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Con la cultura non si mangia
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N° 1
“Dal punto di vista teologico questi disastri sono una conseguenza del peccato originale, sono il castigo del peccato originale, anche se la parola non piace... Arrivo al dunque, castigo divino. Queste offese alla famiglia e alla dignità del matrimonio, le stesse unioni civili. Chiamiamolo castigo divino”
Macerie di civiltà Silete, theologi, in munere alieno
Alberico Gentili (1552-1608)
editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 Firenze Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012
Da non saltare
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Simone Siliani s.siliani@tin.it di
L
’occasione di questa intervista con Giancarlo Cauteruccio è data dalla messa in scena della performance Idrossss nel Chiostro delle Geometrie a Santa Verdiana a Firenze dal 7 all’11 novembre prossimi. Una performance “immersiva”, è il caso di dirlo, sull’energia dell’acqua nei giorni in cui a Firenze si ricorda il cinquantesimo anniversario della grande alluvione del 1966. Ma il tuo lavoro nasce dalle opere di Leonardo da Vinci, La furiosa natura e Diluvio, che ispirano l’ultima creazione di Teatro Studio Krypton. Ci sono due elementi che di tanto in tanto mi portano verso l’acqua. Il primo è che nel 1985 io ho realizzato il progetto “Intervallo” sull’Arno a Ponte alle Grazie considerando il fiume Arno un intervallo nella città. Infatti se si scende dalle spallette dell’Arno si percepisce la città in una maniera completamente inedita. E questa cosa mi ha sempre affascinato, tanto che ispirandomi al libro di Gillo Dorfless, “L’intervallo perduto” in cui lui faceva un’analisi sull’arte, io feci questo lavoro chiamandolo “Intervallo” rifacendomi anche un po’ alla tradizione delle naumachie che proprio in quelle zona dell’Arno venivano realizzate, tant’è che crollò il ponte di legno che stava dove ora c’è Ponte alle Grazie, con molte persone che morirono perché si erano assiepate sul ponte per assistere allo spettacolo di naumachia. Io ho sempre cercato di lavorare sull’acqua, ad esempio mettendo in scena un’edizione dell’Eneide sulla spiaggia di Roccella Ionica, o il grande progetto sul Lago Sotto a Mantova all’interno del festival nazionale dell’Unità sull’Ambiente nel 1983, dove ebbi la fortuna di avere tra gli spettatori Enrico Berlinguer. Poi, l’acqua negli ultimi anni l’ho rincontrata attraverso Dino Campana: “Sorgenti sorgenti abbiam da ascoltare...”, Ma anche “fiume che fugge tacito pieno di singhiozzi taciuti corre veloce verso Fraternità del mare ...”. Ma avevo nel cassetto da tanti anni questo libretto che avevo comprato e che si trova nei testi letterari di Leonardo, “Descrizione del diluvio”. Lui aveva realizzato dei disegni straordinari sul diluvio che sono legati a questo testo poetico. Allora, lavorando con gli studenti, volevo che avessero una relazione
La forma dell’
acqua
– non tanto con l’alluvione perché non mi piace celebrare – ma con il fiume, con l’acqua, con un’energia che forma. Per questo abbiamo deciso di partire dal Diluvio di Leonardo da Vinci per farne il prologo di questa performance. Ci sarà un
attore, Roberto Visconti che in 10 minuti concentrerà la descrizione del diluvio scritta da Leonardo. Da lì poi il pubblico confluirà nella parte centrale della chiesa dove si immergerà nell’acqua virtuale della scena. Lì ho coinvolto la cantante/
performer Chiara De Paolo perché rappresentasse l’acqua: attraverso un testo che io ho declinato da una serie di letture poetiche, da Rimbaud a Eliott, e che diventa un canto agito, dove l’acqua si interroga e si chiede “ma perché io sono costretta a perdere la mia trasparenza, a perdere la mia vitalità? Io sono portatrice di vita. Perché mi fate diventare fango, melma?”. Alla fine si conclude questo brevissimo viaggio di 20 minuti con una domanda al pubblico: “Fatemi ritornare sorgente”. Forse ci sarà anche il testo di Campana, con il quale chiudevo la messa in scena dei “Canti orfici”. In effetti, dall’alluvione del ‘66 il rapporto della città con l’acqua è cambiato; è diventato un rapporto di paura, di contenimento. Il problema è che l’acqua in natura è libera. Come il terremoto: è la natura. Siamo noi che ci misuriamo in maniera diversa con la natura. Noi costringiamo le acque, ma queste sono incontenibili entro certi limiti. La performance si svolge a S.Verdiana: cosa implica? Il rapporto con l’architettura è per me fondamentale. Volevo far lavorare gli studenti di architettura e volevo farli lavorare su una realtà che appartiene fortemente al paesaggio. Poi l’alluvione è un pretesto: voglio fare ovviamente una dedica alla città che ha subito questo evento disastroso. Io da bambino ho vissuto questa cosa dalle immagini televisive e dalle notizie sui giornali, da lontano. Questa performance conclude il laboratorio sperimentale di teatro/ architettura che ha preso il via a maggio e che si è sviluppato partendo con l’Estate fiorentina e ora fa parte del progetto Toscanaincontemporanea 2016. Questo lavoro coincide con il percorso formativo dei 22 studenti del corso e per questo ho scelto un tema vivo, attuale. Mi sembra significativo questo rinnovato rapporto del teatro con l’architettura, dopo diversi anni che sembrava averlo perso, confinato nei luoghi deputati cioè i teatri (che sono ovviamente anche spazi architettonici). Il libro che abbiamo fatto con Pietro Gaglianò, “Il teatro architettura”, percorrendo tutti i lavori che sono stati fatti da Krypton negli spazi fuori da quelli deputati per il teatro, ha mostrato che in realtà
Da non saltare
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questa particolarità progettuale caratterizzava fortemente Krypton. Io ho sempre tenuto insieme architettura e teatro D’altra parte quando Manfredo Tafuri diceva che il teatro è la città virtuale: uno storico dell’architettura che leggeva il teatro in una maniera assolutamente nuova. Il fatto di lavorare in uno spazio architettonico come la chiesa di S.Verdiana - che ha una sua forza e che è una chiesa sconosciuta a Firenze perché prima è stata la chiesa del convento, poi è diventata la chiesa del carcere femminile e quindi il quartiere e la città non l’hanno mai davvero vista e quindi gli spettatori che sono venuti in questo teatro/laboratorio hanno scoperto un pezzo di città che non conoscevano – mi ha permesso di iniziare un rapporto con questa architettura a maggio con una installazione “Cattedrale di luce” che dallo studio sull’architettura preesistente ci ha portato ad un rapporto con uno spazio in qualche modo trasformabile attraverso la scenotecnica, con una sorta di mapping architettonico compiuta dalla luce. In questo nuovo allestimento Idrosss, l’altare invece scomparirà lasciando il posto ad una struttura che la ricopre come una sorta di grande scultura, che diventa il paesaggio scenico dell’acqua. Il lavoro con gli studenti di architettura porta appunto all’utilizzo di tecnologie come possibilità di trasformazione percettiva in un rapporto diverso con le architetture preesistenti. Con Idrosss il pubblico, superata la parte del prologo leonardiano, si immergerà percettivamente in questa sala venendo a contatto con il personaggio acqua che è questa figura femminile che si muove dentro e attorno a questa struttura che “avvolge” completamente la parte dell’altare. Come tu hai sempre fatto, contamini vari elementi artistici, dal teatro alla luce, all’architettura, alla musica. In questo caso anche con la musica perché ho fatto lavorare con gli studenti un compositore, polistrumentista che però lavora molto con l’elettronica, e che ha una grande esperienza di musica per la scena, cercando di costruire insieme delle suggestioni sonore. Questo sarebbe un modo interessante e corretto di far interagire l’arte con lo spazio, con l’architettura. Di recente nella maratona d’ascolto della cultura a Firenze è venuta
Cauteruccio racconta Idrossss, il suo ultimo lavoro
fuori questa idea, dichiaratamente non originale, di allestire le fermate della tramvia con opere d’arte contemporanea. Qui, a mio avviso, il tema non è di sovrapporre a dei luoghi alcune opere d’arte, ma capire come questi due linguaggi definiscono insieme degli spazi giacché sono tutte componenti di quel corpo vivo che è la città. Infatti, la mia idea di tanto tempo fa, prima che la tramvia fosse costruita, era di spalmare le opere più significative della Galleria degli Uffizi sulla galleria della tramvia. Io credo che la tramvia sia il segno più contemporaneo di Firenze in questo momento, perché sconvolge la tradizione conservativa della città, comunque la trasforma. Per questo mi interessava far dialogare questo elemento elettrico e tecnologico con la tradizione dell’arte, perché di per sé la tramvia è un’opera contemporanea. Volevo aprire quest’opera a quelle degli Uffizi facendo, di tanto in tanto, una sostituzione di queste opere facendo così leggere ai viaggiatori uno dei più grandi musei del mondo lungo il percorso. Forse questa tua Idrosss potrebbe preludere ad un lavoro più profondo sul rapporto fra la città e il suo fiume? Il fiume, a mio parere, andrebbe rilanciato esteticamente; l’acqua avrebbe bisogno di questo rilancio estetico. Ecco qui vedo una possibilità di dialogo dell’arte contemporanea con l’acqua e con
tutto ciò che essa significa oggi. Dunque, non solo le emergenze catastrofiche, ma la sua vitalità, la sua bellezza. L’Arno è il cuore di Firenze e questo darebbe all’impresa un significato ancora più forte. Aprire con un laboratorio di sperimentazione sulla possibilità di far diventare l’Arno un luogo per l’arte potrebbe essere una sfida. Questo tuo lavoro Idrosss è un lavoro del Teatro Studio Krypton, realizzato però.... senza il Teatro Studio. Fa un po’ specie vedere che l’esperienza di punta del teatro contemporaneo, interdisciplinare a Firenze e in Toscana debba procedere in una sorta di processo di omologazione ai linguaggi più tradizionali del teatro: insomma, non se ne sentiva il bisogno perché questa è un’offerta ampiamente disponibile in tanti teatri dell’area metropolitana fiorentina, per il quale peraltro il Teatro Studio di Scandicci non è neppure concepito. A mio avviso è una perdita per tutta l’area. Io mi sento orfano di una realtà a cui dedicato un quarto di secolo, con un legame di forte appartenenza. Però non avrei voluto che quella esperienza si snaturasse così velocemente. La cosa che mi ha intristito è che questa cosa pare che a nessuno interessi più di tanto. La rassegna “Zoom” con la mia direzione artistica rimane nel Teatro e quest’anno si chiamerà “Algoritmi”, con la quale vorrei prendere una posizioni critica sul
fatto che la cultura, la creatività, l’arte non può essere giudicata da un algoritmo. Prima c’erano delle Commissione che valutavano, composte da personalità in grado di valutare: naturalmente non era un sistema scevro da deviazioni ed errori. Ma ho dovuto rinunciare alla gestione complessiva del Teatro Studio: se non avessi avuto il taglio del finanziamento ministeriale, la mia idea era quella di continuare per altri tre anni per poter tentare un trasferimento alle nuove generazioni, che potessero continuare con nuove modalità perché anche il contemporaneo cambia. Ma dopo il taglio del Ministero non ho potuto far altro che chiedere aiuto al Comune di Scandicci, alla Regione, allo stesso Teatro Nazionale perché si mettessero insieme e salvassero questa esperienza che il gestore da solo non poteva sopportare. Il mio era un atto di onestà e responsabilità perché non avrei certamente voluto fare un deficit nella gestione, distruggendo un’esperienza che per 25 anni ha operato in equilibrio. Però quest’aiuto non è arrivato. Soprattutto dal Comune di Scandicci che forse avrebbe potuto seguire l’istinto iniziale che era stato quello di creare non tanto un rapporto fra teatri, quanto fra città, fra quella di Firenze e quella di Scandicci, creando così un ponte vero fra la tradizione della Pergola e la contemporaneità del Teatro Studio. Va detto che questa è l’ennesima occasione mancata in quest’area, perché dobbiamo ricordarci che abbiamo perso il glorioso Rondò di Bacco, la gloriosa Rassegna internazionale dei teatri stabili; cose importantissime. Questa è solo la più recente delle perdite. Poi ci sono i problemi contingenti. A fine novembre io dovrò svuotare un magazzino in cui sono accumulati 25 anni di materiali scenici e che dovrò risolvere da privato. Allora sto lavorando su un progetto che si intitolerà “Missione compiuta”: vorrei portare tutto questo materiale in uno spazio aperto, pubblico, farne una grande installazione e poi, dopo l’inaugurazione, chiedere ai cittadini di portarsi a casa dei pezzi di questa storia del Teatro Studio Krypton, restituendo ai cittadini quello che è stato realizzato anche con i soldi pubblici e che fa parte della memoria della città. Così la missione sarà davvero compiuta.
riunione
di famiglia
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Le Sorelle Marx
Cervello in ipoteca
L’astro nascente del PD pesarese, la deputata Alessia Morani, non deve avere dimestichezza con i classici. È per questo che ha pensato bene di proporre come soluzione per gli anziani che non ce la fanno con il reddito da pensione di ipotecare la propria casa. Una soluzione “finanziariamente corretta” la definirebbe il responsabile economico del Pd Taddei. Ma se avesse letto almeno il Vocabolario delle Lingua Italiana di Giacomo Devoto e Gian Carlo Oli la intraprendente di
deputata avrebbe forse cambiato idea. Ipoteca deriva dal tardo latino “hypotecha” che a sua volta deriva dal greco “hypotheke” che letteralmente rappresenta “l’atto di mettere sotto”. Ora di tutto hanno bisogno i nostri vecchi tranne che di “essere messi sotto”. E se avesse continuato a leggere avrebbe anche visto che sempre il Devoto Oli dà alla parola ipoteca anche un significato figurato. Avere il cervello in ipoteca significa non connettere, dare i numeri, sragionare. Appunto.
I Cugini Engels
Richetti fuori dal frigo
Matteo Richetti ha la faccia a bravo ragazzo. Dice spesso anche cose di buon senso, peraltro. Sarà per questo che nel PD lo tirano fuori quasi solo alle Leopolde ma poi quando c’è da decidere, c’è da fare strategie a lui non lo considerano preferendogli i canini affilati del giglio magico. Sarà che ha il difetto di non venire da Firenze o dintorni. Meno colto di Cuperlo ma molto più intelligente (politicamente) di Civati, si è finora barcamenato in un renzismo critico, da vecchio saggio del movimento (che come insegna appunto Cuperlo dai
tempi della FGCI non serve l’età per essere vecchi saggi); ricorda quei gerarchi che concionavano di un fascismo delle origini, per poi finire sbranati a Salò, soli e abbandonati da tutte le parti in causa. Gli auguriamo naturalmente maggior fortuna anche se il rischio di esser quello bravo per i discorsi, da rimettere in frigo finita la Leopolda lo corre eccome mentre quello di stupirci proprio dal palco dell’ex stazione con una sfida, non solo a parole, non al leader ma al vivacchiare del potere, a tempo di slides, potremmo quasi scommetterci non ci sarà.
alcuni siti di news. Insomma cerco di tenermi aggiornato. Ma non ho mai letto, né ascoltato questa notizia, fino a quando un amico me l’ha segnalata su facebook. Fonte “Altreconomia”. Su Google trovo conferma, ma nelle prime due schermate
non c’è nessuna testata autorevole. Ne parlano solo alcuni siti: disarmo, globalist, valori, vita, peacelink, mosaicodipace, greereport, ilmanifesto, ecc. Ne parla persino tgvallesusa ma non i tg della Rai. Eppure paghiamo il canone e avremmo pure qualche diritto. Viene spontaneo pensare: non se ne parla perché l’Italia all’Onu si è schierata dalla parte delle potenze nucleari. E questo non è molto popolare. Tanto più che l’Italia ha ratificato il Trattato di non proliferazione che ci impegna in favore del disarmo oltre a non ospitare in casa nostra armi nucleari. È troppo chiederne il rispetto? E chiedere di rispedire al mittente gli ordigni nucleari parcheggiati in Italia e rifiutare le nuove bombe B61-12? O siamo solo finti pacifisti e parolai?
Remo Fattorini
Segnali di fumo Tante notizie ma poca informazione. Tutti i giorni tv, radio, quotidiani, siti online e social, ci bombardano con migliaia di news. Tanto che diventa sempre più difficile distinguere quelle importanti e selezionare quelle che ci interessano. Se poi alcune vengono addirittura silenziate e censurate, allora sì che essere informati diventa un’impresa complicata, se non impossibile. È così che l’Italia scende nella classifica della libertà d’informazione. Nel 2015 eravamo al 73° posto su
180 Paesi. Quest’anno abbiamo perso 4 posizioni e siamo scivolati al 77° posto, fanalino di coda in Europa. Peggio di noi solo Cipro, Grecia e Bulgaria. L’ultimo clamoroso caso di “dimenticanza” è quello del voto contrario dell’Italia sul disarmo nucleare. È accaduto all’Onu solo pochi giorni fa, il 27 ottobre. 123 Paesi, con il loro voto a favore, chiedono all’Onu di avviare un negoziato per mettere al bando le armi nucleari, attraverso uno strumento giuridicamente vincolante. Dopo decenni di paralisi è un bel passo avanti sulla via della sicurezza. Ma 38 Paesi votano contro, tra cui il nostro, e 16 si astengono. Qualcuno ne ha sentito parlare? Sono un consumatore medio di notizie. Ascolto i tg, sfoglio i quotidiani, seguo
5 NOVEMBRE 2016 pag. 5 Danilo Cecchi danilo.c@leonet.it di
D
opo più di un secolo di letargo, escono allo scoperto le immagini scattate da un facoltoso fotoamatore, all’alba del Novecento, in uno dei peggiori quartieri della Londra dell’epoca. In realtà la grande forza della fotografia, come quella di ogni altro “segno” lasciato dall’uomo, ma forse in maniera ancora più “immediata” di qualsiasi altro linguaggio (cioè senza bisogno di alcuna mediazione o traduzione), è quella di attualizzare il passato, e del resto “fare cultura” non vuol dire altro che “lasciare dei segni”, quasi sempre a beneficio dei posteri. Vengono così riscoperte, come in un felice ritrovamento archeologico, le immagini scattate da Horace Warner (1871-1939) nei primi anni del Novecento nel quartiere di Spitalfields, definito all’epoca come “sinonimo della più cruda indigenza, teatro della miserie più nera, nascondiglio dei peggiori delinquenti, covo di ladri e prostitute, teatro di feroci omicidi”. Il tema scelto da Horace Warner, personaggio eclettico, progettista di disegni decorativi per l’industria della carta da parati, attivista sociale ispirato alla filosofia egualitaria dei quaccheri, è incentrato sulle condizioni di vita dei bambini e degli adolescenti, trascurati dai genitori, costretti a passare le giornate, e talvolta anche la notte, in strada, inventandosi non solo i giochi da svolgere, ma spesso anche i modi per sopravvivere, essendo destinati per la maggior parte ad un futuro di attività illegali e criminali. Si tratta, come è evidente, dello stesso mondo che è stato ampiamente descritto in numerose opere letterarie, ma poco presente nella produzione fotografica europea dell’epoca, tesa piuttosto a celebrare con toni enfatici e tratti “pittorialisti” la bellezza in quanto tale, incarnata in visioni oniriche, paesaggi incantati, ritratti delicati e pudici nudi femminili, o al limite in scorci molto “pittoreschi” di ambienti miserevoli, talvolta popolati da personaggi altret-
Horace Warner e i ragazzini di Spitalfields tanto miserevoli ed altrettanto “pittoreschi”, ridotti a stereotipi o a figure simboliche. Le immagini di Horace Warner sono invece intrise di verismo, non lasciano spazio né all’aneddoto facile né alla caratterizzazione. Ogni personaggio ha il proprio nome, ed ha dietro di sé una storia che il fotografo conosce bene, per avere frequentato le missioni quacchere presenti nello East End. Una ventina delle sue immagini vengono utilizzate all’epoca in una campagna di raccolta fondi per le opere di assistenza ai più bisognosi del quartiere, ma la maggior parte del suo lavoro rimane chiusa in album privati, forse nella consapevolezza del fatto che le immagini, da sole, talvolta commuovono, ma non muovono niente. Sull’altra sponda dell’Oceano lavorano sullo stresso tema altri fotografi, che al contrario di Horace Warner non rimangono sconosciuti, ma vengono ampiamente citati in tutte le storie della fotografia, soprattutto in quelle scritte dagli americani. Sono fotografi come Jacob Riis e Lewis Hine, che propagandano le loro immagini sugli slum di New York e sul lavoro minorile, con l’intento di smuovere l’opinione pubblica e le istituzioni per cambiare queste squallide realtà. Pochi decenni più tardi, e parecchi chilometri più nell’interno del continente, sono gli altrettanto noti fotografi assoldati dalla FSA, come Dorothea Lange, Walker Evans e Ben Shahn, a riprendere con passione il tema della miseria diffusa al tempo della grande depressione, realizzando immagini utilizzate prevalentemente solo a livello statistico e di documenti d’archivio. Gli album di Horace Warner, con oltre duecento immagini di bambini e ragazzi, di proprietà di un nipote del fotografo, viene fortunatamente recuperato, ed una selezione significativa delle immagini viene pubblicata nel 2014 nel volume “Spitalfields Nippers”, rendendo giustizia ad un autore ingiustamente trascurato, ed in parte anche ai ragazzini di Spitalfields
5 NOVEMBRE 2016 pag. 6
Kiki Franceschi
Laura Monaldi lauramonaldi.lm@gmail.com di
N
on v’è un limite al fare artistico; non vi possono essere confini alla capacità creativa dell’artista contemporaneo, dedito a distruggere le catene inibitorie della fantasia e dell’immaginazione, impegnato in una rivoluzione intellettuale senza tempo, nonché teso a rompere gli schemi categorici e tradizionali, che invadono l’attualità sotto forma di una Cultura storicizzata dagli alti piani di un Sistema ridondante, le cui modalità non lasciano spazio né al progresso né alla sperimentazione. Non si può pensare di essere giunti alla saturazione espressiva dell’Arte, né tantomeno si può credere che l’artista abbia esaurito qualsiasi funzione critica e militante. L’Arte contemporanea, al di là dei vincoli museali ed espositivi, si sta ancora evolvendo, silenziosamente e concretamente, verso la presa di coscienza di un nascente soggettivismo più forte e autorevole di una tradizione fatta di manifesti urlanti e provocanti dichiarazioni. Kiki Franceschi ha attinto dal passato per sviluppare una poetica particolare e personalissima: dall’esperienze lettriste, passando per le sperimentazioni verbo-visuali della Poesia Visiva fino all’Inismo, ha ripensato la parola e il segno grafico, partendo dal significante e dalle simbologie che si nascondono oltre le coltri denotative del linguaggio contemporaneo. Ciò che emerge con forza è il valore connotativo che l’artista ha evidenziato e messo in luce ponendo, agli occhi di un fruitore attento e perspicace, l’importanza dell’interpretazione soggettiva e della riflessione costante sui dettami del moderno. Nelle sue opere si affollano parole, simboli ancestrali e segni citazionali, in una narrazione poetica che sintetizza alla perfezione il senso di una ricerca estetica eclettica e aderente al presente in quanto presente, con le aporie e le contraddizioni che lo contraddistinguono da sempre. Tuttavia Kiki Franceschi non è solo l’artista del collage, dei progetti monumentali, degli intimi libri d’artista e del collage: è la poetessa e la scrittrice del dualismo del significante e
Oltre i collage
As times go by, 1978 Opera n. 1 Tecnica mista e collage su carta In alto Una vita, 2013 Pellicole e acrilici su tessere di plexiglass assemblate Tutte le opere Courtesy Collezione Carlo Palli, Prato
del significato, è colei che ha reinterpretato i maestri e che ha teatralizzato la forza creatrice e propulsiva del monologo interiore, della voce profonda e silenziosa che si cela dietro insospettabili movenze; è l’autrice di un autobiografismo ermetico e aulico, della parola misteriosa e scarna, della domanda retorica e filosofica; è la promotrice di un fare artistico che non può fermarsi ai limiti della tela e del foglio di carta, ma procede ramificando le proprie possibilità in senso interdisciplinare. Non a caso tutta l’opera di Kiki Franceschi deve essere letta come un continuum di opere d’arte e produzioni letterarie, in cui ogni singolo titolo è solo un tassello di un’unica ricerca sul tempo, la rappresentazione e la messa in scena di tutto ciò che è invisibile alla mente umana. Nella prassi di Kiki Franceschi l’Arte non è totale ma è un Tutto indissolubile e interazionale, perché creare è un istinto irrinunciabile che fa del concetto una visione concreta e dell’astratto un’immagine da contemplare oltre il tempo e lo spazio fisico del codice linguistico utilizzato, che sia esso una parola, un segno o una semplice figura, poiché il referente è altro da sé e l’artista sa, nel mistero dell’estetica, porlo in essere in completa libertà.
5 NOVEMBRE 2016 pag. 7 di
Mariangela Arnavas
A
tterro alle 0.30 a Barcellona per ottimizzare il tempo del weekend, con un po’ d’ansia per il passaggio notturno in metropolitana; ho ricordi non belli del metro notturno a Londra e Parigi, gli ubriachi, i molestatori, l’atmosfera cupa e la paura di rimanere a metà del percorso perché la chiusura nelle principali città europee (a parte Berlino) varia dalle 23.30 alle 1.30. Mi sbaglio, però, perché qui la metro il venerdì chiude alle 2 e il sabato alle 5 del mattino, ma soprattutto perché vedo intorno a me giovani donne sole o in gruppo tranquille come alle 2 del pomeriggio. C’è molta luce e un’atmosfera serena. Penso all’obiettivo/ossessione della sicurezza (soprattutto in campagna elettorale) fatto proprio da tante Giunte italiane sia di centrosinistra che di centrodestra, apparentemente perseguito e soprattutto molto declamato, mai concretamente raggiunto. Mi viene in mente che, dal giugno 2015, sindaco di Barcellona è una donna di 42 anni, Ada Colau, che viene dal movimento degli “indignati”, molto impegnata nella lotta contro gli sfratti di Giovanna Leoni giovanna.leoni@gmail.com
Claudia Durastanti ci regala un libro crudo, dal linguaggio scarnificato, che non concede un grammo all’orpello con cui siamo soliti addobbare le nostre vite. Caterina-Cleopatra non si fa sconti e non li fa agli altri: lucida e spietata, racconta di sé e del mondo con descrizioni chirurgiche, in cui il superfluo viene eliminato. Sempre. Non cerca alibi, giustificazioni, vive e basta. Forse da bambina non era così, ma ha imparato presto che per quelle come lei non c’è spazio per le emozioni. Niente balocchi e profumi per lei, solo giorni che scorrono e che vanno affrontati. Messo da parte il sogno di diventare ballerina classica a causa di un incidente, Caterina fa i conti con quello che le resta e finisce per fare la ballerina nel night di proprietà del suo fidanzato Aurelio. Quando lui entra a Rebibbia,
Barcelona
delle famiglie indebitate dopo lo scoppio della bolla immobiliare, appoggiata dal partito anti-liberista Podemos e mi sembra che non sia affatto un caso. Altra gradevole constatazione, che certo non riguarda solo Barcellona ma la Spagna in generale, è come si possa, con il sistema delle “tapas” mangiare fuori bene, anche il pesce con meno di 10€; in particolare, la
boqueria, il grande variegatissimo mercato di Barcellona è un luogo dove con pochi spiccioli si può mangiare di tutto e fresco, tranquillamente seduti o ai tavoli dei banchi e dei piccoli ristoranti o semplicemente sulle panchine della piazza adiacente. Passeggiando per i quartieri popolari, un’occhiata alle vetrine delle agenzie immobiliari mostra che una casa di 80/100 mq costa dai 50 ai 60 mila € e non siamo in un paesino sperduto ma in un quartiere che dista con la metropolitana 20 minuti dal centro. La cannabis in Spagna è liberalizzata con un sistema di controlli che non prevede il libero mercato ma la vendita e il consumo sia per uso terapeutico che ludico in associazioni regolarmente autorizzate, così nel centro di Barcellona i giovani residenti possono consumare marijuana nelle sedi associative o a casa propria (non è permesso l’uso per strada), senza il rischio di essere arrestati; la polizia controlla il trasporto dai coltivatori alle associazioni, scortando i carichi.
Dalle grandi vetrate del Museo d’arte contemporanea nel centro cittadino, si vedono i ragazzi che attraversano con gli skate la grande piazza adiacente, libera per loro; del resto lo skateboard è in questa città un vero mezzo di trasporto, economico ed ecologico, nonché amato dai più giovani. Mettendo insieme tutte queste osservazioni ho l’impressione che davvero Barcellona sia una grande città molto più vivibile per i giovani delle nostre metropoli; e allora lo slogan “Si, se puede” della giovane sindaca sembra politica concreta e non vuoto populismo e forse se le donne vanno sicure di notte in metropolitana è anche perché la polizia passa di lì frequentemente a proteggere/controllare le stazioni e i vagoni invece di controllare/arrestare chi ha in tasca qualche canna. E quindi è possibile, in Europa, a poco più di un’ora d’aereo dalla Toscana, mangiare e abitare a costi molto più bassi e per tutti e per le donne in particolare muoversi in sicurezza anche di notte nella grande città; mi fa piacere pensare che, se non in tutto, almeno in parte, il merito sia del buon governo di una giovane donna: un barlume di speranza.
Le occasioni mancate tra Rebibbia e il night lei riprende a frequentare quel carcere dove fu rinchiuso anche suo padre, condannato per una vicenda poco edificante con ragazze minorenni. Nel frattempo però diventa l’amante del poliziotto che ha partecipato alla retata nel night di Aurelio e lo ha arrestato. Si sente in colpa, o forse no: vive questa storia come una specie di risarcimento. Poi Aurelio uscirà da Rebibbia e la vita insieme a lui per Caterina riprenderà come se non fosse mai stata interrotta. Restano alla fine del libro lo struggimento per le occasioni mancate, per le strade non intraprese, per la scelta del conosciuto anche se porta dolore, per la fatica anche solo di respirare e restare in vita. Claudia Durastanti, Cleopatra va in prigione, Minumum Fax
5 NOVEMBRE 2016 pag. 8 Simone Siliani s.siliani@tin.it a cura di
P
aolo Ciampi non è un matematico (anzi, confessa di non essere una cima nella materia), ma ha il fiuto del giornalista per le storie interessanti e soprattutto è uno scrittore di razza. Per questo non deve stupirci il fatto che abbia scelto per la sua ultima fatica letteraria di raccontare la storia di Leonardo Fibonacci, certo uno dei padri della matematica moderna ma in quanto viaggiatore e appassionato costruttore di ponti fra culture e popoli. Fibonacci era solo un ragazzino quando attraversò il mare per apprendere le fondamenta del mestiere del padre, mercante. In questo viaggio incontra un maestro che gli tracciò nella sabbia alcuni strani segni. Erano i numeri che arrivavano dall’India e che un giorno noi avremmo chiamato arabi. Ecco, fu quel giovane viaggiatore a far conoscere quei numeri nel mondo cristiano. Leonardo da Pisa, era il suo vero nome, detto anche Leonardo Fibonacci. Figlio di un mercante, all’epoca in cui il Mediterraneo era solcato non solo da pirati e crociati ma anche da gente che, con le merci, portava anche nuove conoscenze, viaggiò molto e da tutti imparò qualcosa. Con la sua opera rivoluzionò la matematica e arrivò fino alla corte dell’imperatore Federico II. E tuttavia della sua vita si sa assai poco, il suo stesso nome per secoli è quasi svanito. Paolo Ciampi, nel suo libro “L’uomo che ci regalò i numeri. La vita e i viaggi di Leonardo Fibonacci” (Mursia editore, 2016) insegue la sua ombra e racconta la sua storia. Non solo una biografia, ma anche storia del Mediterraneo, riflessione sulla magia dei numeri, sul loro significato per tutti noi. “L’idea di scrivere questo libro è nata casualmente, dal nome di una strada dove ho consumato le suole delle scarpe da bambino, per andare a scuola o dai miei amici: Via Leonardo Fibonacci – racconta Paolo Ciampi a Odg Toscana – Questo nome mi era rimasto in testa finché un giorno mi sono domandato: ma chi era questo Leonardo
il mondo, meno in Italia, anche se certamente è bene presente a tante persone che hanno avuto a che fare con la sua celebre serie di numeri e con quell’incredibile rapporto che quei numeri esprimono e che si ritrova ovunque: nella pittura, nell’architettura, nella musica, nella stessa natura. Gli esperti di matematica poi sanno bene chi era Fibonacci, non a caso porta il suo nome la rivista dei matematici americani. Ma noto non significa conosciuto davvero: la serie per cui cui Fibonacci è passato alla storia era per lui poco più di esercizio – mi verrebbe da dire un indovinello
più spesso di “muri”, quanto è attuale il suo esempio? I numeri di Fibonacci erano i numeri arabi, o meglio, i numeri indiani che gli arabi si erano portati dietro dai loro viaggi in Asia. Questo è un libro sui viaggi dei numeri e anche Fibonacci è stato un grande viaggiatore, curioso della varietà del mondo. Tra gli arabi arrivò da ragazzino, chiamato dal padre che in Algeria lavorava per i mercanti pisani. Fu mandato a lezione da un maestro del posto, perché quei numeri gli sarebbero serviti per il lavoro di domani. I numeri di cui parlo sono i
da Settimana Enigmistica eppure il suo grande contributo alla nostra storia – e direi alla nostra vita quotidiana – è stata quello di consegnarci i numeri arabi, quelli che ancora oggi noi usiamo. Pensate se al tempo dei computer fossimo ancora alle lettere romane… Nel Medioevo con i suoi viaggi Fibonacci contribuì a creare un ponte tra Europa e mondo arabo: in un momento storico come il nostro, nel quale si parla molto
numeri del lavoro, delle attività di ogni giorno, non i numeri dei matematici. Ma soprattutto sono un dono che rimandano ai ponti che le idee, le parole, i saperi e le tecniche hanno saputo attraversare in un’epoca che era l’epoca delle crociate. Raccontando quel Mediterraneo inevitabilmente ho pensato anche al Mediterraneo dei nostri giorni: e la speranza è ancora una volta che i ponti di pace possano resistere a tutti i signori della guerra”.
L’uomo che ci regalò i numeri Fibonacci? In fondo è così che si incontrano le storie che meritano di essere raccontate. Senza dimenticare che questo è anche l’ingrediente indispensabile del mestiere di giornalista, che, appunto, deve essere bravo a porre e porsi domande, prima ancora di fornire risposte”. Quanto è importante la figura di Fibonacci nella storia dell’Europa moderna? Fibonacci oggi è un personaggio straordinariamente noto in tutto
Le forme della memoria di
Pasquale Comegna
5 NOVEMBRE 2016 pag. 9 Alessandro Michelucci a.michelucci@fol.it di
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l musicista alto e magro è seduto al piano. La sua folta chioma castana ricade sulla camicia bianca. Le dita cominciano a carezzare i tasti e la magia rinasce subito. Stiamo parlando di Gianni Nocenzi, fondatore del Banco del Mutuo Soccorso insieme al fratello maggiore Vittorio, anche lui pianista. Nato nei primi anni Settanta, il gruppo è stato uno dei massimi esponenti del prog italiano. Anche chi non è un appassionato di rock ricorda il primo LP del gruppo, con la famosa copertina a forma di salvadanaio (1972). Il sestetto era caratterizzato da una formazione insolita: accanto ai ruoli consueti (cantante, chitarrista e sezione ritmica) giocavano una funzione centrale i due fratelli, che si alternavano alle tastiere (piano, organo, sintetizzatore, etc.). Col passare del tempo le loro strade si sono divise. Gianni è uscito dal gruppo nel 1985, mentre Vittorio non l’ha mai lasciato, pur realizzando da solo varie colonne sonore per il cinema e per il teatro. Negli ultimi anni il Banco ha perduto due pilastri storici: il cantante Francesco Di Giacomo e il chitarrista Rodolfo Maltese. Vittorio ha avuto dei gravi
Michele Morrocchi sandra.landi@hotmail.com di
Nell’ambito delle celebrazioni per il cinquantesimo dell’alluvione del 1966 al Museo Novecento si è inaugurata la mostra Beyond Borders che sarà visitabile sino al prossimo 8 gennaio. La mostra raccoglie una piccola selezione di opere che furono donate dagli artisti di tutto il mondo dopo l’appello di Carlo Ludovico Ragghianti dopo l’alluvione come idea e nucleo di un futuribile Museo Internazionale di Arte Contemporanea. La mostra, incistata in due piccole sale, in cui le poche opere sono compresse aldilà del valore delle opere mostrate ci pare significativa per due motivi. Il risalto che l’alluvione ebbe in tutto il mondo, testimoniata dalle riproduzioni delle prime pagine della stampa internazionale, anche dagli artisti che raccolsero prontamente l’appel-
Armonia essenziale
problemi di salute, che fortunatamente ha superato. Ovviamente tutto questo ha inciso profondamente sullo stato d’animo di Gianni. Ma il musicista ha trovato nella musica la forza di reagire. È nato così Miniature (Gmebooks, 2016). Realizzato 24 anni dopo Soft Songs (1992), questo è il primo disco in cui Nocenzi suona esclusivamente il piano acustico, per la precisione uno Steinway
gran coda. Miniature è nato grazie a Luigi Mantovani, già produttore del Banco, che ha proposto al pianista di comporre nuovi brani. Inizialmente Nocenzi era dubbioso, ma poi si è gettato nel progetto con entusiamo e ha cominciato a scrivere. Dentro di lui, a poco a poco, ha preso vita un piccolo atlante di musica nuova. Nel vigore ritmico di “Farfalle” e nei toni introspettivi
di “Engelhart” emerge quella personalità che si intravedeva già in un brano come “La città sottile” (da Io sono nato libero, 1973), quando Gianni aveva soltanto 21 anni. I brani sono essenziali, asciutti, ma al tempo stesso molto articolati, come anticipa il titolo: “Ho pensato proprio ai codici miniati, dove una sola lettera prende magari mezza pagina e quando ti avvicini ti accorgi che è ricchissima di florilegi e dettagli”. Fortunatamente siamo lontani anni luce dalla New Age, come anche da certi toni che cercano di coniugare classica e pop. Nocenzi si inserisce a pieno titolo fra quei pianisti che vengono definiti “di frontiera”, dotati di un linguaggio che rifiuta le etichette: artisti eterogenei come Remo Anzovino, Roberto Cacciapaglia e Fabrizio Ottaviucci, tanto per fare qualche esempio. Legati in vario modo al jazz o alla musica classica, ma sempre dotati di una personalità spiccata. Bentornato, Gianni, grazie per questo bel disco, ma per favore, non farci aspettare altri 24 anni per il prossimo.
Il non museo del contemporaneo si fa piccola mostra lo del grande intellettuale fiorentino. Il secondo e forse più determinante motivo è la non realizzazione del progetto di un Museo di arte contemporanea a Firenze. Un tema carsico che spunta e si nasconde nel dibattito politico culturale fiorentino ma che non è mai approdato a nulla di concreto, tanto che le opere “fondative” di tale museo sono oggi esposte in museo che ha per nome un secolo passato, in luogo della contemporaneità auspicata, proprio nel momento della tragedia, da chi lungimirante pensava che il passato non bastasse già più alla nostra città.
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I giorni dell’alluvione
Andrea Ponsi ponsi@andreaponsi.it di
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nnumerevoli sono le immagini dell’alluvione di Firenze che da cinquant’anni appaiono in libri, cataloghi, inserti giornalistici. Eppure le fotografie esposte nella mostra “Balthazar Korab - I giorni dell’alluvione” in corso presso la Tethys Gallery di Firenze, mettono in secondo piano questa pur emozionante iconografia. La mostra, infatti, ci presenta un’ originale visione di quegli eventi con inedite immagini di drammatica bellezza. Curata da John Comazzi, Christian Korab, Monica Korab and Nathan Young con il supporto del College of Design dell’University of Minnesota, la mostra presenta una serie di fotografie che Balthazar Korab, di origini ungheresi e americano di adozione, scattò a Firenze proprio durante quei drammatici giorni. Architetto egli stesso, Korab è celebrato come uno dei maggiori fotografi di architettura del ventesimo secolo. La mattina del 4 novembre, appena avuta la notizia che l’Arno aveva esondato e stava allagando Firenze, Korab si precipitò dalla casa di Settignano in cui risiedeva per una breve vacanza, nel centro della città, portando con sé i cinque rullini, ovvero sessanta scatti, che in quel momento aveva a disposizione. Il risultato di questa improvvisa e coraggiosa incursione nel cuore devastato di Firenze è una serie di immagini il cui valore trascende la pura documentazione giornalistica per assumere lo stato di esemplari foto d’autore. Le sedici fotografie presentate in mostra sono suddivisibili in tre distinte fasi. Una prima selezione riporta i momenti in cui la tumultuosa corrente del fiume si abbatte sui ponti e, scavalcando gli argini, inonda le strade e le piazze. Seguono le immagini del riflusso, delle strade allagate, delle persone e dei volti di chi, sbigottito, si aggira per la città invasa dal fango. È infine documentata la paziente opera di ripulitura e recupero dei libri alluvionati all’interno della biblioteca Nazionale. Forse nessun’altra immagine riesce a descrivere la forza distruttiva che può assumere l’acqua quanto la fotografia scattata da Korab dal parapetto adiacente al Ponte Santa Trinita. Come nei disegni
dei diluvi leonardeschi, la corrente sembra potere spazzare via tutto ciò incontra. Solo la forza dell’architettura riesce a opporvisi con eroica dignità. È proprio in questo ciclopico antagonismo tra la potenza della natura e la solida, vitruviana “firmitas” dell’architettura, che si nasconde il fascino sottile di queste immagini. Con una analoga volontà, anche gli uomini si impegnano a difendere non solo la loro vita ma anche la bellezza della città. L’inedita immagine del ragazzo che come un
guerriero in battaglia incita alla resistenza e all’azione è il simbolo stesso della coraggiosa risposta del popolo fiorentino alla tragedia in corso. Passata la esondazione, rifluita l’acqua nei suoi argini naturali, Korab ci rivela il dramma della città sconvolta . La fotografia dell’ automobile rimasta incastrata nello spazio tra il campanile di Giotto e il fianco della cattedrale è esemplare. Come in un ossimoro visivo, si viene a creare una contrapposizione paradossale
tra l’armonica eleganza dell’architettura e l’ assurdità della circostanza. La fotografia, pur mantenendo intatta la carica emotiva, lascia trasparire la abilità compositiva del fotografo-architetto. Immaginiamo di togliere la carcassa dell’automobile ed ecco apparire un’ inquadratura perfetta dal punto di vista compositivo, un’immagine in cui la correzione del parallasse fa sì che le linee dei rivestimenti marmorei esprimano, con il loro esatto parallelismo, la armonica geometria dell’architettura fiorentina. Un’ultima serie di fotografie è dedicata al paziente lavoro di ripulitura dei libri alluvionati da parte degli “angeli del fango”. L’immagine presa dall’alto del vestibolo della Biblioteca Nazionale se vista a distanza potrebbe trarre in inganno. Ciò che si percepisce è una massa informe di mattoni, tegole spezzate, rovine di muri di edifici distrutti da un terremoto. Quando lo sguardo va a focalizzarsi sui dettagli si scopre che questi detriti non sono altro che i libri accatastati e devastati dal fango e che ci si trovi di fronte a un olocausto della conoscenza e della memoria. Il taglio diagonale che Korab da’ all’immagine costituisce un commento ulteriore sull’ avvenuto sfacelo : le poche persone presenti si aggirano tra i vicoli di una città distrutta, attoniti testimoni di come la natura possa azzerare qualsiasi espressione di origine umana. Sono quelle, comunque, le stesse persone che andranno a risfogliare pagina per pagina questi libri, a pulirli, asciugarli, riportarli per quanto possibile alla loro integrità originale. Il giovane che con la pazienza e la delicatezza di un abile artigiano lambisce, ripulendola dal fango la pagina disastrata del libro evoca, col suo sguardo calmo e concentrato, questa rinascita . La mostra inizia e termina con la materialità della carta. La carta fotografica così come la pagina di un libro, è testimonianza di pensiero, strumento di documentazione, agente di memorie. Nel caso dell’alluvione di Firenze, tali memorie resteranno vive e pregnanti anche grazie a queste immagini. Per questo siamo riconoscenti verso Balthazar Korab per avercele offerte in tutta la loro commovente bellezza.
5 NOVEMBRE 2016 pag. 11 Claudio Cosma claudiocosma@hotmail.com di
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a vari anni l’arte contemporanea usa i musei tradizionali per esporre le proprie opere, anche la moda lo fa, tutti alla ricerca della possibilità di agganciare pubblico diverso dal proprio abituale e sperando in una nobiltà trasferita secondo la legge dei vasi comunicanti. Per Vairo Mongatti, maestro incisore e pittore tradizionale, di ascendenza morandiana, ho scelto l’opposto, una esposizione in una fondazione votata alle arti visive contemporanee. L’idea della mostra non si limita alla messa in evidenza dei suoi lavori, ma alla filosofia del suo specifico modo di essere artista e alle caratteristiche delle sue opere nel loro farsi. Il metodo scelto nell’allestimento della mostra assume, in parte, la valenza dell’installazione. Infatti si assiste al tentativo di ricostruzione del suo spazio di lavoro, inteso come “studio d’artista“ con cavalletti, tappeti, tavolozze, colori, piante verdi e sopratutto la sua collezione di oggetti di ogni tipo, a formare gruppi di famiglie omogenee, raccolti nel tempo e che costituiscono i soggetti protagonisti e le storie narrate dai suoi quadri. L’aspetto di mostrare il dove e attraverso gli strumenti di lavoro il come nasce un quadro conferma la continuità di un fare tecnico e artigianale in equilibrio con quello creativo. I quadri di nature morte, produzione degli ultimi anni, sono il tema della mostra, scelti per due ragioni in numero maggiore delle incisioni. Il professor Mongatti, recentemente è stato soggetto ad una diminuzione della vista che ha ridotto la produzione delle acqueforti, richiedenti una precisione ed una attenzione particolarissime. La vista, oggi, ha recuperato la sua funzionalità, tanto che Mongatti ha predisposto una lastra con una tiratura in 30 esemplari che accompagnerà una edizione numerata del catalogo della mostra. L’altra ragione consiste nel privilegiare la pittura come prima attitudine del suo vedere. Un modo di dipingere il suo da presbite, non propriamente da lontano, ma avvertendo la necessità di posizionare le cose da ritrarre alla distanza giusta, pratica comune agli impressionisti e prima alla pittura romantica.
Mentre l’arte incisoria la potrei definire da “miopi” per l’inevitabile vicinanza, anche temporale, necessaria per realizzarla. Bisogna essere “da presso” sia per realizzare con precisione il reticolo di linee incrociate che formerà i piani di
colori reali dei propri soggetti, restituiti su tavola o su tela dalla sua specifica gradazione di colori ad olio. Questa tecnica o modo di lavorare, che ha come conseguenza un aumentato potere dello sguardo, contrariamente a quanto
La necessità del fare
Vairo Mongatti a Sensus
visione che danno la sensazione del lontano e del vicino, sia presenti, quindi di nuovo all’erta, per i tempi di morsura. Inoltre, lo sguardo da vicino, controlla l’impossibilità dell’errore, l’incisione non ammette correzioni, “mai passi indietro” dice Vairo Mongatti. È necessaria una visione ravvicinata che si protrae nel tempo e terminerà solamente dopo la inchiostratura e stampa della lastra. Nelle incisioni, naturalmente, non c’è colore e questa riduzione al bianco e nero viene compensata imprimendosi negli occhi i
si immagini, non si avvicina, nella resa, al dipingere dal vero, ma aumentando i volumi e concentrandosi sui dettagli, provoca un allontanamento dal naturalismo e quasi una atmosfera di rarefatto immobilismo dove i soggetti dipinti assumono una centralità idealizzata. Le maniere usate all’artista di avvicinarsi nel realizzare una incisione e di allontanarsi sia dal soggetto sia dalla tela quando dipinge si ritrovano nello spettatore quando guarda, egli socchiude gli occhi e si avvicina o si allontana per
mettere a fuoco e trovare la luce giusta che inconsciamente sa essere quella stessa della particolare ora del giorno nella quale l’artista ha immerso il suo racconto. Il luogo dove l’artista lavora, artificialmente ricostruito da Sensus con grandi libertà, sarà la quinta teatrale dove il guardare e l’agire si fonderanno insieme, lo spettatore come visitatore speciale potrà conversare con l’artista, cercare in una quantità di quadri ammucchiati come in un magazzino che per essere visti si dovranno girare. Altri quadri saranno in lavorazione, altri ancora facenti parte della collezione di Sensus, incorniciati con colori squillanti per aumentarne la luce, avranno una sistemazione da atelier, altri ancora scelti dall’artista stesso e incorniciati con gusto tradizionale, contribuiranno a rendere conviviale la visita. Tutto concorrerà a formare un set dalla coreografia non scritta dove emerge la volontà espressa nel titolo. La mostra, nella mia intenzione, suggerisce un azzeramento delle posizioni standardizzate di moderno, contemporaneo, tradizione e avanguardia, in un momento nel quale la cultura ufficiale sembra disinteressarsi proprio di questi elementi. Infatti sono recenti le polemiche venute a crearsi in seguito alla proposta di eliminare la storia dell’arte dai programmi scolastici. Rimane nella maggioranza delle persone quella parodia di un sapere fatto di luoghi comuni e citazioni casuali che sostituisce la cultura col caricaturale buonsenso che gli è proprio. Uno dei clichè più convenzionali è quello dell’artista romantico, povero con la stufetta in soffitta, con uno studio sgangherato, anticonformista, con basco come Raffaello, un po’ matto che insegue chissà quali chimere, che scambia i propri disegni in cambio di un pasto, che talvolta si taglia un orecchio e chi se lo sarebbe detto che ora le sue opere valgono un sacco di soldi. Nel tentativo di ricostruire uno studio di artista con la finalità di rendere omaggio ad un artista fuori dal tempo e dalle convenzioni privilegiando il modo di essere artista e la poetica che accompagna il suo fare, inscindibile dalla realtà della vita, voglio anche, garbatamente, prendermi gioco di quello che si sa perché si è studiato o perché lentamente assimilato dalla risacca dell’inerzia.
5 NOVEMBRE 2016 pag. 12 Simonetta Zanuccoli simonetta.zanuccoli@gmail.com di
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uando nel 2007 Alessio II, patriarca ortodosso russo, andò a Parigi per celebrare una messa solenne a Notre Dame con il suo omologo cattolico, il cardinale Vingt-trois, l’evento fu giudicato da tutti storicamente eccezionale. Era infatti la prima volta, dopo lo scisma del 1054, che alti rappresentanti di due chiese cristiane si incontravano e officiavano insieme. Alla messa solenne partecipò anche l’allora presidente Sarkozy che, suggestionato dal clima di riconciliazione spirituale, quando Alessio II espresse il desiderio di poter costruire una grande cattedrale ortodossa a Parigi per la diaspora russa, non seppe dire di no. Il patriarca morì un anno dopo e il suo successore, Kirill, molto vicino a Putin, portò avanti questo “desiderio” con più determinazione, incoraggiato dallo stesso presidente russo che, secondo le sue parole, vedeva il progetto come simbolo di amicizia tra le due nazioni. L’occasione per realizzarlo si presentò quando venne messo in vendita mediante gara l’ambitissimo terreno dove prima sorgeva Meteo France. I suoi 4.800 mq si trovano infatti nel cuore di Parigi, tra la Tour Eiffel e il Grand e Petit Palais, a pochi passi dal magnifico ponte Alexandre III. La Russia, che partecipava insieme a 2 concorrenti 2, Arabia Saudita e Canada, si aggiudicò la gara offrendo 73 milioni di euro. Cominciarono a nascere le prime feroci critiche che poi si sono levate più alte all’inaugurazione della cattedrale chiamata della Francesco Cusa info@francescocusa.it di
Con “Doctor Strange”, diretto da Scott Derrikson, la Marvel tocca i vertici della sua copiosa produzione cinematografica. In questo film, le avventure del mistico dottore, disegnate lustri or sono dalle magiche matite di Steve Ditko, sono incentrate sull’incontro con l’Antico e il suo discepolo Mordo, i quali inizieranno il neurochirurgo di fama, alla conoscenza delle realtà del Multiverso. Dopo il tragico incidente che gli causerà un incurabile problema alle mani, Strange vive il conflitto tra mente e corpo, scienza e magia, razionalità e sogno, a seguito della rivelazione imposta dall’Antico, una vera e propria “bastonata satori” che
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morbide e panciute cupole ortodosse
Santissima Trinità, lo scorso 19 ottobre, e prevedibilmente proseguiranno ancora per molto tempo. Oltre a fattori estetici (l’enorme costruzione bianca e oro “sporca” la vista del simbolo di Parigi, la Tour Eiffel), le critiche ritengono che il tempio ortodosso sorga troppo vicino a centri governativi sensibili, come il Palais d’Alma dove si smista la corrispondenza dell’E-
Doctor Strange annichilisce il piano sensoriale e proietta il corpo eterico dello scettico chirurgo verso la coscienza di dimensioni e realtà parallele. I dogmi del dottor Stephen Strange diventano così il pretesto per concepire un’opera cinematografica focalizzata sulla consueta dinamica psicologica dell’eroe marvelliano - incentrata sul trauma fisico che prelude all’ascesi e alla conquista di poteri superiori -, ma tali pregiudizi sono anche tesi a mostrare le problematiche della dicotomia tra scienza e magia, ad evidenziare quanto un approccio meramente “scientista” possa oscurare le potenzialità illimitate della mente uma-
liseo, in una zona dove abitano molti dei consiglieri presidenziali. La cattedrale gode di uno status diplomatico e quindi beneficia dell’extraterritorialità. Per molti la ragione principale di questo progetto, interamente finanziato dallo Stato Russo con lavori che hanno superato i 100 milioni di euro, è più politica che di carattere religioso (la comunità ortodossa
è di sole 200.000 mila persone in tutta la Francia. La possibilità di seguire il culto, per esempio a Parigi e nel suo territorio è garantita da una ventina di chiese ortodosse). Al concorso per la realizzazione dell’edificio religioso parteciparono un centinaio di architetti. Il progetto vincente, una cupola avvolta in un’enorme vela di vetro, dell’architetto Manuel Numez Yanowsky, spagnolo di origine russa, venne respinto dalla città di Parigi. L’allora sindaco, Bertrand Delanoe, lo bollò come “ un pastiche d’ostentazione del tutto inadatto in un sito considerato Patrimonio Mondiale dall’Unesco”. Fu allora scelto il progetto arrivato secondo al concorso dell’architetto Jean-Michel Wilmotte, francese ma molto conosciuto in Russia. I lavori iniziarono nel 2013. Alla Cattedrale si affiancano un centro culturale, una biblioteca, una sala mostre, una caffetteria, un auditorium, una scuola elementare franco-russa e degli appartamenti. Alle cinque morbide, panciute cupole rivestite di foglia d’oro e luccicanti al sole, si contrappone non molto lontano la ferrosa e sottile sagoma della Tour Eiffel, una delle prospettive di Parigi che, a dispetto dei suoi abitanti insoddisfatti, proprio per questo sorprendente contrasto diventerà tra le più fotografate. Intanto in questi ultimi anni i rapporti tra la Francia e la Russia si sono deteriorati. All’inaugurazione della Cattedrale non c’era né Putin, né il patriarca Kirill né Hollande. Mancava anche la maggior parte dei politici francesi di rilievo, come Sarkozy.
na. E così, tra defribillatori e Occhi di Agamotto, bisturi e testi vedici, il dottor Stephen Strange finirà con l’incarnare la summa della perfetta conoscenza, nell’ideale mix che determinerà la stessa costituzione del suo personaggio. Occorrerà far cenno anche alle meraviglie visive del film, vere e proprie rielaborazioni di tecniche utilizzate da Nolan in “Inception” e che in “Doctor Strange” vengono sfruttate esponenzialmente: ruotano le città, si squadernano i
piani dimensionali, si distorce il concetto di materia in funzione di una descrittività psichedelica di chiara matrice escheriana. Il senso dell’opera è racchiuso solo parzialmente nella classica redenzione dell’eroe; semmai è da intendersi in chiave simbolico-visionaria, nella prospettiva del viaggio iniziatico e dell’esplorazione del “fantastico”. Doctor Strange è il mistico che un tempo fu il cinico materialista, l’uomo di scienza aduso a “guardare il mondo dal buco di una serratura”, e il suo sbraitare durante l’atto di iniziazione, contro quelle che a lui paiono banali pratiche new age, rappresenta uno dei momenti più divertenti di tutta l’opera. Da vedere e rivedere.
Bizzaria degli oggetti
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Cristina Pucci chiccopucci19@libero.it a cura di
In principio Dio creò il cielo .. e la terra, poi nel suo giorno esatto mise i luminari in cielo e al settimo giorno si riposò. Dopo miliardi di anni l’uomo, fatto a sua immagine e somiglianza, senza mai riposare, con la sua intelligenza laica, senza timore, nel cielo sereno d’una notte d’ottobre, mise altri luminari uguali a quelli che giravano dalla creazione del mondo. Amen.
Sputnik
dalla collezione di Rossano
E
con questa poesia Quasimodo onora, assimilandolo quasi all’opera di Dio, il lancio nello spazio dello Sputnik, prima minuscola e luminosa navicella spaziale. Radio Mosca e la Tass ne danno l’annuncio il 4 ottobre 1957. Fierezza infinita di Kruscev e dei Russi che si vendicano così, almeno pensano, dell’esser considerati, dal più aristocratico e libertario mondo occidentale, “mangiatori di minestra di cavolo su ciabatte di corteccia”. La Russia Comunista ha conquistato in modo inoppugnabile la supremazia astronautica. L’alone di mistero che da sempre e per sempre circonda i fatti e le persone del mondo sovietico non permette di sapere né dove si effettuano questi avanzati studi né chi ne sia il principale promotore a vantaggio di un imprecisato sforzo collettivo e comunitario. Serghiei Koralev, il progettista capo, si vedrà nominato ufficialmente alla sua morte, nel 1966. Si narra che nelle strade delle regioni Rosse, dalle ancora presenti e vitali sedi delle sezioni del PCI, risuonasse l’Internazionale quasi ad ogni ora e che in ogni scritta “Vota PCI” fosse stata apposta una foto o un disegno della fantastica navicella!!!! Dal canto suo, L’Osservatore Romano chiosò “uno spaventoso giocattolo nelle mani di bambinoni privi di religione e morale” Ovvia! Un giovane giornalista scrisse “Autunno, foglie rosse che cadono, macchine artificiali che salgono, una stagione che cambia. Una volta a queste faccende pensavano le nuvole”.La classe non è acqua, era Enzo Biagi. Lo Sputnik era una sferetta di alluminio di 58 cm di diametro da cui partivano, come fossero zampette, 4 antenne sottili, lunghe due metri e mezzo,
rimase in orbita 57 giorni, poi si incendiò. I babbi Natali di quell’anno portavano navicelle, oggetti volanti, piccole astronavi e altre meraviglie attinenti lo spazio e le stelle. E allora direte? Rossanino becca in uno dei soliti, misteriosi, conto vendita che frequenta, uno di questi giochi di ispirazione spaziale, una rara Lido Contemori lidoconte@alice.it di
Il migliore dei Lidi possibili
Cita rispondi!!!
Disegno di Lido Contemori Didascalia di Aldo Frangioni
scatoletta metallica, una specie di music-box che, caricata con apposita levetta, emette un bip-bip simile a quello che, si immagina, emettesse il mirabolante Sputnik. Come si vede dalle foto le immagini che ne costellano le pareti sono estremamente fantasiose e tutti volano nel cielo su qualcosa, c’è anche Pinocchio attaccato ad
un papero, anche se questo è un oggetto russo. Attoniti umani, su un tappeto volante guardano dallo spazio la terra, in rilievo, intorno alla quale girano una astronave e uno sputnik rotondo e baffuto. Dice che lo ha pagato un’ inezia, di simili si vendono su e-bay 500 dollari base d’asta o anche da 1000 euro in su!
5 NOVEMBRE 2016 pag. 14 Paolo Marini p.marini@inwind.it di
S
i vada al cinema a vedere “Lettere da Berlino”. Non sarà (stato) tempo perso: assediati come siamo da futilità e oscenità, ognuno vi troverà certamente qualcosa di buono su cui riflettere per ben più di dieci minuti. Il film - tratto dal libro di Hans Fallada “Ognuno muore solo” (1947) -, scritto e diretto da Vincent Perez, è la storia della ribellione di due coniugi (Hampel, nell’occasione ‘ribattezzati’ Quangel) al regime nazista, una reazione che non origina da motivi ideologici o politici ma dalla tragedia della morte in guerra dell’unico figlio. Otto e Anna Quangel tra il 1940 e il 1943, attuando un programma accorto e ben scandito, disseminano la città di cartoline contenenti messaggi che smascherano le menzogne della propaganda e incitano i tedeschi ad aprire gli occhi. La morte è suonata come una sveglia. Capace di rimettere in funzione coscienze intorpidite dal conformismo, dalla spinta inerziale di un menage quotidiano, del timore di frangerlo. Come prima riflessione appiccichiamo qualche attributo a questa ribellione: silenziosa, determinata e anche generosa: in quanto consapevole e noncurante delle conseguenze, suscettibile di esiti imprevedibili - come uno stillicidio sulla pietra (gutta cavat lapidem) – eppure svincolata dalla preoccupazione del successo; dulcis in fundo, non violenta. “La verità e la non-violenza sono antiche come le colline”, scriveva Gandhi e aveva ragione. La verità e la non violenza – antiche e perciò inossidabili procurano dapprima un allarme nella polizia e nella Gestapo, eppoi sviluppano una crisi imprevista, crescente, nello stesso investigatore che si sarà caparbiamente messo sulle tracce dei coniugi fino a scoprirli ed arrestarli; l’unico – non a caso – ad avere messo in fila e ad aver letto tutte le cartoline. La seconda riflessione è sul verosimile senso ultimo della pellicola. Non pare che essa abbia lo scopo precipuo di raccontare una vicenda storica, di ribellio-
Lettere da Berlino ne al nazismo, testimoniando in tal modo che non tutti i tedeschi erano stati stregati da Adolf Hitler. Altre precedenti hanno efficacemente assolto a questo ruolo, mettendo in crisi le certezze inculcate da una storiografia non sempre rigorosa o disinteressata. Qui non sono la storia e, forse, neppure la micro-storia in evidenza, ma qualcosa che ha a che fare con la vicenda umana di ogni tempo, tanto che già nella filosofia antica e, segnatamente, greca è teorizzato. Il riferimento è alla lezione stoica e in parti-
colare ad Epitteto, all’idea che proprio in un ‘dover essere’ si realizzi la libertà interiore; una sorta di vis cui resisti non potest, una risorsa che nessun regime può annichilire, una libertà che non si pone e non soffre limiti. Eppoi c’è ancora e soprattutto l’umanità dei due protagonisti, - mi pare, magistralmente interpretati da Emma Thompson e Brendan Gleeson – l’amore che la morte rinsalda, il senso profondo, toccante dei loro sguardi e dei loro silenzi, che non è solo un rinnovato amore
Cristina Pucci chiccopucci19@libero.it
Il lumino della nonna durante l’alluvione
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Pensavo che tutti questi festeggiamenti per le nozze d’oro fra Alluvione d’Arno e Firenze mi fanno un po’ uggia…forse, però, mi fa uggia che siano passati 50 anni. Avevo 16 anni. Appena è arrivata la notizia dello straripamento dell’Arno, ancora vaga e imprecisa, il mio primo pensiero è stato “così non si va a scuola….” Come sempre avevo studiato il giusto nulla. Poi sono stati 16 anche i giorni di chiusura delle scuole, mi pare. Al ritorno la prof. di latino e greco, una stronza assoluta, ad un genitore che aveva avuto la casa alluvionata e perorava la causa dell’impossibile impegno del figlio nello studio, visti i gravi disagi, rispose “il carattere si mostra nelle difficoltà”. Nel proseguire della giornata notizie sempre più drammatiche, il vicino di casa non rientrava dal
reciproco ma una ritrovata sollecitudine per la verità e per la vita, quella vita per cui vale anche la pena di morire. Affronteranno la condanna accettandola, meditando nel cuore lo sviluppo dei giorni recenti, senza pentirsi, senza disperazione. Un esito stupefacente, impensabile per un operaio e una casalinga, due comunissime persone che parevano condannate a spendere i propri giorni nel rimpianto inconsolabile del giovanissimo figlio, riportato all’intimità della casa grazie ad un volto ligneo scolpito dal padre con immenso ma contenuto dolore. Un’intimità più completa e definitiva si propone al di là della morte e questa, forse, è la molla più importante, la consolazione che assegna ai Quangel un destino imprevisto. I colori dominanti della pellicola rievocano ambienti e atmosfere del tempo, è un’estetica inconfondibile, dal fascino quasi intatto. Ma è la serena determinazione con cui certi individui decidono di andare incontro al proprio destino, il ‘colore’ - o se si vuole il lascito - più importante del film. lavoro, aveva fatto la notte in una Cabina Enel e non se ne sapeva nulla, rientrò poi con un barcone. La sera un buio totale, un silenzio da paura, anche se dove abitavo l’acqua non era arrivata, si era fermata nella vicina colonia di San Salvi, il manicomio. La nonna aveva un candeliere, vecchio come il cucco, di smalto azzurro, marezzato di bianco e un po’ sbreccato, qualche candela sì, ma l’inevitabile rapido consumo ci avrebbe lasciato presto al buio. Ecco, riempie un bicchiere di acqua, la copre di olio, ci inzuppa uno stoppino e gli da fuoco! Questo lumino, appoggiato sul frigo, ha rischiarato, con la sua incerta e minima luce, la prima sera del buio alluvionale. Il fango, il freddo, i danni, i morti, il sudicio, gli stivali di gomma, la ricerca del pane e le code per l’acqua sono storia nota.
5 NOVEMBRE 2016 pag. 15
Le dissolvenze di Federica Il sentiero dei nidi di ragno Le dissolvenze, di Federica Gonnelli, sono strettamente legate alla nascita dell’immagine fotografica e dell’immagine cinematografica in particolare. Mediante le dissolvenze si ottiene la graduale apparizione e sparizione delle immagini. Il passaggio da un’immagine a un’altra avviene non attraverso un mutamento repentino, ma in modo lineare e progressivo, nel tempo. La dissolvenza infonde un movimento nell’immagine e di conseguenza la pone in relazione con lo spazio e il tempo. Le dissolvenze infatti non intervengono solo nel passaggio da un’immagine all’altra, ma sottolineano mutamenti spaziali o salti temporali. Le dissolvenze segnano anche un momento di transizione ad una dimensione onirica o traccia mnemonica, ricordo, o una particolare condizione mentale, emotiva e psicologica. La dissolvenza è tutto questo ed è una costante, presente nel percorso di Federica da sempre e sotto vari aspetti. Primo tra tutti, la dissolvenza è presente grazie l’utilizzo del velo d’organza. L’organza non deve essere considerata come un Gianni Biagi g.biagi@libero.it di
Se passate dalle parti di Trapani non mancate di acquistare della semola. Si trova agevolmente anche al supermercato. Semola cruda, non precotta o semilavorata, che non si trova in altre parti del paese. Serve per prepapare il cous cous alla trapanese. Un piatto che dalle coste del nord Africa ha attraversato il canale di Sicilia e si è fermato nel trapanese. Inutile chiederlo nei ristoranti a Catania o a Palermo. A San Vito lo Capo ci fanno anche una festa: il “couscousfest”. Per la cottura del pesce servono aglio, prezzemolo, cipolla (tanta cipolla), passato di pomodoro e acqua. Gallinelle o altro pesce saporito, ma anche molluschi se piacciono. Il pesce deve essere lavato e cosparso di una manciata di sale grosso per un’oretta. Soffriggere la cipolla e l’aglio in pochissimo olio in una pentola capiente e poi versare il passato di pomodoro e acqua calda.
di
Stefano Bartolini
mero supporto, ma come un determinante mezzo espressivo, che concorre nel significato dell’opera. L’organza è una membrana che mette in comunicazione le varie parti; donando al tempo stesso una voce, un’identità sempre diversa, attraverso le immagini che su di essa sono realizzate, ma che allo stesso tempo impone uno slancio agli osservatori che vogliono scoprire cosa vi si cela dietro Loft Gallery, via Margherita 47, Corigliano Calabro (CS) Dal 5 novembre al 2 Dicembre, dal lunedì al sabato dalle 9 alle 12 e dalle 17 alle 20
Couscous con pesce o “alla trapanese
Dopo un’oretta di bollitura mettere nella pentola anche il pesce e lasciarlo cuocere per altri 15 minuti circa. Per la semola “incocciare” (bagnare) ogni pugnello di semola con poca acqua e girare con le mani in un recipiente idoneo. Ripetere quest’operazione ogni pugnello di semola, aggiungendo sempre la semola e poca, molto poca, acqua. Quando tutta la semola è bagnata e i grani di semola sono ingrossati perchè hanno assorbito l’acqua, ripetere l’operazione spostando la semola da un recipiente all’altro e girando con le mani un po’ di semola per volta. I grani della semola devono sempre rimanere ben separati. Cuocere la semola al vapore mettendola in un colapasta di metallo che verrà sistemato sopra una pentola con acqua che bolle. Il colapasta, che deve aderire perfettamente al bordo della pentola e deve avere
fori piccoli per evitare che perda la semola in acqua, sarà coperto con un panno per mantenere al massimo il vapore e nello stesso tempo per evitare che coprendolo con un coperchio la condensa bagni eccessivamente la semola. La semola deve essere, prima di metterla in cottura, condita con poco olio, prezzemolo, cipolla a fettine, sale e un po’ di pepe.
Eventualmente aggiungere gamberetti crudi. Cuocere un’ora e un quarto almeno. Versare il cous cous in un vassoio e bagnarlo con buona parte della zuppa, ma non i pesci. Lasciare riposare un poco per fare insaporire. In un piatto a parte servire i pesci. La zuppa residua potrà essere versata sul cous cous una volta nel proprio piatto. Per quattro persone servono quattrocento grammi di semola, almeno quattro cipolle grosse bianche o rosse, un kg di pesce, mezzo litro di passato di pomodoro, aglio, prezzemolo sale e pepe q.b.
L immagine ultima
Q
5 NOVEMBRE 2016 pag. 16
Dall’archivio di Maurizio Berlincioni berlincioni2@gmail.com
ueste due donne di mezza età sono state riprese mentre passeggiano in tarda mattinata in una delle strade del quartiere ebraico dove avevo scattato le altre immagini pubblicate nelle ultime settimane. Stavano probabilmente dirigendosi verso casa dopo aver fatto alcune spese come mostrano le tipiche “paper bags” nelle loro mani. L’ambiente era decisamente tranquillo e non si aveva l’impressione di essere nel centro di Manhattan come spesso capita in zone non troppo lontane da questo neighbourhood.
NY City, agosto 1969