un organista all’altezza di tale strumento al fine di evitare il deposito della polvere nelle canne; mantenere nel Coretto, con un igrometro, il giusto grado di umidità; tenere l’ambiente pulito dalla polvere; far controllare la parte meccanica e il motore; farlo revisionare dall’organaro che lo ha restaurato e installato dove ora si trova. Pur allogato nella Chiesa di un Monastero Benedettino Vallombrosano come quella di S.Felicita, per motivi storico-artistici e cultuali sarebbe auspicabile che, dopo i restauri in toto di cui necessita la Chiesa di S.Giorgio, l’Organo Zeffirini risalisse la Costa e ritrovasse quella prestigiosa sede anche soltanto pensando di offrire un sacro omaggio a Suor Maria Celeste (al secolo Virginia Galilei) e al suo grande padre.

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di Valentino Moradei Gabbrielli L’escursionismo a piedi è lo strumento di conoscenza e analisi del territorio a mio avviso più completo. Le offerte in tal senso sono numerosissime e articolate di tipo naturalistico, sportivo, culturale, paesaggistico, religioso, gastronomico. Ho avuto notizia dall’amico Alessandro di un nuovo percorso dedicato alla devozione del Santo Bartolomeo sulla montagna pistoiese, in cinque tappe giornaliere di circa venti km ciascuna. Il Cammino di San Bartolomeo, è stato inaugurato da circa un mese e, più che di un percorso si rivela una piacevole esperienza umana della durata di cinque giorni appunto. Il percorso, si origina a Fiumalbo, presso la chiesa omonima raggiunge l’Abetone e discendendo la Valle della Lima, attraversa Cutigliano, Popiglio e Piteglio. Dopo il valico, superate le sorgenti del Reno, raggiunge Prunetta e Le Piastre, Pontepetri e salendo a Spedaletto, giunge dopo aver toccato le numerose chiese importanti e meno dedicate al santo, quel prezioso esempio di architettura romanica che è la chiesa di San Bartolomeo in Pistoia. Il paesaggio è conosciuto e caro ai fiorentini che lo vivono estate e inverno. Forse sono meno conosciute le presenze storiche e artistiche dello stesso territorio che scopriamo percorrendo Il Cammino di San Bartolomeo, ricco di edifici e monumenti architettonici talvolta molto importanti come la Chiesa di Santa Maria Assunta a Popiglio, che grazie alla famiglia Vannucci emigrata a Roma nel Seicento, possiede opere tessili e scultorie preziosissime realizzate in quella città nel periodo barocco. Il Ponte di Castruccio, in località Le Dogane. Uno splendido e immutato esempio di architettura medioevale di grandissimo fascino, a controllo dei confini e regolare il commercio tra Firenze e Lucca. Sono tante le piccole perle che il percorso regala, come “Le Ghiacciaie del Reno”, presso Le Piastre, complete dei bacini di raccolta delle acque. Ma fino a qua, il paesaggio, il territorio, la cultura, l’offerta enogastronomica, parliamo degli ingredienti comuni che compongono un qualsiasi “pacchetto di viaggio”. La particolarità dell’esperienza, è quella di trovarsi atteso e non aspettato, ospite, e non cliente, da Simone (albergatore per professione, del Gruppo Studi Alta Val di Lima

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Il Cammino di San Bartolomeo per passione). Che trepidante non riesce a contenere l’emozione di raccontarti com’è nato il tutto. E t’investe di consigli che ti accompagneranno come un eco per tutto il percorso. Dormire in canonica, con l’orecchio attaccato all’antico campanile di Piteglio in attesa della prima campana delle sette e, velocemente raggiungere Giacomo (operatore ecologico e custode appassionato della chiesa) in cima allo stesso campanile per godere delle luci nella vallata. Per trovarlo poche ore più tardi a falciare il sentiero che stiamo percorrendo a Prataccio. Antonio, pensionato, un appassionato autodidatta, che dedica il suo tempo da anni allo studio del territorio, che con partecipazione e competenza ci racconta storia antica e recente dei luoghi e degli oggetti custoditi nel

Museo della Compagnia di Popiglio. Natale (socio C.A.I.), che con la mano al nipotino ci spiega il perché di quelle foto del 1945 esposte nella Pro Loco e, la storia di un “gemellaggio” tra il paese di Prunetta e gli eredi degli alleati che combatterono sulla Linea Gotica sviluppatosi casualmente in tempi recenti. Questo accompagnandoci fino all’inizio del sentiero successivo ai limiti del paese. E sentirsi dire più volte durante il percorso: “Siete quelli...? Siete voi!”, “vi stanno aspettando ce ne hanno parlato dove abbiamo dormito, ci avevano detto che sarebbero arrivati dei “Pellegrini”.” Ed entrare ospiti d’onore senza rumori né cerimonie nei luoghi più rappresentativi e maggiormente custoditi da quelle comunità senza imbarazzo, con familiarità.


di Michele Morrocchi Una terapia itinerante che ti fa passare le paure? Ma è la Walking Thérapie il nuovo spettacolo estivo di Pupi e Fresedde che, capaci come sono di scovare le migliori novità del teatro europeo, hanno portato in Italia questa chicca belga in cui due attori e il loro pubblico si imbarcano sulla tramvia appena inaugurata e si perdono nel centro di Scandicci per curare le loro paure. Uno spettacolo innovativo ma divertentissimo che si snoda dai vagoni della tramvia a Piazza della Resistenza e in cui il pubblico, collegato ai due attori da un paio di cuffie wireless, diventa parte attiva della terapia e dello spettacolo. Naturalmente l’interazione con il resto del mondo che ignora che quelle strane persone munite di cuffie e seggiolino è parte essenziale dello spettacolo ed in quello soprattutto sta la bravura dei due attori che affrontano la scena urbana e le reazioni non sempre prevedibili dei passanti. Ho avuto la fortuna di fare da “cavia” per questo spettacolo mentre era in preparazione e possa assicurare che la cura

Walking Thérapie,

una cura che funziona funziona: è una passeggiata salutare in un teatro che sa trovare sempre nuove forme ed esperienze. La terapia migliore per noi spettatori che ci troviamo in un’e-

sperienza di divertimento e riflessione, immersi direttamente nello spettacolo. In scena a partire dal Teatro di Rifredi, Firenze, dal 23 luglio fino al 4 agosto.

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Venere ritrovata

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di Carlo Cantini


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