Cultura Commestibile 196

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Con la cultura non si mangia

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N° 1

Mangeremo

“Puntiamo sull’enogastronomia, una nostra eccellenza, il nostro petrolio”. Alessandro Di Battista

petrolio editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 Firenze Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012


Da non saltare

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Maria Teresa Cao titti.cao@gmail.com di

I

ncontro Michele Riondino nel salottino del Teatro Puccini di Firenze, in occasione del suo nuovo spettacolo “Angelicamente anarchici” di cui è regista e interprete, su drammaturgia di Marco Andreoli, arrangiamenti musicali e musiche dal vivo di Francesco Forni, Ilaria Graziano, Remigio Furlanut . Partiamo dalle radici, dalla fuga di un ragazzo dal sud, - che empaticamente condivido da ex ragazza in fuga dalla provincia del nord – il tempo, il passato e presente. Sei uno con radici nel passato, con radici in più posti o senza radici del tutto? Io sono uno che facilmente mette radici, sono uno che innanzi tutto è andato via dalla propria città perché la città gli stava stretta e perché ormai mal sopportava un certo tipo di mentalità, quindi devo dire che non solo sono scappato da Taranto ma l’ho fatto sia per inseguire un mio sogno e una mia passione, ma soprattutto per allontanarmi da un ambiente che per me era malato, era inquinato non solo in senso ambientale ma inquinato proprio come mentalità, il modo di fare il modo di pensare, troppo chiuso in schemi prestabiliti, non c’era una vera apertura. Devo dire che proprio non amavo molto né la mia città né i miei concittadini. Però, come spesso capita a noi italiani quando andiamo all’estero, la stessa cosa capita a noi provinciali quando lasciamo la provincia, poi una volta che sei lontano alla fine cominci a riconoscerti, a riconoscere in te quelle parti che inevitabilmente ti legano a un territorio e questa fase è coincisa con la scoperta di una nuova mentalità che prendeva corpo, che cominciava a instaurarsi a Taranto e quindi è stato facile ritrovarsi innamorato della propria storia, della propria cultura, del proprio territorio; Il titolo del tuo libro “Rubare la vita agli altri” è già un titolo chiaramente del tuo “dopo Emma” [*ndr:incontro con Emma Dante], oltre l’Accademia, oltre le parole, piene, vuote, riempite e svuotate, più vicino ai corpi, alle vite, alle persone in carne, ossa, sangue, sudore, tutta la vita degli altri ma anche la tua che si mescola e si rinnova per rinascere ogni volta in qualcosa di diverso, quindi ti devo chiedere cosa è per te fare l’attore, o essere attore?

Un attore innamorato dell’umanità Mi devi chiedere senz’altro che cosa è per me essere attore. Farlo è un po’ riduttivo però tra fare ed essere c’è molta differenza. Nel fare c’è tutta la consapevolezza di quello che fai e quindi è inevitabile ragionare attorno anche alla conoscenza. Per fare l’attore bisogna essere degli esperti conoscitori della materia e quindi le tecniche attoriali, recitative, il canto, la voce, il copro, tutta una serie di tecniche che servono per poter fare l’attore. Essere attore è un’altra cosa, è un ruolo antropologico. Secondo me, bisognerebbe davvero approfondire questo aspetto antropologico; io a una certo punto, finita l’accademia, volevo iscrivermi ad antropologia perché mi interessava tantissimo lo studio

delle civiltà, e farmi delle domande circa un personaggio, circa una psicologia, un ruolo sociale, insomma nel ventaglio di personaggi che ci possono essere, andare a studiarli tutti significa fare uno studio esclusivo su un carattere, su un lavoro, su un personaggio che vive un certo territorio, un certo tempo, un certo modo, ed è inevitabilmente uno studio sull’uomo. Quindi essere attore significa essere affascinati dall’umanità, essere affascinati dall’idea di darsi una possibilità per essere qualcun altro ed è un gioco se vogliamo molto banale perché l’attore fa quello. Però nel senso più alto del termine, darsi la possibilità di essere qualcun altro è un modo per studiare, per fare ricerca e non è

che la circoscrivi attorno solo a un personaggio, ma ti allarghi da quel personaggio e arrivi a considerare l’umanità intera perché poi quel personaggio si confronterà con altri personaggi. Adesso guardo tanti documentari sull’universo, ed è molto affascinante quando fanno il paragone tra l’universo e il corpo umano, cioè il corpo umano è come se fosse l’universo di tante molecole, di tante cellule che ci compongono. La stessa cosa è nella recitazione: tu studi un personaggio, ma quel personaggio agisce in una costellazione, in un sistema solare, in un universo e quindi inevitabilmente cominci a guardare le cose dal punto di vista del personaggio ed è bello e interessante scoprirsi curioso essendo qualcun altro, è siamo tra l’antropologia e la ...psicopatologia! Tu sei babbo di una bimba piccola: l’essere padre ha cambiato il tuo modo di sentire il mondo? Sì, tantissimo, innanzi tutto il mio stile di vita, i miei tempi. Mi ha cambiato inevitabilmente per quello che prima facevo e adesso devo fare di meno e però mi ha dato una possibilità sempre nell’ottica che dicevo prima, perché poi tutto torna, mi ha dato – dicevo - una possibilità incredibile... che poi chi diventa padre, i neo genitori alla fine raccontano sempre le stesse cose perché davvero la bellezza che ci investe è comune a tutti e quindi l’esperienza diventa comune, però è inspiegabile, e io non l’avrei mai capito se avessero provato a spiegarmelo. E’ come vederci attraverso gli occhi di una persona che comunque è sconosciuta: voglio dire è un individuo. una persona che ha tre anni di vita, ci conosciamo solo da tre anni ma lei è già una persona, è già una donna, è un essere umano, e quella persona è frutto del mio amore e io ho la possibilità di vedere le cose attraverso i suoi occhi. Ti faccio un esempio: io e la mia compagna siamo usciti di casa in due e siamo tornati in tre, quando siamo tornati in tre quella casa continuava a essere casa mia, ma nel momento in cui è entrata Frida quella casa è diventata più sua che mia e questa cosa mi manda veramente nei matti. E’ incredibile; è l’idea che io ho sempre avuto della casa in cui sono cresciuto, cioè quella è casa mia non dei miei genitori. Se io immagino una casa, ancora me la ricordo: è quella li, ne ho


Da non saltare

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cambiate tante, ma quella è casa mia. Ecco, l’idea che Frida possa pensare di quella casa che io ho comprato con i miei risparmi, con le mie cose, una casa piccolissima, un buco, che quella in realtà è casa sua e solo sua, a me sta cosa mi fa impazzire. Il tuo spettacolo, “Angelicamente anarchici”, Don Gallo, Fabrizio De Andrè è musica, impegno civile e anche riflessione sul messaggio evangelico. Da dove nasce questa tua ricerca? Mah è difficile dire che cosa ci ha mosso, perché chiudere questo testo è stato difficile come sempre con Marco Andreoli. Noi lavoriamo sempre insieme ed è stato, per restare in tema, un parto gemellare, come tutte le volte, è una fatica incredibile. Si ragiona intorno alla necessità di mettere in scena un testo, e che cosa può rendere necessario mettere in scena un testo sulla figura di Don Gallo? E’ ancora troppo vivo il suo ricordo nella nostra memoria, quindi fare uno spettacolo biografico su di lui sarebbe stato inutile, banale. Fare uno spettacolo su ciò che Don Gallo diceva risultava troppo retorico perché già lui lo diceva bene, è inutile continuare su quella linea. Fare uno spettacolo in realtà su un idea che Don Gallo ha lasciato che è appunto quella di un Vangelo scritto da un laico, da un cantautore che abbiano tutti amato, che ha scritto attraverso le sue canzoni delle storie. Ecco fare un Vangelo di tutte queste storie era una idea che abbiamo pensato fosse la più giusta per dare ancora voce a Don Gallo. Attraverso queste storie, abbiamo cercato di riaprire certi argomenti che hanno a che fare con la tolleranza, con la misericordia, con l’utopia, con l’anarchia; e farlo attraverso i testi di De André, che racchiudono esattamente l’idea e i concetti di Don Gallo, ci è sembrata la strada più percorribile. E non amando molto i monologhi, l’idea di chiudere il personaggio, di alzare una quarta parete tra il personaggio e il pubblico mi dava la possibilità di far parlare addosso il mio Don Gallo. Lui amava parlare con la gente, ma adesso la gente non c’è più e allora lui si parla addosso. Insomma l’idea di dargli questa possibilità di parlarsi addosso ha aperto una serie di altri canali, quello del peccato, ad esempio, Don Gallo poteva sembrare arrogante e

Intervista a Michele Riondino

quindi abbiamo discusso anche sul probabile peccato di arroganza di Don Gallo; perché no, lui poteva anche essere arrogante. Ma il punto è proprio questo: ragionare sui concetti, sul Vangelo secondo Faber, sulle passioni sociali e ideologiche di Don Gallo ci ha portato a scrivere un testo che ci restituisce la figura di uomo, con tutti i suoi pro e i suoi contro. Addirittura il mio Don Gallo in scena, nella parte del confronto con il cardinale, cioè con il simbolo della gerarchia ecclesiastica, dice: “..tra me e te forse qualcosa di buono c’è, se entrambi facciamo un passo l’uno verso l’altro”. Mentre stavamo scrivendo il testo, ne abbiamo parlato a casa anche con Eva, la mia compagna: siccome siamo entrambi molto anticlericali, lei contestava il fatto di aver fatto dire a Don Gallo quella frase, perché a lei sembrava che in questo modo si stesse concedendo qualcosa alla chiesa che in realtà non merita. Per me però non è esattamente così perché in realtà è proprio quello che ha fatto Don Gallo che lo smentisce: lui non ha mai lasciato la chiesa, è rimasto prete e non ha mai negato questa sua appartenenza; lo è stato nel suo modo, ed era giusto che rimanesse anche questo nello spettacolo. Ecco, spesso è così che

capita, questa è la bellezza di non fare uno spettacolo ideologico, come la bellezza di avere fatto “La ragazza del mondo” [ndr: il recente film di Marco Danieli], che non è ideologico, non è un film di polemica contro i testimoni di Geova ma apre l’argomento. Ecco secondo me questo è uno spettacolo che riapre certi argomenti, o meglio è così che mi piace immaginarlo. Per finire più che una domanda leggo dal tuo libro “Rubare la vita agli altri”: ”...La curiosità. La capacità di cercare. La leggerezza. Non appartengono a tutti. Ma se chi le possiede non riesce a favorirle o alimentarle almeno un po’, rischia di fare i conti con il rimpianto. E quella col rimpianto, in genere, è una partita che non finisce mai.”....“…. Però io stavo lì, un po’ imbambolato. Come se ci fosse comunque qualcosa da capire, da comprendere. Qualcosa che non riguardava né il buio né la luce ma, semmai, l’ingresso della luce nel buio.”. Queste parole mi hanno colpito perché le potrei usare - per quella che è la mia personale “esperienza di te” - per descriverti...nel senso che la curiosità e la capacità di cercare viene fuori da quello che fai, così come la voglia di capire. E però, si intravede una volontà positiva di cogliere qualcosa al fine della ricerca, di un “ottimismo della volontà”; anche nello spettacolo di

ieri, come ti dicevo mi ha colpito la positività del tuo richiamo all’utopia che magari non si realizza ma aiuta a camminare, ad andare avanti, risulta chiaro il fatto che tu la voglia vedere questa luce lontana, insomma mi pare che il tuo ricercare ancorché difficile e pieno di insidie non sia solo un procedere cupo, ansimante e che si avvolge in se stesso, ma c’è la ricerca positiva di una chiarezza delle cose; e infine anche l’aspirare ad una maggiore leggerezza, questo fatto che comunque poi bisogna provare anche gioire della vita, apprezzarla, averne piacere. Insomma se dovessi descriverti userei queste parole tue, mi sbaglio?? Non sbagli anche se però per onestà da parte mia, per quei brani che hai citato, potrei parlare della scrittura terapeutica, nel senso che sono più impegni presi con me stesso.! Questa cosa della leggerezza è una cosa che sento molto perché è una cosa che io stesso sono il primo a ricercare, io vorrei riuscire ad essere leggero, così come vedi anche nello spettacolo all’inizio è tutto abbastanza incastrato e non sai bene come dire o reagire, perché comincia lo spettacolo e non sai come prenderlo, ecco quel “non sai come prenderlo” è un po’ la mia condizione quotidiana, non so come prendere le cose, e quindi è una lotta con me stesso che penso e rifletto e cerco troppo e quindi mi appesantisco, e invece il desiderio di voler essere leggero, e dire ma vaffanculo.... Quella roba lì lo scritta perché è un invito che faccio a me stesso innanzi tutto perché sono il primo a non esserne capace in maniera spensierata. Infine è vera anche l’altra cosa che hai letto, il mio rapporto col buio il mio rapporto con l’esperienza, con l’avventura, in quel capitolo si parlava di una avventura da piccoli, è quella voglia di vedere la luce, in realtà io ci voglio entrare, non ho paura di entrare nel buio proprio perché in fondo so che c’è qualcosa e allora si entro e vado avanti. Però poi mi piace anche il buio, la pesantezza, la sofferenza, un po’ a tutti noi piace pure patire....soffrire...!!! Lo dice con quel sorriso dolce e scanzonato da ragazzo che insieme alla profondità dei suoi occhi e ai suo modi semplici e cortesi conferma la totale assenza di vezzi e ammiccamenti da star televisiva e lo rivela carico di quella umanità che tanto lo appassiona.


riunione

di famiglia

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Le Sorelle Marx

Un tram chiamato Giani

Una ventata d’aria nuova anche a Firenze, finalmente! Ci voleva il sindaco-violinista per togliere un po’ di grigiore, lascito dell’era Domenici, e dare colore, suoni e nomi nuovi alle cose. Così, dopo aver annunciato che le fermate della tramvia saranno “abbellite” con opere di arte contemporanea (attendiamo in trepidante attesa), Nardella dice addio ai termini anonimi “Linea 1, 2 o 3”; le linee si ispireranno a personaggi legati alla città. Durante l’ennesima inaugurazione del nulla (il nuovo senso di marcia in piazza della Costituzione, in direzione Statuto), ha annunciato: “Vogliamo aprire in città e soprattutto nelle scuole una grande consultazione per dare dei nomi alle linee della tramvia. Chiamarle Linea 1, 2 o 3 è un po’ banale e vogliamo legarle alla città pensiamo ai nostri grandi artisti, intellettuali, scienziati o uomini del Rinascimento. Perché no una disegno di

linea Brunelleschi, Michelangelo o Verrazzano”. Ma noi, caro sindaco, ci ribelliamo a questa retorica rinascimentale e abbiamo deciso di aprire una sottoscrizione che, ne siamo certi, raccoglierà migliaia, anzi centinaia di migliaia, di adesioni: l’unico nome cui degnamente può ispirarsi una infrastruttura nuova come la tramvia è il suo, Eugenio Giani. Naturalmente il simbolo grafico della linea sarà il ditone di Eugenio che segnala i siti pregevoli che la linea attraverserà; il colore del tram dovrà essere bianco e rosso, come il fascione presidenziale e i viaggiatori saranno riforniti di brochure con visita guidata alla città vergata di pugno da Eugenio. Manco a dirlo i viaggiatori saranno allietati da musica di sottofondo (“La porti un bacione a Firenze” e niente violino!” e dalla suadente voce del Nostro che annuncerà le fermate. Pregevolissima iniziativa.

Roberto Innocenti

Innocenti e colpevoli

I Cugini Engels

I cervelli all’estero

Laura Puppato è una buona domanda; del tipo “ma come è possibile?”. Infatti come è possibile che un’amministratrice locale veneta sconosciuta ai più finisca per essere presa sul serio per candidarsi alla segreteria nazionale del principale partito del centrosinistra, com’è possibile che nonostante prenda a quelle primarie un numero di voti non sufficienti ad amministrare un condominio di medie dimensioni finisca in Senato, come è possibile che vista l’incredibile fortuna avuta invece di tacere e accendere lumi

alla Madonna senta ancora il bisogno di esternare? Prima con la storia della tessera dell’ANPI, rifiutata, no non richiesta, poi scomparsa come scompare ogni polemica da 140 caratteri, poi con l’ultima esternazione post risultato del referendum. Un tweet in cui dando di cretini al 60% degli elettori diceva che il sì aveva vinto all’estero perché là erano fuggiti i cervelli. Chi fosse rimasto in Italia era facile supporlo. Il tweet aldilà del cattivo gusto aveva un grandissimo difetto: l’autrice l’aveva pensato, redatto e inviato dall’Italia.

La Stilista di Lenin

Agnese Renzi, l’unico successo di Jim

Domenica sera, Agnese Landini in Renzi, era accanto a Matteo, di lato, visibile ma non ingombrante. Un panorama, insieme alle disposizione delle bandiere, tipicamente da presidente degli Stati Uniti. Anche l’uscita, di spalle, al braccio della moglie era il movimento che abbiamo visto tante volte nei saloni della casa bianca. Inutile non pensare che tale regia abbia un padre, quel Jim Messina che oggi molti additano come uno dei responsabili del crollo di Renzi al referendum. Tuttavia Messina un successo l’ha ottenuto, ha creato con Agnese la figura della first lady, le ha dato un ruolo che prima, nessuna moglie del presidente del consiglio ha mai lonMassimo Cavezzali cavezzalicartoons@hotmail.com

tanamente, avuto. Paiono passati lustri dalle prime dichiarazioni in cui la signora Renzi affermava di non voler seguire il marito a Roma per consentire ai figli di studiare. Protagonista senza protagonismo, icona senza essere ingombrante, aveva iniziato già prima della campagna referendaria a acquisire visibilità nel Paese, sovrapponendo la sua immagine rassicurante ad altre figure femminili più debordanti, una volta divenute ingombranti per fatti di famiglia. Tuttavia è con la campagna referendaria che Agnese acquista un ruolo oltre un’immagine; quanto questo si rivelerà utile per il futuro di suo marito lo vedremo.

Scavezzacollo

di

Animali e animalisti


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I manuali dell’800

Danilo Cecchi danilo.c@leonet.it di

P

er chi si occupa di fotografia o di storia della fotografia, un piacere almeno pari a quello di contemplare le vecchie stampe fotografiche dell’Ottocento, è quello di consultare e sfogliare (anche virtualmente) i vecchi manuali della stessa epoca, trovandovi accanto alle cose risapute anche cose meno scontate, cose impreviste e cose quasi dimenticate. Ad una prima occhiata, anche non approfondita, la seconda metà dell’Ottocento si rivela ricca di pubblicazioni di questo genere, soprattutto in francese ed in inglese, ma anche in italiano. Talvolta per i testi in italiano sono traduzioni dal francese, come il primo “Trattato Pratico di Fotografia” di Marc Antoine Gaudin (1804-1880) del 1844, tradotto e pubblicato da Carlo Jest a Torino nel 1845, ma ci sono anche molte opere originali, come il “Trattato Teorico-Pratico di Dagherrotipia ed Eliografia” dello scienziato e matematico Enrico Montucci (1808-1877) scritto a Parigi ma pubblicato a Livorno nel 1847. In età preunitaria vengono pubblicati ancora due manuali italiani, nel 1855 il “Trattato Pratico della Fotografia” del fotografo romano Giacomo Caneva, e nel 1856 il ponderoso “Plico del Fotografo” di Giuseppe Venanzio Sella (1823-1876) pubblicato a Torino da Paravia. Composto di oltre 400 pagine, portate a 500 nella seconda edizione del 1863, il “Plico del fotografo” viene tradotto in francese, prima opera italiana sull’argomento a godere di tale privilegio, da Edmond De Valicourt e viene pubblicato nel 1856 a Parigi da Roret con il titolo “Guide Théorique et Pratique de Photographie”. Non tutti i manuali pubblicati successivamente hanno lo stesso spessore materiale e culturale di quello del Sella. Il farmacista fiorentino Alessandro Bizzarri pubblica nel 1862 il “Manuale pratico di fotografia sul collodione”, un volumetto estremamente sintetico di una cinquantina di pagine, di cui sette contenenti il suo listino prezzi, Sonzogno pubblica nel 1863 un anonimo ”Almanacco del Fotografo Senza Maestro” e nello stesso anno Girolamo Brioschi pubblica il suo “Manuale Pratico di Fotografia”, composto

da 132 pagine e rieditato nel 1868. Intanto le traduzioni di opere straniere continuano. Nel 1864 viene pubblicata la traduzione dal tedesco a cura di Antonio Mascazzini dello “Handbuch der Photographie” del chimico Paul Eduard Liesegang (1838-1896), con il titolo “Manuale Illustrato di Fotografia”, e nell’anno successivo viene pubblicata la traduzione dal francese a cura di Carlo Antonini del “Trattato generale di Fotografia” del chimico belga Desiré van Monckhoven. Naturalmente gli autori italiani non si limitano solamente a tradurre, e si dimostrano molto prolifici. Nel 1868 Luigi Borlinetto pubblica il suo primo “Trattato Generale di Fotografia” di 559 pagine, seguito l’anno successivo dal volume “Fotografia alle polveri indelebili” e dieci anni più tardi da “Moderni Processi di Stampa Fotografica” di 372 pagine. Nel 1878 il fotografo livornese Ugo Bettini pubblica la prima edizione del suo trattato “La

Fotografia Moderna - Trattato Teorico-Pratico”, a cui segue il “Trattato generale di Fotografia”. Mentre si moltiplicano i trattati ed i trattatelli di chimica e di ottica applicate alla fotografia, oltre alle monografie sulle particolari tecniche di trattamento e di stampa delle immagini fotografiche, si segnalano alcuni autori italiani di alto livello. Giovanni Muffone

(1859-1927), con il suo libro “Come Dipinge il Sole - Manuale di Fotografia per i Dilettanti”, inaugura nel 1887 la fortunata serie dei manuali Hoepli dedicati alla fotografia. Il libro del Muffone viene aggiornato e rieditato nel 1892, nel 1895 e nel 1899 e così via, fino alla nona edizione del 1925. Pubblicano con Hoepli anche altri autori, come Luigi Sassi, con il suo “Ricettario Fotografico” del 1893, tradotto in francese da Ernest Jacquez con il titolo “Formulaire Photographique”, a cui seguono numerosi altri manuali, pubblicati fino agli anni Venti del Novecento. Giovanni Santoponte inizia con la pubblicazione nel 1892 a Livorno di un “Manuale Pratico di Fotografia alla Gelatina-Bromuro d’Argento”, a cui seguono altre opere, come “Il primo passo del dilettante fotografo” del 1897, fino al suo primo ”Annuario della Fotografia” del 1899, che prosegue con cadenza annuale fino al 1910. Altro autore di rilievo è Luigi Gioppi, ovvero il conte Luigi Gioppi di Turkheim (18581930), il quale pubblica nel 1886 per proprio conto e con il titolo “Manuale del Dilettante di Fotografia” la traduzione del “Manuel du touriste photographe” di Léon Vidal (1833-1906), per lanciarsi poi nella pubblicazione di numerosi manuali del genere, come il “Manuale pratico della fotografia alla gelatina-bromuro d’argento” del 1887, rieditato più volte, e legandosi ad Hoepli nel 1890 con “La Fotografia secondo i Processi Moderni - Compendio Teorico Pratico” e con il “Dizionario Fotografico ad uso dei Professionisti e dei Dilettanti” del 1892. Nel 1892 il Gioppi, che mantiene con la Francia un rapporto continuo, pubblica insieme ad Abel Buguet (1855-1921) una curiosa opera, “La Bibliothèque du Photographe”, ovvero un elenco completo e dettagliato di tutte le opere riguardanti, direttamente o indirettamente, la fotografia, pubblicate fino a quel momento nelle lingue francese, italiano, inglese, tedesco e spagnolo, suddivise per categorie. Luigi Gioppi è anche il direttore della rivista mensile milanese “Il Dilettante di Fotografia”, una delle prime riviste italiane del settore, che vive fino al 1908. Ma questa è un’altra storia.


10 DICEMBRE 2016 pag. 6 Laura Monaldi lauramonaldi.lm@gmail.com di

A

ll’alba del 1962 il movimento Fluxus riuscì a creare una nuova prospettiva artistica, ponendosi oltre l’immaginario comune del canone estetico e proponendosi agli occhi del mondo con una trasgressione inedita, che coinvolse decine di artisti provenienti da tutto il mondo e da tutte le discipline. La nuova poetica funzionò da comune denominatore per tutti coloro che sentirono il bisogno di una sintesi intellettiva fra Arte e Vita, fra ciò che la dimensione estetica poteva donare e tutto ciò che la quotidianità poteva offrire. L’opera d’arte divenne un incontro di casualità e genialità, un fulcro di ipotesi e ricerche, una vitalità energica e forte, capace di sconvolgere lo spettatore per l’estremizzazione scenica e operativa che gli artisti destinavano di volta in volta tramite performance, eventi e happening eccezionali e irripetibili. Fluxus aprì la strada a quella sperimentazione in grado di liberare il significato dell’Arte da un canone troppo stretto e riduttivo, rispetto alle reali possibilità che la pratica artistica poteva e può realizzare. Il merito di Fluxus fu quello di aver creato un network dialogico e dialettico, a cui anche Eric Andersen prese parte con la consapevolezza che l’avanguardia era una porta aperta sul futuro delle arti, in senso espressivo e comunicativo. In tal senso il principio estetico doveva uscire dalla dimensione locale, per immergersi in una necessaria globalità rinnovata e scoperta e lì operare in nome della cooperazione e dell’immediatezza interpretativa. Nelle opere di Eric Andersen l’Arte entra nella società con un forte impatto destabilizzante, teso a ricostruire le strutture portanti delle coscienze collettive, più aperte e più inclini a una operatività intermediale. L’artista distrusse i limite disciplinare per convogliare i linguaggi in un’unica unità neo-rappresentativa, affinché tutto potesse prendere parte alla vita. Eric Andersen lavorò dentro e oltre la quotidianità, per riscoprirla e ristrutturarla dall’interno, in virtù di un’e-

stetica multisensoriale in cui le dimensioni culturali e psicologiche coincidono simultaneamente, mettendo in connessione più elementi possibili nel medesimo istante, qualificandosi come un catalizzatore di osservazioni, riflessioni e punti di vista. Non a caso in questa prospettiva l’opera d’arte acquisisce una molteplicità di livelli funzionali e intellettivi che l’artista riesce ad amalgamare sapientemente, in una visione concettuale aulica e importante. Eric Andersen ha il merito di aver visto in Fluxus l’aspetto più filosofico della nuova prassi artistica, producendo opere dall’ampio respiro fenomenologico, poiché solo l’Arte è in grado di giungere là dove la mente umana non può avvicinarsi e solo l’Arte è in grado di unire gli sguardi di un mondo sempre più globalizzato e interconnesso.

La sintesi di Eric

Anderson

Al centro The Hope Plate, 2000 Serigrafia su metallo e scatola in legno con oggetti cm 120x100 In alto e a fianco The digital Mona Lisa, 1998 Tecnica mista e collage su cartone cm 45x60 Courtesy Collezione Carlo Palli, Prato


10 DICEMBRE 2016 pag. 7 Berlinghiero Buonarroti berlinghierobuonarroti@virgilio.it t di

U

na giornata di studio dal titolo “Graziano Braschi, un uomo d’ingegno” si è tenuta il 29 novembre ultimo scorso, presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze. È stata l’occasione per apprezzare un autore intrigante e versatile, giustamente definito “un uomo dal multiforme ingegno”. I compagni dell’avventura di “Ca Balà” e dell’esperienza satirica hanno avuto modo di vedere svelate anche le sue capacità scrittorie nel mondo del giallo e dell’horror, sia come autore di testi creativi, che come

ma bianca, pirati ecc. ispirati dalle sue numerose letture di romanzi di azione e d’esplorazione dell’ignoto. Un umorismo letterario e poetico che trae la linfa dal fantastico mondo di Salgari, Verne, Stevenson. L’humour di Braschi è intelligente, ingegnoso e sottile; ha il compito di interpretare e presentare la realtà, estraendone quanto vi si trovi d’insolito, di bizzarro e divertente. Nello stesso momento è forza critica, disgregatrice e sovvertitrice delle

Il nero umorismo di Graziano Braschi

organizzatore e curatore di una decina di antologie su tali tematiche. Da parte loro i molti amici giallisti, coinvolti a più riprese nelle spericolate iniziative di Braschi, hanno scoperto, con dichiarata meraviglia, che era soprattutto un grande umorista. Ma questa caratteristica tendenza l’avevano sospettata, avendo il nostro redatto due antologie cosiddette gialle, ma permeate di umorismo, ironia elegante e grottesca, i cui titoli sono tutto un programma: “Delitti per ridere” e “Riso nero”. Il fil-rouge, collante che lega tutta la poetica di Graziano Braschi, si tinge magicamente di un solo colore: il nero. Le letture adolescenziali dei romanzi gotici noir e quelli d’avventura sono state le premesse, di concerto con i sodali del Gruppo Stanza, per tante invenzioni di humour grafico. Poi, nell’ultima stagione della sua vita, è sempre lo stesso colore ad accompagnare il continuo peregrinare di Graziano nei brevi brividi del nero poliziesco. Durante il convegno sono state proiettate una sessantina di diapositive, con disegni inediti realizzati da Braschi cinquant’anni fa. Rigorosamente senza parole, ma con la capacità intrinseca di descrivere mondi impensabili e stralunati, popolati di sirene, pésche miracolose, duelli all’ar-

tradizioni. È un riso di volta in volta truculento, dalle apparenti crudeltà, essenziale per esorcizzare il dolore e per demitizzare concetti intoccabili. Un umorismo iconoclasta ma lirico, come esaltazione della libertà di irridere i dogmi, non esclusi quelli del sacro. Un’arguzia erotica per infrangere i tabù del moralismo. Un’irrisione che percorre il bestialismo e la visceralità scatologica; territori poco frequentati, ma i soli in grado di violare le norme del galateo morale, imponendo il buon senso dell’assurdo quotidiano. In una parola “humour quale rivolta superiore dello spirito” così come André Breton ebbe a definirlo quale “momento d’indipendenza assoluta della poesia”. Il convegno ci ha anche ricordato che Braschi è l’autore del famoso “Omino”, disegnato nel lontano 1966, divenuto poi il simbolo della rivista di satira e umorismo grafico “Ca Balà” ed una delle più conturbanti icone del Novecento. Uno “sguardo profondo” per guardarsi dentro psicologicamente e per riconoscersi, talvolta, un po’ peggio di quello che crediamo di essere.


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L’appartamento

Simonetta Zanuccoli simonetta.zanuccoli@gmail.com di

questo lasciarlo nonostante che l’affitto fosse elevato e lui spesso dovesse ricorrere al finanziamento dei discepoli o pregare il proprietario di fargli credito per qualche mese. Nel 1844 incontra Clotilde de Vaux, moglie di un ladro e falsario fuggito in Belgio. Comte se ne innamora perdutamente ma lei lo respinge in quanto donna pur sempre sposata e fervente religiosa. La loro passione si manifesta solo attraverso una fitta corrispondenza e le innocenti visite settimanali di lei nell’appartamento in rue Monsieur le Prince (dove ancora oggi c’è nel salotto la poltroncina imbottita dove lei sempre sedeva). Ma Clotilde muore di tubercolosi appena un anno dopo. Il lutto accentua il disagio psichico del filosofo. Negli ultimi anni della sua vita, riflet-

tendo sulla necessità di un collante che potesse tenere insieme una società, elabora una Religione dell’Umanità, positiva senza trascendenza né dogmi, dove il sapere scientifico diventava fede e i riti e cerimonie attività puramente sociali. Muore nel 1857. Subito dopo, in conformità dei suoi desideri testamentali, i suoi discepoli si trasferiscono nell’appartamento in rue Monsieur le Prince. Tutto deve rimanere uguale a come Comte lo aveva lasciato. Ma la moglie Caroline Massin e il suo nuovo compagno, Emile Littré ex allievo di Conte, spinta dall’interesse per l’eredità e in particolare per i diritti d’autore, contesta il testamento, fa mettere i sigilli all’appartamento, manda all’asta tutti i mobili, gli oggetti e anche i 4000 volumi della biblioteca

di Comte. I seguaci del filosofo non si arrendono: riscattano tutto all’asta, si riappropiano del “domicile sacrè”, lo fanno diventare la sede della Società Positivista e nel 1893, grazie alle sovvenzioni di discepoli e ammiratori, lo acquistano insieme a tutto il palazzo. Poi nel 1905, a seguito di scissioni interne al gruppo, l’appartamento viene abbandonato e le sue condizioni si deteriorano rapidamente. Il palazzo al numero 10 in rue Monsieur le Prince rischia anche di essere abbattuto per un nuovo piano regolatore. Ma nel 1927 un ricco accademico brasiliano fanatico di Comte, Paulo Carneiro, riesce a ottenere la classificazione di Monumento Storico dell’appartamento salvando così l’edificio dalla distruzione, e, investendo una cifra esorbitante e molti anni di lavori, lo restaura, naturalmente ripristinandone il carattere originario. Infatti, attraverso l’inventario lasciato dal filosofo prima di morire, fa ricostruire anche alcuni mobil dispersi e restaurare le carte da parati dalle stesse ditte che avevano fatto gli originali. Dal 1968 l’appartamento, che fa parte del circuito parigino delle case di scittori come quelle di Balzac e Hugo, è aperto al pubblico. Chi lo visita rimane sorpreso di ritrovarsi in un’abitazione privata del XIX secolo rimasta tale e quale. Nella camera da letto c’è ancora il mazzo di fiori in tessuto che un giorno la pudica Clotilde portò in dono all’innamorato Auguste.

finanziario e gli autori della riforma (Renzi e Boschi) avrebbero – a loro dire – cambiato mestiere. Tutto annunciato fino alla noia. Giuro, non era mia intenzioni tornare sull’argomento. Ma ci sono vicende che lasciano un segno, che sorprendono e stupiscono, e che per questo non devono essere cancellate. E il post referendum è una di queste. Mentre il Presidente del Consiglio in più sedi – il bilancio dei 1000 giorni, la direzione Pd e nella sua Enews – ci ripropone una foto a colori dell’Italia, con un lungo elenco di cose realizzate, che avrebbero cambiato in meglio la vita di tutti noi, l’Istat – nello stesso giorno – ci presenta un quadro dell’Italia completamente diverso.

Renzi ci ha raccontato fino alla noia che il Pil è in crescita e il debito cala, aumenta l’occupazione compreso quella giovanile, così i consumi e la produzione industriale, e poi gli 80 euro, le tasse ridotte, le leggi sui diritti civili, lo spreco alimentare, il processo civile telematico, la lotta alla corruzione, l’istituzione dell’Anac, il tetto agli stipendi, la riforma della PA, l’Expo e la bonifica della terra dei fuochi, ecc ecc. L’Istat invece ci mostra un’altra foto, questa volta in bianco e nero: il 28,7%, più di un italiano su 4, sarebbe a rischio povertà (percentuale che sale al 48,3 nelle famiglie con 3 e

più figli e al 46,4 nel Sud Italia). Si tratta di 17,5 milioni di italiani in condizione di esclusione sociale. Il potere d’acquisto delle famiglie si è ridotto del 12% e siamo scivolati al 16° posto tra i paesi con più diseguaglianze, seguiti in Europa solo da Cipro, Portogallo, Spagna e Grecia. Squilibri che in questi ultimi anni di crisi si sono aggravati. Dati contrastanti. A ben vedere, il tutto era stato anticipato dal voto del 4 dicembre. Dice l’Istituto Cattaneo: gli elettori hanno bocciato l’operato del governo e hanno voluto mandare un segnale per dare sfogo al diffuso malessere. Ma il messaggio è stato rispedito al mittente.

A

nche un appartamento può avere un interessante storia da raccontare. Il protagonista di 165 mq. di quella che sto per narrare si trova al secondo piano di un edificio relativamente modesto al numero 10 di rue Monsieur le Prince a Parigi. Per sedici anni, dal 1841 al 1857, ci ha vissuto August Comte, personaggio singolare e geniale difficile da decifrare, ingegnere, riformatore sociale, poeta, moralista, fondatore della Filosofia Positiva e della Religione dell’Umanità. Nel 1826 cominciò ad avere dei problemi psichici che lo portarono ad essere internato nella clinica dell’allora celebre dottor Esquirol da dove uscirà dopo qualche tempo con l’implacabile sentenza di ”non guaribile”. Un anno prima, nel 1825, aveva sposato Caroline Massin, prostituta che esercitava nei giardini di Palais Royal. Con lei si trasferisce nel 1841 nell’appartamento protagonista di questa storia. Un anno dopo, nonostante l’intesa intellettuale e l’ammirazione, la moglie lo lascia, ma continua a seguirne l’opera ed avere una corrispondenza assidua per tutta la vita. Comte, affranto, trova consolazione nei suoi studi e nel vivere in quell’appartamento in rue Monsieur le Prince, i “cui muri emanavano potenza filosofica d’immagini e sentimenti”, dove scrive le sue opere più importanti. Non poteva per

di

Remo Fattorini

Segnali di fumo Le parole e i fatti. Pensavo, passerà anche il 4 dicembre. Sperando che nel dopo voto l’Italia - politica e non - tornasse alla normalità. Illusione. Se quella del referendum è stata una lunga e velenosa campagna elettorale, il dopo voto si è presentato con la sua faccia peggiore. Eppure ad ascoltare le tante parole pronunciate tutto avrebbe dovuto trovare uno sbocco naturale. Se vince il Sì l’Italia cambia e riparte. Se vince il No avremmo avuto il disastro


10 DICEMBRE 2016 pag. 9 Alessandro Michelucci a.michelucci@fol.it di

N

ei secoli scorsi i nomi dei personaggi celebri venivano tradotti in varie lingue: pensiamo a Cristoforo Colombo (Cristobal Colón), Thomas More (Tommaso Moro) e Mikołaj Kopernik (Niccolò Copernico), tanto per citare qualcuno dei più famosi. La stessa sorte è toccata a tanti altri, fra i quali il teologo catalano Ramon Llull (1233-1316), noto in Italia come Raimondo Lullo. A questa studioso multiforme - filosofo e scrittore, astrologo e missionario - è dedicato Art (Picap, 2015), l’ultimo CD del pianista Manel Camp. Nato a Manresa nel 1947, questo compositore catalano vanta una carriera lunga e prestigiosa che spazia dal jazz al classico, senza dimenticare la musica per film. Ha collaborato con i nomi più prestigiosi della sua terra: solisti come Montserrat Caballé, Lluís Llach e Marina Rossell, gruppi come Elèctrica Dharma e Pegasus, or-

Arte universale

chestre sinfoniche. Art è stato scritto per il 700° anniversario della morte di Llull. A lui Camp aveva già dedicato

un CD strumentale, El llibre de les bèsties (1999). La musica di Art si basa sui principi dell’ars magna elaborata dal teologo catalano. Questa è una logica universale capace di dimostrare la verità partendo da termini semplici e combinandoli in modo matematico. La ricerca di concetti universali rappresenta un dato essenziale del grande edificio culturale

costruito da Llull, che auspicò anche la creazione di una lingua mondiale. Oggi, grazie a Camp, l’arte universale che veniva ricercata dallo studioso trova piena espressione in quel linguaggio universale che è la musica. Il pianista si presenta in quartetto, affiancato da Matthew Simon (tromba e flicorno), Horacio Fumero (contrabbasso) e Lluís Ribalta (batteria). Nomi poco noti in Italia, ma esponenti prestigiosi di un ambiente jazzistico che merita di essere esplorato. Art è un progetto interdisciplinare dove la musica di Camp si coniuga con le parole dell’attore Joan Crosas, che legge brani tratti dalla Vida coetània di Llull. Nella versione eseguita dal vivo si aggiunge l’artista circense Manolo Alcántara. Il disco offre una musica elegante e ricca di sfumature che ci stimola a conoscere meglio questo compositore. Al tempo stesso, evidenzia la grande vitalità della cultura catalana, che aveva già espresso artisti di livello mondiale: da Pablo Casals a Salvador Dalí, da Antoni Gaudí a Mercé Capdevila. Manel Camp appartiene di diritto a questo gruppo.


10 DICEMBRE 2016 pag. 10 Cristina Pucci chiccopucci19@libero.it di

F

orse è proprio giusto che sia un film di animazione a raccontare storie di bambini che hanno vissuto esperienze drammatiche, fuori dal comune e, per molti, anche dal credibile. Narrare di una bambina abusata e picchiata dal padre, di una che ha assistito all’omicidio della madre da parte del padre e al suo suicidio, di un altro, figlio di due tossici inveterati, del nostro piccolo Icare, detto Zucchina, che vive con una madre alcolizzata che lo picchia e della quale causa involontariamente la morte e così via non sarebbe stato davvero facile in un vero e realistico film. I fratelli Dardenne hanno spesso narrato la storia di una qualche situazione di disagio, una sola si badi. Mi ricordo che dopo aver visto il loro bellissimo Rosetta, che racconta la difficile vita ed il frustrato riscatto della protagonista che vive in una scalcinata roulotte con la madre alcolista e psicotica, una mia amica ha detto “ma non è una storia possibile…”Purtroppo non solo sono storie possibili, ma reali e numerose. Purtroppo non sempre i bambini che ne sono vittime trovano percorsi adeguati a lenire il loro dolore e rimarginare le loro ferite. Questo film delizioso, ispirato al libro di memorie di Gilles Paris, ha come regista Claude Barras che ha dato vita a 54 diversi pupazzi con tre tipi diversi di costumi, animati per pochi secondi alla volta in 60 set diversi, 50 artigiani sono stati coinvolti nella loro realizzazione, le riprese hanno richiesto 8 dei ventiquattro mesi necessari a realizzare i 66 minuti di film… Delicatezza, colori e poesia narrativa ne sono gli elementi dominanti. Il nostro piccolo protagonista gioca nella sua mansarda con le lattine di birra che sua madre si è scolata, ha costruito un aquilone sul cui retro compare l’immagine di una “pollastrella” con cui la madre dice sia fuggito suo padre. Causata involontariamente la morte della madre, nel film chiudendo la porta della mansarda fa ruzzolare le scale alla madre che sale per picchiarlo, nel libro un colpo partito dalla pistola che lei vuole togliergli di mano e con cui stava sparando al cielo colpevole di far bere la madre e fuggire il padre, viene condotto da un poliziotto,

La mia vita da zucchina capace di umana vicinanza e rassicurante comprensione, in una “comunita”per bambini vittime di tragedie più grandi di loro. L’accoglienza in un luogo altro, esente da emotività espresse drammaticamente, dove si tollerano spazi di silenzio e modi particolari, nel film i “disturbi” dei piccoli ospiti sono appena accennati, dove adulti vigilano senza troppo intrudere, è di per sé terapeutica, cosi come lo è la possibilità di stare con gli altri, giocare con loro, ascoltarne le storie e condividere la propria. Il nostro Zucchina conserva il suo aquilone e una

lattina di birra, memorie della sua infelice vita familiare, in un sogno è grande, c’è sua madre che beve e anche lui beve, nel raccontarlo a Camille, la bambina testimone dell’omicidio suicidio dei suoi, che diventa la sua amata amica del cuore, si rallegra del fatto che non sia vero. Nella sua delicatezza, lievemente edulcorata, la storia non ci risparmia nulla, compresi i tentativi di una cattiva zia maltrattante e svalutativa che vorrebbe avere il nipote in affidamento per i soldi che per questo le verrebbero dati. Piccole note raffinate: il barometro con il tem-

po di ciascuno dei bambini, uno il figlio dei due tossici, che non lo visitano mai e gli inviano però costosi oggetti senza nemmeno una parola di accompagnamento, sempre burrascoso, il piccolo marocchino che ogni volta che arriva qualcuno esce gridando “mamma!!” e fugge da lei quando arriva davvero: una vita nota e tranquilla si lascia malvolentieri per un cammino ed una relazione che non si conoscono più... Quando, in vacanza in montagna, vedono una mamma che conforta il suo bambino che è caduto dicono prima “come è bella...” poi però “forse non è la loro mamma..” I bambini hanno capacità di resistere ad orribili avversità e ricostruirsi se viene dato loro qualcosa di affettivamente buono cui attaccarsi, qualcosa, anche un piccolo legame positivo e stabile. Il poliziotto adotterà Zucchina e Camille che si vogliono molto bene. Non molto da bambini questo film, spero sia visto da adulti e operatori che girano intorno all’Infanzia maltrattata, Giudici, Assistenti Sociali, Terapeuti, Educatori, Politici.


10 DICEMBRE 2016 pag. 11

60 volte Monica

Rita Albera albera@libero.it di

1974. Questo l’aneddoto. Bello da raccontare ma forse un po’ inventato perché Monica spinta dalla madre aveva già fatto una apparizione nel film di De Sica “Una breve vacanza” Comunque vero è che Strelher appena la vide la volle per la parte di Anja Da allora nella sua vita di giovane attrice si avvicendarono grandi registi Missiroli, DeLullo, Valli Sepe,Lavia. E poi cinema anche con qualche concessione sbagliata al filone falso erotico e tanta, tanta, televisione che l’ha avvicinata al grande pubblico consegnandola a ruoli di donna forte spesso dolente ed indomita. Ultimo il ruolo della madre su cui pesa la condanna per omicidio del marito nel “Nessuno può uccide-

I

capelli inaspettatamente biondi, gonfi e incolti le stanno benissimo. Aggiungono luce a un viso che è già radioso nonostante gli anni vi abbiano lasciato segni che orgogliosamente non ha voluto correggere. Gli occhi bistrati per esigenze di scena, neri e profondi, maliziosi e malinconici sottolineati dalle occhiaie e le rughe ai lati della bella bocca spesso atteggiata al sorriso. A sessant’anni compiuti Monica Guerritore è una donna bellissima e magnetica come lo erano le attrici di una volta ma è soprattutto una donna autentica e vera. Con la sua voce modulata si racconta con intelligente ironia, ma, viene da dire, con affetto. Come chi dopo avere dato e sofferto e amato al fine si ama e sta tutta in se stessa mentre ricorda la sua vita che è stata ricca e intensa, ma ha conosciuto anche il dolore. Quello inevitabile delle perdite a cominciare dai genitori troppo presto separati e di un padre dileguatosi in un’altra famiglia. Degli amori falliti, delle separazioni laceranti e quello più sgomento e solitario della malattia Un tumore al seno dieci anni fa guarito grazie a una previdente operazione.Aveva diciassette anni quando Strelher la scelse per la parte di Anjia nel “Giardino dei ciliegi”. Accadderacconta- per caso, si direbbe una predestinazione. Figlia di una famiglia dell’alta borghesia stava per partire per le vacanze invernali ma un’amica la pregò di accompagnarla ad un’audizione al Piccolo di Milano...Ci andò di malavoglia tanto per far coraggio all’amica. Quando Streler la vide la scelse nonostante la sua età e nonostante fosse del tutto impreparata a recitare. La cosa fu talmente inaspettata che quando il regista la fece chiamare era già partita senza lasciare traccia di sé né nome né indirizzo. La rintracciarono mettendo un annuncio sul Corriere “.Streler cerca per la parte di Anja ragazza alta magra castana vista ieri al Piccolo con cappotto e valigia” Era il

Lido Contemori lidoconte@alice.it di

Il migliore dei Lidi possibili La scivolata dal Monte

Disegno di Lido Contemori Didascalia di Aldo Frangioni

re”. Molti amori, scelta freudiana, tutti con uomini molto più grandi di lei. Si mormorava di Strheler si mormorava di Giovanni Agnelli. Sicuramente con Gabriele Lavia cui l’hanno legata un matrimonio, due figlie e un lungo sodalizio artistico ma anche un rapporto tormentoso e distruttivo che ha rivissuto in” Scene da un matrimonio” di Bergman. Sicuramente con Giancarlo Giannini, un amore ugualmente intenso e doloroso finito in reciproco astio. E finalmente oggi un rapporto sereno di affetto,stima e grande sostegno con Roberto Zaccaria di diciassette anni più grande, ex presidente della Rai, intellettuale e studioso dell’area di sinistra prestato alla politica. E’ questo l’amore che l’ha sostenuta nella prova della malattia e che la sostiene oggi che alle prove da attrice alterna quelle più impegnative di regista interprete e drammaturga di spettacoli di grandissimo successo. Giovanna d’Arco, Dall’inferno all’infinito, Mi chiedete di sparare dove interpreta Oriana Fallaci End of the rainbow dedicato a Judy Garland Mentre rubavo la vita folle e commovente su poesie di Alda Merini. Ultima la commedia comica amara Mariti e mogli da un testo di Woody Allen che va ad inaugurare per la prossima stagione di prosa. Ci si chiede come questa donna così colta e raffinata,così elegante, forte e fragile allo stesso tempo, in apparenza inaccessibile piaccia tanto al grande pubblico uomini o donne che sia. Se c’è una spiegazione è nella sua manifesta sensualità che non scema con il passare degli anni. Sensualità nella voce,nello sguardo, nel modo di muoversi, nel sorriso e nei gesti. Sensualità che non ha niente a che fare con l’attrazione erotica ma è il suo modo di stare al mondo, di far sentire che è viva e che il mondo felice o ingiusto,dolce o amaro le appartiene. Un giorno perdonerò tutto il male che mi sono fatta,tutto il male che mi sono fatta fare e mi terrò abbracciata stretta, stretta. Lo diceva Emily Dickinson. Monica ne ha fatto tesoro.


10 DICEMBRE 2016 pag. 12 di

Francesco Gurrieri

S

e qui parliamo dell’ultimo libro di Lauretta Colonnelli – Cinquanta libri / I dipinti che tutti conoscono. Davvero? – non si può non riandare ai suoi precedenti e cioè a La Tavola di Dio e Conosci Roma?, perché pur cambiando i contenuti, univoco e singolare è il metodo di approccio. Che è tutt’altro che il consueto approccio storiografico, scolastico o accademico che sia, insomma cronologico e filologico. No, si tratta d’altro. E ciò ovviamente si spiega in parte col mestiere dell’Autrice, quello di “giornalista culturale nel campo dell’arte”, ma sostanzialmente, col carattere curioso e investigativo della Colonnelli. Pur non dichiarandolo, l’investigazione dell’opera d’arte è – a mio parere – riconducibile ad una strumentazione di lettura, se non si vuol dire critica, che ci riporta al metodo di Warburg e fors’anche alla storia sociale di Arnold Hauser : dottrine entrambe amate e presto dimenticate nell’esercizio storico-artistico dei nostri atenei e dei nostri maestri. C’è una curiosa circostanza per l’appunto con Warburg : egli fece la sua tesi nel 1889 proprio sulla “Primavera” del Botticelli e fu quello il testo su cui avrebbe costruito la sua “teoria” di approccio all’opera d’arte che costituì un vero e proprio strappo rispetto alla lettura stilistica ed estetizzante allora consueta, introducendo l’idea dialettica fra l’immagine e i suoi significati. Nessuno si offenda se riporto rozzamente a sintesi le tre valenze warburghiane, proprio per le coincidenze col testo della Colonnelli: iconografia e storia dell’arte, storia della cultura, analisi della memoria nella cultura occidentale. Altrettanto, mi pare, vale per la metodica hauseriana, secondo cui la storia dell’arte non può prescindere dal contesto storico e, soprattutto, sociale. Questa è forse la connotazione maggiore che contraddistingue il libro della Lauretta Colonnelli. Un libro che – attenzione ! – parla di quadri più che di artisti. Che indaga sulla composizione, sull’impaginazione, sui volti, sugli abiti, sugli oggetti; che scava

Un libro, tre quadri e interroga i dettagli per riportare a galla il senso e i significati più generali. Del resto, “dove, come, quando e perché” non sono, per l’appunto i capisaldi del buon giornalismo? Da qui, forse, la chiave, precisa e intrigante della particolarissima narrazione critica, piacevole e accompagnatrice ma non sopraffattrice di questo libro. Alcuni esempi? Il primo: L’Annunciata di Antonello da Messina (1475-76). “Annunciata” e non “Annunciazione”, non a caso ! “Un dipinto misterioso per vari motivi – ci dice giustamente la Colonnelli -, intanto perché raffigura un’annunciazione con la Vergine ma senza l’angelo che le porta l’annuncio. Ci si è interrogati per secoli se questa fosse la parte di un dittico o meno. Il fatto è che l’angelo non c’è; ed è persino difficile immaginarlo dietro o davanti alla Vergine, come qualcuno ha suggerito. Resta questo capolavoro assoluto che ha fatto scuola anche tra i veneziani : una lezione di figura, di cromìa, di prospettiva (per quella sua mano destra leggermente sollevata) e per la coincidenza temporale col “Cristo Morto” del Mantegna. Così, magari, dopo la sistematizzazione dei tanti dubbi , viene quasi da chiedersi se si debba immaginare questa “Annunciata” in un momento diverso dall’annuncio dell’angelo. Il secondo: Il ritorno del Bucintoro al molo nel giorno dell’Ascensione di Antonio Canaletto(1734). Opportunamente l’Autrice ci ricorda come, all’origine, le tante vedute canalettiane fossero gradite come “pitture di genere” e, in quanto tali, con funzioni quasi di arredo colto, assai gradito dalla borghesia inglese. Insomma, il “vedutismo”, introdotto da Gaspar van Wittel – in Italia, il Vanvitelli – fu a lungo amato con priorità dagli inglesi, grazie anche alla raccolta di ben quattordici vedute del console Smith. Destino volle che, poco più di un secolo dopo, fosse proprio un altro inglese, grande

intellettuale oxfordiano, letterato e storico dell’arte – John Ruskin – a demolire la fama e la stima dell’apprezzato Canaletto. Così

il lapidario e non poco presuntuoso giudizio ruskiniano: “ Il manierismo di Canaletto è il più degradato che io conosca in tutto il mondo dell’arte. Esercitando la più servile e sciocca imitazione, esso non imita nulla se non la vacuità delle ombre, né dà forma ai singoli ornamenti architettonici, per quanto esatti e prossimi. Si tratta di un piccolo, cattivo pittore”. Ma dagli apodittici giudizi di Ruskin, dico io, bisogna prendere le distanze. Ad esempio, mutuando dal campo dell’architettura, non è difficile farsi un’opinione della

declinazione (o deformazione romantica) di Ruskin. Bastino questi due suoi pareri viscerali sull’architettura classica: la piazza del Campidoglio sarà per lui “una malinconica, immonda piazza, di ordinario palladianesimo moderno…”; ed a proposito delle rovine: “ho sempre considerato il Colosseo come una pubblica calamità ed il resto dei ruderi come semplici montagne di frantumati e informi mattoni…”. Il terzo: Nighthawks di Edward Hopper (1942). Ha fatto bene Lauretta Colonnelli a mettere questo quadro di Hopper, anche se, personalmente, ritengo che non sia fra i cinquanta più noti del mondo. Ha fatto bene perché questi “Falchi notturni” (questa la traduzione letterale) sono rappresentativi di una certa America. Un’opera riassuntiva, come suggerisce l’Autrice, con la narrativa di Hemingway, e per il rapporto col cinema di Fritz Lang , Hans Dreier e Alfred Hitccock. La freddezza della notte con l’effetto della luce al neon – allora al suo primo impiego -, la solitudine dei personaggi, l’anonimia come destino umano sono ben riassunte in quest’opera. Hopper non è un artista facile a inquadrare culturalmente. Segnalo che una delle letture più acute si deve a Marco Fagioli nel suo saggio “Walter Sickert, Edward Hopper: il luogo e l’attesa nella città moderna” (1997). E’ appena il caso di notare, come suggerisce la Colonnelli, che quest’opera è del gennaio 1942, pochi giorni dopo l’attacco a Pearl Harbor. Ecco, forse questi tre esempi sono sufficienti a dimostrare come si può non solo educare ma appassionare all’arte, oltre i tradizionali consolidati schemi didattici , che muovono dall’immutabile schema dei manuali di liceo: la cronologia, gli stili, le arti (l’Architettura, la Scultura, la Pittura, le cosiddette Arti Minori che spesso minori non sono). E di questa piacevole trasgressione si dev’esser grati all’Autrice.


10 DICEMBRE 2016 pag. 13

Voglio essere Marxiano

Paolo Marini p.marini@inwind.it di

C

ome si fa ad aspirare un po’ al modello marxiano non avendo, però, come base di partenza quell’ironia graffiante e al contempo garbata - sicuramente geniale - e tuttavia meditando che sarebbe cosa buona e utile farne un’ipotesi esistenziale – se non un ideale - in molte situazioni avverse, o anche grottesche, che si frappongono nel cammino? Si prendano (da “Grouchismi”, Mondadori) le parole con cui Groucho rispose alla stroncatura degli spettacoli di varietà suoi e dei fratelli da parte di Percy Hammond. Questi aveva scritto: “I fratelli Marx e diversi loro parenti hanno fatto le corse sul palcoscenico per quasi un’ora ieri pomeriggio. Il perché non lo sapremo mai”. Chiunque avrebbe risposto con parole acide e piccate. Groucho prese carta e penna e gli domandò: “(...) Come posso vendicarmi di un affronto quando non sono sicuro che sia davvero un affronto? (…) il suo linguaggio, signor Hammond, è sempre così elegante, così prezioso ed eziologico che non riesco mai a capire se lei ci stia lodando o sfottendo.” Quindi concluse: “Qualsiasi cosa lei possa fare per chiarire questo mistero sarebbe molto apprezzata da uno dei suoi più ardenti ammiratori – vale a dire, Groucho Marx.” Con il che aveva sovvertito tutte le regole del sano risentimento, della cattiveria a briglia sciolta. Confrontata con i drammi insopportabili dei reality, con le baruffe chiozzotte di certi talk show, la risposta di Marx sembra provenire da un’età dell’oro. E rimanda, per patente opposizione, al preteso anticonformismo di un Dylan nello snobbare l’ambito riconoscimento, giochetto che avrebbe potuto essere gestito alla grande se il malcapitato avesse deciso di dare una autentica lezione a chi si permette di dare ad un menestrello, per quanto di vaglia, il Nobel della letteratura. Groucho potrebbe per l’appunto aiutare a sostenere lo sforzo di elaborazione di uno stile inatteso, d’effetto, e a rottamare il vieto ‘anticonformismo’; insegnare a confezionare una critica anche feroce in un abito di cortesia e di intelligenza, qualcosa di simile alle imprese goliardiche; a non chiudere la porta, a non zittire l’avversario, a trasformare il confronto e a

condurlo lungo i crinali impervi dell’ironia. Naturalmente anche a Groucho capitava di prendersi sul serio. Quando gli chiesero: “Allora, scemo, quando pensi di smettere con i film e di trovare un lavoro”; egli rispose che, se era vero per lui, valeva per dozzine di altri incompetenti. La cosa che sorprende è veder sbocciare su questo accidente una vera e propria “teoria dell’assenza” - come lui la chiamò - o della riduzione (come anche mi piace ribattezzarla). Sara Chiarello esse.chiarello@gmail.com di

Andare al concerto di J-AX e Fedez, o di Marracash e Guè Pequeno all’Obihall, ascoltare l’Orchestra della Toscana al Teatro Verdi, assistere ai Racconti del Bar Sport al Teatro di Rifredi, o alla nuova creatura - che farà morire dal ridere, assicurano Frankostein al Teatrodante Carlo Monni, con Ceccherini e Paci. Non perdersi il best di Lillo & Greg al Teatro Puccini, assistere al viaggio nel mondo dell’opera lirica con Elio e Francesco Micheli al Teatro Niccolini, vedere esibirsi il Balletto di Amburgo o immergersi nel Flauto Magico al Teatro dell’Opera di Firenze. E ancora: sentire musicare dal vivo il film di Peter Jackson de Il signore degli anelli dall’Orchestra e il Coro del Maggio Musicale Fiorentino, o andare al Teatro della Pergola per domandarsi su cosa, cent’anni fa, abbia spinto il globo alle soglie dell’annientamento, determinando lo scoppio della Prima Guerra Mondiale, in Istruzioni per non morire di pace. E soprattutto fare tutto questo con soli 28 euro. Cari

Egli sosteneva che “ci sono troppe persone e troppe cose.” Non la ritengo una battuta contro la molteplicità – della cui significanza sono persuaso – ma un’idea geniale che punta a ridimensionare il disordine, gli eccessi del narcisismo, del presenzialismo, del protagonismo e degli altri ‘ismi’ inopportuni e volgari che ingombrano la scena. Per Groucho l’assenza poteva cominciare dalla politica ed io – fervente minimalista – non posso che rallegrarmene: “il primo partito

ad annunciare che non presenterà alcun candidato farà furore”. Saremmo in parecchi a fare la coda, per votarlo. Se vivesse in questo tempo, Groucho avrebbe l’opportunità di essere nullafacente in buona e chiassosa compagnia, ma resterebbe un gran rompiballe, una voce fuori dal coro dei benpensanti. Tanto per fare un esempio, egli non ce l’aveva con il matrimonio, bensì con le mogli! Ostinato, magari ripescherebbe il vecchio suggerimento: “Eliminiamo le mogli dai matrimoni. Conosco centinaia di mariti che sarebbero felici di andare a casa se non ci fossero mogli ad aspettarli (…). Ma allora, qualcuno potrebbe chiedere: se non ci sono più le mogli, come si farà la prossima generazione?” E la risposta potrebbe ancora essere quella che in effetti fu: “Bè, io ho visto alcuni rappresentanti della prossima generazione – forse è meglio se la cosa finisce qui.” In questo mondo, se c’è ancora troppo Marx, non è certo colpa di Groucho. La lezione dell’ironia, che dovrebbe spingere a rilasciare tante pretese e seriosità, resta una delle più difficili, per tutti, compreso chi scrive.

Il Teatro? #Bellastoria! ragazzi, non state sognando: è Il Teatro? Bella Storia! l’offerta della Fondazione Cassa di risparmio di Firenze per diffondere la cultura tra i giovani tra 16 e 21 anni. Nell’abbonamento low cost, già possibile da acquistare su www. ilteatrobellastoria.it, si potrà scegliere sei spettacoli, sui tredici proposti, e uno dei due concerti offerti dell’Obihall. Ai primi sei acquistati, altrettanti biglietti omaggio per il concerto dei Green Day dell’’11 gennaio, sold out da tempo. ‘’Questo progetto - osserva il presidente della Fondazione Cassa di Risparmio di Firenze Umberto Tombari - è in linea con l’attenzione che la Fondazione sta dedicando ai temi dell’educazione e dei giovani, in questo caso sotto una forma certamente originale. Crediamo infatti che stimolare le nuove generazioni a frequentare il teatro sia una modalità efficace e complementare con altre iniziative che stiamo attuando secondo i canoni tradizionali. Da poco abbiano inaugurato la prima edi-

zione della Biennale della scuola che ha già ottenuto importanti riconoscimenti dagli operatori del settore. Questo progetto, e la relativa campagna di comunicazione che utilizzerà in modo massiccio i social, è per la Fondazione anche una importante occasione per avvicinare i giovani col ‘mondo’ della Fondazione. La varietà e la vivacità del tessuto teatrale fiorentino ci aiutano in questa azione e siamo convinti che potremo far entrare in una sala anche persone che non lo hanno mai fatto prima d’ora. Se ci riusciremo, anche per una piccola quota, sarà per noi motivo di soddisfazione e un segno tangibile della efficacia del progetto”.


10 DICEMBRE 2016 pag. 14 di

Mariangela Arnavas

Tutto e’ ricostruito e mai niente sa di documento, di documentario”, così commenta Goffredo Fofi l’ultimo film di Eastwood ed ha pienamente ragione; pur rimanendo fedele ad una vicenda realmente accaduta nel 2009 e pur con le bellissime immagini di New York e del fiume Hudson, la storia è vista e mostrata da dentro il protagonista e non da fuori. Il regista e il responsabile del montaggio ci portano per 96 minuti nella testa di Sully, il pilota, capace di un magistrale ammaraggio nel fiume Hudson, a seguito di un’avaria ad entrambi i motori; il comandante che, con la sua esperienza, le sue capacità e il suo coraggio riesce a portare in salvo tutti i suoi 155 passeggeri e dico “suoi” non a caso, perché si rifiuta di allontanarsi dal velivolo, pur fradicio di un’acqua a diversi gradi sotto zero, finché non ha la certezza che tutti siano salvi, sulla terraferma. E, appena sceso, deve affrontare un’inchiesta nella quale occorre che dimostri di non aver sbagliato, confrontandosi con le simulazioni al computer e le prove di altri piloti su condizioni di volo similari a quella del suo incidente; un’inchiesta che affronta con grande serietà e senza scatti di nervosismo, che pure sarebbero stati comprensibili e con l’umanissima paura di avere

comunque sbagliato. Il film ci porta così dentro ai suoi dubbi che uno spontaneo respiro di sollievo ci si apre in petto quando riesce a dimostrare di aver fatto la scelta giusta, pur con i limiti di un essere umano sottoposto a fortissima pressione. Sully non lo dice mai ma le immagini ci fanno capire che nei 35 secondi circa in cui ha maturato la decisione dell’ammaraggio, sono passate nella sua testa le immagini dell’11 Settembre, l’incubo del suo aereo che attraversava in fiamme un edificio della sua città: in questo senso il film suona anche come un esorcismo del disastro

terroristico. Il film, per quanto declinato in un linguaggio piano e apparentemente semplice, è pieno di simboli onirici: il volo, l’acqua del fiume, l’aereo ammarato che partorisce dagli scivoli i 155 passeggeri accogliendoli sulle sue ali, le barche di salvataggio, che fanno cerchio intorno al velivolo, la commissione d’inchiesta che sembra la Santa Inquisizione, il doppio dei piloti nei voli simulati. Ma soprattutto è il montaggio di Blu Murray che dà al film l’andamento onirico perché il tempo non è orizzontale, ma si svolge e riavvolge senza distinzione tra realtà e sogno, appunto da dentro i

Sully

Francesco Cusa info@francescocusa.it di

Soave e leggero come il jet che plana sull’Hudson, algido e compassato come il carattere del comandante che opta per l’ammaraggio, freddo e secco come i ghiacci e le acque del fiume in inverno, così ci è sembrato l’ultimo film del vecchio Clint Eastwood, “Sully”, che narra delle vicende del comandante Chesley “Sully” Sullenberger a seguito del celebre ammaraggio. Eastwood tributa un omaggio sincero e sentito alla dirittura morale di quest’uomo schivo, e lo fa in maniera ovattata, tramite una sorta di ideale “pressurizzazione” della trama, di trasposizione degli ambienti dalla cabina di pilotaggio al mondo sottostante, all’opposto brulicante di sensazionalismo, di brama, di passione. L’intuizione di Sully non può

essere calcolata da un simulatore di volo, essendo il frutto della passione di una vita , dell’esperienza di un pilota capace e responsabile, della freddezza necessaria a svolgere un lavoro che sconfina nel sublime, dell’abduzione, dell’irrazionale che irrompe nel momento topico; è questo ciò che emerge dall’inchiesta successiva, che tenterà invano di evidenziare le responsabilità dei piloti per il mancato ritorno alla pista dell’aeroporto “La Guardia”. In questo caso è proprio il “fattore umano” a determinare il salvataggio di tutti i 155 fra

passeggeri e membri dell’equipaggio, sono i “56 battiti al minuto di Sullly” a garantire il successo di un ammaraggio considerato impossibile, ma che diventa “miracoloso” e dunque reale, sacro, eroico. La trama del film segue un interessante processo narrativo, a macchia di leopardo, con stratificazioni variabili del tempo, in un armonioso e delicato equilibrio che denota una grande sapienza registica, ove i cenni al trauma americano dell’11 settembre vengono a centellinarsi con somma parsimonia, sapientemente dosati e concen-

protagonisti. C’è chi ha parlato di populismo, ma mi sembra un’etichetta sparata a casaccio sulla base delle simpatie politiche di Eastwood, mentre credo sia più che giusto parlare di umanesimo o meglio di sottolineatura del grande valore del fattore umano, che è quello che fa la differenza nella vicenda, perché la tecnologia salta, i motori non forniscono più la spinta ma l’uomo, o meglio gli uomini, trovano una soluzione e determinano il salvataggio di se stessi e di tutti gli altri; gli uomini e le donne tutti, perché se il grande merito è sopratutto del comandante, il comportamento esemplare di tutti coloro che sono coinvolti, dall’equipaggio ai passeggeri, dai sommozzatori alle squadre di salvataggio è ciò che determina il risultato finale, la salvezza di tutti. Su questo, se non si trattasse di una vicenda realmente accaduta, si potrebbe dubitare di un eccesso di ottimismo; e questo è anche il messaggio di speranza che Eastwood lancia con questo film: gli uomini possono, senza essere eroi, con la loro esperienza e competenza e coraggio e facendo un leale gioco di squadra, raggiungere la salvezza, anche in situazioni di gravissimo pericolo. Un messaggio supportato da un’esperienza vera; un messaggio non da poco, un film assolutamente da vedere. trati sul turbamento visionario di Sully del dopo l’incidente. Queste paure sono inscritte nella memoria collettiva del paese, nell’immaginario che contempla l’aereo che si schianta contro i grattacieli, e l’icona di Sully pare quasi inglobare il sentimento di un popolo traumatizzato che trova riscatto civile nel modello del comandante eroico che riesce a sfuggire all’incubo portando in salvo il cuore e il sentimento di una nazione. Certo rimane da chiedersi come Eastwood abbia potuto, per converso, esprimere le sue preferenze elettorali per il caricaturale Trump, ma preferiamo rimanere nel dubbio e godere delle immagini che scorrono sui titoli di coda, quelle dell’incontro del “vero” Sully con tutti i passeggeri del volo, a celebrare la gioia del vivere e del riconoscersi.


L immagine ultima

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Dall’archivio di Maurizio Berlincioni berlincioni2@gmail.com

Q

ui siamo di nuovo al Central Park, saranno state circa le 11 di un sabato mattina prima dell’inizio di una manifestazione contro il Presidente e contro le guerre che gli Stati Uniti stavano, come al solito, portando avanti in varie parti del mondo. Purtroppo avevo un altro impegno e non mi è stato possibile seguire l’evento. I miei amici sono invece rimasti e mi hanno poi raccontato che questo spazio si era riempito fino all’inverosimile molto tempo prima che tutti gli speakers previsti fossero arrivati. Tutto l’evento si è svolto tranquillamente e non ci sono stati incidenti.

NY City, agosto 1969


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