Numero
18 maggio 2019
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“Durante il nazismo i lavoratori forzati li abbiamo trattati bene� Verena Bahlsen, erede del gigante tedesco dei biscotti
Con la cultura non si mangia Giulio Tremonti (apocrifo)
Biscotti al forno Maschietto Editore
Pechino, 2008
La prima
immagine Eccoci all’interno del punto “Ma c Donald’s” di Pechino della settimana scorsa. Come si può ben vedere, se non ci fossero queste coppie di giovani cinesi seduti ai tavolini, sarebbe davvero arduo rendersi conto che non siamo negli USA o in una qualsiasi città europea o comunque del mondo occidentale. Ormai le differenze, in un pianeta ormai tristemente globalizzato, non permettono più di giudicare a prima vista in che parte del mondo sia stata scattata un’immagine di questo tipo. Si potrebbe dire tranquillamente che tutto il mondo si è omologato seguendo i dettami di un ordine sovranazionale che sta rapidamente causando la perdita di quasi tutte le caratteristiche identitarie che lo rendevano da sempre molto vario e interessante.
dall’archivio di Maurizio Berlincioni
Numero
18 maggio 2019
376
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Riunione di famiglia L’attacchino Le Sorelle Marx
In questo numero
La famiglia Krasnich ieri, la famiglia Omerovic oggi di Susanna Cressati
Battaglia on line di Paolo Marini
Tabucchi, zingari e Rinascimento di Simone Siliani
Pantere Zie di Roberto Barzanti
Scrittura in diretta di Aroldo Marinai
Alinari sì, Alinari no, Alinari dove di Danilo Cecchi
Gianluca Merolli e gli Stranieri di Joël F. Vaucher-de-la-Croix
Il paese dell’impunità e non solo di Mariangela Arnavas
Supermercato veneziano di Valentino Moradei Gabbrielli
La fase complessa dell’editoria italiana di Michele Morrocchi
Memento mori di Cristina Pucci
Camminando lungo l’Hadrian’s wall/6 di Luciano Falchini
e Capino, Maria Cristina François, Matteo Cateni, Alessandro Michelucci... e le foto di Maurizio Berlincioni e Carlo Cantini
Direttore Simone Siliani
Redazione Progetto Grafico Mariangela Arnavas, Gianni Biagi, Sara Chiarello, Emiliano Bacci Susanna Cressati, Aldo Frangioni, Francesca Merz, Michele Morrocchi, Sara Nocentini, Sandra Salvato, Barbara Setti
Editore Maschietto Editore via del Rosso Fiorentino, 2/D - 50142 Firenze tel/fax +39 055 701111 Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012 issn 2611-884x
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di Susanna Cressati A margine du una convenzionale presentazione al Gabinetto Vieusseux del doppio Meridiano dedicato ad Antonio Tabucchi (2018), è spuntata una notizia: le Edizioni Piagge, una “costola” della comunità di base che opera nell’omonimo quartiere della periferia cittadina, hanno deciso di dare nuovamente alle stampe “ Gli Zingari e il Rinascimento. Vivere da Rom a Firenze”, il pamphlet dello scrittore pisano pubblicato nel 1999 dalle Edizioni Librerie Feltrinelli. La riedizione, attesa per la fine di maggio, sarà arricchita da un inedito intitolato “19 agosto”, scritto da Tabucchi in seguito al conferimento nel 2001 del Premio premio internazionale ‘’Hidalgo’’, dedicato alla cultura gitana, da altri suoi scritti e da testi di Salvatore Settis e don Alessandro Santoro. Scelta significativa e tempestiva, quella della casa editrice, che ci ricorda quanto annoso, incancrenito e sempre bruciante sia nel nostro paese e nelle nostre città (non solo Roma) il tema della presenza delle comunità Rom. All’uscita del libro Tabucchi spiegò a Cristiano Lucchi, giornalista della testata “L’Altracittà”, come fosse nato il suo interesse per la condizione dei Rom a Firenze. “Abitavo da poco tempo a Firenze – raccontò nel corso dell’intervista - e stavo cenando con mia moglie in un ristorante. Ad un certo punto si sono avvicinati dei bambini Rom di otto, nove anni che vendevano le rose. Si sono rivolti a noi e così ci siamo messi a parlare. Ho provato a fargli scrivere il loro nome e ho scoperto che erano analfabeti. Li ho un po’ rimproverati dicendo che sicuramente il Comune metteva a loro disposizione la possibilità di andare a scuola. I bambini mi hanno guardato con aria sorniona e hanno detto che forse avevo ragione ma che il loro papà non ce li mandava, perché il loro compito era quello di vendere le rose. Io gli dissi che se avessi conosciuto loro padre lo avrei sgridato e loro mi hanno risposto: “Perchè non vieni a trovarci che glielo dici direttamente tu?”. Fu così che lo scrittore, accompagnato dai volontari dell’Associazione per la difesa delle minoranze etniche a cui poi aderì, si inoltrò nell’inferno dei “campi-sosta-provvisori” che da anni erano nati all’Olmatello, al Poderaccio e al “campo Masini”, pozzi di emarginazione, ignoranza e abrutimento (l’eroina imperversava aggiungendosi all’alcol) solo minimamente alleviati da un qualche intervento pubblico. Poi si fece amico
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della famiglia Krasnich e di altri jugoslavi e kosovari che erano stati respinti, perchè al peggio non c’è mai fine, anche da quei campi miserabili e non avevano trovato altro rifugio che alcune baracche tirate su in fretta tra la ferrovia e l’Arno nella zona di Brozzi e delle Piagge. Ascoltò i racconti dei loro viaggi lunghi e dolorosi in territori sconvolti dalla guerra, parlò e fumò con i vecchi, scherzò con i bambini, persona tra persone. E fu così che Tabucchi si diede a scrivere infuocate e indignate lettere agli amministratori comunali e regionali di allora, ricevendo in cambio imbarazzate risposte, e che quando fu invitato dalla edizione tedesca della rivista “Lettre International” e dalla Casa delle culture del mondo di Berlino a scrivere un reportage su un tema da lui preferito scelse di denunciare quanto stava accadendo alla popolazione Rom appena girato l’angolo dell’opulento centro storico fiorentino. Erano gli anni della Biennale della moda. La politica culturale di allora a Firenze, ac-
compagnata con compiacenza dalla comunicazione giornalistica, si nutriva dell’enfasi retorica, spinta fino al grottesco, di manifestazioni economiche e mondane basate sul dubbio connubio moda-arte: trionfo di stilisti, abiti e accessori griffati sparsi nei musei, e nei palazzi storici balli esclusivi per i “vip” abbigliati in costumi scintillanti di Swarovsky. Nel suo scritto, appassionato, polemico, risentito e molto documentato Tabucchi mise in contrasto la situazione di estremo degrado in cui erano costrette a vivere le famiglie Rom a Firenze (“come animali”) e l’esibizione di un rinascimento fasullo, piegato alle più viete e volgari pratiche commerciali spacciate per cultura, e che si rivelò poi, a luci spente, un affare fallimentare. Magnifico il sarcasmo che dedicò alla mostra degli occhiali di Elton John in un palazzo-museo fiorentino: “Le sfumature degli occhiali della star inglese, che toccano tutto l’ arcobaleno, dal rosa al violetto, forse si sposano bene con i toni pastello di Botticelli”.
La famiglia Krasnich ieri, la famiglia Omerovic oggi
Non ebbe parole tenere per la città in cui abitava: la definì volgare, dominata da un’anima conservatrice, se non reazionaria, spesso storicamente vittoriosa sull’altra sua anima comunque esistente e resistente, quella “fortemente civile, progressista e democratica, generosa e colta che può essere determinante per certe scelte politiche”. Una città allora sporca, rumorosa, preda del turismo dilagante e inquinata sia dagli odori della pizza cattiva sia dal discutibile e pacchiano glamour dei negozi di lusso. Altro che “sindrome di Stendhal”. Ma c’è di più. Con uno sguardo a suo modo profetico (non è casuale la citazione di Pasolini) Tabucchi percepì che proprio a Firenze si stava catalizzando una crescente volgarità nazionale: “Credo che Firenze, più che ogni altro luogo italiano – scrisse - abbia saputo coagulare quasi magicamente in sé la volgarità che aleggia sull’Italia contemporanea (come forse su certi altri Paesi europei) fino a farne una sorta di Weltanschauung,
una specie di cappotto che l’avvolge, una spaventosa anima collettiva a cui nessuno sfugge e che significa spocchia, intolleranza, grossolanità. Insomma: la quintessenza dell’atteggiamento di un Paese che è stato povero come l’Italia e che all’improvviso è diventato ricco, senza che dell’appartenenza sociale, della borghesia che ha caratterizzato la civiltà europea, abbia posseduto la cultura. Ciò che anni fa prevedeva Pasolini, la spaventosa mutazione antropologica rivolta verso una omologazione sul Brutto (inteso nel senso più lato) ha trovato paradossalmente in questa città rappresentante del Bello la sua più visibile epifania”. Qualcosa le amministrazioni locali provavano a fare, anche in quegli anni, nella civile e democratica Toscana. Il Comune di Firenze assegnò ad alcune famiglie Rom una casa popolare al Guarlone. Ma anche in quella occasione, quelle timide, complesse aperture all’integrazione vennero platealmente contestate dalle forze di destra, dalla
Lega Nord e da Alleanza Nazionale, che organizzarono una protesta alla cerimonia di consegna delle chiavi: ai Rom niente, niente campi, niente case, niente di niente. Fuori dai piedi famiglia Krasnich, allora a Firenze. Fuori dai piedi famiglia Omerovic, oggi a Roma. Ai giornalisti che gli chiedevano se fosse felice della nuova casa il vecchio Rom del Guarlone rispose spaventato: “Oggi c’è la polizia, ma domani saremo soli”. Come a Casal Bruciato. Quelli in cui scriveva Tabucchi erano anni in cui a Pisa un misterioso killer metteva bambole esplosive tra le braccia delle bambine Rom che mendicavano ai semafori e seminava oggetti-bomba nei luoghi abitati o frequentati da Rom, viados, prostitute, barboni. Erano anni in cui Alleanza Nazionale e Forza Italia raccoglievano firme per un referendum per cacciare i nomadi da Firenze. Città in cui il primo analogo bando fu emesso, ricordò Tabucchi, il 3 novembre 1547.
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di SImone Siliani Non mi è facile scrivere di Antonio Tabucchi e gli zingari, in occasione dell’annunciata riedizione di quel fulminante e intenso pamphlet del 1999, senza parlare della nostra personale amicizia. Che, complice un contatto familiare, si consolidò proprio in quegli anni in cui Antonio si appassionava al tema e scriveva il libro. Anzi, potrei dire che proprio alla questione “zingari” la nostra amicizia deve la sua “occasione” e ci trovò così in sintonia. Ricordo ancora il nostro primo incontro nella sua casa di Borgo Pinti in cui io entrai in punta di piedi, come sempre intimorito dall’aurea del grande intellettuale, e in cui lui mi accolse, scalzo, con l’affabilità e la confidenza del “soltanto” essere umano. Questa, a pensarci bene, era la cifra con cui Antonio affrontava la vita (anche quella da scrittore) e, dunque, la vicenda degli zingari: è la nostra comune, basilare, essenziale eppure così spesso dimenticata, appartenenza all’unica razza umana ciò che deve guidare le nostre scelte, la nostra Weltanschauung. Mi venne incontro così, come essenziale, semplice essere umano e, dunque, fratello; allo stesso modo con cui andò incontro agli zingari, gli ultimi della Terra, nella Firenze di quegli anni. Volevo parlare con lui di un’idea che mi stavo facendo, suggerita dalla vicenda dell’insediamento abitativo di via del Guarlone (in cui l’amministrazione Primicerio aveva dato una casa dignitosa a 6 famiglie Rom), inizialmente osteggiato da un gruppo di residenti, ma poi bene integrato nella comunità), dalla ricerca e collaborazione con la Fondazione “Michelucci” (e in particolare con Nicola Solimano) e da una visita alle realtà più marginali degli insediamenti Rom nell’area fra Brozzi e Campi che feci guidato dall’allora giovanissimo don Alessandro Santoro: una legge regionale che incentivasse il superamento dei campi, attraverso una strategia di insediamenti abitativi all’interno delle comunità locali. La legge a cui pensavo doveva favorire l’inserimento dei Rom nelle graduatorie delle case popolari, i piccoli insediamenti abitativi, il recupero e l’autocostruzione di immobili, come alternative ai grandi campi posti alla periferia delle città. In quegli stessi giorni Tabucchi stava entrando in contatto con la realtà degli zingari a Firenze accompagnando la Liuba, protagonista del libro “Gli Zingari e il Rinascimento. Vivere da Rom a Firenze”. A Liuba, Tabucchi propone la lettura di un libro realizzato nel 1997 dagli studenti di Scienze Politiche (sotto la direzione dei professori Emilio Santoro e Danilo Zolo), “L’altro diritto. Emarginazione, devianza, carcere”, e in particolare il capitolo curato da Alessandra
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Tabucchi, zingari e Rinascimento Meo e Lisa Vannini su “I campi rom”. Rileggere quel libro oggi, accanto al libro di Tabucchi, ci farebbe bene perché, forse, comprenderemmo che se alcune cose sono cambiate (non ci sono più i grandi campi in cui erano segregati i rom a Firenze), resta immutata la condizione di marginalità in cui queste persone vivono, mentre è cresciuto il clima di intolleranza, di insofferenza, di razzismo nei confronti di questa popolazione. Casal Bruciato è a Roma, ma non possiamo dimenticare che fenomeni di esclusione e di violenza si sono avuti anche da noi (basterebbe pensare agli omicidi di tre cittadini senegalesi). In ogni caso con Tabucchi condividemmo in quegli anni una impostazione nella gestione del problema che partiva dalla considerazione fondamentale della comune umanità che ci imponeva di considerare i rom non come dei paria ma degli esseri umani con i nostri stessi diritti, e l’idea di una città aperta che fa dell’accoglienza, della cittadinanza la sua caratteristica principale. Tabucchi ne scrisse in un lungo articolo pubblicato su “la Repubblica” cronaca di Firenze il 15.4.2000 (“Voterò per una politica dell’ospitalità”), raccontando del progetto di accoglienza degli scrittori minacciati di cui era stato pro-
motore con Deridda, Rusdhie e Glissant nel “Parlement International des Ecrivains”. La Regione Toscana, guidata da Vannino Chiti, aveva risposto organizzando la disponibilità di tre Comuni toscani (Certaldo, Grosseto, Pontedera) a diventare città-rifugio per scrittori perseguitati e minacciati nei propri paesi. Nello stesso articolo Tabucchi faceva cenno all’iniziativa che come Assessore alle Politiche Sociali stavo elaborando come “un disegno insieme, generoso, civile e concreto per ciò che concerne la situazione di naccoglienza al popolo Rom nel territorio toscano”. Per Tabucchi dare rifugio a scrittori perseguitati e ospitalità decente ai Rom era parte della stessa idea di città e di civiltà. E, invero, aveva ragione: se tu distingui fra le persone che hanno tutte diritto a una vita dignitosa, hai perso di vista il fatto fondamentale che apparteniamo tutti alla stessa umanità e siamo titolari tutti degli stessi diritti, appunto, umani; e, soprattutto, ti sei già incamminato sulla strada del razzismo. Che non viene mai tutto in un colpo e sempre con cappucci bianchi e croci celtiche; nel nostro tempo assume caratteri più sfumati, tollerati, apparentemente innocui. E invece si insinua nella nostra società, nella nostra vita senza che ce ne accorgiamo e, soprattutto, senza darci il
tempo di reagire. Comunque la legge fu approvata, la n.2 del 2000, e nel corso degli anni ha messo a disposizione dei Comuni toscani risorse per diversi tipi di interventi abitativi per i Rom. Ma ben presto il segno con cui la sinistra, anche toscana, ha affrontato la questione dei Rom ha cambiato di segno. La paura di perdere consenso assicurando diritti sociali e condizioni di vita decenti ai Rom ha preso il sopravvento e, fatalmente, si è persa l’ispirazione di quella legge e dell’idea che Tabucchi, insieme a molti altri, aveva tentato di far passare, quella dei diritti umani come prassi e fondamento delle condizioni di vita delle minoranze nelle comunità locali. Si sa che in politica i simboli sono importanti: ecco, per capirci, l’immagine che si è affermata è quella di Renzi e poi di Nardella che smantellano i campi Rom a Firenze (che, per carità, dovevano essere superati e a questo era volta la Legge regionale 2/2000) e non quella degli stessi amministratori che consegnano le chiavi di un normale appartamento a una famiglia Rom. Le immagini rimandano a diverse impostazioni: la ruspa dice che i Rom sono un problema, sono l’estraneo che devi espellere dalla normalità, che ci vogliono le maniere forti per imporre un diverso stile di vita. E, ovvia-
mente, la ruspa progressista anticipa in forma edulcorata la ben più rude e convincente ruspa di Salvini-Ceccardi che conquista, su quel terreno, più consenso. Le chiavi di una abitazione, invece, direbbero che i Rom sono esseri umani come noi, che possono vivere in case, e che i problemi che eventualmente causano possono essere risolti con civiltà, con umanità, con dignità. A Firenze, il centrosinistra ha incarnato la prima immagine e l’ha inserita, ipocritamente, nella retorica sulla Bellezza, sulla grandiosità e civiltà del Rinascimento, sul benessere sfoggiato con arroganza e sullo sfruttamento della rendita di posizione data dalla storia, privo di produzione culturale innovativa, arroccato a difesa di questo inesauribile pozzo petrolifero. Ciò che scriveva nel 1999 Tabucchi ad esergo del suo libro è tanto più vero oggi: “Firenze è una città volgare. … Essa non consiste tanto nella pacchianeria di una bellezza resa venale e che contrasta peraltro con le deplorevoli condizioni in cui la città stessa è tenuta. … Non consiste neppure nell’indifferenza, da tutti condivisa, nell’apprendere che una delle città più sporche, rumorose e inquinate d’Europa ...è spacciata all’estero, quale banconota falsa, come l’immagine delle perfezione rinascimentale. Credo che Firenze ...abbia saputo
coagulare quasi magicamente in sé la volgarità che aleggia sull’Italia contemporanea... fino a farne una specie di cappotto che l’avvolge, una spaventosa anima collettiva... che significa spocchia, intolleranza, grossolanità. … l’atteggiamento di un Paese che è stato povero come l’Italia e che all’improvviso è diventato ricco, senza che dell’appartenenza sociale, della borghesia che ha caratterizzato la civiltà europea, abbia posseduto la cultura. ...E’ ovvio che c’è un’altra Firenze. Ma questa è rimasta soffocata... ed è “sotterranea”, quasi clandestina, come straniera a ciò che furono la sua stessa casa e la sua stessa storia”. Ecco, sapere che quel suo libro verrà ripubblicato è una bella notizia e lo sarebbe ancora di più se ad esso si accompagnasse una inchiesta, una indagine seria e rigorosa sulla condizione sociale degli zingari oggi a Firenze. Io voglio pensare anche che questo sia un gesto di resistenza alla volgarità disumana che oggi avanza ovunque in Italia e nel mondo e che, senza soluzione di continuità, sceglie i Rom come obiettivo concreto e simbolico: alle Casal Bruciato d’Italia dovremmo iniziare a contrapporre le Barbiane, tante, che ancora resistono e rappresentano altrettanti presidi di civiltà. Antonio se la riderà sotto i baffi.
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Le Sorelle Marx
L’attacchino
Iniziativa clamorosa e di grande portata culturale del Soprintendente del Maggio Musicale Fiorentino! L’Ansa ci informa che Chiarot “è andato in alcuni punti di Firenze per distribuire personalmente i manifgesti di alcuni spettacoli e ad attaccare locandine”. L’inaudita iniziativa non è passata inosservata a Palazzo Vecchio. “Pronto, signor sindaco? Sono della Polizia Municipale. Abbiamo fermato uno squilibrato mitomane in piazza Duomo che attaccava manifesti e locandine ovunque, sulle vetrine dei negozi, sui monumenti, sui dehor. E’ uno straniero...” “Cosa? Ma scherziamo? Sui miei dehor? Poi, magari copre anche i miei manifesti elettorali (che coprono quelli degli altri candidati)! Se è immigrato c’è anche una questione di ordine pubblico e di decoro” “Non so se è immigrato... dice di chiamarsi Chiarot e che è un VIP che la conosce... Che faccio, lo traduco al comando?” “Uh... no, fermo. Ho capito: mando il mio capo di gabinetto a risolvere la cosa. … Manuele, vai subito al Duomo... c’è un problema delicato da risolvere” In men che non si dica, il capo di gabinetto
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giunge in piazza Duomo e si trova di fronte al Chiarot che affigge ovunque le locandine del Maggio, inseguito da due vigili urbani. “Largo al factotum della città. - Largo. Ah, che bel vivere, che bel piacere, che bel piacere per un musichiere di qualità, di qualità! Ecco, uno
lo attacco qui su questo portone; un’altro lo attacco su questa bombola rossa... Tralala-lalala-lalala-la Largo al factotum della città, largo !” “No, scusi signore, non può affiggere niente lì: è la Porta del Paradiso del Ghiberti! E neppure sulla’estintore! Su, per favore...” Interviene il capo di gabinetto, l’unico vero problem solving man di Palazzo Vecchio. “Sù, Maestro, faccia il bravo... si calmi...” “Io, calmo? Ma sta scherzando? Qui noi stiamo rivoluzionando il Maggio! Dobbiamo portare tutti a teatro. Ecco quei due sposini: venite qui che vi do un programma di sala. Lasciate stare la prima notte di nozze: vi divertite di più all’opera...” “Maestro, non credo che si divertiranno di più. Sù, si calmi... niente, non c’è verso... Fulatun, d’un fulatun! Qui ci vuole un diversivo... Vediamo, chi è il più baleng e badalüc della Giunta... Beh c’è solo l’imbarazzo della scelta... Vediamo... ecco ho trovato: Pronto Fratini? Senti, Dario mi ha incaricato di affidarti un alto e complesso compito culturale, che solo tu puoi svolgere... Sì, ti dico subito di cosa si tratta. Vieni in piazza Duomo e ti spiego...” click “Bon, or lo sistemo io quel bërlichin” E così la situazione è stata brillantemente risolta: i due sono stati trovati ad attaccare locandine a più non posso alla Biblioteca delle Oblate, come testimonia il tweet dell’assessore: “...è l’inizio della collaborazione stretta fra la biblioteca più grande della città e il Teatro del Maggio. Stiamo pensando ad un fuoco di fila di iniziative. Là dove c’è cultura, c’è musica. Alè!”
Musica
Maestro di Alessandro Michelucci Le collaborazioni fra musicisti africani ed europei sono frequenti e toccano ogni genere. Un buon numero di questi matrimoni musicali vede coinvolti artisti africani con caratteristiche ricorrenti: virtuosi di kora (cordofono affine all’arpa) provenienti da vari stati dell’Africa occidentale, in prevalenza Guinea, Mali e Senegal. Damon Albarn ha inciso Mali Music (2002) insieme a Toumani Diabaté; Ludovico Einaudi e Ballaké Sissoko hanno realizzato Diario Mali (2003); Sira (2008) è il disco nato dalla collaborazione fra il trombettista tedesco Volker Goetze e Ablaye Cissoko. In questo folto gruppo eurafricano si inseriscono anche Catrin Finch, prestigiosa arpista gallese, e Sackou Keita. Ma a differenza dei musicisti citati in precedenza, i due collaborano in modo regolare, pur non facendo coppia fissa. Il primo CD che hanno realizzato insieme è Clychau Dibon (2013), premiato dall’autorevole rivista Songlines come migliore disco dell’anno. A questo lavoro è seguito il recente Soar (2018). Protagonisti assoluti sono i due strumenti, l’arpa e la kora. Si tratta di strumenti antichi, ciascuno dei quali ha svolto un ruolo importante nei rispettivi contesti musicali. Ma il vero protagonista è il falco pescatore, che si libra (soar) nel cielo seguendo un percorso che inizia nell’Africa occidentale e termina sugli estuari del Galles. Il titolo del brano iniziale, “Clarach”, allude infatti al fiume che sfocia nella baia di Cardigan, situata nel Galles occidentale. Il falco pescatore, scomparso per circa 400 anni, è tornato nella regione britannica al’inizio di questo secolo. Il suo percorso è una chiara metafora del legame che unisce i due musicisti. “Teranga bah”, delicato e coinvolgente, significa “grande ospitalità”, secondo due lingue dell’Africa occidentale (teranga è un termine wolof, bah è mande). “Yama ba” ha un sapore vagamente medievale, mentre “Hinna djulo” possiede una bellezza struggente.
Corde antiche
Foto di Elizabeth Jaxon
“Bach to Baïsso” inizia con un estratto delle celebri Variazioni Goldberg per poi sciogliersi in un antico canto di griot, i cantastorie solitamente associati alla kora. Un disco sincero, pieno di passione e di vita, dove due tradizioni musicali lontane si com-
Il senso della vita
penetrano e si fondono, confermando che la seconda arte ignora le distanze dalle quali nascono tanti contrasti. Un invito a considerare la diversità una ricchezza e non un motivo di scontro, come purtroppo accade sempre più spesso.
disegno di Massimo Cavezzali
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Alinari sì, Alinari no, Alinari dove
di Danilo Cecchi La notizia che sta circolando in questi giorni, seminando un certo sgomento nel pigro mondo fotografico fiorentino, è l’abbandono da parte della Fratelli Alinari della sede storica, situata in quel tratto iniziale della Via Nazionale, ribattezzato trent’anni fa Largo Alinari, proprio per la presenza della prestigiosa istituzione privata, fotografica ed editoriale. Lo spostamento sarà definitivo a partire dal prossimo 30 giugno, e la causa del trasloco è l’avvenuta vendita del palazzo che ospita dal 1863 l’azienda e gli archivi Alinari, da quando Leopoldo, con i fratelli Romualdo e Giuseppe, vi trasferisce il laboratorio e l’archivio, ospitato da poco più di dieci anni presso una casa di via Cornina (oggi via del Trebbio). Entro giugno l’intero archivio conservato nel palazzo sarà trasferito altrove, in un luogo che per adesso non è stato reso noto, ma che, si dice, sarà molto più adatto per la conservazione del materiale fotografico e bibliografico, costituito da lastre e pellicole, album e stampe, libri e pubblicazioni diverse, in un ambiente asettico, con il controllo costante di temperatura ed umidità. Di cosa parliamo esattamente? La storia della ditta dei Fratelli Alinari è talmente nota che forse non è neppure il caso di ricordarla. Leopoldo, all’epoca impiegato presso il calcografo Bardi, inizia la propria attività come fotografo a vent’anni, nel 1852, e già nel 1854 chiama i fratelli a collaborare con lui in un’impresa che richiede un alto grado di organizzazione. Il lavoro procede in diverse direzioni, dal ritratto in studio al paesaggio, dalle scene urbane ai monumenti architettonici, fino alle opere d’arte, sculture e pitture. Da Firenze i fotografi vengono inviati nelle altre città d’arte della Toscana e fuori dalla Toscana, ed hanno accesso ai principali musei. Si comincia a costruire un archivio che diventa sempre più copioso, i clienti sono facoltosi turisti e studiosi dell’arte, ed il numero dei dipendenti continua a crescere. Leopoldo muore nel 1865, ed i fratelli continuano il lavoro fino al 1890, quando muoiono ambedue. Dopo di loro l’azienda viene gestita con nuove iniziative da Vittorio, figlio primogenito di Leopoldo, fino al 1920, anno in cui l’azienda viene ceduta ad un gruppo di azionisti ed imprenditori, diventando la “Fratelli Alinari I.D.E.A. (Istituto Di Edizioni Artistiche). Nell’arco di sessant’anni l’archivio passa dalle 70.000 lastre a 120.000 lastre Alinari, oltre a 100.000 stampe moderne tratte da tali lastre, e ad altre 80.000 lastre provenienti da altre collezioni acquisite nel tempo. La nuova
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proprietà inizia nel 1983 una politica di riqualificazione dell’azienda, con nuove iniziative editoriali ed una campagna di acquisizioni che porta il volume dell’archivio a cinque milioni di negativi, fra lastre e pellicole di autori dell’Ottocento e del Novecento, oltre a 6.000 album, mille fotocamere fra Ottocento e Novecento, ed altro materiale fotografico, mettendo insieme una biblioteca di oltre 20.000 volumi di argomento fotografico, fra trattati, monografie ed altro. Nel 1985 viene inaugurato il primo Museo della Fotografia con sede nel palazzo Rucellai in via della Vigna Nuova, in cui si tengono ciclicamente mostre di fotografia. Il museo viene trasferito nel 2006 e fino al 2014 nel convento delle Leopoldine come MNAF (Museo Nazionale Alinari di Fotografia), gestito dalla
“Fratelli Alinari - Fondazione per la storia della fotografia”. Con l’adozione delle nuove tecnologie vengono digitalizzate 350.000 immagini e contemporaneamente vengono avviati dei corsi per la catalogazione ed il restauro delle fotografie. L’abbandono della sede di Largo Alinari, ed il trasferimento dell’archivio in una nuova sede, non dovrebbero, si dice, compromettere le future attività della I.D.E.A e della Fondazione. Anche la Soprintendenza Archivistica per la Toscana ha dichiarato il patrimonio Alinari un “unicum” di interesse storico e culturale di livello nazionale ed internazionale, impedendone, almeno teoricamente, lo smembramento, ma rimangono il dubbio, la sensazione e la sottile angoscia che Firenze stia comunque perdendo qualcosa di insostituibile.
di Michele Morrocchi Arrivando al Salone del libro di Torino la prima cosa che noti entrando nel padiglione 3 è lo stand arabeggiante degli Emirati Arabi Uniti. Dopo le polemiche di due settimane sulla libertà di informazione, la libertà in genere, il fascismo e la democrazia, come direbbe un vecchio comunista, capisci che la fase è e rimane complessa. Poco più in là lo stand della Repubblica Popolare cinese con in bella mostra le copie in tutte le lingue del mondo del bestseller del leader Xi Jinping, “Governare la Cina” (edito per inciso in Italia da Giunti), conferma la sensazione di disagio. Si dirà che il tema era il fascismo ritornante, l’egemonia della nuova destra nel nostro Paese, non la democrazia nel mondo. Sarà ma rimango perplesso. Altaforte non c’è più al salone, espulso dagli organizzatori dopo la pressione mediatica e la denuncia di Sindaca di Torino e Presidente della Regione per apologia di fascismo. Denuncia che qualche avvocato definirebbe temeraria per quella che è la giurisprudenza prevalente sulle cosiddette leggi Scelba e Mancino, non solo negli ultimi anni ma da sempre. Il tema però era politico anche se, come al solito, in Italia la politica per nascondere la sua debolezza ricorre all’aiuto della giustizia. Ma il tema politico, sollevato per primo da Cristian Raimo – consulente del salone stesso – e poi amplificato dai Wu Ming c’era tutto e poco senso hanno le critiche che negli anni scorsi editori neofascisti erano già stati al salone del libro. Negli scorsi anni gli editori neofascisti non pubblicavano il libro del ministro degli interni, il tema della conquista dell’egemonia gli scorsi anni non era posto, oggi sì. Si può discutere dell’efficacia del boicottaggio, su chi colpisce, a chi fa male – a me che ho comprato i biglietti mesi prima in base al programma o all’editore neo fascista – ma non sulla legittimità che hanno alcuni lavoratori – seppur intellettuali – a non svolgere il loro lavoro per protesta. Ma, mi perdoneranno gli scrittori boicottanti, dubito che il loro gesto avrebbe ottenuto il risultato atteso senza che una sopravvissuta ai campi di sterminio, la presidente del museo di Auschwitz avesse posto il suo sovrappiù di forza morale dicendo o lei – venuta a celebrare il centenario di Primo Levi – o i fascisti. Ma una volta impacchettato lo stand di Altaforte, ristabilito l’equilibrio antifascista del salone, i problemi son finiti? Certo che no, nessuno lo pensa. Perché prima del salone Einaudi pubblicava il rossobruno Fusaro e non nella collana delle supercazzole, ma tra i piccoli saggi che vedono tra i colleghi del “filosofo” i Mon-
La fase complessa dell’editoria italiana
tanari, i Settis e i Ginsborg e dopo il salone il solito Furfaro esce con Utet con il suo nuovo libro. È poi notizia degli ultimissimi giorni che Di Battista – che di fascistissimo ha sicuramente il babbo – curerà addirittura la saggistica per Fazi, editore che sul finire degli anni novanta andava piuttosto di moda tra la sinistra engagé e che pubblicava l’esordiente Simona Baldanzi con Figlia di una vestaglia blu che oggi, infatti ripubblica con Alegre. Nel frattempo, come ricorda la copertina di questo numero di Cultura Commestibile, il governo giallo verde sta per chiudere Radio Radicale, la cui vita è legata a un tenue emendamento leghista mentre si scrive, e ci si chiede cosa faccia al riguardo la #brigatavoltaire costituita da Pierluigi Battista per difendere la libertà di espressione di Altaforte. Probabilmente è troppo intenta a riciclare i libri comprati su Amazon dal giornalista e gettati nel cestino senza leggerli. Almeno D’Annunzio volava su Vienna per gettare i volantini. Lo dicevamo all’inizio, osservando le donne velate e mascherate intessere un tappeto allo stand degli Emirati Arabi Uniti che la fase era complessa e quindi occorrerebbe non limitarsi alla manichea indignazione di un momento, alla protesta della settimana. Leggere, di solito (visto che di libri in larga parte si parla) è normalmente un buon antidoto. Per esempio, leggere anche solo l’incipit del
libro intervista di Chiara Giannini a Salvini aiuta molto. Bastano poche righe, ancor prima del trauma infantile del pupazetto di Zorro sottratto all’asilo al bimbo Matteo, per capire che cambiano i tempi ma non le argomentazioni. In quel Salvini uomo più desiderato dello Stivale dalle italiche femmine, risuona il rapporto, invero molto propagandistico, della virilità maschia di Mussolini che possedeva il Paese come le donne che a lui, vogliose, si concedevano. Che lo scriva una donna che è stata più volte in Afganistan a seguito dei militari italiani, può fare specie ma che la signora avesse qualche problema col senso del ridicolo lo dimostra la sua dichiarazione, a seguito del non poter essere al Salone al banchino del suo editore, di sentirsi come una sopravvissuta dei lager, seppur piccolissima come dice lei. Ecco forse è proprio il senso del ridicolo l’arma da impugnare perché chi fa ridere spesso ha già l’egemonia delle masse. Non credo sia un caso che, come nota Angela Nagle, l’Alt Right americana sia cresciuta coi meme sarcastici sui social network e non coi saggi dei grandi autori. Un modello che anche da noi la lega salviniana ha saccheggiato a man bassa. Da qui discende che “le migliori frasi di Osho” siano più efficaci dei Wu Ming? Probabilmente no, ma data la complessità della fase di cui sopra, appigliarsi alla speranza che una risata li seppellirà rimane comunque consolatorio.
11 18 MAGGIO 2019
di M.Cristina François
Santa Felicita la Madonna con la valigia
Parigi, Washington, Cracovia… sempre in viaggio. Eppure la Madre di Gesù fu donna umile, silenziosa, di condizione modesta e alla sequela soltanto di Suo Figlio. La Madonna col Bambino nella Sagrestia di S.Felicita - terracotta policroma non invetriata - fu attribuita nel 1980 a Luca della Robbia da Giancarlo Gentilini. L’ipotesi attributiva fu subito condivisa da Antonio Natali che la ricondusse agli anni 1430-1440. Ad oggi questa scultura è documentata solo in alcune carte da me reperite nell’ASPSF. Altro non è dato conoscere eccetto quanto ora dirò. Non proviene, come si è creduto e ancora si crede, dal Tabernacolo a fianco della Chiesa sotto l’arcone del Corridoio Vasariano da dove fu tolta nel 1982 per essere restaurata. La scultura proveniva dal Monastero delle Monache Vallombrosane di S.Felicita. Fu Suor Maddalena Ricasoli, Badessa fra il 1565 e il 1571, che passò questa terracotta al Priore Santi Fratini per la Scuola dei Chierici Cantori consacrati alla Beata Vergine: apprendiamo dal Ms.719d Sagrestia di Santa Felicita. Madonna col Bambino che la Madonna “lasciò Sua nicchia (attrib. Luca della Robbia, 1430-1440) – Foto Giusti 2014 stelata del monastero per la Scola de Cherici” (Ms.324). La Scuola era nell’antica Canonica, ora n.4 in Piazza S.Felicita. Nel 1625, il Priore Santi Assettati farà costruire davanti alla “Schola” un portico dove la Madonna sarà allogata in una nicchia. Sarà tra il 1814 e il 1815, durante i lavori nel soppresso Monastero, che la terracotta verrà messa in un’altra nicchia (Ms.324) posta sotto l’arco del Vasariano a fianco della Chiesa. Questo secondo spostamento fu determinato dal fatto che là dove era la Madonna venne fatta per i Chierici “la pilia per orinare” (ib.). Da questo momento la Vergine e il Bambino non appartengono più alla Scuola, ma passano alla Compagnia del SS.mo Sacramento di S.Felicita che si occuperà del lumino votivo sempre acceso, della pulizia del vetro, della spolveratura: “S’ha da tenere in conto d’ora innanzi che la Madonna della Robbia di
12 18 MAGGIO 2019
Prima parte
sotto l’arco al Tabernacolo è passata dalla Schola alla Compagnia e da questa si custodisce” e in occasione di questo cambiamento si legge che fu “ristuccato a colla e gesso il perizzoma del Bambino. Stelle di stagno bono” (ib.). Il Tabernacolo sotto il Vasariano fu dunque fatto nel 1814, seguendo però stilemi settecenteschi. È per questo che è stato creduto più antico. La Vergine esposta in un luogo pubblico (tra Piazza S. Felicita e la Piazzetta de’ Rossi) raccolse ben presto ex-voto per grazie ricevute. Lo apprendiamo da un documento del 1882 che così recita: fu “accomodato il Tabernacolo della Madonna. Piazza de Rossi. Messo delle Liste: smontato la Madonna riposto tutti i voti” (Ms.338). L’esposizione esterna della scultura portò a piccoli restauri fin dal 1830 quando risulta pagato certo Andrea Zellini per aver “raccomodato e ritoccato la Madonna [del] Tabernacolo sotto l’Arco” (ib.). Nel 1880, durante la movimentazione degli ex-voto, la testa della Madonna si ruppe e la scultura fu grossolanamente riparata facendo fissare posteriormente tre graffe di ferro dal magnano Giorgi Raffaello (Ms.388). Nel 1882 il riquadratore Davide Pucci dipinse “color pietra con fondo color calcina al prospetto del Tabernacolo, con fondo celeste scuro nell’interno del tabernacolo e ripreso dei colori a pietra al pilastro di cantonata” (ib.). In basso, in angolo, sotto il Tabernacolo fu inserito uno “scartoccio in ferro” (Ms.389) per evitare che i passanti vi facessero “brutture”. La scultura lasciò la sede di questo Tabernacolo nel 1982 per iniziativa del Sovrintendente Umberto Baldini che la fece restaurare nel Laboratorio dell’O.P.D. da U.Tucciarelli che, fra l’altro, liberò quest’opera dal perizoma posticcio aggiunto al Bambino in epoca sconosciuta. (continua)
di Aroldo Marinai Avevo lasciato Mauro Covacich (Trieste, 1965) maratoneta (“A perdifiato”,2003) e lo ritroviamo oggi impegnato tra palestre piscine e piste ciclabili, ma un po’ meno determinato perché gli è stata riscontrata una piccola anomalia cardiaca, che tuttavia non lo frena più di tanto e gli offre il destro di raccontarci della sua complicata vita di relazione con la compagna, il lavoro e il mondo circostante. Dunque una sorta di diario fatto di molteplici episodi anche slegati che ritraggono il protagonista ora nel rapporto curioso con una ragazza indipendente, ora con un invadente personaggio misterioso e antipatico che potrebbe essere un alter ego, ora in urto con le amministrazioni locali, eccetera. I nomi citati sono i nomi veri, dice Covacich, a rimarcare la forma diaristica, che sincero e crudele ci (e si) racconta il problema di vivere oggi in una grande città (i topi, i rom, le potature radicali) ma anche molto in giro rincorrendo il lavoro dove c’è (interviste, presentazioni di libri).
I pensieri di
Capino
Non è facile cercare di capire che cosa passa (sempre che qualcosa passi) dalla testa di colui che, seppur stipendiato per abitarvi all’interno (essendone, fra l’altro, il Ministro) se ne sta sempre all’esterno del Palazzo del Viminale. Certamente, però, c’è da scommettere che il suo mantra “Prima gli Italiani” tolleri molte deroghe. Le principali riguardano l’ordine con cui lui addita i responsabili dei più diversi misfatti. Questi non possono che esser stati commessi da stranieri (meglio se extracomunitari). Comunque vadano le Elezioni per il Parlamento Europeo di domenica prossima, gli accadimenti sembrano favorirlo: se davvero la Brexit, in una qualche forma, dovesse concretizzarsi e (conseguentemente) lui potesse annoverare fra gli extracomunitari anche tutti i sudditi di Sua Maestà, si amplierebbe e non di poco la platea di coloro su cui potrebbe scaricare tutte le colpe (cambiamenti climatici, declinazione degli equinozi e buco nell’ozono compresi). Resta il fatto che, stando a quello che dice o
Scrittura in diretta
Dice bene Emanuele Trevi recensendolo per “La lettura”: se qualcuno, aperto il libro a metà lo leggesse fino all’ultima pagi-
na, per poi attaccare con la parte iniziale, potrebbe goderselo più o meno come chi, più canonicamente, lo iniziasse dalla prima pagina. Come al cinema di una volta che si entrava quando capitava per poi restare, in un percorso circolare, fino a riconoscere la prima scena vista. “Di chi è questo cuore” è scritto dinamicamente, con la correttezza e l’arguzia che ci aspettiamo dalla bravura dell’autore. È un buon libro, con chance di Premio Strega, (e con una copertina che non ci azzecca, come diceva quello). Mauro Covacich – Di chi è questo cuore – La Nave di Teseo, 2019
L’elettricista polacco fa paura ai sovranisti che, ammiccando, cerca di far intendere, lui ha molti amici anche fra coloro che vivono al di fuori della Comunità Europea. Tanto per fare alcuni nomi (nel rispetto della par condicio), si possono citare Donald Trump e Vladimir Putin, ma ci si potrebbe spingere anche oltre. In ogni caso, tutto si sarebbe potuto prevedere -dobbiamo ammetterlotranne che nel suolo italiano, a meno di due settimane dalle Elezioni, un extracomunitario commettesse un reato talmente eclatante da far sì che i maggiori quotidiani nazionali vi dedicassero, l’indomani, i titoli di apertura (qualcuno, anche a tutta pagina), e che il Ministro dell’Interno, silenziosamente, decidesse di non mandare nessuna Forza dell’Ordine a sanzionarlo in flagranza. Eppure, si sta parlando dello stesso Ministro per la tutela della cui tranquillità, qualcuno ha fatto intervenire i Vigili del Fuoco (con tanto di scala aerea) per far rimuovere uno striscione a lui ostile che era stato affisso, fra due finestre, sulla facciata di una casa a Brembate di Sotto. Ed è anche lo stesso “reggitore di Ministero” (!) che considera, ed apprezza, come atto dovuto quello che gli uomini della sua scorta, al primo
riecheggiare di qualche pur educata contestazione al suo indirizzo, si precipitino ad identificare il “reo”, che tale contestazione sembra aver promosso. Ma, stavolta, è andata diversamente: è stato addirittura un Dignitario di uno Stato extracomunitario ad infrangere platealmente le norme. E’ una persona davvero importante, che fa parte di un ristretto numero di uomini cui è demandato l’elettorato attivo per designare, ad ogni morte di Papa, il Capo di quello Stato estero di cui è cittadino (seppur con doppio Passaporto) e con cui l’Italia ha normali rapporti diplomatici da oltre 90 anni. Non vogliamo essere accusati di reticenza; sappiamo chi è e riteniamo giusto che questa Rivista si assuma la responsabilità di pubblicarne il nome: Konrad Krajewski. Di lui si dice che abbia dato prova di sapere come si fa a togliere sigilli ad un contatore elettrico. Insomma, c’è di che aver paura. Riuscirà il nostro (nostro malgrado) Ministro dell’Interno a ricomprenderlo nel primo contingente dei 600.000 immigrati da rimandare al suo paese? O, a quel paese (meglio se sospinto dalla perturbazione che potrebbe esserci domenica prossima) ci andrà lui?
13 18 MAGGIO 2019
di Susanna Cressati Viviamo in un mondo globalizzato, ma lo conosciamo pochissimo. Chiediamoci quanto sappiamo delle decine di guerra e conflitti che lo insanguinano, delle condizioni socioeconomiche in cui versano i paesi lontani da noi solo per chilometri ma non per altre reti, della complessità di fenomeni, come quello delle migrazioni, che ci riguardano da vicino ma che spesso osserviamo con occhio più che miope. Eppure, saperne di più servirebbe. Essere cittadini consapevoli significa, ad esempio, anche sapere da dove viene il coltan usato nei telefonini o come funzionano, almeno a grandi linee, le filiere del cibo o dell’abbigliamento. Ma di questo mondo se ne parla poco, soprattutto in quella televisione e in quei telegiornali che costituiscono ancora la prima fonte di informazione per gli italiani. Ce lo conferma il secondo rapporto sul tema “esteri” nei tg italiani “Illuminare le periferie”, presentato di recente al MAXXI di Roma. Un lavoro, a cura di COSPE onlus, Osservatorio di Pavia, FNSI, Usigrai e Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo, che ha esaminato le edizioni del prime time delle 7 reti generaliste, Tg1, Tg2, Tg3 per le reti Rai, Tg4, Tg5 e Studio Aperto per le reti Mediaset e il TgLa7 per La7, analizzando oltre 14.000 notizie nel corso del quinquennio 2012 al 2018 e i contenuti dei programmi di approfondimento. Risultato: povertà, conflitti endemici, epidemie, conflitti, terrorismo, relazioni internazionali e politica estera faticano a farsi largo nel calderone informativo. Queste notizie sono e rimangono “periferiche”, se ne mandano in onda poche e quelle poche, magari, in seconda o terza serata, ben fuori dai picchi di ascolto. Ecco qualche dettaglio. Nel 2018 la pagina complessiva degli esteri, con il 19% di attenzione, torna ai valori del triennio 20122014: 9721 notizie in un anno, con un calo di visibilità quasi del 30% rispetto al 2016 (e una media di 3,8 notizie a notiziario). I racconti di guerre e conflitti, nel corso del 2018, appaiono ridotti: il 4% di attenzione, il dato più basso in 7 anni di monitoraggio (2012- 2018). Povertà, conflitti endemici, epidemie, restano in questo stesso lasso di tempo il fanalino di coda con l’1% di visibilità. Anche i paesi come la Libia e la Siria, teatro ancora oggi di conflitti, di scontri e di vittime, entrano nell’agenda degli esteri in modo marginale. Ormai del tutto “dimenticati” dall’attenzione dell’informazione
14 18 MAGGIO 2019
Che c’importa del mondo
di prima serata vi sono paesi come l’Iraq e l’Afghanistan. Uno dei dati che salta agli occhi è la riduzione di circa un terzo della visibilità che riguarda l’Africa: è infatti il continente che, nel corso del 2018, registra il dato più basso di visibilità degli ultimi 7 anni: 440 notizie contro le 1.152 di due anni fa. Anche là dove si registrano aumenti significativi, come accade con il fenomeno migratorio, che raggiunge quota 10%, si nota che il focus delle notizie si concentra sulle questioni dei porti, del Mediterraneo e della gestione delle frontiere, indagando – ancora troppo poco o in spazi e orari da “confino” – proprio sulle situazioni di conflitto e sulle condizioni socio economiche dei paesi di origine. Stessa cosa per il tema “Europa”
che dal 2015 a oggi accresce la propria centralità nell’agenda degli esteri passando dal 36% del 2014, al 51% nel 2018. Un valore aumentato però in ragione della copertura degli attentati terroristici avvenuti in differenti paesi europei e dell’immigrazione. Eppure, dicono i curatori del rapporto, l’interesse in fondo da parte dei telespettatori ci sarebbe. Lo dimostrano i buoni risultati raggiunti dal TG3, con le finestre di approfondimento come TG3 Mondo, i reportage andati in onda nel corso delle edizioni del telegiornale delle 19 a dicembre sui conflitti dimenticati, gli approfondimenti sui paesi europei al voto di maggio. E’ che va coltivata, dicono gli stessi promotori dello studio, con coraggio e anche cercando forme nuove per arrivare alle persone.
di Joël F. Vaucher-de-la-Croix Sono uscito dal Teatro Argot di Roma invaso da una struggente angoscia. Gianluca Merolli come attore convince e conquista, come regista emoziona e lascia senza fiato. L’allucinata follia di un anziano morente nella tragedia di Antonio Tarantino, Stranieri, proietta con visionaria crudeltà ognuno di fronte agli attimi postremi della vita, dove la condizione patologica ormai irreversibile, il delirio dell’agonia, giustifica solo in parte le ossessioni meschine, la malignità piccolo-borghese, i conati di una mediocrità invidiosa, e rivela quella solitudine, fatta ormai dimensione esistenziale, che dilania il corpo e l’anima tra la paura di morire soli come cani e la falsa sicurezza che solo l’isolamento tra le proprie cose sa donare. Dimensione esistenziale, carcere in una stanza di carta stagnola, dove anche la coscienza non è più un interlocutore, ma solo muta presenza: non è più grillo del focolare, ma pesce rosso nel suo acquario di vetro, premonizione (che sarà anche scenica) del destino. Quel destino che, come sappiamo, prima o poi bussa alla porta. La concretezza di questo suono, rumore bianco amplificato da una delle scelte convincenti di una regia perfetta che conquista per efficacia e poesia, scoperchia la natura di un uomo (interpretato da Francesco Biscione) che, senza più freni inibitori, manifesta il suo odio profondo per gli “stranieri”, non solo geografici (extracomunitari, immigrati, clandestini), scadendo nei più tristemente attuali razzismi quotidiani. Il vecchio vomita rabbia contro quelle presenze estere ed esterne che minacciano il suo nido, costruito e difeso in una vita improntata all’accumulo di ricchezze e vestiti firmati contenuti in un armadio-caveaux, ottenuti con una successione di sopraffazioni, violenze fisiche e psicologiche contro gli altri. E gli altri sono anche i suoi cari: una moglie e un figlio, che non ci sono più. La donna (Paola Sambo), forse uccisa dallo stesso marito; il figlio, desaparecido, anche lui vittima di un padre/carnefice. Busano alla porta. Sono tornati per accompagnarlo nell’ultimo viaggio: presenze che si illuminano subito della luce della pietà, del perdono e della salvezza. La razionalità impone di collocarli tra i fantasmi di un inconscio esausto, di una mente malata, venuti a chiedere conto del fallimento affettivo, delle violenze famigliari, del muto naufragio di ogni rapporto con l’altro, anche il più vicino, anche il più caro. I loro ricordi, le visioni di momenti di vita si alternano, proseguono simmetrici verso una direzione comune tra i monologhi dell’uomo e il dialogo emotivo tra madre e figlio. Il figlio appunto, Gianluca Merolli, bellissimo
Gianluca Merolli e gli Stranieri
anche per la sua tenera insicurezza e stralunata riflessività, commuove in un crescendo di dolcezza che tocca il culmine nel canto di Strangers in the night, dove le sue straordinarie capacità canore contribuiscono a caratterizzare il momento topico di tutto il dramma. Un dramma fatto di una scrittura ricercata e pungente che il regista interpreta nella sua profonda essenza, dove le parole si fanno immagini, oggetti, scene. È in queste scelte che la regia dimostra la sua indipendenza, la sua lettura, la sua interpretazione e l’abilità di renderla materia, visione, emozione. La dimensione claustrofobica della solitudine e dell’isolamento esistenziale
dell’uomo chiuso in una stanza di carta stagnola dorata. Una stanza che si farà acquario come la boccia del pesce rosso ai piedi della poltrona, un cubo di vetro che si riempirà della pioggia che cade incessantemente su di lui e sulla madre e sul figlio che attendono alla porta: acqua archetipica che lava le colpe, o forse elemento di passaggio in cui tutto si conclude. In questa acqua, caduto l’ultimo fragile diaframma, si riuniranno per sempre: nell’ultima follia il vecchio indosserà i vestiti della moglie in una sovrapposizione di identità che compie quell’unione con gli altri, mai voluta e sempre fuggita, ma che è il destino di tutti.
15 18 MAGGIO 2019
di Luciano Falchini Al mattino lasciamo il nostro albergo, dove torneremo alla sera, per percorrere l’ultima tappa. Il cielo è grigio e minaccia pioggia, seguendo il tracciato passiamo accanto alle mura del castello di Carlisle che domina la cittadina. La prima parte del cammino si svolge lungo le anse del fiume Eden. Sappiamo già che oggi non troveremo resti particolari del Vallo di Adriano: la zona è urbanizzata, il percorso è interamente pianeggiante e le vecchie vestigia sono sepolte sotto strade e campi. Quello che ci spinge oggi è la volontà di giungere alla fine del nostro cammino nella piccola frazione di Bowness-on-Solway (che, per la gran parte delle persone che scelgono di percorrere a piedi il Vallo di Adriano costituisce invece il punto di partenza; come ho già detto noi abbiamo deciso di percorrerlo in senso inverso, da destra a sinistra) e di arrivare a vedere il mare d’Irlanda, in modo da completare il nostro percorso “cost to cost”. Dopo il primo tratto lungo il fiume, il sentiero segue piccole strade asfaltate che attraversano pascoli e campi e che toccano piccoli borghi; oggi non ci sono problemi per trovare pub dove fermarci per un caffè o per il pranzo. Nel paesino di Burgh-by-Sands una statua di Edoardo I in abbigliamento guerresco e con la spada sguainata sembra osservarci indignato mentre passiamo, quasi che stessimo violando il suo territorio. Il sentiero prosegue per un lungo tratto sopra la massicciata di una ex ferrovia che collegava Carlisle con il suo piccolo porto posto nell’estuario del fiume Eden, del quale rimangono oggi solo alcuni ruderi del molo in mattoni rossi. Dal rilevato ferroviario cominciamo a scorgere l’ampia foce del fiume che confluisce nel fiordo di Solway, un’oasi per numerosi uccelli. Ci allontaniamo dalla riva con un ampio giro fra i campi che evita una strada trafficata. Mentre stiamo facendo questo tratto comincia a piovere forte, non ci sono ripari e dobbiamo usare le nostre giacche impermeabili continuando a camminare. Per fortuna la pioggia dura poco e presto il sentiero sbuca in riva al fiordo, all’altezza del vecchio porto. C’è bassa marea, le barche se ne stanno adagiate sul fondale in attesa che la marea le faccia di nuovo galleggiare, dall’altra parte del fiordo si intravede la Scozia, il confine passa nel mezzo. Ormai sono pochi i chilometri che ci mancano alla fine del nostro cammino, un pittoresco cartello di legno con la scritta “Hardian’s Wall” segna le 83 miglia che ci separano da Wallsend e l’ultimo miglio che dobbiamo ancora coprire per arrivare a Bowness-on-Solway. Siamo
16 18 MAGGIO 2019
Camminando lungo l’Hadrian’s wall/6 quasi arrivati, percorriamo l’ultimo tratto con grande euforia fino all’ingresso del paesino. Ci godiamo una meritata birra nel pub che fa da riferimento per i camminatori e qui ritiriamo l’attestato che documenta la nostra “impresa”. La sosta dura poco, mezz’ora dopo passa il bus che ci riporterà a Carlisle ed al nostro albergo, alla fermata troviamo un giovane tedesco che, come noi, ha concluso oggi il percorso e, anche lui, attende il bus per rientrare. Abbiamo finito e siamo contenti di essere riusciti a compiete il percorso, anche oggi sono stati 25,6 i km percorsi e, in tutto, comprese le piccole deviazioni, abbiamo camminato per 163,5 km senza accusare particolari problemi. Percorrere a piedi il Vallo di Adriano è stata una esperienza ben superiore alle nostre aspettative, le vestigia che abbiamo incontrato e la
bellezza dei territori attraversati ci hanno ampiamente ripagati dello sforzo fatto: ci sentiamo di consigliare questa esperienza tra storia e natura.. La mattina successiva abbiamo il treno che, in due ore, ci riporterà di nuovo a Newcastle dove passeremo qualche giorno in relax. E’ sabato e il nostro treno viene letteralmente preso d’assalto da gruppi di donne che si recano a Newcastle per festeggiare l’addio al celibato di alcune di loro; ogni gruppo è contrassegnato da una fascia , portata sulla spalla da ciascuna di loro , che reca il nome della festeggiata. Naturalmente la festa comincia già sul treno (nemmeno la musica negli auricolari ci salva dalla confusione !). Le ritroveremo alla sera, in città, mentre si spostano in gruppo da un pub all’altro.
di Paolo Marini Il più grande, il più esteso vocabolario della lingua italiana mai portato a compimento, è da pochi giorni consultabile gratuitamente on line, grazie alla sua digitalizzazione. UTET Grandi Opere ha rinunciato a qualsiasi genere di compenso e si è messa al servizio di un progetto importante. Si accede all’opera tramite il sito web dell’Accademia della Crusca, all’interno della sezione “Scaffali digitali” (http://www.accademiadellacrusca.it/it/scaffali-digitali) che è un autentico giacimento di tesori. Si tratta del Grande Dizionario della Lingua Italiana fondato dal filologo Salvatore Battaglia, un ‘monumento’ realizzato in 40 anni di lavoro sistematico e capillare; dal 1961 al 2002 vi si è profusa una squadra di studiosi e ricercatori che ha impegnato mediamente oltre 30 fra redattori e collaboratori esterni, dapprima sotto la direzione di Battaglia e poi di Bàrberi Squarotti. Il “Battaglia” consta di 21 volumi di grande formato, per complessive 22.700 pagine, e documenta i lemmi con milioni di citazioni tratte da ben 14.000 opere. Più che un dizionario, è una summa della cultura italiana che si rende fruibile come un dizionario. Vado a cercare il vocabolo ‘poesia’, per partire dal difficile: essa è anzitutto quella “parte della letteratura caratterizzata da una forma chiusa, legata da una regola metrica (in contrapposizione alla prosa, che ha forma aperta senza norme ritmiche necessitanti) e sorretta dall’uso di una serie di moduli retorici miranti a rendere più nobile e più alto il linguaggio del testo, distinguendolo nettamente, anche su questo piano, da quello della prosa e della parola comune, onde giungere a uno stile particolarmente elevato che abbia i caratteri della suggestività musicale, della forza evocativa, della creatività fantastica, dell’intensità patetica, della ricchezza del pensiero, ecc. - Anche: l’arte, la tecnica, la pratica, il metodo, il pensiero che sta alla base di tale parte della letteratura; l’insieme dei contenuti che ne sono oggetto e argomento”. La definizione – precisa, meticolosa e mirata ad una rappresentazione esaustiva, priva di lacune - è seguita da una immersione nella letteratura che parte da Dante e si chiude con Pascoli e Carducci, essendo proposte ben 14 ulteriori declinazioni semantiche del vocabolo. E’ curiosa, tra quelle, l’accezione di ‘poesia’ come “discorso lungo, fastidioso; solfa”, al cui proposito è citato Pratolini (“Sono come sono, abbozzala coi rimproveri. O riattacchi
Battaglia on line
la poesia?”). Il Grande Dizionario non è adatto alle consultazioni veloci, alle verifiche che esigono risposte immediate; men che meno a lettori distratti o svogliati. Piuttosto, si addice ad accurate ricognizioni, a studi e a ricerche appassionate, a vere e proprie passeggiate nella foresta - sterminata come un’Amazzonia - della lingua italiana. E’, soprattutto, un dizionario letterario; invano vi cercheremmo, almeno per il momento, ad esempio la parola ‘computer’ (pur essendo entrata ormai nell’uso corrente).
Così l’Accademia della Crusca, da un lato si riporta alle proprie tradizioni lessicografiche, dall’altro guarda avanti: la versione elettronica del “Battaglia” sarà utilizzata per allestire il VoDIM (Vocabolario Dinamico dell’italiano moderno), uno strumento di nuova concezione, anch’esso in rete, in cui saranno riunite le varie risorse lessicografiche già disponibili presso la Crusca; esse saranno arricchite grazie ad un grande data base che include archivi moderni di lessico pratico, scientifico, politico, giuridico.
17 18 MAGGIO 2019
Bizzaria degli oggetti
a cura di Cristina Pucci
Memento mori
Piccolo è piccolo, pochi cm, prezioso pure, è realizzato in avorio, vecchio di sicuro, inizio ‘800, il suo senso lo trascende e si libra in spazi davvero ampi... Teschietto “memento mori”, da rosario. Subito “memento” ci introduce in un’aura scolastica, ci porta all’improbo ed irrinunciabile compito di mandare a memoria paradigmi e coniugazioni dei verbi latini, regolari ed irregolari ed imparare anche tutte le loro eccezioni e particolarità. Qui siamo di fronte ad un imperativo futuro, seconda persona singolare, di un verbo difettivo, meminisse, ricordare. Difetta del presente, ha solo il perfetto, nostro attuale passato, che si chiama perfetto logico, il suo significato è da intedersi come un presente che affonda le radici nel passato. Bellezze, complicazioni e precisioni delle lingue “morte”! “Ricordati che devi morire”. Chi non pensa subito al grande Troisi nel film “Non ci resta che piangere”? Trovatosi per disgrazia nel Quattrocento, si affaccia ad una finestra e al frate che continua a ripetergli questo monito “mo’ me lo segno...” risponde. Ho girovagato abbastanza intorno a questo breve e pressante invito ad essere sempre presenti a se stessi e al senso effimero della vita. Deriva, forse, da una usanza dell’Antica Roma: quando un Generale rientrava in Urbe da vittoriose campagne militari e faceva il giro d’onore per raccogliere tributi ed ovazioni, c’era un uomo che lo seguiva e gli ripeteva “Respice post te. Hominem te memento” (Guarda dietro di te. Ricorda che sei uomo). Si intendeva così proteggerlo dal pericolosissimo peccato di “Hybris” (superbia, tracotanza), sempre punito con severità estrema dagli Dei. Esemplifico narrando il Mito di Aracne, brava tessitrice che sfidò Atena e che vide la Dea, adirata, distruggere la bellissima tela preparata e si trovò trasformata in ragno, condannata cioè a tessere eternamente tele che tutti possono rompere. Il cattolicesimo, molti, molti secoli fa, ha iniziato a ritenere importante proporre ossessivamente il pensiero della morte. I monaci Trappisti si ripetevano iterativamente il memento mori, forse anche mentre, un pò per giorno, si scavavano la fossa. Scopo di questi promemoria era quello di svalutare piaceri e vacua vanità della vita terrena ed invitare a viverla in grazia di Dio e in preparazione di quella eterna. Ecco quindi un proliferare di teschi nelle rappresentazioni arti-
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dalla collezione di Rossano
stiche, nella pittura e nella scultura, soprattutto quella funebre, nella Musica, nella poesia e nella Letteratura. Iniziarono a comparire oltre ai teschi, vere e proprie compiaciute esibizioni del declino del corpo e della sua trasformazione in polvere, si raffiguravano tombe aperte che mostrano il loro, ormai povero, contenuto spesso con sovrastante scritta “Transi” (passai). Cripte e piani interi di chiese e conventi furono dedicati alla raccolta espositiva di scheletri stratificati nei secoli dei secoli. Ricordo la terrifica “Cripta dei Cappuccini” di Palermo, gallerie oscure invase da scheletri, a volte ricoperti da brandelli di abiti, polvere ovunque e, aleggiante, secco odore di morte. In un anfratto
una bambina, piccola, elegante, ancora intatta nella sua bara. Orribile Visu, utile? Chissà, di questi tempi di crudeltà e violenza forse sì. Un teschietto da Rosario in avorio, metà scheletro, metà volto, del ‘500, è conservato al MOMA.
Supermercato veneziano di Valentino Moradei Gabbrielli La spesa con “Stile” Non è facile rinunciare a qualcosa, ancor meno facile, rinunciare a qualcosa di bello, magari carico di memoria. E un teatro, di memoria ne può avere molta. Sto parlando del Cinema Teatro Italia, un “vecchio” stabile collocato sul “Campiello de l’Anconeta”, la via pedonale più percorsa della città. Che unisce la stazione ferroviaria di Venezia Santa Lucia alla piazza San Marco. Un edificio in Stile Liberty, che con il trascorrere del tempo, ha esaurito la sua funzione di teatro prima e di cinema poi. Per vivere un periodo di abbandono e, scoprire recentemente, un futuro brillante come supermercato alimentare. Acquistato dalla Despar, è stato ristrutturato a mio avviso con notevole attenzione e buon gusto. Riciclato e restituito al servizio dei cittadini, conforta la quotidiana azione della spesa offrendo un’atmosfera esteticamente preziosa, forse elegiaca. “Il piacere di fare la spesa”, uno slogan che ben si addice a questo luogo, che conserva perfettamente tutte le decorazioni originarie che lo caratterizzavano e continuano a caratterizzarlo. Dal pavimento alle pareti al soffitto. Dalla facciata esterna alla hall d’ingresso che espone piante e fiori in vendita (quasi fosse ancora teatro), al palcoscenico trionfo di gastronomia. Un’architettura molto decorata e decorativa, che trovo appropriata alla leggerezza e al distacco con il quale rispondiamo o dovremmo rispondere ai nostri bisogni primari, che rimangono comunque parte integrante della nostra giornata e pertanto importanti. Il recupero del Cinema Teatro Italia, è un bell’esempio di riutilizzo di un frammento di memoria della città, senza sovraccaricarlo di responsabilità eccessive come accade frequentemente nel nostro paese, dove ogni “memoria architettonica”, dal distributore di benzina alla stazione ferroviaria passando attraverso l’antico ospedale, il magazzino, la prigione e il vecchio asilo, devono trasformarsi in luoghi di grande cultura come musei, centri culturali polivalenti, sedi di fondazioni e quant’altro di “eletto” possa esistere. Le foto sono di Marco Ghilardi
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Per Gonfienti e il patrimonio archeologico di Prato Dopo il dibattito del 5 maggio scorso, le associazioni “Teatro La Baracca” e “Ilva-Isola d’Elba” intervengono congiuntamente con il presente comunicato sull’annoso e fin qui irrisolto caso della città degli Etruschi di Gonfienti, sito già dichiarato eccellenza archeologica di primissimo piano della Regione Toscana, che tuttavia ormai da anni vive, in una condizione di totale emarginazione, una perdurante situazione di stallo. La crescita culturale di ogni comunità trova la principale ragion d’essere nella capacità di conservare e valorizzare il proprio patrimonio materiale, fisicamente presente nei territori d’appartenenza, declinato nelle quattro “A” dei beni Ambientali, Architettonici, Artistici e Archeologici, che di questo costituiscono l’imprescindibile ossatura, l’eredità stessa del passato alla quale guardare oggi per costruire il futuro. In particolare i beni Archeologici svolgono una funzione catalizzatrice per muovere la curiosità delle nuove generazioni, accompagnata dalla ricerca sulle origini e sulle prime testimonianze tangibili dell’insediamento umano nei territori, nelle forme e nelle scelte che hanno plasmato il paesaggio antropico nel quale abitiamo. Ogni nuova acquisizione archeologica dilata l’orizzonte dei nostri saperi e consolida nei popoli una propria coscienza territoriale, gettando un ponte tra le diverse culture per la salvaguardia del bene comune. La perdita di questi valori genera di contro un immediato impoverimento della società; il non saper curare o custodire queste ricchezze, il a cura di Aldo Frangioni La galleria Il Ponte conclude la stagione espositiva – prima della pausa estiva – con una personale dedicata alla pittura di Carlo Battaglia presentando quindici grandi opere dal 1969 al 1979., fino al 19 luglio Il suo lavoro di questo decennio rappresenta comunque un vertice assoluto nell’ambito della “Nuova Pittura”, marcando quello che è l’elemento distintivo degli artisti italiani, che in quegli anni si ritrovano in quest’ambito. Infatti pur sviluppando ognuno una propria linea, è evidente come il loro lavoro tragga origine dalla grande tradizione pittorica italiana. «Per tutta la sua vita artistica, Carlo Battaglia si è battuto per evitare di essere considerato un artista d’avanguardia. Ma non è sempre stato creduto, tanto che per quasi tutti gli anni settanta si
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non divulgare e rendere adeguatamente fruibili tali beni equivale a rinunciare alla conoscenza e con essa allo sviluppo consapevole della collettività. Per tale ragione, ignorare l’esistenza di ciò che è riemerso dal passato, semmai lanciando un messaggio di disinteresse e di negatività rispetto ai valori della storia, o facendo cadere nel nulla ogni significativa realtà archeologica, pur fortuitamente scoperta, significa assumersi grandi responsabilità nei confronti dei cittadini di oggi e di domani. Per questi motivi, l’azione delle associazioni “Teatro La Baracca” e “Ilva- Isola d’Elba”, seppur oggi di denuncia e di stigmatizzazione per quanto di nefasto sta caratterizzando l’attuale contingenza, pensando alla mancata realizzazione del parco archeologico, del percorso espositivo, auspicando altresì una pronta ripresa degli scavi della città degli etruschi di Gonfienti, intende promuovere in una visione olistica lo studio e la scienza del territorio, segnatamente dei beni archeologici e dei paesaggi culturali. In particolare questa azione si rivolge a chiun-
que abbia a cuore questi valori, a tutti i soggetti pubblici e privati che condividono la potenzialità di un messaggio aperto a tutto il mondo della cultura e delle istituzioni senza steccati ideologici e divisioni di sorta. La vicenda dell’area archeologica di Gonfienti è emblematica di quanto potrebbe farsi e ancora non è stato fatto, laddove la giusta attenzione che si sollecita diventa ancor più necessaria per l’assoluta indifferenza che la politica locale mostra, in questi giorni di campagna elettorale, nei confronti di questi beni patrimoniali. Non se ne fa menzione nei programmi dei partiti o movimenti, nessuno escluso. La pochezza del livello culturale è disarmante e pericolosa. Lo scopo precipuo è dunque quello di contribuire in questo momento storico, caratterizzato dalle grandi problematiche dell’integrazione sociale, a restituire dignità di cittadinanza e piena visibilità, così come dovute, a questi specialissimi beni patrimoniali, facendoli diventare ambasciatori nel mondo del grande spessore culturale, paesaggistico e storico artistico che ci proviene dal passato, in ultima analisi per riscoprire la bellezza dei luoghi affinché questa non vada per sempre perduta o resti estranea al territorio in veloce trasformazione. Tutti gli articoli pubblicati su Cultura Commestibile su Gonfienti e la sua storia travagliata sono stati raccolti in un libro “Alla scoperta della città degli etruschi di Gonfienti, matrice insediativa della piana fiorentina”, nella collana “Gli approfondimenti di Cultura Commestibile”.
Carlo Battaglia alla Galleria Il Ponte
è trovato a rappresentare quella tendenza che oggi si identifica con la “Pittura analitica”, e che allora si chiamava anche “Nuova Pittura” o “Pittura pittura” […]. Ma sicuramente la sua presenza deve apparire eterodossa rispetto ai dettami teorici di quella analiticità, e anzi deve essere vista come una possibilità “altra”[…]» «La sua rappresentazione non è imitazione:
quest’ultimo termine è negativo, il primo costituisce invece la grande tradizione della pittura […]. In pittura, rappresentare un mondo… significa creare un mondo con gli strumenti a disposizione della pittura, non imitarlo: è quella che egli ha definito “immagine parallela”, vale a dire un equivalente della sensazione, ottenuto attraverso gli strumenti linguistici e disciplinari che ciascuno di noi si è scelto per vivere, prima ancora che per comunicare[…]. Tutta la sua pittura è sempre e solo rivolta a creare il mondo in cui si sentiva immerso». (Le due citazioni sono tratte dal testo di Marco Meneguzzo in Carlo Battaglia. Catalogo ragionato, a cura di Marco Menguzzo e Simone Pallotta, Silvana Editoriale, Milano 2014.)
di Susanna Cressati Ogni anno milioni di visitatori di 100 paesi diversi percorrono la Galleria degli Uffizi e si soffermano davanti ai suoi capolavori. Ognuna di queste persone osserva le tele con il proprio sguardo, la propria cultura e sensibilità. Le guide turistiche e i libri d’arte si limitano per lo più a descrizioni standard o approfondimenti storici e stilistici che si pretende debbano valere per tutti. Le Gallerie fiorentine quest’anno hanno fatto un sforzo nuovo e diverso, realizzando un progetto che ha lo scopo non solo di valorizzare ancora di più la bellezza di alcune opere ma di mettere in luce la molteplicità delle storie umane che vi sono densamente raccolte. Il progetto, “Fabbriche di storie” si deve all’Area Mediazione Culturale e Accessibilità del museo ed è stato presentato nei giorni scorsi dal direttore Eike Schmidt e da tutti i funzionari e le persone coinvolte. Il risultato di oltre un anno di lavoro consiste in un audio-percorso ‘emotivo’ attraverso dodici opere che sono oggetto di altrettante narrazioni curate da quattro operatori della Galleria e da nove cittadini residenti in Italia ma provenienti da altri paesi, che hanno intrecciato alla storia di queste opere racconti ispirati alle loro esperienze di vita e a temi universali, la famiglia, l’amicizia, la preghiera, il viaggio. L’audio-percorso comprende l’Adorazione dei Magi di Gentile da Fabriano, la Tebaide di Beato Angelico, la Sant’Anna Metterza di Masaccio e Masolino, l’Annunciazione, l’Annunciazione di Cestello, Primavera, e Pallade e il Centauro di Sandro Botticelli, l’Allegoria Sacra di Giovanni Bellini, la Testa di uomo anziano di Camillo Boccaccino, l’Adorazione dei Magi di Domenico Ghirlandaio, la Liberazione di Andromeda di Piero di Cosimo, la Sacra Famiglia di Luca Signorelli. Gli autori della narrazione sono Zeinab Kabil, Mohammad Aletaha, Silvia Barlacchi, Diana Kong, Fabiana Bianchini, Kuassi Sessou, Sofia Kossiwa Sessou, Samira Lahhane, Maria Spanò, Lina Callupe, Viviana Fanizza, Magdy Hassan e Eliana Caputo. Alcuni noti attori e attrici del teatro italiano hanno donato la loro voce per la registrazione dei testi, curata dal Teatro dell’Argine: Marco Baliani, Micaela Casalboni, Lella Costa, Laura Curino, Lucilla Giagnoni, Giulia Lazzarini, Marco Martinelli e Emma Montanari, Maria Paiato, Marco Paolini, Ottavia Piccolo, Paola Roscioli, Arianna Scommegna. Qualche esempio: il viaggio povero, faticoso e incerto dei migranti di oggi viene accostato
Altri occhi, altre vite, altre storie agli Uffizi a quello sfavillante di ori e di ricchezze dei Magi di Gentile da Fabriano. Il digiuno dei monaci nella Tebaide del Beato Angelico a quello del Ramadan. La maternità moderna con la Sant’Anna Metterza di Masaccio e Masolino. Il paesaggio sullo sfondo dell’Annunciazione di Botticelli con quello della provincia cinese di Guizhou. Le Grazie della Primavera di Botticelli con la danza rituale in un villaggio africano. Una narratrice vede nonno e padre nel vecchio della Testa di uomo anziano di Camillo Boccaccino e nel San Giuseppe dell’Adorazione dei Magi di Ghirlandaio. Il dramma della nascita di un figlio disabile viene rivissuto osservando la Sacra Famiglia di Luca Signorelli.
Non sono narrazioni solo esplicative ma intrecciate strettamente alle vite di coloro che le hanno composte, con uno sguardo, è stato detto nel corso della presentazione, buono, non frettoloso e privo di timore, in un progetto che non ha solo un valore di inclusione ma anche di vera e propria innovazione culturale. I file audio, in italiano e nellalingua madre di alcuni dei narratori (arabo, farsi, mandarino, francese e spagnolo) possono essere ascoltati da casa su www.uffizi.it/visite-speciali/fabbrichedistorie o durante la visita al museo con un qualsiasi dispositivo mobile (smartphone o tablet) tramite le principali app di podcast, munendosi di auricolari.
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Il paese dell’impunità e non solo di Mariangela Arnavas Davvero interessante l’ultimo numero monografico di Micromega, dal titolo, Il paese dell’impunità, forse un po’ infelice perché sembra lisciare il pelo alla dilagante voglia di carcere (“tanto anche se li arrestano poi li rimettono tutti fuori, non c’è certezza della pena etc.”), ma ben chiarito dal sottotitolo che ne circoscrive correttamente l’area semantica; contiene infatti attraverso i numerosi interventi sia prezioso materiale informativo che analisi rigorose e attuali sugli sviluppi più recenti dei vari livelli interconnessi con la criminalità e i suoi nemici e alleati. E’ da rilevare che nelle vicende narrate dal testo ricorrono ben due condanne dello Stato Italiano da parte della Corte Europea per i Diritti Umani, una per le vicende della Diaz e di Bolzaneto, l’altra per i sovraffollamento delle carceri . Questo numero della rivista è estremamente ricco per cui mi limiterò a citare alcuni articoli che ho trovato particolarmente significativi senza nulla togliere al valore dell’insieme. Rilevanti da un punto di vista informativo, documentale e concettuale sono per esempio l’intervento di Cecchino Antonini intitolato Impunità in divisa e quello di Marco Lillo Impunità moneta di scambio tra stato e mafia: Il primo parte dalla sentenza della CEDU e precisamente dall’affermazione “La Corte si rammarica che la polizia italiana si sia potuta rifiutare impunemente di fornire alle autorità competenti la collaborazione necessaria all’identificazione degli agenti che potevano essere coinvolti negli atti di tortura”, ripercorre i fatti della Diaz e di Bolzaneto, di quanto è accaduto a Torino con i No Tav e del caso Giuliani, per concludere con un paragrafo intitolato Impunità di sistema dove ricorda il cambiamento avvenuto sotto il governo D’Alema per cui per diventare poliziotti o carabinieri bisogna prima fare una ferma nell’esercito, con il risultato di creare un amalgama di funzioni militare e di polizia che vede l’esercito che occuparsi di ordine pubblico e la guerra che diventa un’operazione di polizia internazionale fino al fallimento della versione finale della legge sulla tortura nel luglio 2017 dove questa si configura come reato comune e non come reato proprio del pubblico ufficiale, quindi, come reato del potere non viene riconosciuta. Il secondo articolo, di Marco Lillo, ripercorre le tappe della vera e propria guerra tra Stato, o
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meglio tra una parte dello Stato e i capi mafia, sull’impunita’ per i reati commessi dagli affiliati e comincia ricordando, tra l’altro, le sentenze del giudice di Cassazione Corrado Carnevale, che puntualmente azzeravano le condanne in primo e secondo grado dei mafiosi, proseguendo con la stagione di Falcone e Borsellino, dove finalmente si arriva alle condanne dei quadri mafiosi e anche dei boss e la successiva strategia stragista di Totò Riina; nel frattempo si muove una trattativa , vera o presunta, con lo Stato che nel 1993 concede la sostituzione del capo del DAP inviso ai boss e la mancata riconferma dei decreti di isolamento al 41 bis per 334 mafiosi, la trattativa darà fiato all’azione stragista che non si ferma quindi neanche con l’arresto di Riina; l’ultimo paragrafo riguarda Matteo Messina Denaro e la metamorfosi della mafia: dice Lillo: “Oggi la mafia opera nel capitalismo globale e finanziario… Quel che interessa ai boss è la possibilità di accumulare patrimoni senza essere disturbati dalle confische per poi lasciare senza rischio ai propri figli il frutto dei delitti”. In questi interventi, come in altri contenuti nella rivista come per esempio quello di Giovanni Tizian su Roma laboratorio criminale, breve excursus lucidissimo sugli intrecci passati e recenti tra estrema destra e criminalità romana , si trova una brillante sintesi del percorso storico degli ultimi 20 anni relativo a queste vicende , utile anche per chi ha seguito nel tempo ma non ha in mano contemporaneamente tutte le chiavi di lettura, insieme a fecondi spunti di riflessione sugli sviluppi più recenti. Altri due articoli meritano una citazione a parte e sono quello di Simona Argentieri su Tempeste emotive e diritto e quello di Adriano Sofri Malati di carcere. Argentieri delinea la preoccupante tendenza riscontrata in diverse sentenze relative a violenze sessuali e femminicidi a riportare al centro del discorso giudiziario gli stati emotivi degli imputati, richiamati in campo dalle perizie psichiatriche per attenuare in qualche modo la responsabilità; succede quindi che ad un uomo che ha ucciso per strangolamento una donna con cui stava da meno di un mese, vengano riconosciute in secondo grado delle attenuanti per quella che viene descritta come una soverchiante tempesta emotiva e passionale, derivata da una gelosia determinata dalle sue poco felici esperienze di vita e che, in un’altra sentenza poi annullata dalla Cassazione si sottolinei l’aspet-
to mascolino della vittima di uno stupro per mettere in discussione la credibilità della sua accusa, come se potesse solo essere la bellezza della donna e non la violenza e la frustrazione del maschio la causa scatenante dello stupro. Argentieri mette in guardia dall’equivoco di contrapporre emozione e ragione nelle sentenze come se gli errori - o i delitti - fossero la conseguenza del prevalere degli affetti sull’intelletto, quando in realtà ciò che si muove dentro di noi è sempre un intreccio delle due componenti, che non può essere inteso, salvo in casi di gravi patologie come una deminutio del libero arbitrio e non si meraviglia del fatto che tra i giudici che hanno emesso queste sentenze diverse siano donne perché ritiene che è precipuamente per via femminile che si trasmettono e si conservano i pregiudizi di genere, per che sotterranee e acritiche. Sofri ricorda, con giusto allarme, il ricorrere sempre più frequente, nei discorsi di alcuni politici e nei social delle espressioni Deve marcire in galera e Fino all’ultimo giorno, ricordando che quel luogo è quello che su questa terra più si avvicina all’inferno e stigmatizza come sulla galera e sulla giustizia, il contratto di questo governo sia cristallinamente chiaro: Più carcere il che, vista la condanna della CEDU sul sovraffollamento delle carceri italiane, secondo l’attuale ministro della giustizia vuol dire lasciare in degrado le attuali e costruirne nuove. Sofri conclude con alcuni dati significativi: che negli ultimi anni gli stranieri detenuti sono diminuiti in termini assoluti di circa 2000 unità… nonostante gli stranieri residenti siano due milioni in più rispetto a dieci anni addietro e che i reati in Italia tra l’agosto 2017 e l’agosto 2018 sono diminuiti nel complesso del 9,5 per cento mentre il numero dei detenuti ha di nuovo superato, dopo anni, la soglia dei 60.000. Molto da imparare e molto su cui riflettere, compresa la descrizione del declino e dello spaesamento critico dell’antimafia che, come descritto nell’intervento di Danilo Chirico L’antimafia a un bivio, rischia dopo il successo del 1995 un’involuzione che la porta a divenire piu simbolica e rituale che sostanziale. Buona lettura.
di Matteo Cateni Rocco Papaleo è Cervo Nero, grande capo indiano Sioux, un pellerossa a tutti gli effetti, altro non fosse per il fatto che vive sui tetti di una Taranto dominata dal grande mostro delle acciaierie Ilva che da decenni ammorba l’aria che respirano i suoi cittadini, rilasciando sopra ogni cosa un sottile strato di polvere rossa, così tanto da far sembrare chi, come il padre del nostro co-protagonista, lavorava negli stabilimenti delle suddette acciaierie, agli occhi del figlio, appunto un vero e proprio indiano-americano. Sergio Rubini, che firma anche la regia di questo film, è invece Tonino alias Barboncino, maldestro rapinatore in fuga che dopo aver sottratto tutto il malloppo ad altri due complici cerca una via di fuga sui tetti e finisce per nascondersi in quello che risulta essere il covo del nostro capo Sioux. Tonino rimane bloccato lì, del resto il palazzo è sotto assedio, tutti lo stanno cercando e con le peggiori intenzioni. Nel tentativo di nascondere il borsone e fuggire dai suoi inseguitori si frattura una gamba, Cervo Nero però lo salva e dopo averlo nascosto se ne prende cura. Tra i due nasce un’amicizia che ha più il sa-
Segnali Bizzaria di fumo degli oggetti
di Remo Fattorini È primavera. Ma il clima, non solo quello meteo, non è dei migliori. La confusione è grande: da una parte i sovranisti intransigenti, dall’altra gli europeisti a prescindere. Nessuno che proponga di stare Europa a testa alta, correggendo ciò che non va. E di cose da cambiare a Bruxelles ce ne sono, eccome. L’Europa con la promessa di prosperità aveva suscitato grandi speranze. Ma il divario fra i Paesi è esploso e molte aspettative sono state deluse. Vincoli e regole hanno prevalso producendo effetti diversi tra i Paesi, finendo per alimentare invidie e rancori. L’esempio più clamoroso è quello della Grecia, dove il rigore a senso unico ha provocato un enorme disastro sociale. Anche in Italia l’effetto dei vincoli esterni si è fatto sentire: si sono pro-
Indiani tarantini
pore di un’alleanza, nonostante una iniziale riluttanza da parte di Tonino che vede l’altro semplicemente come uno squilibrato mentale che pensa e si comporta come un indiano pellerossa, ma forse proprio perché vede le cose da un’altra prospettiva, potrà fornirgli la chiave per uscire dal vicolo cieco in cui è finito. La commedia segue un buon ritmo, i due personaggi sono bene definiti in ogni loro sfaccettatura e in particolare il parallelismo tra chi vive nelle zone più popolari e periferiche delle nostre città, e che ogni giorno lotta contro i soprusi le ingiustizie e le iniquità della vita di tutti i giorni con i popoli pellerossa che ancora oggi seppur relegati nelle riserve si battono contro il governo Trump che vuole estrometterli persino dalle ultime terre a loro rimaste, risulta vincente e appassionata. Tribù che vivevano in armonia con la natura rispettandola e onorandola secondo le più antiche tradizioni, che praticavano lo scambio come forma principale di commercio, come ci ricorda il nostro cervo nero, avevano tantissimo oro sotto le loro terre, ma non lo estraevano perché per loro erano sacre. Come disse Toro Seduto,”quando ogni albero
sarà stato abbattuto, l’ultimo fiume sarà stato inquinato, preso l’ultimo bisonte, l’ultimo pesce sarà stato pescato, solo allora si accorgeranno che il denaro accumulato nelle loro banche non si può mangiare.” Lo sanno bene i tarantini che oggi vivono in una terra avvelenata, inquinata compromessa da politiche avventate, dal capitalismo più sfrenato, che poi chi ce l’ha mai visto un bisonte qui? eh tu uomo del destino l’hai mai visto un bisonte qui?
Sovranisti&Europeisti dotti danni senza riuscire a correggere i vizi, portato così acqua al mulino di sovranisti e populisti. Federico Fubini, nel suo ultimo libro “Per amor proprio” (Longanesi), descrive in modo molto efficace questa deriva. Trent’anni fa, nel 1989, italiani, francesi, tedeschi, olandesi e svedesi avevano un tenore di vita simile. Allora in Europa c’era uno sconfinato ceto medio: diseguaglianze ridotte al minimo e massimo coesione. Solo Grecia, Spagna, Portogallo e Irlanda avevano un reddito inferiore di un terzo. Mentre nei vicini Paesi dell’Est – Ungheria, Polonia, Romania, Estonia – le persone vivevano in condizioni ancora più precarie. Nel 2016, quell’equilibrio virtuoso è completamente saltato. Le novità – globalizzazione, innovazione tecnologica, politiche neoliberiste – hanno fatto esplodere le disuguaglianze, come non si era mai visto prima. Oggi, ad eccezione di Belgio e Olanda, stiamo tutti peggio. Noi italiani siamo scivolati del 15% sotto le media, con un potere d’acquisto crollato. Viviamo con 1.100 dollari in meno al mese. I
Paesi dell’Est ancora peggio: se nell’89 il loro reddito medio era inferiore di 15mila dollari nel 2016 lo scarto è salito a 18mila. Le distanze sono cresciute e il sogno del benessere svanito. Pensate che “La paga mensile di un operaio Audi ungherese – scrive Fubini – è oggi di 236 euro mensili, esattamente il costo lordo di 5 ore e 10 minuti di lavoro di un suo pari grado in Germania”. Con questi squilibri tra i Paesi dell’UE è difficile andare d’accordo. L’impopolarità dell’Europa nasce qui, dalla sua incapacità nel prendere la parte dei perdenti. L’Unione non ha saputo impedire che una globalizzazione senza regole potesse portarci così in basso. Un recente lavoro del Censis, ”Cosa sognano gli italiani”, la dice lunga su cosa fare per uscire da questo incubo: gli italiani chiedono un paese più meritocratico, una maggiore uguaglianza e un’equa distribuzione della ricchezza. Non a caso il 74% si dice favorevole all’imposizione di una tassa sui grandi patrimoni e il 75% all’introduzione di un salario minimo per legge. Come dargli torto. Se qualcuno fosse in ascolto batta un colpo!
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di Roberto Barzanti Le Pantere son tornate! Un combattivo gruppo delle terza ondata di contestazione – come gli autori amano autodefinirsi – a prevalenza studentesca ha dato alle stampe un rosso volumetto che sta a metà tra una raccolta di accorati cahiers de doléances e un infuocato pamphlet. Non ha una firma. Coloro che hanno contribuito a buttar giù i vari paragrafi non hanno esitato a elencare in introduzione i loro nomi. Il titolo è urlato: Ora basta! (Edizioni Clichy, Firenze 2019). Il linguaggio prescelto è schematico e semplice. Vi si evidenziano senza contorcimenti eufemistici le questioni più drammatiche che una generazione deve affrontare in un mondo sempre più incomprensibile e aggressivo. Deliberatamente non viene seguito un ordine gerarchizzante. Non esaltano i blog alla moda. Anzi se la prendono con il diluvio delle fake-news e con chi esalta la disintermediazione antipartitica e antipolitica come toccasana. Nossignori! L’etichetta da usare – sostengono – è piuttosto intermediazione: copre un universo in sé concluso che disdegna dati e verifiche. Non mitizzano neppure la gratuità libera di Internet: «L’informazione non è gratis, non è qualcosa che si scarica disinvoltamente dalla rete». Considerano il tanto reclamizzato reddito di cittadinanza «un mero sussidio di integrazione al reddito», che può avere qualche non malvagio effetto sul breve periodo, ma è destinato a non incidere neppure a medio termine sulle cause della povertà crescente, «materiale e educativa». Ce l’hanno con l’ondata di privatizzazioni scriteriate che hanno civettato coi miti neoliberisti tralasciando elaborazioni di più ampio e incisivo respiro “riformista”. L’aggettivo è mio, ma non stona nel discorso scandito con entusiasmo. Non si disinteressano dei tentativi di varare marchingegni costituzionali o elettorali tesi a dare al Paese un’illusoria governabilità. In tema di sistemi di voto sono proporzionalisti. Imputano all’adozione generalizzata del modello di “banca universale” la rovina di istituti di credito che si erano conquistati una benefica solidità gestendo risparmi e erogando sostegni a ragion veduta. «Oggi le banche – scrivono – cercano sempre maggior profitto al di fuori di quello che è l’alveo tradizionale: le operazioni finanziarie diventano prioritarie rispetto alla normale gestione del credito e del risparmio». Come dar loro torto? Spezzano sul finale una lancia a favore dell’Europa federale: «La Sinistra deve fare
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Pantere Zie
suo il progetto dell’Europa unita sia per i risultati ottenuti fino a oggi sia spingendo per un’integrazione maggiore, per un’Europa federale che non si fermi ai mercati e alla moneta…». Come pretendere una maggior ragionevolezza? La Pantera semmai, un po’invecchiata, stenta come un po’ tutti, a identificare la chiave di volta di un programma credibile e realistico, nazionale e sovranazionale, mobilitante e trascinante. E poi la Sinistra – al singolare – esiste davvero o siamo, tanto per cambiare, in presenza, ad un puzzle che non si fa figura? Comunque son pagine che dànno speranza, e ce n’è un gran bisogno. Sembrerà strano che mi soffermi infine a chiosare, pur non possedendo alcuna preparazione teologica, una famosa massima evangelica. Uno degli estensori, probabilmente cattolico, richiama il passo evangelico sul quale si basa il senso laico di separazione tra professione di fede e ossequio al potere terreno. Citando, ovviamente, il dialogo di Matteo 22, 20-21 (identico anche in Marco e Luca). A chi Gli presentò un denaro e per trarlo in un trabocchetto Gli domandò che fare con la volontà impositiva di Cesare, mostrandogli polemico una moneta, Egli rispose con una domanda: «Questa immagine e l’iscrizione di chi sono?». Gli risposero: «Di Cesare». «Allora disse loro: ‘Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio’». Quasi ad affermare: pagate le tasse dovute, ma tenete conto che il resto – tutto il resto – spetta a Dio, l’avete avuto
in prestito, ed è a Lui che dovete restituirlo, osservando la Sua Legge e gli insegnamenti che mi ha incaricato di predicare. L’ambito del potere di Cesare è assai ristretto. Per il resto, per tutto il resto, il cristiano vivrà in una doppia cittadinanza, laica e religiosa, e starà a lui armonizzare i suoi atti in modo da rispettare le norme monetarie e i principi della convivenza comunitaria, ma opponendosi a intrusioni inaccettabili in campo etico. La risposta non era una soluzione. Indicava la via di un rapporto critico, da reinventare ogni giorno secondo coscienza. Così – mi si perdonerà il brusco innesto – è con le istituzioni di un’Europa diventata nella sua articolazione istituzionale esosamente finanziaria. Si tengano presenti gli accordi sottoscritti, si faccia di tutto per osservarli, ma quanto alle modalità da seguire per raggiungere gli obiettivi fissati e per osservare in coerenza concreti comportamenti si rivendichi un’autonomia non remissiva. Il libro più utile del quale mi sento di consigliare la lettura è il saggio, in forma di lettera, che Jam Zielonka, docente di politiche europee a Oxford, ha scritto a Ralf Dahrendorf, suo indimenticato maestro (Contro-rivoluzione La disfatta dell’Europa liberale, Laterza, Bari-Roma 2018). Si è troppo obbedito – osserva amaramente l’allievo polacco – ai principi liberisti, dimenticando, dopo il 1989, una visione liberale e alta: «Credo fermamente che la nuova versione della società aperta debba tenere in considerazione la pluralità, l’eterogeneità e il meticciato di un’Europa plasmata dalla globalizzazione, ma so che alcuni dei miei amici liberali temono che ciò possa portare al caos, all’arrembaggio, al conflitto». Occorre coraggio! Jacques Delors coniò una formula che è maledettamente difficile da tradurre in pratica: l’Europa politica doveva trasformarsi, a suo giudizio, in una Federazione di Stati nazionali. Rispettare gli indirizzi costruiti insieme, ma non scordando che ogni ambito territoriale – statuale o regionale – ha sue esigenze, sue eredità, sue culture e si dibatte in situazioni differenziate. Riconoscete alla squilibrata Europa quel che è necessario condividere insieme – nel segno della libertà, dell’eguaglianza e della fraternità – affinché il lesionato edificio regga, ma si adottino in concordia misure che rispondano alle domande di civile benessere, materiale e spirituale, delle persone. Senza darsi da fare per soddisfarle i farisei avranno la meglio. E le Pantere diventeranno furiose.
di Niccolò Ceccanti Anche quest’anno il ContempoArtEnsemble sarà presente al Maggio Musicale Fiorentino con un concerto dedicato interamente al Minimalismo. L’evento si terrà al Teatro dell’Opera di Firenze martedì 21 maggio alle ore 20. Suoneranno Duccio Ceccanti e Francesco Peverini al violino solista, Antonino Siringo al pianoforte e l’orchestra d’archi del ContempoArtEnsemble diretta da Vittorio Ceccanti. Perché il minimalismo? Qualunque grande minimalista, dopotutto, è partito dal serialismo del dopoguerra, che a un certo punto prese il posto del neoclassicismo come la cosa più vicina ad una lingua franca della musica del Ventesimo secolo. È significativo che sia un movimento nato in America con compositori americani (Steve Reich, Philip Glass, La Monte Young, Terry Riley) illuminato dalla luce della filosofia di John Cage e di Morton Feldman riguardo la musica come gioco e ripetizione, in aperto contrasto con la scuola europea e con le sperimentazioni più estreme sulla dodecafonia, che poco avevano a che spartire con il tipico ottimismo americano e con le correnti artistiche pop ed espressioniste degli anni Cinquanta e Sessanta (alle quali Cage si era ispirato per formulare le sue teorie). Si sentiva il bisogno di distaccarsi da quel senso opprimente di catastrofe e cupezza scaturito dal Dopoguerra e i suoi orrori, dell’uso massimamente espressivo della dodecafonia. Il Minimalismo incorporò finalmente una nuova tipologia di audience nel concerto classico: i giovani. Storici i concerti di Riley, Glass, Reich (così come gli happening di Cage) simili a quelli di vere e proprie rockstars, dove il pubblico giovanile, interessato e coinvolto da queste nuove sonorità, andava in massa. I loop, ripetizioni di tracce sonore in maniera sistematica; l’utilizzo dei rumori della strada, del traffico, della vita cittadina, dell’industria (famosi Cage e Reich in questo); l’ispirazione a melodie arcaiche ed etniche, quasi ataviche; il senso dell’ipnotismo straniante creato dalla stratificazione continua di brevi refrain; l’inserimento di suoni che si rifanno all’ambiente naturale, ma anche alla musica cosiddetta leggera. In una parola: novità. Ecco che il minimalismo diventa quindi un percorso conoscitivo necessario per la comprensione della società odierna, costruita acusticamente sulla reiterazione ossessiva e straniante degli stessi pattern, accumulantisi l’uno sull’altro caoticamente, senza soluzione di fine. Così, tale genere musicale, dà voce a questo caos, mettendolo in ordine come una formula matematica mette in ordine i diversi elementi di cui è composta, sottraendoli al soqquadro dell’entropia dell’individualità
Minimalismo in musica per costruire un dialogo comprensibile. In tale modo la musica minimale è democratica. Vediamo in breve i brani scelti per il concerto: Duet, di Steve Reich, composto nel 1993 come omaggio al violinista Yehudi Menuhin è basato sul dialogo contrapposto tra due linee di violino che creano un’altalena di celle melodiche a loro volta sorrette dal sottobosco corposo di bordoni e impulsi di quattro violoncelli e quattro viole. Ne esce un colore quasi pastorale e particolarmente evocativo, dove aleggia la reminiscenza del rigoroso contrappunto di Bach. L’iterazione non è insistente né energica ma meditativa ed estatica, scevra da rigori strutturali. Una splendida conversazione; un intenso viaggio circolare di sei minuti costruito intorno ad elementari canoni unisoni rimbalzanti tra i due violini, che di volta in volta variano leggermente la distanza ritmica delle loro voci. Reich riesce ad abbinare con naturalezza innovazione e accessibilità immediata, rimescolando il proprio bagaglio tematico, costruito sulla lezione del suo maestro Berio, sugli accenni al folklore di provenienza, sui rimandi allo studio della musica antica. Segue John Adams con Shaker Loops, Costruito su una diafana tessitura di archi, dapprima nervosa ed elettrica, per poi diventare quasi inquietante e misteriosa, fino ad un’involuzione introspettiva e spirituale che nella conclusione rivisita in chiave mistica l’idea iniziale. Shaker Loops è il primo brano di Adams a essere considerato dallo stesso autore minimalista. Composto dapprima nel 1978 per settetto di archi e riscritto per orchestra d’archi nel 1983, trae ispirazione, già nel titolo, da Reich e il suo concetto di loop (It’s gonna rain per nastro magnetico del 1965 ne è il paradigma), ibridato a una proliferazione di shakes (tremolii, trilli) degli archi, che danno anche un rimando semantico alla setta degli Shakers, comunità cristiano spirituale nata nella Francia del ‘700 ed emigrata nel New England a causa di varie persecuzioni; famosa per il proprio stile di vita puritano e austero, quasi minimale e il fatto che i propri accoliti tremassero nei loro rituali, perché scossi dallo Spirito Santo. Ingegnosa fusione di varie tematiche e stili, questo pezzo intervalla la massa sonora dell’orchestra a momenti più quieti e lirici, dove si inseriscono come fulmini a ciel sereno le scariche elettriche degli shakes, creando un corto circuito di tremoli e trilli rapidi da una nota all’altra, rispecchiando l’andamento dei riti religiosi cui fa riferimento. Una
tempesta che all’inizio scarica tutta la sua furia e poi, progressivamente, si allontana, lasciando sfogare ogni tanto una saetta qua e là, fino alla quiete. Il concerto continua con la Suite from Dracula di Philip Glass, in prima esecuzione italiana, nell’arrangiamento per pianoforte e orchestra d’archi fatto nel 2007 da Michael Riesman; La ritmica densa e complessa, i rimandi a influenze europee e della tradizione classica, il nudo suono del contatto dell’arco con le corde, nel tipico stile arpeggiato di Glass: tutto contribuisce alla perfezione a calare l’ascoltatore nei luoghi e nelle scene del film, immergendolo in un continuo sali scendi di tensione. Con le sue atmosfere evocative, composto per il film del 1931 di Tod Browning, Glass mostra tutto il suo lirismo, creando una colonna sonora, che seppur postuma, s’incastra e fonde perfettamente con la poetica del film, aggiungendo un accompagnamento necessario e profondo Conclude il tutto Psycho, a suite for strings di Bernard Herrmann. Uno dei compositori di colonne sonore più famosi del mondo (ha lavorato con De Palma, Scorsese, Truffaut, Hitchcock, Welles, Dieterle) Herrmann è stato un ecclettico innovatore nel suo campo, introducendo l’uso di strumenti elettronici nelle sue soundtrack già nei primi anni Quaranta. “Orchestrare i film”, questo il suo intento. Herrmann richiedeva libertà assoluta durante il suo lavoro, neppure il regista doveva intromettersi. Secondo lui la musica non doveva essere costretta tra le pareti di una sala da concerto, poiché la musica è creatrice di paesaggi sonori (paesaggi che lui stesso plasmava per le sue colonne sonore, come ad esempio l’utilizzo in Tempeste sotto i mari del ’53 di nove arpe per produrre una sorta di scenario sottomarino). Difatti il suo brano più famoso, conosciuto da tutti, è proprio il suggestivo Psycho, a Suite for strings composto nel 1960 per l’omonimo capolavoro di Alfred Hitchcock (di cui ha anche creato le colonne sonore di Intrigo Internazionale e Vertigo), capostipite del genere degli slasher movies. Visionaria e innovativa nel suo utilizzo dei soli archi, questa suite esplode in maniera compulsiva con gli ostinati dei violini nella famosissima sequenza della doccia, sottolineando impeccabilmente il senso di tensione e terrore che pervade tutta la pellicola, contribuendo a pieno merito l’ingresso di questa pellicola nella storia del cinema.
25 18 MAGGIO 2019
50 anni
d’incontri con persone straordinarie di Carlo Cantini
Spesso mi viene da pensare chi è Mario Ceroli, sicuramente un grande artista, come persona molto emblematica. Ci siamo incontrati alla Galleria De Foscherari mentre stavo fotografando una sua mostra, premetto che a me piace molto il lavoro di Ceroli e quando mi fu presentato dal gallerista esternai il mio compiacimento per la sua arte, da parte di Ceroli non ci fu nessun ringraziamento. Finito il mio impegno lavorativo con la Galleria De Foscherari ero intenzionato a tornare a Firenze e nel momento dei saluti Ceroli mi fece una richiesta, che mi sorprese. Mi chiese se volevo andare a Milano dove avrebbe allestito una mostra allo Studio Marconi, all’inizio rimasi un po’ titubante ma poi decisi di accettare. Furono tre giorni intensi di vita vissuta, fra Galleria, albergo
26 18 MAGGIO 2019
e ristoranti, un ritmo infernale, Ceroli non è solo un grande artista ma anche un regista capace di organizzare le sue mostre. Dopo questo il rapporto è durato per molti anni fino alla sua grande mostra al Forte Belvedere di Firenze, dove fui incaricato di fare le foto per il catalogo. Feci molti viaggi e soggiorni ospite nella sua villa a Roma, in questi casi dovetti adattarmi ad abitudini di vita che non coincideva con il lavoro, si usciva ogni sera per andare a trovare i suoi amici dell’ambiente del cinema e dello spettacolo. Questo ritmo vorticoso non mi aiutò nel lavoro ma grazie alla mia esperienza con altri artisti tutto andò bene. Devo dire che conoscere Mario Ceroli è stata una conoscenza di vita, un grande artista che non ho mai dimenticato.
Numero
18 maggio 2019
376
309 Non spegnete
Con la cultura non si mangia Giulio Tremonti (apocrifo)
per favore