Cultura Commestibile 193

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Con la cultura non si mangia

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N° 1

Che farà?

“Io sono leninista. Lenin voleva distruggere lo Stato e questo è anche il mio obiettivo. Voglio buttare tutto giù e distruggere tutto l’establishment di oggi.”

Steven Bannon consigliere strategico di Trump

editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 Firenze Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012


Da non saltare

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Sara Nocentini saranocentini123@tiscali.it di

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a vittoria della Sindaca Ceccardi alle elezioni amministrative del Comune di Cascina ha portato per la prima volta in Toscana una candidata della Lega Nord alla guida di una roccaforte del PCI, e delle sue successive evoluzioni, fino all’attuale PD. Un risultato eclatante che, sebbene limitato ad un Comune di circa 45.000 abitanti, contiene un valore simbolico rilevante, su cui la Sindaca e la coalizione di destra che la sostiene ha continuato a investire anche dopo l’esito delle amministrative. Ceccardi è infatti salita spesso agli onori delle cronache per la sua rigidità su temi di forte impatto sociale, scagliandosi contro il Governo e le normative nazionali e regionali in merito alle unioni civili all’accoglienza dei profughi migranti. Tra i temi che hanno scaldato la competizione elettorale e ancor di più hanno animato i primi mesi di governo cittadino vi è il futuro (e il presente) della Città del Teatro, nota istituzione culturale del Comune di Cascina, di rilievo regionale e recentemente riconsociuta Centro di Produzione Teatrale dal decreto di apporvazione della distribuzione del Fondo Unico per lo Spettacolo, interessato anch’esso purtroppo da vicende portatrici di incertezze sul futuro dei finanziamenti al settore. L’attacco della nuova maggioranza alla passata gestione del Teatro è stato frontale: si criticano i conti, la gestione e i costi della programmazione artistica e la strategia di investimenti per la manutenzione dell’immobile e il nuovo cda, che ha sostituito i dimissionari Michelangelo Betti (Presidente) e Fabiano Martinelli (Vicepresidente) con Andrea Buscemi e Matteo Arcenni, ha avocato a sé direzione amministrativa e artistica, esautorando di fatto la direzione artistica di Donatella Diamanti, legata al Teatro da un contratto triennale, a garanzia del programma culturale che ha permesso al teatro di ottenere l’importante riconoscimento ministeriale come Centro di Produzione Teatrale. Nelle ultime settimane il clima

La Città del teatro si è fatta si è nuovamente surriscaldato, per il mancato coinvolgimento della Diamanti per la conferenza stampa di presentazione della nuova stagione, nella quale non mancano sorprese e colpi di scena. Alla Direttrice artistica Diamanti abbiamo chiesto di aiutarci a capire la situazione che è venuta a crearsi a Cascina. Diamanti, l’attacco della giunta Ceccardi e dei suoi rappresentanti nel Cda del Teatro presenta toni di una durezza inaspettata, con critiche rivolte a tutti gli ambiti di gestione del teatro. Quali sono le accuse che vengono mosse al vecchio CdA e a lei in particolare? In rapida successione, mi sono state rivolte accuse un po’ di ogni tipo. Come nella favola di Fedro Il lupo e l’agnello, si è cominciato imputandomi (nello stesso momento) sia di aver

verde

fatto del teatro un luogo troppo di nicchia e non aperto alle realtà locali, sia esclusivamente radicato sul territorio e di un respiro non sufficientemente nazionale. Poi si è passati – a dispetto di una crescita enorme nel numero degli spettatori e nei finanziamenti ricevuti da Ministero e Regione, quindi contro ogni dato esistente e facilmente consultabile – ad attribuirmi responsabilità dirette nella esposizione debitoria della Fondazione. Non paghi, fallita anche questa via di

contestazione, sono cominciate le richieste di dimissioni, a loro dire coerenti col fatto di aver espresso prima delle elezioni una personale preferenza. Come se ciò fosse preclusivo di una qualunque possibile forma di collaborazione, insomma. Da ingenua romantica, innamorata del mio lavoro e di ciò che La Città del Teatro è nel tempo diventata, ho provato ad andare avanti, cercando ripetutamente di poter essere parte del processo decisionale legato alla sfera artistica (ciò che attiene al mio


Da non saltare

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contratto, in sostanza), ma ogni tentativo è risultato inascoltato. Il suo lavoro all’interno del teatro è stato orientato dall’obiettivo ambizioso di collocare una realtà culturale decentrata all’interno del ricco e variegato panorama culturale toscano, riuscendo a combinare qualità delle produzioni, accoglienza di artisti e formazione del pubblico più giovane, con la capacità di fare rete con le altre realtà culturali di riferimento. Lei ritiene che il suo esautoramento indebolisca al punto di snaturare la filosofia stessa della Città del Teatro e dunque la sua stessa collocazione nel sistema teatrale toscano? Cascina rappresenta una realtà particolare, sia per la sua storia, sia per la collocazione nel territorio. Da una parte ha infatti Pisa, con un grande Teatro come il Verdi da sempre attento a quanto di meglio la scena nazionale propone nel cosiddetto teatro di tradizione (cosa che non esclude certo altre valide iniziative legate al presente); dall’altra c’è Pontedera, dove il

Teatro Era – ora diventato teatro Nazionale, dopo la fusione con la Pergola di Firenze – ha costruito una sua solida fama nel campo della sperimentazione. Si trattava dunque di trovare una via e spazi che consentissero di soddisfare quanto rimaneva di quanto offerto dalle realtà limitrofe. Da qui è nato il percorso che ha fatto della Città del Teatro un Centro di produzione

teatrale votato alla ricerca e alla sperimentazione rivolto in particolar modo, per vocazione e per mandato ministeriale, alle nuove generazioni. Qual è a suo avviso il rischio più grande che corre oggi la Città del Teatro? Lo snaturamento di quel progetto a cui facevo riferimento prima. Giusto per esemplificare, negli ultimi due anni abbiamo

Intervista a Donatella Diamanti direttrice artistica del teatro di Cascina

avuto il piacere di ospitare sul nostro palcoscenico e di creare giornate-evento intorno a loro (con una pluralità di spettacoli connessi ad ognuno dei temi di volta in volta toccati) Emma Dante, Marco Paolini, Elio De Capitani, Zingaretti, Lella Costa e tanti altri, fino a Silvia Gallerano col suo spettacolo vincitore del Festival di Edimburgo. Proposte che hanno sempre riscosso tanta attenzione del pubblico, con la soddisfazione di una sala sempre gremita e partecipe. Ho un profondo rispetto per loro personalmente e come professionisti e non voglio quindi con questo eccepire nulla sulla qualità del loro lavoro, ma mi pare evidente che un cartellone che prevede Gianfranco D’Angelo, Anna Mazzamauro, Marisa Laurito, Barbara Bouchet, Corinne Clery e svariate performance della compagnia del Presidente non sia più esattamente in linea con la voglia di sperimentare linguaggi fin qui non praticati e di cercare contatti con le nuove generazioni.


riunione

di famiglia

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I Cugini Engels

Le Sorelle Marx

Il cadetto di Guascogna Dario da Vinci alla riscossa

Questa è la storia dei tre sindaci e del capo comico della città di Florentia. Romanzo d’appendice che avrebbe potuto essere scritto da Alexandre Dumas, “I tre moschettieri e il il cadetto di Guascogna”. Eccovi la sinossi. Il capo comico di Florentia, al secolo Dario Nardella, è ormai convinto che il cardinale Richelieu di via Cavour, il bianco-porporato Eugenio Giani, voglia scalzare dal trono il monarca assoluto, Matteo Renzi I, attraverso la presa di Florentia, il bastione renziano più avanzato del regno. Il guascone è tanto coraggioso quanto irruento e per fermare le losche trame del cardinale Eugenio, decide di assoldare i tre valorosi moschettieri del re - Athos (Pieraccioni), Porthos (Panariello) e Aramis (Conti) – chiamandoli a difendere la città. A tal fine, consigliato dalla sua Constance Bonacieux, consegna in una sontuosa cerimonia pubblica le chiavi della città ai tre moschet-

tieri, affinché ogni sera chiudano i portoni e veglino a difesa dell’urbe. Ecco le immortali parole del guascone: “Sono tre ambasciatori di Firenze e della fiorentinità in Italia e nel mondo, e questo grazie alla loro professionalità, al loro estro, alla loro creatività. Come abbiamo fatto alcuni mesi fa, per i grandi Morandi e Baglioni [che fiorentini di certo non erano, bensì soldati di ventura della marca di Bologna e del papato], anche oggi riconosciamo il valore di questi artisti. Firenze è fucina e città di talenti e voi ne siete le più alte espressioni”. Spumante e pasticcini hanno concluso la cerimonia. Il cardinale Giani si rodeva per essersi perso il buffet. Ma i tre moschettieri, si sa, sono dei buontemponi e, chiusa la porta della sala delle cerimonie (con il capo comico dentro), si sono autoproclamati sindaci della città e se ne sono andati a festeggiare in taverna.

Dario da Vinci, al secolo Dario Parrini (arcigno segretario regionale toscano del PD e già sindaco della nobile cittadina), pare sia molto preoccupato e contrariato. Fonti vicine all’intellettuale prestato (anzi regalato) alla politica ce lo rappresentano di umore nero per l’accordo che il sindaco di Milano Sala e quella di Torino Appendino hanno siglato a Londra nel nome di Leonardo da Vinci, manifestando la comune volontà di celebrare insieme i 500 anni dalla morte di Leonardo. Certo, Dario da Vinci non si capacita di come questi due figuri abbiano potuto pensare di parlare di Leonardo bypassando Dario da Vinci. E nelle parole dei due sindaci è convinto, nella sua ormai acclarata mania di persecuzione, che vi sia l’intento principale di annichilire la “sua” Vinci. Com’altro leggere le parole di Sala, «Siamo qui per promuovere le

due città, non ha senso ragionare in un’ottica di competizione. I nostri avversari sono le grandi capitali»? O quelle della Appendino, «Possiamo competere con molte città, ma con Milano non ha senso. Abbiamo ruoli complementari, credo sia utile allearci per competere con altri territori»? Ma è ovvio: vogliono allearsi per muovere guerra alla “mia” Vinci, si sta dicendo ossessivamente Dario, Ma soprattutto non sopporta il fatto che i due sindaci si siano incontrati a Londra e non abbiano chiesto a lui, noto traduttore dall’inglese di articoli per l’Unità, di fare da interprete. Dario da Vinci, ciglia più aggrottate del solito, medita vendetta, tremenda vendetta: sarà il grande tessitore dell’alleanza strategica fra Anchiano (frazione natale di Leonardo) e Amboise (città in cui morì) per schiacciare le due cittadine del nord. La guerra dei bonzi, cominciata è.

avere anche noi il murus ruptus e ribattezzare il modesto lungarno Torrigiani, grande opera ingegneristica del Giuseppe Poggi con un nuovo nome: lungarno del Muro Torto come il più famoso viale del Muro Torto tra il Pincio e Villa Borghese. Fioriranno le leggende anche per il nuovo lungarno così come è successo per il muro capitolino? San Pietro stesso difende il muro romano: da lì nessun invasore è

mai passato. Ma è anche il “muro malo” dove si seppellivano prostitute, ladri e suicidi… Intanto chiediamo l’intercessione di San Giovanni Battista (quello del Vangi chiamato a vegliare sul Muro Torto) che ci liberi dalle future prese per i fondelli che immancabilmente arriveranno. Certo non dai romani… con loro sarà facile controbattere, ma con gli altri?

Il Fratello di Malevich

Il muro gobbo fiorentino Finalmente anche Firenze ha il suo “muro torto”. L’invidia che da sempre hanno le figlie minori della caput mundi può addirittura arrivare a queste perversioni. L’occasione data dallo scoppio del tubo con il muraglione del Poggi che ha retto l’urto ma non è crollato era troppo ghiotta. Tale era la forza di voler emulare la Roma classica che nessuno è riuscito a convincere le varie

istituzioni a fare ciò che doveva essere fatto per logica e opportunità: raddrizzare il muro. Intanto rimarrà a imperitura memoria di un non-evento, dato da un misto di fatalità e negligenza, e nessuno si ricorderà di ciò che oggi appare un miracolo: aver ricostruito, pardon aver consolidato un muraglione spanciato in pochi mesi…davvero un bel risultato. Così nella Firenze del terzo millennio potremmo bearci di


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Fotografia globalizzata

Danilo Cecchi danilo.c@leonet.it di

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a fotografia, secondo una delle più azzeccate definizioni, è un ritaglio operato contemporaneamente nello spazio e nel tempo. La fotografia permette di estrarre dal continuum spazio temporale che ci avvolge senza soluzione di continuità dei distillati, più o meno concentrati, contenuti in un preciso intervallo temporale, definito dalla velocità di otturazione, in una precisa cornice spaziale, definita dal mirino, ed in un preciso contesto prospettico, definito dall’obiettivo. La massima lunghezza focale e la minima distanza di ripresa permettono di concentrare al massimo il distillato della realtà visiva, mentre viceversa la minima lunghezza focale e la distanza di ripresa all’infinito permettono di diluirlo. Se molti fotografi hanno sfruttato in chiave espressiva le inquadrature “strette” e le conseguenti immagini fortemente “ritagliate”, altri hanno cercato di liberarsi da questa gabbia ideologica cercando invece inquadrature ampie, sempre più ampie e possibilmente omnicomprensive. Fino dalla metà dell’Ottocento la fotografia panoramica ha sfondato i limiti laterali dell’inquadratura, sia in fase di ripresa, con le fotocamere ad obiettivo ruotante o interamente ruotanti, con rotazione fino a 360 gradi, sia in maniera più artigianale, incollando le diverse riprese parziali fino a ricreare l’intero giro d’orizzonte. Oggi con la tecnologia digitale questa operazione viene gestita da programmi evoluti che fondono insieme le diverse riprese compensando anche i piccoli inevitabili scarti fra i bordi delle diverse immagini, che formano alla fine una immagine unica. Dall’altra parte la tecnologia ottica ha cominciato ad offrire fino dalla seconda metà dell’Ottocento degli ottimi obiettivi grandangolari in grado di abbracciare un campo molto ampio, arrivando in epoca moderna a coprire angoli sempre maggiori. Dove non arrivano i grandangolari classici arrivano gli obiettivi emisferici, in grado di superare i 180 gradi, ma fornendo anch’essi delle immagini delimitate dalla cornice del mirino o dai bordi del formato. Forse proprio a causa di questi limiti, le fotocamere panoramiche e gli obiettivi super grandangolari o emisferici sembrano non bastare più a

placare la smania di includere in una sola immagine tutto il visibile. In base allo stesso principio con cui si confezionano le immagini panoramiche incollando immagini diverse, la tecnologia digitale ha reso possibile la fusione di nume-

rose immagini (anche riprese con il cellulare) in modo da ricostruire immagini a “tutto tondo”, non solo tutto attorno al punto di vista, ma anche al di sopra ed al di sotto di esso, delle vere e proprie “panoramiche sferiche”. Per sem-

plificare ancora di più la realizzazione di questo tipo di immagini, alcune industrie hanno messo sul mercato delle fotocamere speciali, di forma circolare o sferica, provviste di numerosi obiettivi che puntano in tutte le direzioni, e di un programma che fonde in una sola immagine “globale” la somma di tutti gli scatti realizzati contemporaneamente. Questo tipo di immagini “globali” o, se preferiamo, “globalizzate”, al contrario delle immagini panoramiche, super grandangolari ed emisferiche, non possono essere stampate su supporti cartacei, ma possono essere visionate sullo schermo del computer, scegliendo e variando a piacere il punto di vista. In questo modo l’immagine globale cancella il concetto di “mirino”, dato che tutto viene incluso nell’inquadratura, senza “ritagli” e senza limiti di “cornice”. Ogni immagine globale finisce così per assomigliare alla rappresentazione della scena di un delitto, dove tutto viene registrato, in modo da permettere al detective di turno di visionare più volte il luogo senza dovervi ritornare e senza che niente venga alterato. Fotografando tutto si evita la fatica di scegliere il punto di vista, evitando di trascurare dei dettagli che forse, con il senno di poi, potrebbero rivelarsi importanti. In questo senso l’immagine globale rappresenta una scorciatoia. Nel dubbio su cosa è importante e cosa no, si sceglie il tutto. Ma la stessa immagine diventa anche impersonale. Niente più libero arbitrio, niente indagine attorno all’oggetto per scoprirne i lati nascosti, nessuno spirito di osservazione per trovare temi interessanti. Solo delle registrazioni integrali in attesa di un osservatore che invece della realtà possa scrutare la registrazione stessa esplorandola, cercandovi lui stesso significati, scorci visivi, dettagli illuminanti.


19 NOVEMBRE 2016 pag. 6 Laura Monaldi lauramonaldi.lm@gmail.com di

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n occasione della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne (25 novembre), Alessandra Borsetti Venier, in collaborazione con L’Associazione MultiMedia91 e AParte Associazione Pecci Arte, ha ideato e curato la manifestazione Scarpe Rosse 1522 e la mostra Rosso di Donna, portando a Prato il fior fiore dell’arte contemporanea emergente e non. L’evento sensibilizzerà il pubblico sulle tematiche della violenza fisica e psicologica nonchè del femminicidio. Il tutto sarà articolato in tre parti: la prima prevede l’installazione “Scarpe Rosse 1522” in Piazza delle Carceri con il saluto delle autorità e alcune performance sul tema; la seconda presenta la mostra d’arte contemporanea “Rosso di Donna” nella Sala Campolmi della Biblioteca Lazzerini, successivamente il primo dicembre sarà organizzata una serata con interventi di esperti, intervallati da letture, performance e video sul tema della prevenzione. Si tratta di un progetto importante e internazionale, iniziato nel 2014 e tuttora in progress che toccherà molte città italiane con l’obiettivo di sensibilizzare le masse su una problematica crescente che nemmeno l’Arte poteva ignorare. Pregio dell’idea della curatrice è stata l’intuitiva idea di rivalutare l’Arte anche dal punto di vista critica e militante, poiché in una società degenerata e degenerativa solo l’immagine può essere in grado di colpire il fruitore direttamente senza filtri. Riscoprire il valore sociale dell’opera d’arte nelle manifestazioni di interesse pubblico è una prerogativa per tutti coloro che hanno veramente colto il senso della creazione estetica, lontana dal mero esercizio formale. Gli Artisti in mostra: Egizia Agatone, Marcello Aitiani, Francesco Alarico, Resmi Al Kafaji, Paolo Amerini, Fernando Andolcetti, Gianni Antenucci, Francesco Aprile, Agostino Arrivabene, Mariele Artemise, Mario Artioli Tavani, Laura Balla, ViIttore Baroni, Elena Barthel, Lina Basile, Francesco Battaglini, Emanuele Bencivenni, Luisa Bergamini, Carla Bertola, Lea

Rosso di donna Bilanci, Daniela Billi, Tomaso Binga, Mariella Bogliacino, Alessandra Borsetti Venier, Leonardo Bossio, Bottega, Antonino Bove, Liliana Brosi, Rossana Bucci, Maurizio Buscarino, Rosaspina Buscarino Canosburi, Gloria Campriani, Carlo Cantini, Silvia Cardini, Silvia Capiluppi, Myriam Cappelletti, LeoNilde Carabba, Marco Cardini, Anna Cassarino, Nadia Cavalera, Cinzio Cavallarin, Maria Chiara Cecconi, Andrea Chiarantini, Alessandro Ciappi, Antonio Ciarallo, Roberto Coccoloni, Alice Corbetta, Enzo Correnti, Fiorella Corsi, Vanessa Costantini, Mattia Crisci, Gian Luca Cupisti, Massimo D’Amato, Serena D’Angelis, Flaminio Da Deppo, Andrea Dami, Anne&Mario Daniele, Albina Dealessi, Teo De Palma, Fabio De Poli, Luca De Silva, Adolfina De Stefani, Paolo Della Bella, Giampietro Degli Innocenti, Maria Di Pietro, Marcello Diotallevi, Serenella Dodi, Tamara Donati, Gianni Dorigo, Graziano Dovichi, Laura VdB Facchini, Mariapia Fanna Roncoroni, Riccardo Farinelli, Mirella Ferrari, Dino Ferruzzi, Luc Fierens, Antonia Fontana, Lorenzo Fontanelli, Kiki Franceschi, Aldo Frangioni, Ignazio Fresu, Gabriella Furlani, Carla Fusi, Giovanni Galizia, Alberto

Gallingani, Caroline Gallois, Mauro Gazzara, Carlo Gianni, Chiara Giorgetti, Alessandro Goggioli, Cristina Gozzini, Andrea Granchi, KPK (kantierepostkontemporaneo), Riccardo Guarneri, Carla Iacono, Indy, Roberto Innocenti, Donato Landi, Melania Lanzini, Bruno Larini, Adriana Leati, Alfonso Lentini, Ines Lenz, Ilze Jaunberga, Lucy Jochamowitz, Riccardo Lanciotto Magris, LeonaK, Margherita Levo Rosenberg, Oronzo Liuzzi, Federico Lombardo, Dario Longo, Antonio Lo Presti, Gian Paolo Lucato, Paolo Lumini, Marta Luppi, Aldo Lurci, Gianna Paola Machiavelli, Riccardo Macinai, Gustavo Maestre, Ruggero Maggi, Manuela Mancioppi, Antonello Mantovani, Andrea Marini, Silke Markefka, Luca Matti, Donatella Mei, Andrea Meini, Renato Meneghetti, Marcello Meucci, Massimo Mion, Ubaldo Molesti, Fernando Montà, Fernando Montagner, Fernanda Morganti, Helmut Morganti, Susanne Niemann, Lisa Nocentini, Murat Onol, Toshihiro Oshima, Silvia Paci, Lucia Paese, Paolo Pallara, Luciano Pancani, Antonio Panino, Marcello Paoli, Giovanni Parrillo, Uber Passatelli, Lia Pecchioli, Rita Pedullà, Marina Pezzoli, Nella Pizzo, Giampie-

ro Poggiali Berlinghieri, Erika Polizzi, Elena Salvini Pierallini, Lamberto Pignotti, Alessia Porfiri, Nadia Presotto, Stefania Puntaroli, Roberto Pupi, Yi Qiu, Giovanni Raffaelli, Augusto Ranfagni, Elvira Ratti, Laura Repetti, Rosella Restante, Angelo Ricciardi, Ina Ripari, Marino Rossetti, Enzo Rossi-Roiss, Tokio Rumando, Cesare Saccenti, I Santini Del Prete, Antonella Sassanelli, Antonio Sassu, Costanza Savini, Franco Sciusco, Rosali Schweizer, Gianna Scoino, Giuseppe Secchi, Danilo Sergiampietri, Rolando Sforzi, Fulgor Silvi, Simoncini. Tangi, Giovanna Sparapani, Isabella Staino, Sabine Stange, Stellalpina, Antje Sträter, Kinichi Tanaka, Anthony Tang, Daniela Tartaglia, Camilla Testori, Roberto Testori, Vittorio Tonali, Hideka Tonomura, Margherita Torri, Micaela Tornaghi, Matilde Tortora, Felisia Toscano, Nino Tricarico, Elena Trissino, Stefano Turrini, Fabiola Ungredda, Giovanna Ugolini, Adam Vaccaro, Antonia Valle, Tommaso Vassalle, Adriano Veldorale, Margherita Verdi, Valeria Vian, Simona Vignali, Laura Viliani, Tatiana Villani, Alberto Vitacchio, Ivano Vitali, Andrea Vizzini, Nikolai Vogel, Cassandra Juliette Wainhouse, Deva Wolfram, Elisa Zadi.


19 NOVEMBRE 2016 pag. 7 Cristina Pucci chiccopucci19@libero.it di

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n bel signore, elegante, ha qualche anno... ma non vuol dire. Un talento fiorentino senza dubbio, un po’ defilato come succede a scenografi e costumisti, che compaiono nei “titoli di coda”, anche se il loro contributo a successo e splendore delle rappresentazioni teatrali e liriche è fondamentale. Sono stata a trovare Giancarlo Mancini, a casa sua, per ascoltarlo sul suo lavoro. Tralascio il curriculum formativo e la lunga carriera di insegnante all’Istituto d’Arte di Potenza e poi di Firenze e dico subito che ha al suo attivo più di cento spettacoli, teatro, opere, balletti, rievocazioni storiche, fra cui quella dei 700 anni dei Grimaldi, Principi di Monaco, ha collaborato con registi di gran calibro in giro per l’Italia...La casa di una persona con velleità artistiche e creative importanti è in grado di raccontarcele e di mostrarne tracce e sintesi significative. Mi accoglie, appena entrata, un modello della lanterna del nostro Cupolone, in partenza in verità per i festeggiamenti del cinquantennale dell’alluvione, Giancarlo un po’ se ne dispiace, gli mancherà. Appoggiati qua e là modellini delle scenografie di vari spettacoli di cui mi mostra i meccanismi mobili per i cambi di scena, perfettamente funzionanti, sia pure in queste

di

Remo Fattorini

Segnali di fumo Il popolo vota, si astiene, si esprime, parla, ma non dice più quello che i politici vorrebbero sentirsi dire. E ciò accade sempre più spesso. La politica non riesce più ad orientare il voto e l’informazione è sempre meno influente. Basta guardarsi intorno per vedere che ormai la gente ragiona e sceglie sulla base della propria esperienza. E’ accaduto in Ungheria, con il referendum sull’accoglienza dei richiedenti asilo, dove nonostante l’impegno del governo Orban

Giancarlo Mancini

tra Ionesco e la Compagnia delle Seggiole

dimensioni ridotte, maschere enormi di varie fogge e colori, cappelli dai variopinti piumaggi, alcuni appoggiati su antiche forme di legno, tutti andati in scena ovviamente, broccati

e stoffe di particolare e rara bellezza. Alle pareti, incorniciati, disegni di costumi per lo più suoi, due fatti, per il balletto Alcina, da Anna Anni, amica da poco scomparsa ed altro talento nostrano. Mi parla di un se stesso bambino che, con l’orecchio incollato alla vecchia radio, tuttora funzionante, ascoltava “Cosi è se vi pare” di Pirandello. La prima scenografia la mise su a 11 anni, di ritorno dalla Turandot, con un foulard azzurro della madre illuminato da un abat-jour preparò una specie di set per “lucean le stelle”. Inizia la sua carriera come attore, ricorda che, mentre lavorava con Vinicio Gioli, per la messa in scena del suo “Libertario”, venne fuori che non sapevano a chi rivolgersi per scene e costumi, si fece avanti e lasciò tutti a bocca aperta mostrando, già pronti, figurini e bozzetti, li aveva preparati per diletto ed interesse. Grande e ripetuto successo da cui fu proiettato al Teatro dell’Oriolo con cui collaborò per molti anni. Ama molto il ricordo di un “Pierino e il lupo” con regia di Micha Van Hoecke, del quale conserva i disegni, precisi e ricchi di dettagli tali da definire i personaggi e trasfor-

mare, che so, un bambino in un cacciatore, sottolinea la cura nella scelta di tessuti invecchiati. Dice:” il costumista, lo scenografo, sono lavori da dietro le quinte per i quali necessitano un po’ tutte le arti e i mestieri, conoscenze di stili,di architettura, storia, artigianato, bisogna saper mettere le mani, pensare e trovare tutte le cose che servono.” Racconta entusiasta la nascita di effetti ed immagini suggestive per un Orfeo ed Euridice, viva ancora l’emozione provata quando fu annunciato che Ionesco e moglie sarebbero venuti all’Oriolo per assistere al “Rinoceronte”, anche grande paura, si diceva che non avesse quasi mai approvato le messe in scena della sua opera, invece tutto bene. Una foto immortala la loro stretta di mano. Dal 2009 collabora con la Compagnia delle Seggiole che mette in scena visite “animate” di luoghi strepitosi, Casa Martelli, La Petraia, i sotterranei della Pergola, l’Istituto Geografico Militare e i cui testi sono spesso scritti da Riccardo Ventrella e Marcello Lazzerini. Passione per il suo lavoro ed amore per tutte le sue creazioni sono stati la costante della sua vita.

non sono riusciti a raggiungere il quorum. E’ accaduto in Colombia, dove i cittadini hanno bocciato l’accordo di pace tra governo e Farc che avrebbe messo la parola fine a 52 anni di guerra civile. E’ accaduto nel Regno Unito con il referendum sull’uscita dall’Unione europea, dove dalle urne è uscito un esito opposto a quello voluto dall’ex premier Cameron e non solo. E’ accaduto negli Usa con l’elezione del nuovo presidente degli States, dove la candidata sostenuta dall’establishment e dai più importanti media è stata sconfitta da un rozzo miliardario osteggiato persino dal proprio partito. Perché quando ha pronunciarsi si chiamano i cittadini con l’intento di legittimare scelte dei governi o

dell’establishment i risultati vanno nella direzione opposta, le proposte vengono bocciate e i loro candidati rispediti a casa? Qualcuno dirà: sono i rischi della democrazia diretta. Di sicuro è la democrazia rappresentativa a non funzionare più. Nel corso degli ultimi 10 anni sono stati indetti, in giro per il mondo, ben 40 referendum all’anno, il triplo rispetto a prima dell’89, anno della caduta del muro. Fino ad allora gli elettori sceglievano un partito in base al suo programma, alle sue idee, alla sua etica, alle sue modalità. Oggi non

funziona più così. Con la rivoluzione digitale (internet, social, ecc.) è saltata l’intermediazione tradizionalmente svolta dai partiti e dai mass media. E gli effetti sono tutti sotto i nostri occhi: le élite pur di conseguire i propri obiettivi ci raccontano realtà falsate con promesse da marinaio. Così, venuto meno il senso di appartenenza, ognuno va dove lo porta il cuore. Vedremo come andrà finire in Italia il 4 dicembre dove è l’establishment a condurre una battaglia “contro” l’establishment. Vedremo se gli elettori scopriranno il trucco.


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ercoledì 23 novembre 2016 ore 20.45 la Compagnia Nuvole in Viaggio presenta Lo zio Vanja di Anton Pavolovic Cechov, una delle sue opere più importanti insieme al Gabbiano. La storia è conosciuta. Si svolge in una tranquilla tenuta di campagna che il quarantenne Vanja e l’adolescente Sonja amministrano al solo scopo di finanziare la carriera intellettuale di Serebrjakov. Per una serie di avvenimenti la tranquilla e monotona vita di campagna si rovescia. Il dramma si consuma comicamente e la commedia esplode tragicamente, anche se non ci saranno ne’ morti ne’ feriti. I protagonisti sopravvivono e riprendono la loro routine con la consapevolezza che c’è stato un momento in cui la vita è passata loro accanto e avrebbero potuto coglierla ma ora è tardi e non resta che aspettare e sperare che passi di nuovo. Il ritmo è al centro dell’azione scenica di questa pièce. Quell’equilibrio, garantito dalla lontananza del convulso ritmo cittadino da quello placido della tenuta di campagna, viene scardinato dalla pericolosa e forzata convivenza. Un baule, monolite simbolico, al centro della scena rappresenta la quadratura di una vita solida, concreta, fatta di appuntamenti scanditi dalla natura, dal tempo. Fatta di fatica fisica e di impegni economici che tengono lontane le paturnie alto-borghesi e consentono di vivere senza troppa ricerca di un senso da dare alla illusoria felicità. Il cambio di ritmo impatta con le psicologie dei personaggi. Ed ecco che tutto si stravolge. Gli orari, i tempi, i modi. Il baule è al centro del continuo trasformismo e con esso tutti i personaggi che vi ruotano intorno. Pieni e vuoti di scena, cambi repentini di atmosfera con la complicità delle luci e delle musiche, dialoghi che raggiungono vette sconosciute di salvifica ipocrisia alternati a monologhi che si inabissano nel pantano di verità insopportabili. Da questa opposizione ne scaturisce una deflagrazione, un big bang emotivo che sarà devastante soprattutto per quel mondo che alla fine, costretto a

restare sulla propria inutile orbita si vede incapace di riprodurre una qualsiasi forma di vita. Unica salvezza proiettarsi in una sospensione spazio temporale. Rifugiarsi in una visione astrale per la nipote e inabissarsi nel vuoto che rimane fino a diventarne parte per lo zio. Lo zio Vanja. L’adattamento e la regia sono di Paolo Ciotti, attori Simonetta Agresti, Francesca Becagli, Aristide Borini, Alessandra De Luca, Silvia Frullini, Veniero Jenna, Marco Ranfagni, Rebecca Zigliotto aiutoregia Giulia Bartolacci disegno luci Diego Cinelli. Il gruppo teatrale

La centralità Lo zio Vanja del baule al Cestello di Firenze Nuvole in viaggio è nato in Mugello, lavorando, poi, nel territorio del Chianti Fiorentino e del centro-città di Firenze. Sotto la direzione artistica di Paolo Ciotti, attore e regista, Nuvole in Viaggio ha collaborato con le più importanti realtà teatrali della provincia fiorentina. Dal 2010 al 2015 ha portato avanti le sue attività di formazione e produzione teatrale presso il Teatro Comunale Regina Margherita di Barberino Val d’Elsa come compagnia residente. Dal 2010 in collaborazione con Catalyst Theatre Company, Nuvole in Viaggio crea un progetto gemello del CLAP denominato CLAP Mugello che trova sedi e occasioni di produzione teatrale presso il Teatro Giotto di Vicchio e il Teatro Corsini di Barberino del Mugello. Dal 2012 Nuvole in Viaggio fonde la sua attività di formazione e produzione con l’associazione partner Cantiere Obraz dando vita alla Scuola Triennale di Formazione Teatrale con residenza artistica presso il Teatro di Cestello in Firenze e ad oggi in piena attività. Il lavoro del CLAP Mugello prosegue attualmente in collaborazione con il Comune di Scarperia-San Piero con sede operativa presso Villa Adami, edificio storico di proprietà dell’amministrazione.


19 NOVEMBRE 2016 pag. 9 Alessandro Michelucci a.michelucci@fol.it di

M

olti popoli trovano nella musica la forza di superare esperienze tragiche: guerre, genocidi, carestie. Non stiamo parlando soltanto di vicende lontane, ma anche di eventi che hanno segnato l’Europa in tempi recenti, come le guerre che hanno accompagnato la disintegrazione della Jugoslavia. Fra il 1992 e il 1996 Sarajevo, capitale della Bosnia Erzegovina, è vittima del più lungo assedio avvenuto dopo la Seconda Guerra Mondiale. Ma la città non perde la propria vivacità culturale. Attorno a Bekim Medunjanin si raccoglie un gruppo di artisti che continuano a creare, nonostante la guerra imponga mille precauzioni. La voglia di restare attivi stimola una vitalità che vince ogni paura: la gente si riunisce in luoghi sicuri per parlare, bere una birra, ascoltare musica dal vivo. Bekim organizza corsi di musica per i ragazzi, molti dei quali hanno perso i genitori in seguito alla guerra. Questa scena culturale, che ovviamente non si esprime soltanto nella musica, non tarda a dare frutti concreti. Nel 1995, ancora in piena guerra, nasce il Festival internazionale del jazz, mentre due anni dopo vede la luce il Festival del cinema. In campo musicale emerge Amira, una giovane cantante che nel Sergio Favilli sergio.favilli@libero.it di

Ricordate questi versi?? Al Re Travicello piovuto ai ranocchiMi levo il cappello e piego i ginocchi – Calò nel suo regno con molto fracasso – Le teste di legno fan sempre del chiasso – Ecco!! Poiché qualche saggio diceva che occorre conoscere per giudicare, sabato pomeriggio mi sono quasi infiltrato nella manifestazione leghista che si è tenuta in Santa Croce per innalzare a furor di popolo Matteo Salvini al ruolo di premier!! A Firenze lo hanno già soprannominato “Gerundio” per la sua spiccata conoscenza della lingua italiana e bisogna riconoscergli una buona dose di coraggio per aver organizzato la manifestazione in suo onore proprio nella città della Crusca. Che Matteo Salvini sostenga a spada tratta il

Monodie balcaniche

2001 diventa la moglie di Bekim Medunjanin. Nata nel 1972, l’artista è strettamente legata alla sevdah, un genere popolare che riveste un ruolo centrale nella cultura bosniaca. Affine per certi versi al fado e al rebetiko, questa musica affonda le proprie radici nell’era ottomana. Il termine deriva infatti dal turco sevda: il legame con l’area d’origine è tuttora vivo, come conferma il disco Sevda (Kalan, 2015) della cantante turca Fatma Parlakol. Amira esordisce come ospite del gruppo Mostar Sevdah Reunion nel CD A Secret Gate (Connecting Cultures, 2003). Il nome della formazione evidenzia la sua stretta affinità con la cantante. Rosa (Snail Records, 2005) è

il primo CD come titolare. In Zumra (Gramofon, 2009) Amira viene affiancata da Merima Ključo, una fisarmonicista bosniaca che vanta un curriculum impressionante. Il suo lavoro più recente è Aritmia (autoproduzione, 2016), realizzato insieme al chitarrista Miroslav Tadic. Amulette (World Village/Harmonia Mundi, 2011) segna l’affermazione mondiale della cantante. Nel disco spicca la presenza dell’ottimo pianista serbo Bojan Zulfikarpasic, che compare anche nel successivo Silk & Stone (World Village/Harmonia Mundi, 2014). Nel periodo che intercorre fra i due dischi Amira collabora con il

catalano Jordi Savall, uno dei più prestigiosi interpreti di musica antica, insieme al quale registra Bal-Kan (Alia Vox, 2014). Recentemente è uscito Damar (World Village/Harmonia Mundi, 2016), sesto CD della cantante bosniaca, registrato nei Real World Studios di Peter Gabriel. I brani sono tradizionali dell’area balcanica – Bosnia, Macedonia e Serbia – tranne due. Gli arrangiamenti sono in grado di avvicinare a questa musica anche chi non si interessa di musica tradizionale. “Vjetar ružu poljuljkuje” odora di flamenco, mentre “Oi golube, moj golube” è un pezzo melanconico e intenso. Questa musica è un cuore che batte, una materia viva che respira. Dotata di una voce versatile e ricca di pathos, Amira ci stimola ad abbandonare lo stereotipo che associa la Bosnia alle guerre degli anni Novanta. Questa terra ha dato molto alla cultura europea. Pensiamo a scrittori come Ivo Andrić, Premio Nobel 1961; a Goran Bregovic, un musicista che non ha bisogno di presentazioni; a Danis Tanović, vincitore dell’Oscar con il film No Man’s Land (2001). E naturalmente a cantanti come Amira.

Matteo Gerundio di legno verde

programma di Mr. Trump è un suo personale problema, ma che i leghisti, padani o no, credano al fatto che il Matteo di Ghisa possa diventare premier rappresenta una vera e propria mutazione genetica di massa, da bravi cittadini irreprensibili, dopo aver abbandonato l’idea di una secessione nordista, si sono pian

piano mimetizzarsi con improbabili felpe multicolori. Stranamente il salvifico Travicello Salvini in Santa Croce era in giacca, come ben si conviene ad un futuro leader, ma era fortemente amareggiato in quanto, passando davanti alla Nazionale , un manipolo di fiorentini , sulla celebre aria di Spadaro, lo

abbia accolto con un “La porti un coglione a Firenze”!!!! Il successivo bagno di folla lo ha ben presto riportato di buon umore e, dopo aver invitato Mr. Trump e Mr. Farage ad un pranzo di lavoro per ridisegnare l’ordine mondiale ha concluso il suo discorso con una affermazione che non lascia dubbio alcuno : - Io ci metto la faccia!! - In me resta un dubbio al quale non so rispondere : - Con Salvini a Palazzo Chigi quale altra parte del corpo ci metterebbe il popolo italiano??- Noi toscani abbiamo già Pinocchio, simpatico e famoso burattino di legno, di un altro pezzo di legno, per giunta verde, non sappiamo che farcene!!


19 NOVEMBRE 2016 pag. 10

Promenade de l’Art Deco

Simonetta Zanuccoli simonetta.zanuccoli@gmail.com di

A

chi è stato più volte a Parigi e ormai conosce tutti i luoghi “da non perdere” consigliati dalle guide turistiche, e si appresta a ritornarci voglio consigliare un soggiorno a tema: passeggiare per le sue strade alla scoperta di uno stile architettonico e decorativo dal fascino senza tempo, l’Art Deco, del quale Parigi è piena di luoghi simbolo. Questa corrente, che ha avuto l’apice del suo splendore attorno ai ruggenti anni 20, con il suo modernismo fatto di eleganza, geometria e simmetria, era nato in opposizione all’Art Noveau, dalle linee flessuose e decori a forme organiche, del quale ci rimangono, praticamente intatti, molte bellissime facciate di palazzi (altra visita a tema. Solo nel 16° arrondissement se ne può vedere una sessantina fatti dai maggiori architetti del movimento). Il modernismo dei primi decenni del 900 aveva portato a preferire il più sobrio, ma non meno decorativo, Art Deco soprattutto per gli edifici destinati al commercio, come i grandi magazzini, e all’intrattenimento, come sale concerto o teatri, per il forte impatto visivo, e quindi di richiamo, che aveva nel pubblico. Naturalmente non mancavano i palazzi privati che, con le loro facciate nelle quali risalta l’attenta sovrapposizione di materiali diversi, i ricchi decori interni con intarsi d’oro e argento, i pannelli di tessuto finemente disegnati, i dettagli in ceramica..., diventavano emblema di distinzione sociale. Tra questi la splendita Maison de Verre del 1928, in rue Saint-Guillaume 31, considerata dal New York Times la più bella casa di Parigi, con i suoi 3 piani rivestiti di piastrelle di vetro e di una struttura metallica a vista e la Maison Dorel, in rue de Tocqueville 45, costruita nel 1921, la cui facciata di quattro piano in perfetto stile Art Deco è impreziosita di ceramiche e mosaici colorati. Non solo tutti i grandi magazzini dell’epoca, come Samaritaine, Printemps, Galeries Lafayette e Bon Marché, vere cattedrali del commercio nella Parigi borghese con le loro grandi cupole in ferro e vetro

Maison de verre

Palais de Tokio

che lasciavano penetrare dall’alto fiotti di luce sulla mercanzia, ma anche gli eleganti teatri, sempre frequentatissimi dalla stessa società, si erano adeguati allo stile di gran moda. Gli esempi più famosi sono ancora intatti nel loro splendore: il theatre de Champs Elysées del 1913, in avenue Montaigne 15, con l’originale facciata che

unisce Classicismo e Art Deco con all’interno la bellissima sala con la copertura in vetro ornata di decori vegetali dorati, le Folies Bergére, in rue Richer 32, locale, a dir poco, spettacolare del quale ho già raccontato la storia in un mio precedente articolo, il theatre Michodiére, in rue Michodiére 5, la cui sala rossa e oro rimane ancora un

gioiello intatto. E naturalmente il mitico Grand Rex, in avenue Montaigne 15, costruito nei primi anni 30 da Jacques Haik, ricco produttore cinematografico, che con la sua facciata angolare che si sviluppa tutta in altezza e la sala dove si proiettano film e si fanno spettacoli che diventa essa stessa una scenografia è stato dichiarato monumento storico. Ma la passeggiata per Parigi alla scoperta dei tesori Art Deco potrebbe continuare all’infinito e portarvi a visitare il Palais de Chaillot, il Palais de Tokio, il Palais del la Porte Dorèe, la piscina Lutetia, luogo straordinario, monumento storico e oggi fascinoso negozio di Hermes e poi a fermarvi per un meritato ristoro alla brasserie La Coupole, in boulevard Montparnasse 102, vero gioiello di Art Deco e simbolo della vita artistica di Montparnasse, con i mosaici d’ispirazione cubista e i lampadari del famoso maestro vetraio Jean Perzel o da Prunier, in avenue Victor Hugo 16, uno dei ristoranti più caratteristici del periodo per i suoi intarsi a losanghe d’oro su marmo nero e i decori blu intenso.


19 NOVEMBRE 2016 pag. 11 Paolo Marini p.marini@inwind.it di

A

Firenze, nella Villa Medicea di Castello, ha sede una istituzione particolarmente prestigiosa – l’Accademia della Crusca – la cui missione è la salvaguardia e lo studio della lingua italiana. Intervistiamo il Prof. Claudio Marazzini, linguista e saggista, e suo Presidente dal maggio 2014. La prima domanda, quasi d’obbligo, verte sul ruolo di questa Istituzione: svolge essa funzione di ‘notaio’ - ovvero di accertamento dei cambiamenti che l’italiano subisce nel tempo - o si erge anche a ‘giudice’ dell’uso corretto della lingua? “Giudice” è una parola troppo forte, perché implica le sentenze di condanna o di assoluzione. Quanto al notaio, è troppo disinteressato: fa quello che dicono i clienti. Noi siamo osservatori che partecipano con passione alla vita della lingua. Siamo piuttosto medici (che diagnosticano malattie e cattive abitudini poco salutari) ed educatori (che indicano vie migliori).. Quali omologhe istituzioni straniere assomigliano o si differenziano di più dal modello della nostra Accademia? A parte l’autorità esercitata direttamente con maggiore o minore imperio, noi siamo analoghi all’Académie française e alla RAE, la Real Academia Española. Che rapporto sussiste nell’evoluzione della lingua tra la signoria dell’uso e le regole della grammatica e del corretto scrivere/parlare? E’ possibile che prevalga e sia accettato un uso contrario a dette regole, tale da modificarle? Certo, è accaduto già in passato. Manzoni parlava del “Signor Uso”. Si possono fare esempi in tal senso? Per esempio, la grammatica del Cinquecento, con il grande Bembo, il principe dei grammatici rinascimentali, condannò il “lui” soggetto. I toscani continuarono a usarlo, e Manzoni lo mise nei Promessi Sposi. A quel punto i grammatici manzoniani lo misero di nuovo nelle loro grammatiche. Gli italiani di oggi lo adoperano certamente, anche se a volte qualcuno si

La resistenza

‘scrittore’ (con i 140 caratteri di twitter, con gli sms, con i ‘post’ nei social networks, ecc.) responsabilizza oppure no, nell’uso della lingua? Con quello non si è “scrittori”. Si è solo “scriventi”. C’è un po’ di differenza. La stessa questione si pone, nello specifico, con i periodici esclusivamente digitali... Il problema è diverso. La questione che si pone in questo caso è quella della prevalenza dei dilettanti e della crisi dei

del congiuntivo ricorda di Bembo, si spaventa e corregge “lui” in “egli”. Quanto al congiuntivo, si deve dare per morto o ci sono segni di vitalità? Il congiuntivo in frase ipotetica o nelle sfumature di opinione recede, ma in altri casi resiste benissimo: “Vorrei che fosse qui”, con verbo di volontà, è praticamente senza alternative. Ha mai sentito “Vorrei che è qui?”. L’italiano è considerato una lingua aristocratica, di poeti, letterati e uomini di legge. Come evolve con l’esplosione dell’ICT? Che cosa è l’ICT? Lo sa che è sconsigliato usare le sigle? Sono oscure! Sono peggio dell’indicativo al posto del congiuntivo! Come interagisce l’Accademia della Crusca con l’insegnamento della lingua italiana nella scuola dell’obbligo e nelle istituzioni scolastiche superiori? Dedichiamo appositi corsi ogni anno agli insegnanti toscani. Abbiamo un rapporto di collaborazione formalizzato con la provincia di Trento, che gode di autonomia nell’organizzazione della scuola. Siamo tra i protagonisti nell’organizzazione delle Olimpiadi dell’Italiano. Abbiamo rapporti con istituti universitari di tutto il mondo. Che cosa si può dire del grado di innovazione dei nostri docenti nelle tecniche di insegnamento

della lingua? Dipende dal docente. Non tutti hanno formazione linguistica. Ci sono molti letterati puri, con animo poetico e lirico. Costoro non sempre hanno interesse per l’aspetto tecnico dell’insegnamento della lingua. Esistono indagini in tal senso? Credo basti verificare la disciplina di laurea. Ma anche chi ha una formazione diversa può imparare cose nuove. Basta non lasciar che sia colonizzato dai pedagogisti generalisti e dai tecno-maniaci. Quale “centro irradiatore della lingua” - per usare un termine gramsciano – è dominante o più influente ai nostri giorni? Accanto ai tradizionali centri dell’Italia centrale, Roma in testa, agisce molto Milano. Sappiamo che il rapporto tra gli italiani e la lettura è scadente (nel 2015 i lettori sono il 42% della popolazione - fonte: Istat 2016), mentre moltissimi prima o poi si cimentano con la pubblicazione di libri ma... si può essere buoni scrittori senza lettura? Credo di no. Ma il rapporto con il libro porta bene anche quando nasce male. Quindi lasciamoli scrivere e pubblicare da sé, magari libri elettronici, cioè e-book, che costano meno. La possibilità anche immediata – ormai quasi per tutti - di essere

professionisti. Monitora l’Accademia il fenomeno del linguaggio nelle riviste on line? Credo che le esperte della Consulenza facciano a volte anche questo. Il Presidente un po’ meno, forse a torto. Però ora c’è on line una rivista di lingua, specializzata e accreditata in categoria A dall’ANVUR (l’organo di supercontrollo dell’Università). La pubblica l’Università di Milano. Quella l’ho letta. Si chiama Italiano Lingua Due (http://riviste.unimi.it/index. php/promoitals/index/) È definibile un qualche tratto comune - dal punto di vista linguistico s’intende - ai varii e variegati periodici on line? Lei va troppo nel difficile. Occorre interpellare le addette di Crusca alle pagine Facebook et similia. È possibile interpellare l’Accademia per la soluzione di quesiti specifici? Si capisce! Certo! Questo è il compito in cui è impegnata ogni giorno la Consulenza, diretta dal prof. Paolo D’Achille. Fra l’altro il motore di ricerca trova facilmente le riposte già date, che sono centinaia. Quindi, spesso, non occorre nemmeno porre la domanda, perché la risposta c’è già (http:// www.accademiadellacrusca.it/it/ lingua-italiana/consulenza-linguistica).


19 NOVEMBRE 2016 pag. 12

Appello al presidente del Consiglio dei Ministri Matteo Renzi e al Ministro per i beni e le attività culturali Dario Franceschini per

Lara Vinca Masini

Signor Presidente, signor Ministro siamo assolutamente certi che i vostri uffici sono incorsi in un errore, in un equivoco quando hanno rifiutato i benefici della Legge “Bacchelli” alla nota studiosa Lara Vinca Masini per assenza dei requisiti di “chiara fama”. È l’unica spiegazione plausibile perché gli uffici e la Commissione Consultiva che istruisce queste pratiche non possono non comprendere quale decisivo apporto gli studi critici, il lavoro di organizzazione culturale e la valorizzazione delle arti contemporanee di Lara Vinca Masini hanno dato alla cultura, e a quella italiana in particolare, nel mondo. Infatti, Lara Vinca Masini ha ottenuto il Premio dei Lincei per la critica 1986; è membro effettivo dell’Associazione Internazionale Critici d’Arte dal 1967; è stata membro della Commissione italiana per le arti visive e per la sezione architettura alla Biennale di Venezia 1978; ha fatto parte della Giuria Internazionale della Biennale Architettura 2000 insieme ai maggiori critici e direttori di musei di arte contemporanea del

mondo; e soprattutto parlano per lei le centinaia di pubblicazioni sulla storia dell’arte contemporanea e di critica, come quelle nate dalla collaborazione con G.C.Argan, o i due volumi “Arte Contemporanea. La linea dell’unicità” (Firenze, 1989), “Art nouveau” (Firenze, 1975), così come le centinaia di manifestazioni e mostre che Lara ha curato, quali la “Prima Triennale Itinerante di Architettura Contemporanea” (1966-67) o “Umanesimo, Disumanesimo nell’Arte Europea 1890-1980” (Firenze 1980). Per questo ci permettiamo di fare appello a Voi, affinché questa incomprensibile equivoco e questa ingiustizia prima di tutto morale vengano riparati, riconsiderando la vostra decisione e rimettendo l’onore a Lara Vinca Masini riconoscendone la “chiara fama”, perché Lara ha certamente “illustrato la Patria attraverso meriti acquisiti nei campi delle scienze, delle lettere, delle arti” come prevede la Legge “Bacchelli”. Fiduciosi nell’accoglimento di questo nostro appello, formuliamo i nostri più calorosi saluti.


19 NOVEMBRE 2016 pag. 13 di John

E

Stammer

l’Architettura (come tutta l’arte, in genere), che è un’amante gelosa, laddove non si realizza-per tante ragioni che non dipendono da noi- colpisce con l’angoscia”. Così scriveva circa 16 anni fa Francesco Gurrieri nella presentazione di uno dei libri di Alessandro Gioli “Segni e Disegni”. Un libro che racchiude molte delle bellissime “tavole” del Gioli. Tavole, come si chiamavano una volta i disegni che rappresentano progetti o idee progettuali, di architetture sognate, disegnate, e spesso anche iconiche nella loro astratta rappresentazione del reale come quella intitolata S.Maria in Trastevere. Nel nuovo libro di Alessandro Gioli, “Per finta e per davvero” edito da Altralinea Edizioni di Firenze, non ci sono tavole, non ci sono disegni. Ci sono invece parole, pensieri, sensazioni e idee (passate, presenti e future). Ci sono fotografie di Franco Busignani che illustrano una Firenze insolita, quasi inedita. Una città vista dall’occhio “di due architetti nullafacenti” che la osservano davvero e non vedono solo quello che ci viene costantemente ricordato di vedere. Non vedono solo la città che il mondo guarda per la sua bellezza. Vedono anche il resto della città, vedono parti di città diverse e vedono anche i luoghi della “bellezza” con occhi diversi. Nel suo libro Alessandro Gioli decide di raccontare la città così com’è oggi. Un racconto senza l’angoscia di 15 anni prima dove il disegno dell’architetto reclamava una visione del futuro. Un racconto dove traspare spesso una venatura di tristezza, di una melanconia che, anche dove si contestano alcune delle scelte fatte nello sviluppo urbano e si definiscono prospettive diverse dello sviluppo della città, pervade il libro. “Fare l’architetto era stato per loro lottare contro - la pretenziosa distinzione- così avevano definito le tante costruzioni private, senza principi e senza storia,.....” così racconta Gioli quasi in apertura del libro, continuando poche pagine dopo. “Ancora nei primi passi della professione “il pubblico”

Busignani) si muovono per la città, partendo da porta Romana, perchè la più vicina alle loro abitazioni, per percorrerla in lungo e in largo e discutere di cosa è stato fatto, di cosa è stato pensato e non realizzato, di come si sarebbe potuto fare. Un percorso che consente al lettore di incontrare luoghi non comuni e di conoscere storie non banali di questa “amata città”, per dirla con il titolo di un libro di Alberto Breschi anche lui, come Alessandro Gioli, professore nella Facoltà di Architettura di Firenze. Un libro per “ragionare” di Firenze, per lasciare agli altri,

Muoversi in città era un’entità sacra, il punto più alto da raggiungere; credevano veramente che lavorare per il pubblico fosse un dovere, da svolgere con il massimo impegno”. Idee, ideali, convinzioni condivise con molti architetti che in quegli anni si affacciavano al mondo della professione. Questo nuovo libro di Gioli è quindi una passeggiata per la città di Firenze guardata con Lido Contemori lidoconte@alice.it di

Il migliore dei Lidi possibili

14 novembre 2016: la luna era così vicina alla terra che sembrava il sole

Disegno di Lido Contemori Didascalia di Aldo Frangioni

occhi diversi da quelli che la scrutavano per poter progettare. E’ una passeggiata “per rivedere la città senza fretta e senza altri pensieri se non quelli suscitati dagli sguardi dei loro occhi nuovi”. Ed è con questa condizione inedita, e felicemente trovata nell’intimo della loro anima, che i due architetti che dialogano nel libro (e nei quali è facile riconoscere il Gioli e il

e in primo luogo ai lettori, un propria interpretazione della città. Perchè, come ha detto Mario Primicerio alla presentazione del libro nel saloncino delle Murate (citando una affermazione letta su una confezione della Barilla come lui stesso ha dichiarato) è quello che abbiamo detto a renderci unici. E anche quello che abbiamo scritto.


19 NOVEMBRE 2016 pag. 14 Michele Morrocchi twitter @michemorr di

M

entre come ampiamente previsto su queste pagine McDonald ha portato in causa il Comune di Firenze per il diniego all’apertura del suo negozio in piazza del Duomo, un altro negozio fa parlare le cronache cittadine, questa volta per una chiusura. Si tratta dell’Old England Store, bastione britannico in quel di Firenze, uno dei pochi residuati della stagione degli anglobeceri nella nostra città. L’Old England chiude più per il progresso del commercio online che per il “libero mercato” come invece anche il sindaco ha scritto sui social. Quando trovo la maggior parte dei prodotti ad un costo analogo, se non inferiore, online con la comodità della consegna a casa spesso gratuita, per quale motivo il cliente non dovrebbe sceglierlo? Non ne faccio questione di merito né do giudizi, ma dire che la colpa per cui chiude l’Old England Store è di minimarket, internet point e fast food appare quanto meno riduttiva. Perché magari la colpa, se di colpa si dovesse trattare, andrebbe comunque divisa con le grandi catene commerciali di abbigliamento, cibo o high tech la cui apertura di mega store a due passi dal vecchio negozio ora in chiusura è stata salutata dall’amministrazione come una grande conquista e una valorizzazione

Anche la vecchia Inghilterra soccombe alla lotta di classe del centro storico fiorentino. Lo abbiamo scritto altre volte e lo ripetiamo, se si individua il nemico nei soli minimarket si compie una scelta che va nella direzione di una lotta di classe, si persegue il disegno politico della Disneyland del rinascimento. Anche quando il sindaco afferma che nulla può fare, in attesa di una salvifica legge nazionale, sbaglia. Come detto varie volte le amministrazioni possono, invece che il solo vietare (dopo) i menù senza peposo, svolgere politiche attive: urbanistiche, sociali e di mobilità. Invece di favorire la residenza nel centro storico si è perseguito la strada del suo consumo da parte di visitatori e turisti, non ci si stupisca o ci si addolori che poi, questi, non siano i migliori clienti delle “botteghe artigiane” e che queste poi chiudano.

Le forme della memoria di

Pasquale Comegna

Massimo Cavezzali cavezzalicartoons@hotmail.com di

Scavezzacollo


19 NOVEMBRE 2016 pag. 15

Gli scioperíi di Ranaldi

La Galleria Il Ponte, inaugura una mostra di Renato Ranaldi in cui vengono presentati tre nuclei di opere di periodi diversi. Si parte, cronologicamente, dagli Angolari (1973-74) installati al piano interrato della galleria, lavori in cui l’accostamento di due tele crea un angolo che funziona come una quinta teatrale, dove gli oggetti che fanno da protagonisti reali o rappresentati – sembrano sovvertire e mettere in crisi la canonica bidimensionalità del supporto pittorico in favore

dell’invenzione di una spazialità non convenzionale. Al primo piano, invece, le pareti sono “tappezzate” di disegni in nerochina su carta, una selezione fra i trentadue scioperíi raccolti nel libro omonimo, insieme ad un racconto dello stesso Ranaldi e ad una postfazione di Bruno Corà, pubblicato dalle edizioni Gli Ori nel 2016, che verrà presentato da Bruno Corà, Marco Meneguzzo e Angelika Stepken lo stesso sabato 19 novembre al Museo di Antropologia ed Etnografia di Firenze

Memorie del contemporaneo Gli archivi e le raccolte di arte contemporanea in Italia sono il tema del convegno Memorie del contemporaneo a cura di Alessandra Acocella e Caterina Toschi, fondatrici, nel 2011, di Senzacornice. Laboratorio di ricerca e formazione per l’arte contemporanea. Fonte ricchissima, in parte ancora inesplorata, per lo studio delle vicende storiche e artistiche del secolo scorso, i materiali e i documenti degli archivi d’arte sono oggetto di un attuale e vivace dibattito che coinvolge sempre più le istituzioni pubbliche e private. È all’interno di questo contesto che si inserisce il convegno di martedì 22 e mercoledì 23 novembre nell’Auditorium di Sant’Apollonia a Firenze (via

San Gallo 25 – ingresso gratuito). Coordinato da un comitato scientifico composto da Barbara Cinelli (Università degli Studi Roma Tre), Flavio Fergonzi (Scuola Normale Superiore di Pisa), Alberto Salvadori (Osservatorio per le Arti Contemporanee Fondazione CRF) e Tiziana Serena (Università degli Studi di Firenze).

Hyperion al Pecci

Uno dei più potenti ed enigmatici pezzi del teatro musicale italiano del secondo Novecento, Hyperion di Bruno Maderna torna sulle scene grazie all’allestimento della compagnia di teatro contemporaneo Muta Imago, che si confronta con un capolavoro musicale. L’Hyperion dei Muta Imago è un viaggio che rapisce e da cui è difficile tornare indietro. Il senso dell’opera è l’infinita domanda che pone al pubblico di ieri e di oggi: qual è il posto dell’uomo nel mondo? Se lo chiedeva Friedrich Hölderlin nell’omonimo romanzo del 1797 da cui Hyperion è

stato tratto. Se l’è chiesto Bruno Maderna, che per tutti gli anni ‘60 del Novecento ha lavorato senza sosta all’opera. Se lo chiede infine Muta Imago, gruppo teatrale che come dice il nome stesso con la potenza dell’immagine rende quasi superflua la parola. Flauto, voce e danza si uniscono in uno spettacolo totale in cui un giovane uomo si isola dal mondo per cercare nel rapporto con la natura una verità più alta. Sabato 19 novembre ore 21.00 Ingresso 15 euro Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci Prato


L immagine ultima

19 NOVEMBRE 2016 pag. 16

Dall’archivio di Maurizio Berlincioni berlincioni2@gmail.com

E

rrata corrige! Rimettendo a posto alcuni negativi di quella estate ho ritrovato, in calcio d’angolo, un’altra immagine interessante scattata nella zona. L’ironia del ritrovamento casuale ha voluto che il soggetto fosse un uomo, ovviamente molto religioso, colto di spalle mentre si sta avviando ad uscire, senza rendersene conto, da questa “mia” ultima scena ripresa in quel troppo breve soggiorno in un quartiere così diverso e interessante. Mi è sempre dispiaciuto il fatto di non aver più trovato il tempo e il modo di ritornare un’altra volta sui miei passi.

NY City, agosto 1969


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