Cultura Commestibile 273

Page 1

Numero

28 luglio 2018

340

273

Con la cultura non si mangia Giulio Tremonti (apocrifo)

“L’attività politica non si svolge solo in Parlamento, si può svolgere anche su una barca. Io l’ho detto fin dall’inizio, anche in campagna elettorale che il mio ruolo, più che quello di parlamentare, sarebbe stato quello di testimonial a difesa degli oceani”. Andrea Mura deputato M5S

Finché la barca va Maschietto Editore


Firenze, 1994

dall’archivio di Maurizio Berlincioni

La prima

immagine

La prima immagine è stata scattata in un piccolo laboratorio di Brozzi, a livello quasi familiare, mentre la seconda è stata ripresa all’interno di un laboratorio molto più grande nella zona dell’Osmannoro (Sesto Fiorentino). Come si può vedere chiaramente nella prima immagine l’ambiente è promiscuo, nell’angolo a sinistra fanno bella mostra di se un piano di cottura con annesso un lavello da cucina, un congelatore e un frigorifero di discrete dimensioni. Una situazione chiaramente al di fuori delle norme che regolano l’obbligo di non avere ambienti dove si preparano alimenti situati all’interno di aree di lavoro in cui si utilizzano mastici, collanti ed altri materiali decisamente dannosi per la salute degli operai. L’altra immagine invece mostra l’interno di un laboratorio un pò più grande dove la zona operativa è dedicata in modo esclusivo alla produzione industriale. L’impressione che si ricavava era di un certo caos generale e lo sferragliare delle macchine faceva tornare alla mente alcune scene del film “Tempi moderni” di Charlie Chaplin, in misura ridotta naturalmente, ma pur sempre ancora un po’ inquietante!


Numero

28 luglio 2018

340

273

In questo numero

Riunione di famiglia Torna a casa Lorenzo Le Sorelle Marx

I bei tempi andati dei morti che fan visita ai funerali I Cugini Engels

Sposiamo in pieno il pensiero dell’onorevole Mura a cui è dedicata la copertina e ci dedicheremo alle nostre attività culturali-commestibili da altri luoghi, da barche, spiagge, montagne, laghi, pinete ecc. Insomma per farla breve andiamo in ferie. Torniamo il primo sabato di settembre Buone vacanze del cambiamento

Il libero arbitrio esiste di Francesca Merz

Confronti di Achille Falco

La corsara Nat di Gabriella Fiori

Athena: la Factory con le ali di Alessandra Mollica Sarti

I Mai visti di S.Felicita di M.Cristina François

Due o tre cose che so di Sergio Staino di Stefano Giraldi

Shirley Baker Donne, bambini e bighelloni di Danilo Cecchi

La copia del “Vulcano”del Chiarissimo Fancelli da Settignano di Valentino Moradei Gabbrielli

Amastuola e Miribel Jonage, due sperimentazioni nel paesaggio di Biagio Guccione

Ho un mare di cose da fare di Paolo Marini

Imprese culturali e creative di Roberto Giacinti

Come una famiglia di Mariangela Arnavas

e Capino, Alessandro Michelucci...

Direttore Simone Siliani

Illustrazioni di Lido Contemori e Massimo Cavezzali

Redazione Progetto Grafico Mariangela Arnavas, Gianni Biagi, Sara Chiarello, Emiliano Bacci Susanna Cressati, Carlo Cuppini, Remo Fattorini, Aldo Frangioni, Francesca Merz, Michele Morrocchi, Sara Nocentini, Sandra Salvato, Barbara Setti

Editore Maschietto Editore via del Rosso Fiorentino, 2/D - 50142 Firenze tel/fax +39 055 701111

Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012

redazione@culturacommestibile.com culturacommestibile@gmail.com www.culturacommestibile.com www.facebook.com/cultura.commestibile


di Francesca Merz È un po’ di tempo che penso al libero arbitrio. Ecco, un incipit poco impegnativo per un articolo, che ne pensate? Eppure è proprio di questo che vorrei parlare. Un articolo filosofico? Molto poco in realtà. La mia necessità di pensare al nostro grado di scelta nella vita mi deriva da fatti molto poco filosofici, e ben piantati nella realtà (non che la filosofia non sia piantata nella realtà eh, anzi, ma nel sentire comune pare una cosa distante). Insomma, la domanda è molto attuale, in questo costante connubio di culture che si incontrano, e ci fanno evidentemente paura, i migranti per dirne una, portatori di altre religioni, altri stili di vita, un altro concetto della donna e chi più ne ha più ne metta. E in questo incontrarsi e scontrarsi di esseri umani non faccio altro che chiedermi: qual è il margine di scelta che ogni singolo essere umano ha al di fuori della genetica e dell’influsso sociale a cui è stato esposto? Avete ad esempio mai detto ad un indiano che mangiate mucca? Vi assicuro, poiché io l’ho fatto, che vi guarderà con lo stesso senso di nausea e frustrazione con il quale voi guardate la sagra del cane in Cina. E questo è un esempio banale, potrei spingermi oltre, in terreni molto, ma molto più spinosi: qual’era il margine di scelta dei criminali nazisti, o anche solo della popolazione tedesca a cui per anni era stato insegnato ad odiare i diversi? Qual è il margine reale di libero arbitrio per coloro a cui per generazioni è stato insegnato che le donne sono inferiori? E non dico nei prossimi secoli, dico qui, e ora. Quale sarà il nostro margine di scelta fra trent’anni se ci avranno educato a considerare un nemico chi arriva dalle acque e chi li aiuta? In tutte queste mie infinite domande, pare che la vita, come spesso accade, mi ponga davanti solo persone, libri, mostre, che si pongono domande simili. Lo scrittore svedese Bjorn Larsson nel suo libro “Bisogno di libertà” si pone proprio questa domanda: “vertendo sulla necessità di scoprire quali condizionamenti siano più forti, se quelli biologici-evolutivi o quelli socio-culturali. Non bisogna dimenticare, infatti, che l’influenza della società e della cultura può essere altrettanto pesante, o anche opprimente, di quella dei geni, com’è stato ampiamente dimostrato dal marxismo di Stato, in Unione Sovietica. [….]. Il vero problema, dunque, non è la scelta tra innatisti e culturalisti, che deve essere basata su ar-

4 28 LUGLIO 2018

Il libero arbitrio esiste

gomenti razionali ed evidenze empiriche, ma tra coloro che sostengono che l’uomo è determinato da cause “esterne”, che siano genetiche, evolutive, psicologiche o sociali, e coloro che ritengono che l’uomo, in quanto soggetto razionale dotato di un margine di libertà, possa lottare e talvolta vincere contro questi condizionamenti. Facciamo un esempio: quando i biologi evoluzionisti, appoggiandosi su una marea di dimostrazioni empiriche dimostrano il peso delle

relazioni parentali, la domanda che mi urge chiedere è sapere in che misura è possibile per un determinato individuo, o in un determinato gruppo di individui liberarsi dal peso parentale, a prescindere dal fatto di sapere se queste relazioni siano dovute ai geni o alla società. Se, insomma, buon sangue può mentire.” Secondo Larsson ciò che rende umano l’umano, ovvero lo distingue dalle altre specie, è la “rappresentazione simbolica”, ovvero la


capacità di tradurre in parola (astratto) delle realtà (oggetto). In fondo, un testo abbastanza famoso inizia proprio così “In principio era il Verbo”. La nostra specificità sarebbe dunque quella di utilizzare la parola per far riferimento a qualcosa di assente. “Chiaramente la rappresentazione simbolica arbitraria, ha, al tempo stesso, reso anche possibile la menzogna. Perché si può mentire solo riguardo a qualcosa che non è l’evidenza stessa” “Non è difficile capire che la rappresentazione simbolica arbitraria è la condizione necessaria della fantasia, della finzione e della fede. E perché essa ci libera dalla realtà immediatamente percepita che possiamo cominciare a immaginare che la realtà, compresa la nostra, potrebbe essere diversa da ciò che sembra. Ed è qui che abbiamo l’origine della libertà e del libero arbitrio: la libertà inizia quando possiamo immaginare che la realtà potrebbe essere diversa” Questo incredibile spazio di costruzione immaginaria, base indiscutibile per la nascita del libero arbitrio, è, inscindibilmente, base anche della costruzione della menzogna, della bufala mediatica, della fede, dell’odio razziale, dell’ “io”, poiché “l’immaginazione è anche una condizione per la nozione dell’io e della consapevolezza di sé”, della morale, e della capacità di percepire il senso del futuro, il quale mancherebbe se ci

limitassimo alla percezione, che ci costringerebbe alla sola conoscenza del presente. Il nostro “essere umani” deriverebbe dunque dalla capacità di rappresentazioni simboliche, vi potete immaginare quanto questa teoria, per una storica dell’arte, possa essere affascinante. “Allo stato attuale delle nostre conoscenze, non è semplicemente plausibile supporre che la specificità umana, comprendente libertà, coscienza di sé e degli altri, senso dell’avvenire, consapevolezza della morte, esperienza soggettiva, senso estetico, empatia, nonché altre capacità analoghe, sia il risultato di una selezione naturale avvenuta attraverso mutazioni arbitrarie. In altre parole, non esistono geni specifici o combinazioni di geni che sarebbero responsabili della rappresentazione simbolica, dell’immaginazione e del linguaggio. Ciò che è programmato geneticamente è “soltanto” l’enorme flessibilità e plasticità del cervello che permettono ad ogni individuo di sviluppare capacità cognitive straordinarie nell’arco della vita”. Secondo questa analisi, siamo dunque, prima considerazione, potenzialmente liberi dai nostri geni, nello sviluppo delle nostre scelte. “Affermare questo, però, equivale a dire che la specificità umana è un bene precario che deve essere conquistato e difeso da ogni cultura, da ogni generazione e da ogni individuo”. La stessa

necessità del divino, di un divino specifico, che ratifichi la verità o di un essere umano che ci racconti una verità apparentemente inconfutabile è quasi una condizione innata dunque dell’animo umano, “alla base c’è il timore che il nesso tra i simboli e il mondo percepito vada perduto”: conserviamo, latente, il bisogno che la società riporti a noi i simboli che ci confortano nella definizione della realtà così come la conosciamo, che siano un crocefisso, uno chador, una torre che svetta in una piazza, una statua possente, un nemico di cui aver paura. “Sembrerebbe allora che la nostra condizione umana, fondata sulla rappresentazione simbolica arbitraria, ci condanni a essere liberi, ma, al tempo stesso, ci induca nella tentazione di non esercitare questa libertà”. Gli studi di epigenetica (branca della biologia molecolare che studia le mutazioni genetiche e la trasmissione di caratteri ereditari non attribuibili direttamente alla sequenza del DNA) ci dimostrano di come ogni accadimento nella nostra vita possa arrivare ad influenzare non solo noi come esseri umani, ma anche le generazioni che verranno. Lo studio su popolazioni nate in guerra, che hanno sofferto dolori o carestia mette in evidenza di come queste condizioni abbiano provocato dei mutamenti alla catena del DNA degli individui coinvolti e dunque delle generazioni successive. Per indagare questo e molti altri aspetti relativi al nostro genoma, se siete curiosi, fino a febbraio al MUSE di Trento c’è una mostra che vi porterà a scoprire qualcosa in più di voi, e di chi vi circonda. Esiste dunque il libero arbitrio? Se ciò che ci rende umani è la nostra capacità di rappresentazione arbitraria, dobbiamo dunque arrivare alla sintesi che, per quanto possano essere fondamentali la genetica e la condizione sociale a cui siamo esposti, ci rimane, per forza, ovvero per la condizione stessa dell’essere umani, una larga fetta di libero arbitrio da esercitare. Siamo dunque una scatola di complessità, e di relazioni, ogni relazione interna ed esterna condiziona noi stessi come individui e gli individui che verranno. Abbiamo, o anzi avremmo, ottimi margini di libero arbitrio, individuale e sociale, ma ci esercitiamo poco nel metterlo in atto, poiché quella stessa libertà che ci ha portato all’invenzione della rappresentazione simbolica, per cui la realtà diveniva un concetto astratto, ha portato, nei secoli, alla completa sostituzione e prevaricazione del concetto astratto sulla realtà, come diremmo noi oggi, alla bufala.

5 28 LUGLIO 2018


Le Sorelle Marx

Torna a casa Lorenzo

Sotto la guida della bacchetta orchestrale (non magica) del Maestro Muti, è stata lanciata, niente di meno che, una raccolta di firme su Change.org per riportare le spoglie di Luigi Cherubini, morto nel lontano 1842 lontano dal suolo patrio, nella Basilica di S.Croce a Firenze. La petizione, che ha come secondo firmatario l’attuale sindaco di Firenze Dario Nardella, è rivolta al Presidente della Repubblica e motivata dalla volontà di esaudire l’ultimo desiderio di Cherubini che avrebbe voluto tornare in patria, ma la morte lo colse a Parigi. Crociata musicofila e dal vago sapore nazionalista, questa chiamata all’armi italiche non ha trovato insensibile la politica, che ha immediatamente imbracciato lo stilo telematico e preparato immortali post destinati ai social network. Noi ne abbiamo intercettati alcuni prima della pubblicazione. Dario Nardella: “Cherubini cittadino onorario di Firenze: giù le mani dal suo violino! O ce lo restituiscono, oppure faccio un’ordinanza!”

I Cugini Engels

I bei tempi andati dei morti che fan visita ai funerali

Ah i bei tempi della politica di una volta, quando la contrapposizione era dura ma gli avversari si rispettavano. Mica come ora che è tutto un insultarsi, un darsi addosso, amplificato per mille dai social onnipresenti. Per dire un ministro che denunzi un intellettuale mica poteva accadere a quei tempi… anche se il povero Guareschi si fece pure dei mesi di galera per la denuncia di De Gasperi, ma erano comunque altri tempi. Fa bene a notarlo dunque il prode Sallusti sul il Giornale; in un puntuto e nostalgico editoriale di qualche giorno fa si incaricava di ricordarci che “sono

6 28 LUGLIO 2018

Eugenio Giani: “Non c’è niente di più fiorentino di Cherubini, che il 12 febbraio 1821 si fermò, transinando da via Martelli a piazza Duomo, al Bottegone ordinando un caffé e due brioches” Maria Elena Boschi: “Evviva Cherubini! Ma io posso fare la Maria Immacolata Concezione?” Francesco Bonifazi: “Cherubini a Firenze: ci deve dei soldi, ma li possiamo convertire in due spritz a sera per i prossimi tre anni” Luigi DI Maio: “Di Cherubini basto io!

lontani i tempi in cui Berlinguer andava ai funerali di Almirante”, immaginiamo per ricambiare il gesto che Almirante compì andando a porgere omaggio al feretro del segretario del PCI 4 anni prima a Botteghe Oscure. Forse Sallusti aveva in mente la compresenza di vivi e morti di cui parlava Pannella, forse immaginava un horror ambientato nella prima repubblica o forse ci dava modo di rimpiangere quei bei tempi andati in cui un Direttore prima di mandare un pezzo in pagina, anche senza wikipedia, ricontrollava errori, refusi e castronerie.

E, caso mai, lo portiamo in processione a S.Maria Capua a Vetere!” Matteo Salvini: “Cherubini agli italiani, ma se non ci riusciamo, allora aiutiamolo a casa sua!” Matteo Renzi: “Cherubini era un ganzo: solo un toscano, a parte lui, poteva fare un minuetto, una giravolta e tornare a casa come se nulla fosse. Cherubini dovrebbe ringraziarmi di esistere” Jovanotti: “Volevo farvelo sapere: sono già a Firenze!”


Nel migliore dei Lidi possibili

disegno di Lido Contemori

didascalia di Aldo Frangioni

Specchio, specchio delle mie brame chi è il piÚ invisibile del reame? Ma sei tu, Conte mio

Il senso della vita

di Massimo Cavezzali

7 28 LUGLIO 2018


di Gabriella Fiori E’ andata così. 14 luglio: ho scoperto che è l’anniversario nel 1916 della nascita di Natalia (poi detta alla Einaudi Nat) Ginzburg, scrittrice amata, letta e riletta. Ho voluto celebrarla dando inizio alla recensione di un libro appassionato e appassionante su di lei: Sandra Petrignani, La Corsara – ritratto di Natalia Ginzburg. Appassionato e solido di testimonianze, incontri anche personali, interviste, lettere ci dà una concreta biografia di Natalia, e non solo, ma anche dei suoi genitori, fratelli e amici dei fratelli e poi dell’Einaudi a cominciare da Giulio che la fondò nel 1933 insieme a Leone Ginzburg, primo marito di Natalia e poi Cesare Pavese e Italo Calvino, per non citare che i più noti. Appassionante in quanto è una presenza da vivere mentre lo leggi e da rivivere quando, tardi perché non vorresti mai lasciarlo, viene l’ora del riposo notturno. Ti coinvolge con naturalezza, la stessa dello stile chiaro e diretto di questa scrittrice che, piccola, non voleva diventare “un adulto che mente” ma “dire sempre la verità”. Giulio Einaudi diceva di lei: “Possiede antenne misteriose che captano gran parte dei sentimenti profondi della gente”. Esprimendo così una tempra di grande moralista che vuole discernere il dolore segreto dentro la banalità vanesia e il desiderio d’amore felice fin dall’infanzia racchiuso in un “grido”, quell’urlo di Munch sempre presente e non solo nel quadro descritto in Mai devi domandarmi. Trasfigurando “in poesia” ogni minimo gesto che può essere tragico o comico, sempre decisivo nella crescita di una persona e di un rapporto umano. E il critico Geno Pampaloni scriveva che se per Natalia “la realtà è sempre all’indicativo, la vita è sempre al superlativo” cioè a un diapason lirico. Ne risulta un alternarsi di luci ed ombre, fra ricordi rimpianti desideri illusioni e delusioni, ignavia e generosità che rendono il contatto con l’opera di Nat unico e inconfondibile. Esempio culmine Le piccole virtù 1961 dalla forma particolare inventata da lei fra saggio racconto autobiografia memoria, esito adulto di un parlare con i “noi” da piccola. Dove? Nel “giardino incolto e selvaggio” di Via Pastrengo a Torino dove Giuseppe Levi istologo, ebreo triestino, aveva trasferito da Palermo la moglie Lidia Tanzi, cattolica sia pure non praticante, con cinque figli Gino il figlio della colpa, Paola bellissima

8 28 LUGLIO 2018

seduttrice assoluta, biondi capelli sparsi, Natalia temporala, sempre sola nel suo mondo immaginario con lo Zameda, maialerospo, un po’ buono e un po’ cattivo e i “noi”, nani insolenti e chiassosi con cui confabula anche la notte, l’orecchio teso alle sfuriate del padre burbero e alle risse dei fratelli Alberto e Mario. Studia in casa fino al Ginnasio Vittorio Alfieri dove tuttavia è sola nel banco. Nel 1933 conosce Leone Ginzburg “nerissimo e brutto” amico di suo fratello Mario) di madre russa e di padre ebreo-italiano. E’ il suo primo interlocutore, ascoltatore meraviglioso, che le fa pubblicare sulla rivista Solaria il primo racconto Bambini. Stanno bene insieme, ancora non sanno che si amano per la vita. Poi Mario esule a Parigi e Leone in carcere perché sospetto. Si trovano nel bisogno comune di radici e nell’esigenza della verità sempre e si sposano il 12 febbraio del 1938. Ci sarà poi il confino nel giugno del ‘40 a Pizzoli in Abruzzo, Natalia lo raggiungerà con i loro figli Carlo e Andrea nell’ottobre. Sono felici insieme. Nel ‘42 nascerà la loro terza figlia Alessandra.

Dopo l’8 settembre ‘43 Leone lascia il confino e vive in clandestinità a Roma dove verrà arrestato e morirà per le torture nel braccio tedesco di Regina Coeli. Natalia riparerà con i figlioletti a Firenze dove si sono rifugiati anche i suoi genitori. Tornerà a Roma, lasciando i figli alla sorella Paola , per lavorare all’Einaudi. La sua poesia Memoria pubblicata sulla rivista Mercurio colpisce il giovanissimo Cesare Garboli che sarà gran parte della ultima fase della sua vita in un sodalizio amicale e letterario. Natalia sposa in seconde nozze Gabriele Baldini, docente di letteratura inglese e scrittore; malgrado le liti epiche, si vogliono molto bene. Dal 1983 Nat viene eletta deputata in Parlamento nella Sinistra indipendente, parla contro la legge sulle adozioni che trova iniqua, fa aiutare Elsa Morante sua amica, favorevole al disarmo unilaterale. Dal 1985 fa parte della giuria per i Diari inediti di Pieve di Santo Stefano. Muore nella notte fra il 7 e l’8 ottobre 1991. I figli la onorano con esequie cattoliche secondo la sua volontà. Si era battezzata e diceva “Sono ebrea e cattolica”.

La corsara Nat


Musica

Maestro

Mazurka africana

di Alessandro Michelucci Il grande retaggio classico dell’area mitteleuropea ha stimolato più volte la creatività dei gruppi dediti alla musica tradizionale. Gli ungheresi guidati dalla cantante Márta Sebestyén hanno riletto alcune pagine bartokiane (Bartók Album, 1998). In Polonia alcuni gruppi tradizionali hanno fatto altrettanto con Chopin. Basti pensare a Sarakina (Fryderykata, 2008) e a Maria Pomianowska, che ha riletto brani del grande musicista in chiave africana, andalusa, araba, cinese, etc. insieme ad altri musicisti (Chopin Na 5 Kontynentach, 2010). È proprio su questa musicista (terza a destra nella foto) che vogliamo concentrare la nostra attenzione. Compositrice, docente, strumentista e cantante, Maria Pomianowska offre un ottimo esempio di come la musica polacca – sia tradizionale che classica – possa convivere felicemente con stimoli extraeuropei. Nata nel 1961 a Varsavia, durante gli anni Ottanta Maria visita varie parti del mondo, con una spiccata preferenza per l’Asia: dalla Corea alla Cina, dal Giappone al Medio Oriente. Durante questi soggiorni impara a suonare molti strumenti e si avvicina a tradizioni musicali antichissime. Al tempo stesso, come si diceva, conserva un forte legame col paese d’origine. Studiosa attenta, collabora con la musicologa Ewa Dahlig-Turek e col liutaio Andrzej Kuczkowski, insieme ai quali ricostruisce la suka, un arco simile al violino scomparso nel diciannovesimo secolo. La sua discografia è molto ampia, quindi dobbiamo limitarci alle opere che ci sembrano piu significative. Zapomniany Dźwięk (Suono dimenticato, 2012) riscopre l’opera di Tekla Badarzewska (1834-1861), una misconosciuta compositrice polacca dell’Ottocento. Il CD propone 18 brani della musicista riarrangiati da Maria Pomianowska per strumenti classici e tradizionali. Negli anni successivi Maria si concentra sullo scambio con colleghi africani e asiatici. Poland-Pakistan. Sounds from Two

Continents (2013) è il frutto di alcuni seminari che si tengono a Islamabad nel 2012. Fra i musicisti pakistani spiccano Ustad Muhammad Ajmal (tabla) e Taimur Khan (sarangi). Kolbergiem po Afryce i Azj (Con Kolberg attraverso l’Africa e l’Asia, 2014) documenta un altro progetto di grande respiro. Ancora una volta la musicista opera una sintesi coraggiosa, fondendo pezzi registrati in varie parti del mondo – Algeria, Egitto, Libano, Polonia, etc. – e brani del compositore polacco Oskar Kolberg (1814–1890). Un lavoro insolito e ricco di fascino. Warszawa-Dakar (2015) ha un titolo che parla da solo: per la prima volta, musicisti polacchi e senegalesi si uniscono per realiz-

zare un CD, dove due tradizioni musicali completamente diverse si fecondano scambievolmente con esiti eccellenti. The Voice of Suka (2017) segna l’esordio di Reborn, un quartetto dove dominano strumenti dimenticati come il violino di Płock (una delle più antiche città polacche) e vari tipi di suka. Oggi l’artista polacca prosegue instancabile il proprio viaggio attorno al mondo, alla ricerca di nuovi collaboratori e di nuovi stimoli. Ovunque ha qualcosa da insegnare, ma anche molto da imparare. È convinta che Chopin, se avesse visto il Sahara, avrebbe posato lo sguardo sulle dune infuocate dal sole e ne avrebbe tratto l’ispirazione per comporre una mazurka.

9 28 LUGLIO 2018


di Alessandra Mollica Sarti Il giorno 21 Luglio alla Limonaia di Villa Strozzi in Firenze il Presidente del Quartiere 4 Mirko Dormentoni ha tagliato il nastro inaugurale, aprendo di fatto la stagione 2018 con una mostra composita e ben pensata di arti visive, performance, workshop e reading di poesia. Si tratta del “IV Festival del Riciclo e delle buone pratiche” curato dall’Associazione Factory Athena, sotto l’egida di Simona Dipasquale. Artisti visivi, performer e poeti si sono avvicendati nella due giorni dedicati ad una pratica e ad un luogo che meritano attenzione sostanziale, da parte delle amministrazioni pubbliche ma anche da parte dei cittadini, che in primis, hanno il diritto e la forza di chiedere, oltre che dare, partecipazione attiva a favore dei luoghi verdi tanto belli e accoglienti quali il Parco di Villa Strozzi. La nuova gestione dello spazio estivo de La Limonaia di Villa Strozzi è frutto della collaborazione fra l’Associazione culturale “Le Murate” e “Un Caffè da l’Sardo”. La programmazione è densa di eventi: concerti, spettacoli, presentazione di libri, laboratori e mostre, dove la “Factory” è presente con il suo prezioso contributo decisamente qualitativo. Prossimo evento, ospite alla Limonaia dal 2 al 6 settembre, sarà la mostra conclusiva degli artisti vincitori del Secondo Premio Factory Athena Per le Arti Contemporanee, svoltosi lo scorso anno presso gli impianti sportivi dell’ ippodromo del Visarno. “Tutte le cose, diceva Talete, sono piene di dei: ma dove sono andati a finire gli dei? Gli dei, diceva Jung, sono andati a finire nelle malattie, anche in quelle del mondo. Gli dei sono stati rimossi”. E’ proprio di tutto il “rimosso” – e non soloche si occupa l’arte con i suoi artisti. Per questo sotengo sia molto importante avere la saggezza senza presunzione, di sapersi definire: artisti. Poichè in questo prendere posizione si attiva l’impegno e la responsabilità di ciò che si immagina, favorendo il manifestarsi delle Idee-Eidola-Dei. Hillman chiama il Daimon lo spirito guida, il genio, la voce interiore. Josephine Baker dice “E’ dunque questo che chiamano vocazione: la cosa che fai con gioia, come se avessi il fuoco nel cuore e il diavolo in corpo?”. Proprio così, è l’energia che sa generare passioni forti, esagerate e tuttavia sane e naturali, così lontane da quelle indotte dal

10 28 LUGLIO 2018

Athena la Factory con le ali

sistema che idolatra il consumismo e le dipendenze. Ed eccoci arrivati ad Athena: la dea che fa il mondo, che nasce già adulta, di tutto punto armata. Athena Glaukopis, dagli occhi luminosi che vedono nell’ oscurità. Questo, è il vedere dell’arte viva, praticata da artisti vivi, che si offrono per ricollocare l’essere umano nel Mondo. Perchè il Mondo, come immaginava Keats, è la scuola dove l’anima fa esperienza di sé.

“Chiama il mondo, ti prego, la valle del fare anima. Allora scoprirai a cosa serve il mondo”. Quindi dove sta il Mondo? Il mondo sta negli occhi di chi lo guarda, negli occhi vividissimi di coloro che intendono non l’adesione ad un mondo già dato, ma ad un mondo che va immaginato, benchè sia già nell’orizzonte degli eventi pronto ad essere colto e manifestato.


di Biagio Guccione Ovviamente escludendo gli interventi di rapina, irreversibili, di solito interventi da attribuire all’attività edilizia senza scrupoli, nell’agricoltura bisogna sperimentare con coraggio nuove strade non prive di rischi e non sorprende come siano stati criticati gli interventi del collega spagnolo Fernando Caruncho in Puglia presso la Fattoria di Amastuola. Al di là della scelta progettuale che può essere condivisa o meno - l’idea dell’onda che ad alcuni appare estranea al paesaggio locale - c’è chi rimane affascinato da questo segno forte nel paesaggio che l’autore descrive con parole accattivanti e poetiche. “Questa storia attraversa come un’onda il suo campo e allo stesso tempo attraversa il cuore degli uomini che l’hanno resa possibile. È una storia che unisce in un unico momento il mondo antico e quello attuale. Riunisce la fanciullezza dell’uomo con la sua maturità”. Fernando Caruncho, La storia e come un’onda, dal sito www.amastuola.it). In ogni caso questa è la strada da percorrere. Sperimentare nuovi paesaggi. Certamente queste nuove soluzioni portano verso nuovi assetti nel paesaggio che incanalano le scelte che possono apparire processi di semplificazione ma di certo di qualità: l’intervento di Caruncho ne è un esempio. Il parco Miribel Jonage a 15 kilometri dal centro di Lione è il 19° sito più visitato della Francia. La storia di questo parco è particolarmente interessante. Nato come cassa di espansione ed area di escavazione ora

[4] Amastuola e Miribel Jonage, Le trasformazioni del paesaggio

due sperimentazioni si pone come uno dei modelli più avanzati di parco periurbano per l’intera Europa. Si tratta di 2200 ettari di pregevoli luoghi naturali dove è possibile svolgere ogni tipo di attività ricreative e sportiva, ma dove ancora oggi si continua a cavare inerti per l’edilizia pur trovandoci in un’area dove l’attività ricreativa fa da padrona. Oggi il parco Mirabel –Jonage registra ben 3.500.000 visitatori l’anno, uno straordinario polmone verde per la Gran Lyon, un ampia area ricreativa dove è possibile fare di tutto, un interessante sito per l’educazione ambientale e la ricerca scientifica: 230 tipi di uccelli, 25 mammiferi, 800 tipi di piante. I laghi artificiali – che sono tre che si estendono per ben 350 ettari sono una delle caratteristiche di questo parco, sia per il ruolo ricreativo ma soprattutto come riserva d’acqua e non ultimo, ricoprendo il ruolo di cassa di espansione. Le vecchie cave di ghiaia sono stati rinaturalizzazione potenziando la loro biodiversità e oggi vengono utilizzate per l’educazione ambientale. Il parco è diviso in tre grandi macro aree: la base ricreativa, il polo naturalistico e lo spa-

zio naturalistico ed agricolo. Visitare questo parco in una giornata d’estate è certamente una bella esperienza. E’ bello vederne tutti gli usi potenziali a pieno regime. Nugoli di ragazzini, molto piccoli, che con l’istruttore attraversano con le canoe i laghi per poi attraccare vicino ai punti di osservazione dell’avifauna. La stessa gradevole sensazione si ha nelle sponde dei laghi dove improvvisati ed improbabili bagnati usano la spiaggia per prendere il sole, fare pic-nic o semplicemente rilassarsi. C’è chi invece usa l’area attrezzata per le attività sportive dove c’è solo la difficoltà di scelta di quale sport praticare. Dicono che c’è qualche coppia che si spinge ad usare il parco per festeggiare il proprio matrimonio. In fondo i punti di ristoro non mancano, ci sono ben 5 ristoranti che lavorano a pieno regime. Uno straordinario mondo dove la natura fa da padrona dove l’uomo è il protagonista assoluto di una creazione meravigliosa, dimostrando che la natura può essere sfruttata, controllata e gestita senza creare degrado.

La Fattoria di Amastuola in Puglia (Foto Caruncho)

11 28 LUGLIO 2018


di Danilo Cecchi Contrariamente alla fotografia americana e francese, la fotografia inglese non è mai stata molto ricca di nomi significativi. A parte i più noti fotografi dell’Ottocento, da Talbot alla Cameron, dalla coppia Hill & Adamson a Frith, da Robinson ad Emerson, non emergono in seguito personaggi di altrettanto rilievo, se si eccettuano i vari Bill Brandt, Cecil Beaton, Don McCullin e pochi altri. Eppure l’attività fotografica nel Regno Unito è stata estremamente vivace, sia negli anni fra le due guerre che nei decenni successivi, e se è vero che una gran parte dei fotografi di area inglese si sono dedicati prevalentemente ai lavori commerciali, molti altri si sono dedicati, anche privatamente, al racconto della controversa realtà del proprio paese, illustrandone lo stato ed i cambiamenti in corso. Fra questi fotografi, messi in ombra dall’invadenza dei colleghi di oltre oceano e dalla popolarità dei colleghi di oltre manica, spiccano alcuni nomi degni di maggiore attenzione, che la storiografia e la critica fotografica vanno lentamente riscoprendo e celebrando. Uno dei nomi che emergono è quello di Shirley Baker (1925-2014) che opera nelle città di Manchester e Salford fra gli anni Sessanta ed i primi anni Settanta, l’epoca dei grandi cambiamenti economici e sociali, delle grandi ristrutturazioni urbanistiche e delle sostituzioni edilizie. Di professione insegnante a Salford, e successivamente a Manchester, Shirley inizia a fotografare le persone che vivono in quell’area, fortemente influenzata dalle immagini di Cartier-Bresson, di Robert Frank e di Garry Winogrand. Fotografa le condizioni di vita di donne e bambini, il loro ritrovarsi in strada per le questioni quotidiane, per la spesa, le chiacchiere, i giochi, ma anche quella degli uomini sui quali grava la piaga della disoccupazione e della miseria. Se Londra è uscita dai disagi del dopoguerra ed è diventata un polo di attrazione per ogni genere di attività, economica, artistica e culturale, ed un centro internazionale pieno di vita e di progetti esaltanti, la provincia inglese si avvia verso una situazione di degrado e desolazione, le attività economiche languono, il lavoro scarseggia, e le condizioni igieniche e sanitarie sono le stesse di mezzo secolo prima. Nonostante questo stato di disagio, permane nelle comunità locali un forte spirito di solidarietà e di appartenenza, spirito che viene indebolito e messo in crisi dalla politica di sventramento e di abbattimento di case, isolati ed interi quartieri, nel quadro di una politica di risanamento e di rinnovamento edilizio. Il programma edilizio significa per molti l’abbandono delle vecchie case, umide e malsane, ma anche la mancanza di un’alternativa, significa lo sradicamento, la rottura dei

12 28 LUGLIO 2018

rapporti sociali e di gruppo, l’incertezza diffusa. I bambini continuano a giocare fra le macerie delle case abbattute, le donne si affacciano alle porte ed alle finestre delle abitazioni residue, gli uomini continuano a vagare senza mèta e senza speranze. Shirley racconta tutto questo nelle sue immagini, autentiche, spontanee, non posate, realizzate nell’indifferenza apparente dei personaggi raffigurati, e raccoglie il meglio del suo lavoro nella pubblicazione “Manchester e Salford“ del 1989. Il suo stile fotografico e l’incisività delle sue immagini le aprono nel 1995 la strada per un Master in storia, critica e teoria della fotografia all’Università di Derby.

Alla fine degli anni Novanta Shirley torna a visitare gli stessi luoghi e nel 2000 pubblica il volume “Streets and Spaces: Urban Photography - Salford and Manchester - 1960- 2000” in cui confronta la realtà di allora con quella, igienicamente più idonea, ma forse socialmente meno aggregativa, di oggi. Di se stessa diceva: “Adoro l’immediatezza delle fotografie spontanee e la capacità della fotocamera di catturare il serio, il divertente, il sublime ed il ridicolo. Nonostante le molte immagini meravigliose del grande e del famoso, sento che le immagini meno formali del quotidiano possono spesso trasmettere di più della vita e dello spirito del tempo”.

Shirley Baker Donne, bambini e bighelloni


Due o tre cose che so di Sergio Staino di Stefano Giraldi “L’Architetto che inventò Bobo” Uno dei più poliedrici disegnatori dell’umorismo italiano senza dubbio è Sergio Staino. Classe 1940, architetto, disegnatore satirico, regista cinematografico, regista teatrale, regista televisivo, giornalista e scrittore. Dopo la Laurea in Architettura all’università di Venezia e poi assistente di Cattedra di Urbanistica del Professor Astengo, ritornato a Scandicci (Firenze) diviene insegnante di applicazioni tecniche, iniziò la collaborazione con la rivista “Linus”, allora diretta da Oreste Del Buono con suo personaggio Bobo. “Un personaggio più goffo del suo Autore, con pochi capelli, con tanta pancia, con uno sguardo attonito e smarrito di chi c’è ma non sa il perché, era il 10 Ottobre 1979 …” cosi scriveva Sergio Staino in un suo catalogo per una Mostra nel 1985. Umberto Eco di Bobo scrive “… Bobo è come realtà “testuale” con le sue delusioni di militante ibernato, la sua sessualità di intellettuale, divorato da complessi colti e mitologie massmediatiche… il suo moralismo e il suo immoralismo” (Bobo e dintorni – Milano Libri Edizioni). Ma l’interesse di Sergio Staino si rivolge an-

I pensieri di

Capino

Sono passati decenni da quando si sono affermati termini quali Operatore ecologico, o espressioni del tipo “non vedente”, “non udente” o “diversamente abile”. Queste evoluzioni lessicali si capì subito che erano sostenute da una finalità di rispetto e di tutela di categorie di persone che prima erano appellate con termini decisamente più crudi. Da qualche tempo, invece, si sta diffondendo a macchia d’olio il meno nobile tentativo di perseguire un obiettivo di rassicurazione sociale grazie al concorde sforzo di stemperare il significato

che ad altre arti visive come il cinema: scrive e dirige il suo primo film “Cavalli si nasce” con gli attori Paolo Hendel e Davide Riondino, in seguito con Francesco Altan scrive e dirige “Non chiamarmi Omar” con le attrici Stefania Sandrelli e Ornella Muti e con la partecipazione del cantautore Vinicio Capossela che firma anche le musiche del film. Per il teatro cura la regia della commedia “Valzer” del giornalista Rai Alberto Severi e la regia per Rai 3 dello spettacolo satirico “Celito lindo” con gli attori comici Claudio Bisio, Athina Cenci, Luciana Littizzetto e Aldo Giovanni e Giacomo. Ho chiesto a Sergio Staino quale consiglio darebbe ad un giovane che vuole intraprendere la carriera della satira politica, ecco la sua risposta: “ Una forte passione politica, imparare a guardarsi intorno con ironia e soprattutto con autoironia”. Già, come fece dire a Bobo in un disegno del 1989 “Basta con queste foto da intellettuale, voglio una foto nudo su playboy!”

Sempreché il pubblico abbia un’opinione di alcuni termini e aggettivazioni (facendo ricorso anche a parole prese in prestito dall’Inglese). Gli esempi di queste vere e proprie sgrammaticature che, di questi tempi, si stanno affermando possono esser rinvenute nei più diversi lessici. Nel mondo dello sport (ammesso che il “grande Calcio” vi abbia diritto di cittadinanza) il falso in bilancio di una Società calcistica, viene definito come “non osservanza delle regole del fair play finanziario”. Se, scorrendo i documenti da compilare per la iscrizione di un figlio a scuola, leggiamo che è richiesto di completare un bollettino di conto corrente postale per il versamento di un predeterminato contributo “volontario” (che, quindi, si pensa di poter o non poter versare), qualche rigo più sotto, leggeremo anche che la esibizione della ricevuta

del pagamento è requisito essenziale per il completamento della pratica. Per non parlare dell’agiografico vezzo degli ultimi Governi di consegnare alle cronache roboanti aggettivazioni per alcuni loro Decreti; in pochi anni, si è passati dal “salva Italia”, al “Job Act” al “Decreto dignità”. Vien da rimpiangere un lungo lasso di tempo (oltre mezzo secolo) in cui solo una volta (e da quella che un tempo era l’opposizione) una misura proposta dalla maggioranza venne appellata, con efficacia, come “Legge truffa”. Insomma: presumiamo che lo studio delle mutazioni lessicali, e delle loro accelerazioni, possa offrire fra un po’ di tempo una possibile chiave di lettura dei sottesi sforzi per rassicurare l’opinione pubblica. Leonardo Sciascia avrebbe detto: “sempreché il pubblico abbia una opinione”

13 28 LUGLIO 2018


Ho un mare di cose da fare

di Paolo Marini Quando si parla di contenuto dei libri intendiamoci: ce n’è uno materiale (le pagine, per lo più) e uno immateriale (la narrazione o altro); quello materiale si può scindere in uno fisso, originario e immancabile (le pagine), seguìto eventualmente da un secondo, squisitamente rimovibile (ciò che vi inseriamo: brochure, cartoline, inviti, biglietti di auguri, scontrini, a fungere da segnalibro). Su quest’ultimo, mentre riordinavo gli scaffali, si è concentrata la mia attenzione: ho aperto “Manhattan Transfer” di John Dos Passos e vi ho trovato un invito al vernissage della mostra “Ho un mare di cose da fare”, della versiliese Roberta Giovannini Onniboni, per il giorno 3 luglio 2002 dalle 19.00 al Foyer degli Artisti, in Borgo degli Albizi, a Firenze. Estraendolo dal libro, una prima idea è passata per la testa: l’invito era circa a pagina 230, là dove debbo essermi fermato (non ricordo infatti di avere concluso quella lettura); la seconda è stato uno struggimento, un ponte sopra un divario lungo 16 anni. Ma la cosa più impressionante di questa serendipity domestica è stata l’immagine della scultura raffigurata nell’invito: un uomo che legge seduto sul water. Come se Manhattan Transfer avesse ‘salvato’ il cartoncino perché a distanza di anni potessi ritrovarlo e, con esso, molto sorridere e un po’ riflettere. Nella patente contraddizione tra “ho un mare di cose da fare” e l’atto di sedere sul water in attesa di defecare, vi sono ironia e auto-ironia. Qualità difficili da indossare e da proporre - l’auto-ironia anche di più: senza la prima tutto può apparire drammatico o tragico; senza la seconda, si rischia di cadere nel ridicolo. Poi è sopraggiunta l’idea che ci siano tante cose da fare che usualmente non consideriamo nell’espressione ho-un-mare-dicose-da-fare, quando giustifichiamo una indisponibilità o la necessità di rinviare un appuntamento, un incontro. In realtà molto di ciò che abbiamo da fare sarebbe cosa buona che avesse a che fare con l’otium, oltre che con il negotium. Entrambi indispensabili dunque; con la differenza, tuttavia, che al primo non si può non riconoscere la qualità di ambiente e di tempo necessario per inquadrare il secondo in un

14 28 LUGLIO 2018

orizzonte di significato. Conseguendone che la cultura del ‘fare’, elevata a principio dominante, costituisce una inversione logi-

ca e può assurgere a deformazione strutturale di una esistenza. Come non riandare al Vangelo di Luca (10, 38-42) quando Gesù risponde alla richiesta di aiuto di Marta: “Marta, Marta, tu ti preoccupi e ti agiti per molte cose, ma una sola è la cosa di cui c’è bisogno. (…).” Allora oltre l’immagine buffa della scultura, ho ripreso dal cartoncino-invito un pensiero per nulla nuovo ma tutt’altro che banale e ho riformulato a me stesso un ammonimento e una promessa. Lo stesso giorno ho scoperto che (a suo tempo) è stato scritto un vero e proprio “Elogio della pigrizia” (autore, Jacques Leclercq) in cui la pigrizia veniva nobilitata, la sua accezione trapassando da vizio a virtù. C’è qualcuno che è riuscito a fare della propria vita – come ebbe ad auspicare Roland Barthes – una domenica? Forse sì. Per i più (come chi scrive) è già tanto se vale l’abitudine di fare, la domenica, un piccolo cambio di vita rimettendo al centro, con l’ozio, le passioni, le occupazioni di libertà. Si obietterà: è solo una parentesi. Sì, certo, ed è sempre meglio che nulla. “Ho un mare di cose da fare” è anche un vezzo socialmente diffuso: tanti corrono indaffarati, parlano solo di lavoro – o meglio, del proprio lavoro -, lamentano cospicui impegni e scadenze. Ma sarà vero? O è una forma di esibizione, di egotismo? A costoro (e anche a se stessi, quando capiti) bisognerebbe prontamente mostrare il cartoncino-invito della Giovannini Onniboni, significando alternativamente: se veramente vivi annegato nello stress, vuol dire che non puoi/non sai fare come lui, stare un quarto d’ora sulla tazza del cesso ad aspettare la liberazione dalle feci leggendo un “Topolino” o un fumetto di Tex Willer; se invece stai posando, io non posso che avere “un mare di cose da fare” – come, per esempio, defecare – prima e meglio che ascoltarti. Non si vive veramente senza la percezione della (o di una) vastità, senza i silenzi, senza scandagliare e/o assecondare, almeno per un po’, il nostro io profondo, in cui sono inclusi smarrimenti, fantasmi, paure. E’ lì che si ingaggia la madre di tutte le battaglie, lì è il ‘mare’ infinito donde si trae il sapore o, malauguratamente, l’insipienza di una vita.


I mai visti di M.Cristina François IL MANICHINO LITURGICO DI S.LUIGI GONZAGA.

Nella Stanza detta dal 1815 “Guardaroba del Priore” è conservata ancora oggi, in un armadio, una scatola inventariata dalla Curia con il n.1752. Al suo interno è custodito un manichino liturgico (Inv. Curia nn.1749-1751) raffigurante S.Luigi Gonzaga con sembianze tratte dal prototipo della sua ritrattistica, opera del pittore bresciano Pietro Scalvini. L’Inventario della Curia riconduce la scatola a un manufatto prodotto tra il 1800 e il 1899 e il manichino a un’opera in cartapesta eseguita tra il 1700 e il 1799. Fortunatamente un cartiglio originale incollato sulla scatola (meglio definita “cassetta” da chi redasse il cartiglio) ci fornisce la data precisa come si legge qui di seguito: “In questa Cassetta sta rinchiuso un S.Luigi Gonzaga di Carta pesta, con Suo piedistallo rotondo, con Sua Cotta, e Tonaca, ed anco con Suo Crocifisso d’argento, Giglio d’argento, Diadema d’argento, ed ancora due teche una delle quali è d’argento, l’altra è di Rame inargentato, il quale fu lasciato al Clero di S.Felicita per Testamento del Molto Rev.do Sig.re Pietro Panzi morto in età d’anni 91 a dì 13 Febbrajo 1819”. La datazione dell’uno, come dell’altro manufatto reca perciò il termine ante quem: 1819. Dal cartiglio si deduce pure che, essendo in quell’anno Priore di S.Felicita il Sacerdote Giuseppe Balocchi, fu senza dubbio a lui

di S.Felicita

che venne destinato il dono. S.Luigi Gonzaga (1568-1591) è qui raffigurato come di consueto nelle vesti di Chierico novizio dell’Ordine dei Gesuiti, in “Sua Cotta e Tonaca”, aperta sul davanti per favorire il passo all’incedere processionale; con un fior di giglio a simbolo della sua castità essendosi consacrato alla Madonna della SS.ma An-

nunziata già fin dal suo soggiorno fiorentino (tra il 1585 e il 1588 fu inviato dal padre presso la Corte Medicea di Francesco) ancor prima di prendere i voti; e con il Crocefisso in mano perché il Santo passava ore in Sua estatica contemplazione. Mancano da questa cassetta: le due teche in “argento e rame argentato” a corredo del tutto, che contenevano verosimilmente qualche sua reliquia; e il “Giglio d’argento” impugnato nella mano sinistra. Il “Diadema d’argento”, ancora al suo posto sulla testa di Luigi Gonzaga, sta a indicare la sua santificazione avvenuta nel 1726. La segnalazione di questo interessante manichino liturgico che veniva esposto ogni 21 giugno su di una colonnetta alla sinistra dell’altare maggiore durante la Messa celebrata in onore del suo “Dies Natalis”, è rivolta agli specialisti di questi manufatti propri di una cultura religiosa dell’effimero cultuale, nonché agli studiosi d’arte sacra e di iconografia quale manifestazione di devozione per un Santo rimasto nella memoria dei Fiorentini in quanto vissuto in stretto contatto con la Corte Medicea per due anni. Frequentatore assiduo della Chiesa gesuita di S.Giovannino (oggi in Via Martelli), pregò nella Basilica dedicata alla SS.ma Annunziata, in questa città dove egli abitò in via degli Alfani n.34.

Dalla Stanza della Guardaroba di S.Felicita: manichino liturgico raffigurante San Luigi Gonzaga.

15 28 LUGLIO 2018


di Valentino Moradei Gabbrielli Giardino di Boboli, una bella mattina di febbraio. Il sole già alto l’aria ancora fredda. Sulle foglie ancora la guazza della notte. Porta Romana è alle nostre spalle, di là dal cancello nelle mura. Con un passo che intende trovare il godimento del circostante, Teodoro ed io traversiamo il Prato delle Colonne. Sono colpito da un oggetto che brilla lontano. Illeggibile alla mia vista ma riconducibile a una scultura sul suo basamento. Ne sono attratto, conquista il mio sguardo, la mia attenzione. Ogni passo è occasione per approfondirlo e comprenderlo già. La forma si definisce e l’oggetto si rivela sempre più curioso. La mia meraviglia si trasforma in interrogazione. Si tratta di un’opera contemporanea con un ruolo provocatorio, posta su uno dei due basamenti rimasti orfani delle sue sculture? Mi avvicino e il dubbio aumenta fino a sconcertarmi. Chiedo a Teodoro. Il mio sconforto scopre essere il suo sconforto. Arrivati di fronte all’opera, la verità si svela con nostro grande e comune disappunto. Siamo di fronte ad una fredda e meccanica riproduzione di marmo dell’opera da poco sostituita: “Vulcano”, scultura di marmo di Chiarissimo Fancelli di Settignano. Una copia commerciale di marmo, con effetti approssimativi di subbiatura sulla base e sul tronco dell’albero e una lucidatura ostinata del corpo con effetto finale saponetta. Un “tipo di prodotto” tanto apprezzato oltre oceano nelle lussuose ville di quell’America opulenta e dai ricchi mercati arabi tanto braccati dalle officine della tradizione fiorentina. Qualche interrogativo nasce spontaneo. E’ stata una scelta felice quella che ha portato a sostituire certe sculture presenti nel parco con queste copie di marmo splendente penalizzando forse troppo l’atmosfera patinata dal tempo del giardino?.

La copia del Vulcano 16

28 LUGLIO 2018

del Chiarissimo Fancelli da Settignano


di Roberto Giacinti La legge di bilancio 2018, (commi da 57 a 60 della l. 27 dicembre 2017, n. 205) ha introdotto nell’ordinamento italiano una definizione giuridica dell’impresa culturale prevedendo, contemporaneamente, un credito d’imposta del 30% dei costi per attività di sviluppo, produzione e promozione di prodotti e servizi culturali e creativi attribuito nel limite di spesa di € 500.000 per il 2018 e di € 1 milione per ciascuno degli anni 2019 e 2020. Il testo trova le proprie radici principalmente nel Libro Verde della Commissione Europea del 2010 elaborato nell’ambito della strategia “Europa 2020”. Secondo il Rapporto Symbola, il sistema culturale e creativo italiano produce il 6,1% della ricchezza nazionale a cui va aggiunto l’ulteriore effetto moltiplicatore stimato pari a 1,8, che esso è in grado di produrre sul resto dell’economia. Il sistema produttivo culturale e creativo dà lavoro a 1,5 milioni di persone, il 6% del totale degli occupati in Italia e molte delle nuove professioni del futuro si sviluppano in queste imprese, ma sappiamo che è l’impresa turistica a beneficiare in modo rilevante della spinta della cultura. Il settore produce, inoltre, anche numerosi effetti non-economici che devono essere tenuti

Imprese culturali e creative in debito conto nel momento in cui si vuole delineare una politica pubblica in tale ambito. Per esempio, la cultura ha impatto sulla coesione sociale, sullo sviluppo delle diversità; inoltre la produzione culturale stessa, svincolandosi dalle logiche promozionali e commerciali, assume i caratteri etici di un nuovo modo di fare cittadinanza elaborando il degrado e rifunzionalizzando siti in cui le risorse, le identità e le singolarità locali possono essere tramutate in esperienze. Affinché un’impresa possa essere qualificata come culturale e creativa e possa iscriversi nell’elenco tenuto dal Mibac deve avere per oggetto sociale esclusivo o prevalente l’ideazione, la creazione, la produzione, lo sviluppo, la diffusione, la conservazione, la ricerca e la valorizzazione o la gestione di prodotti culturali, intesi quali beni, servizi e opere dell’ingegno ine-

renti alla letteratura, alla musica, alle arti figurative, allo spettacolo dal vivo, alla cinematografia e all’audiovisivo, agli archivi, alle biblioteche e ai musei, nonché al patrimonio culturale e ai processi di innovazione ad esso collegati. Proprio cultura e creatività possono essere, in questo tumultuoso inizio di secolo, la nostra chiave di volta: possono consolidare il ruolo di guida per gli altri settori produttivi, possono essere la missione del Paese anche perché la cultura è l’infrastruttura necessaria a gestire la complessità crescente del Pianeta: dalle migrazioni al terrorismo, dai cambiamenti climatici fino al rapporto con l’evoluzione convulsa della tecnologia. La cultura può essere una forma di diplomazia anche economica, soprattutto nel quadro di quella che si sta configurando come la nuova Via della seta tra Oriente e Occidente.

17 28 LUGLIO 2018


di Achille Falco Per tutta l’estate (fino al 12 settembre), la prima stanza sarà quella dei rossi: dove risuona il pianoforte di Alda Merini che 15 anni fa dilettava gli amici dell’ormai storica gallerialibreria-caffetteria ‘Immaginaria’. Si pone all’ascolto la ‘music box’ di Lluis Cera – artista catalano che scolpisce il marmo di Carrara – che, mollemente va a lambire il pianoforte. Il rosso ferrari di Marco Sistilli è una stringa serrata di note musicali che elettrifica l’ ambiente; Tommaso Cascella coi suoi pigmenti rossi fa da specchio al dittico della Buffettaud: qui, l’anima si fa macchia per entrare nelle lacunose viscere di noi stessi con Luca Brandi: il porpora declina in bordeaux: dove l’oblioso nero è stato vanamente allontanato. Lontani dal sempre esser (tempo) presente, dalla fretta, dall’impazienza dei social network, nella seconda sala, il passato tuona le note più alte: Achille Perilli, Giosetta Fioroni, Franco Angeli, Enrico Baj, Mario Ceroli (gli artisti di ‘Nascita di una Nazione’ esposti nella scorsa mostra di Palazzo Strozzi); due ieratici tableau chiodati di Bernard Aubertin chiudono il cerchio assieme alle vertiginose esplosioni di un Vinicio Berti del ‘76. Nella sala affianco, poi, spicca – l’ultimo acquisto di un viaggio a Vilnius – un Antanas Sutkus: il fotografo vincitore del ‘Dr. Erich Salomon Award’ che a 26 anni,nel ‘65, immortalò Jean-Paul Sartre sulle spiagge bianche di Nida, con scatti surreali. La quarta è un purgatorio di libri Einaudi, con opere di Fiorenza Mariotti, Marzia Truant e Mario Francesconi, in cui si dissolve, liquida, la musica della prima sala. È, dunque, nell’hortus conclusus, in cui spaziano palme e camelie, che si ritrova quella calma ancestrale degli assolati pomeriggi estivi: Cesare Reggiani con la sua moderna metafisica ci introduce in uno scenario di cui, come dice Rilke, “Penetrare in se stessi e per ore non incontrare nessuno – questo si deve poter raggiungere. Essere soli come s’ era soli da bambini, quando gli adulti andavano attorno a cose che sembravano importanti e grandi, perché i grandi apparivano così affaccendati e nulla si comprendeva del loro agire.” Intrattenimento culturale di ogni genere, presenze di artisti giovani e storici, intellettuali di successo e in fasce; dinamismo e focolaio creativo di bellezza: queste le stimmate della Galleria Immaginaria.

Confronti

18 28 LUGLIO 2018

Non sono una ceramista: l’irriverenza di Luce Raggi a Faenza Con il progetto MCZ territorio il museo coinvolge ogni anno in un momento espositivo i percorsi degli artisti espressione della ricerca contemporanea ceramica della nostra città, Faenza, in allestimenti pronti a dialogare con l’atelier e il lavoro di Carlo Zauli. Dopo vari appuntamenti che hanno coinvolto artisti come Enrico Versari, Monika Grycko, Chiara Lecca, Guido Mariani, le sale del museo ospitano da fine luglio Luce Raggi. Artista irriverente e dal profilo già ampiamente internazionale, Luce Raggi è un ospite particolarmente significativo dell’appuntamento che il Museo Carlo Zauli dedica ai talenti del proprio territorio. La peculiarità di questo incontro è duplice: è legata, da un lato, alla caratteristica che ha il nostro museo - luogo di residenza per artisti. In questo senso Luce Raggi innesca un processo opposto, poiché espone al museo gli esiti della propria ampia e recente residenza a Jingdezhen, antica e

gloriosa capitale cinese della ceramica. L’altra peculiarità, invece, risiede nella natura stessa dell’opera di Luce che, con irriverente e nitida consapevolezza, supera continuamente la linea di confine tra ceramica e arte contemporanea, scardinando le categorie e i generi fissati tra arti applicate ed arti maggiori, tra decorativismo e arte concettuale, tra oggetto ed opera d’arte. La giovane artista faentina agisce, cioè, in quello scardinamento dialettico così cruciale per Carlo Zauli ed i suoi contemporanei, che dedicarono la vita e la propria ricerca ad una ridefinizione reputazionale dell’essere ceramisti e, al tempo stesso, pienamente artisti, processo che forse soltanto nei primi anni 2000, con il conseguimento del Turner Prize a Greyson Perry, può considerarsi un dato acquisito tra gli addetti ai lavori, ma non ancora in senso assoluto. Museo Carlo Zauli - Faenza 30 luglio / 2 settembre (chiuso dal 13 al 27 agosto)


di Mariangela Arnavas L’ultimo romanzo di Giampaolo Simi (Come una famiglia, Sellerio 2018) è la lunga lettera di un padre, il giornalista Dario Corbo al figlio appena diciottenne, Luca; la forma è significativa perché contiene l’anima del racconto, ovvero la lunga, tortuosa, riflessione di un genitore sulla vicenda del suo rapporto con un adolescente appena sbocciato alla maturità; “ una grande promessa di intimità e di scontro”, l’ha definita lo stesso autore ed è un impegno che viene ampiamente mantenuto. Dario Corbo era stato protagonista anche del precedente romanzo di Simi, anch’esso ambientato in Versilia, “La ragazza sbagliata”, sempre Sellerio 2017, dove la sua vicenda si intrecciava con quella di Nora Beckford, figlia di un artista inglese divenuto ricco e famoso, ingiustamente accusata di omicidio, anche dallo stesso Dario in una prima fase. Lo scenario è quello del mondo delle promesse del calcio in Versilia, in particolare di una società, il Rivadarno, vivaio di giovani sportivi in procinto di decollare nei campionati di serie A e B e di imboccare la strada del successo vero e del denaro, giovani cavie in mano a mediatori e faccendieri, ragazzi educati al rispetto di falsi valori dove la squadra è tutto e il resto del genere umano, le donne in particolare sono poco meno di niente, divertimento, giocattoli. I genitori di Luca Corbo sono separati ma assistono insieme alla partita decisiva del campionato del Rivadarno, quella che potrebbe proiettare il loro figlio nell’empireo dei grandi calciatori; seguono tremebondi soprattutto il momento in cui Luca sceglie di calciare il rigore decisivo della partita e qui ci sono alcune pagine di grande scrittura dove anche chi non conosce il gioco del calcio da vicino può godere di una bella narrazione al tempo stesso descrittiva e introspettiva che tiene agganciato il lettore, con la tentazione di saltare qualche pagina per vedere il finale. Ma è soprattutto la storia dell’illusione di un padre della generazione post 68, un padre che si azzarda a credere che, pur con la separazione, avendo provato ad essere con la ex moglie genitori insieme, “come una famiglia”, tutto per il figlio andrà bene; un classico delirio di onnipotenza che ignora o quasi il ruolo fondamentale del contesto educativo scolastico e sportivo, del fondamentale apporto del gruppo dei pari ovvero del gruppo dei coetanei adolescenti ; insomma un pensiero pressoché scaramantico, ma del tutto o quasi sconnesso con la realtà. Attraversiamo nel romanzo l’irrompere della vita vera nell’esperienza del padre, Dario Corbo, e incontriamo i giovani millennials, maschi

Come una famiglia

e femmine in pericolosi giochi di confronto e scontro: Luca, Momo, Christian, Aurora, “spine senza la rosa “, quelli che leggono poco ma vivono in simbiosi con lo smartphone, quelli per cui “ il passato è ancora una superficie piatta e opaca, dove non c’è profondità e non c’è vertigine” e non si sa se sia solo per questioni d’età o perché tutta questa generazione sia destinata a vederlo sempre così. C’è un momento fatidico nella narrazione ed è quello in cui Dario capisce di non aver rispettato il momento in cui si deve concedere ad un figlio la possibilità di fare una scelta fondamentale senza interferire: Dario sa a posteriori che aver perso quell’occasione fondamentale è come aver sbagliato il calcio di rigore della sua esistenza genitoriale, il che non gli impedisce di continuare a lottare per la salvezza di suo figlio, senza esitazioni, mantenendo una bussola interiore orientata sul senso di umana giustizia.

E alla fine emerge il riconoscimento che la famiglia vera non è quella più o meno formalizzata, più o meno separata, ma quella che si fonda su intime affinità; “ ci sono persone a cui la verità ti lega con una catena”, consapevolezza che affiora in diversi autori contemporanei; a me vengono in mente due degli ultimi film di Clint Eastwood Million dollar baby e soprattutto Gran Torino, con lo squarcio terribile che apre sulla violenza tribale del gruppo dei maschi adolescenti nei confronti della ragazzina amica del protagonista, questione di cui si dovrebbe parlare se non fosse che andremmo a svelare in tutto o in parte la fine del noir. Una storia senza giudizi e con un’apertura di speranza perché, come dice Giampaolo Simi, “le persone speciali sono tutte, in qualche modo, tornate dal buio che sembrava averle inghiottite per sempre”, come gli sciamani che tornavano dal regno dei morti; una storia da leggere.

19 28 LUGLIO 2018


Venere ritrovata

20 28 LUGLIO 2018

di Carlo Cantini


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.