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LA
COSTRUZIONE DI UNA SCENA URBANA
La concentrazione di sedi del potere ingenerò, nel-
la seconda metà del Quattrocento, uno sforzo costruttivo da parte sia del Comune sia della Comunità di Riviera: dagli anni Trenta del Cinquecento, il Comune agì secondo dinamiche che, pur non caratterizzate da una progettazione urbanistica, sono evidentemente indirizzate alla realizzazione di uno spazio unitario affine alle grandi piazze delle città venete.
L’attuale palazzo comunale, come noto, nasce come fusione dell’antico palazzo dei Provveditori con il ricostruito palazzo del Comune. La scelta del 1906 – che sembra fondere due identità istituzionali di Salò – verrà affrontata da Gian Paolo Treccani; in questo e nel prossimo capitolo si cercherà di ricostruire le vicende più antiche dei due palazzi e delle altre sedi istituzionali intorno alla piazza.
Il palazzo comunale: cronaca di un cantiere secolare
Le prime notizie sul palazzo comunale non risalgo-
no oltre il 1532, quando ne viene avviato il rifacimento18. La ricostruzione degli assetti antichi è peraltro opera improba a causa delle numerose case di proprietà comunale nell’invaso della piazza19 e del complesso meccanismo di acquisti, demolizioni e ricostruzioni indotto dalla completezza del tessuto urbanistico che non consentiva nuove edificazioni: nel 1513 il Comune possedeva certamente una casa a sero parte, ossia sul lato occidentale della piazza, in-
vestita a livello a Gerolamo Zilioli, e nel 1532, con il sostegno economico del rettore veneziano Alvise Trevisan, acquistò una casa della Comunità di Riviera a mane parte, ossia sul lato orientale, già residenza del podestà bresciano, e la casa di Giovan Maria Cattanei al prezzo rispettivamente di 1.000 e di 1.800 lire [doc. 7-8]20. L’avvio dei lavori non fu immediato a causa probabilmente dell’avversa congiuntura economica: sono anni di carestie e il Comune fatica, ad esempio,
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228. Progetto di finestra per il palazzo comunale (1548-1552). Salò, Archivio di Antico Regime.
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a saldare il conto con gli Antegnati che hanno realizzato l’organo di Santa Maria: così solo nel 1545 viene eletta una prima commissione per la realizzazione di un modello per la domus comunis a sero parte, dando così seguito agli interventi degli anni ’30, mentre il Comune completa l’acquisizione dei pieni diritti sulle case acquistate21. Nel febbraio 1548 il Consiglio emana una parte inerente la fabbrica della casa ed elegge una delegazione di tre deputati22 [doc. 10] e i lavori procederanno fino almeno al 1554, anche se la parte edilizia dovette concludersi celermente, presumibilmente entro il 1552, quando si saldano le spese del cantiere; una tappa significativa sembra individuabile nell’estate del 1551, quando viene posta in opera la campanella per i consigli23. Il progetto e la direzione dei lavori sono affidati a Battista Oselli da Brescia, ingegnere, una figura non del tutto sconosciuta agli studi: Camillo Boselli reperì le tracce della sua attività nei fondi notarili brescia-
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ni, da cui si possono almeno riconoscere una sua ascesa professionale da marengone (nel 1541) ad architetto e ingegnere (rispettivamente dal 1548 e 1550) e discrete disponibilità finanziarie24. Battista Oselli realizzò per il Comune un modello in bella et condecente forma e dal 1550 è registrata la sua presenza alla direzione del cantiere25. In questi anni lo ritroviamo inoltre impegnato, con uno degli eletti del Comune, a scegliere a Sant’Ambrogio Valpolicella le pietre per le colonne: il materiale semilavorato viene poi affidato ad artigiani bresciani – Giovanni Gamba di Rezzato, Gianfrancesco Fine di Bornato26 – ai quali si aggiunge la presenza di maestranze locali, Giacomo e Gianfrancesco dal Rì di Campoverde, che lavorano come scalpellini (ai fregi del cornicione) e come cavapietre, estraendo materiale dal monte Covolo27. Un cantiere dai tempi contenuti, dunque, definitivamente concluso nel 1554, quando è realizzato lo scrigno per la tesoreria28. In questo arco cronologico sono compresi anche gli interventi di decorazione pittorica alle facciate e agli interni documentati dai pagamenti ai salodiani, e modesti, Francesco Violino e Antonio Maria Mazzoleni, che si scalano tra il 1551 e il 1552 [doc. 11]: dei due autori il più noto è il secondo, genero di Zenone Veronese, cui il Comune dapprima commissionò le ante dell’organo del Duomo, quindi le rifiutò, dando vita a un contenzioso che coinvolse quale perito Romanino, contro il quale il Mazzoleni si scagliò con particolare astio. Del tutto sconosciuta è l’attività artistica di Francesco Bertolotti, detto Violino, ben noto invece per essere il padre di Gasparo da Salò29. Il palazzo sarebbe stato completamente ricostruito a partire dal 1612, ma la documentazione consente alcune considerazioni su quale dovesse essere il suo aspetto: ad esso infatti e non al palazzo sopravvissuto fino al terremoto del 1901 è da riferire la descrizione del Grattarolo riportata sopra, che tramanda un edificio sostenuto da un porticato di sette pilastri ionici (“tra sette colonne ioniche quadre”); e nel 1591, inoltre, il contratto per i pilastri del palazzo sul lato orientale della piazza imponeva ai lapicidi Gaspare, Francesco e Bernardino Gasparini di adottare come modello quelli del portico del palazzo comunale:
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dalle immagini di inizio Novecento del palazzo verso mattina si può dunque delineare una struttura su pilastri con lesene ioniche (le “colonne quadre” del Grattarolo); le numerose finestre (almeno dieci) registrate sul contratto con Francesco Fine dovevano alleggerire la massa dei piani superiori. A dispetto della severità del modello per le finestre – l’unico elemento sopravvissuto dei progetti del cantiere –, altri elementi a rilievo (“scartozzi o sia cartelle de preda negra” e un’arma, probabilmente il leone di San Marco) dovevano ornare i prospetti30. La decorazione pittorica si articolava nel fregio del cornicione e dell’architrave e con motivi non precisati sui prospetti [doc. 11]. Una serie doviziosa di documenti dal 1552 al 1612 attesta continue necessità di restauro del complesso degli edifici, a causa dell’instabilità dell’area, che Bongianni Grattarolo interpretava come erosione delle fondamenta a opera del lago, registrando come le case sulle sponde del lago “siano o distrutte et ingiottite affatto dalla rapacità sua o restano sbattute e conquassate, sì fattamente che minacciano quasi sempre rovina come si può veder in Salò”31. A pochi decenni dalla conclusione del cantiere, nel 1578 il palazzo già minaccia maximam ruinam, e che le condizioni fossero veramente allarmanti lo conferma la rapidità degli interventi [doc. 15]: nel 1578 si contatta l’architetto cremonese Bernardo Torriani, non meglio noto nei repertori, che tuttavia potrebbe essere collegato al cantiere – attivo negli stessi anni – del palazzo di Sforza Pallavicino a Barbarano32. È il Torriani a proporre la sostituzione dei pilastri e opere di rafforzamento delle strutture [doc. 16-17], quelle che ancora una volta puntualmente ricorda il Grattarolo. Il rimedio si rivelò insufficiente: entro il 1610 si dovette provvedere al trasferimento dell’assemblea comunale e del monte di pietà nella casa sul lato orientale della piazza [doc. 20] e a pianificare la ricostruzione del palazzo, dopo che dal 1597 veniva registrato lo stato pericoloso della “domus ad lacum” confermato da una serie di cedimenti33. Nel 1612, prende avvio il nuovo cantiere: a gennaio il Consiglio incarica cinque eletti di consultarsi con dei periti al fine di scegliere il modello architettonico tra
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quelli presentati oppure, a partire da quelli, di realizzarne uno che soddisfi le esigenze del Comune e la scelta adottata sembra essere quest’ultima [docc. 22-24]. A guidare la fabbrica si offrono Matteo e Domenico da Lecco e Giorgio Cobelli, di Maderno, che si aggiudica l’opera [doc. 25]; di Matteo da Lecco si conosce la collaborazione al cantiere del palazzo orientale almeno nel 1606, mentre la documentazione sul Cobelli si ferma a questo cantiere, nel quale compare come inzignero, architecto, fabriciero. Ancora una volta le tappe del cantiere si seguono agevolmente, a partire dalla distruzione delle strutture esistenti [doc. 21] e dalla palificazione del nuovo edificio, nel 161334, avviate a ridosso del completamento del palazzo sul lato orientale della piazza; se tuttavia in quel caso, come si vedrà, i lavori si protrassero per almeno un ventennio, qui il cantiere procede rapido e spedito, così che già dal 1614 si comincia a lavorare alla decorazione. A settembre, infatti, viene proposto di dar “libertà alli signori eletti alla fabrica di piazza che possino far dipinger a chiaro e scuro la faciata che si comincia a intonicare sotto la gronda, di mano in mano in laudabil forma”, con un tetto di spesa fissato in 70 scudi, e nella primavera successiva viene deliberata
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229. Salò, la facciata orientale del palazzo comunale in una fotografia di fine Ottocento. Collezione Pierangelo Del Mancino.
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230. Salò, palazzo del Comune, planimetria prima del terremoto. Collezione Franco Ligasacchi.
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la decorazione della corte, per la quale viene stipulato il contratto con Andrea Bertanza e Gian Battista Quaglia che prevede un intervento a chiaroscuro con finte architetture35 [doc. 28]. Nel novembre dello stesso anno avanzano i lavori anche per la sala del Consiglio: gli eletti approvano un modello per la carpenteria del soffitto presentato dal marengone Bartolomeo Zane e, evidentemente per il notevole pregio, stabiliscono di pagarlo 25 scudi oltre il pattuito36; ancora alla sala del Consiglio è probabilmente da collegare la notizia, di poco successiva, dell’accordo con il Cobelli, “che sia levato il forbice (così nel testo) di mezzo per far più grande il sfondro della soffitta”37, segno di un cambiamento di progetto che, al posto del soffitto a esagoni proposto dal Cobelli38, consenta di realizzare un grande sfondato prospettico, adatto a una complessa figurazione simbolica quale sarà quella definita nel modello approvato dagli eletti alla fabbrica alla fine del 1616 e di cui si può ancora apprezzare la ricchezza. Nell’estate del 1617 i lavori si avviano a conclusione, come testimoniano le bollette per l’ac-
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quisto dell’oro per la decorazione dei modiglioni lignei del soffitto e la proposta di riconoscere al Bertanza un onorario aggiuntivo per le “fatiche sue et spese de colori” effettuate oltre quanto previsto dal contratto, avanzata a fine dicembre39 [doc. 29]. Il palazzo – che si articola intorno a un solenne scalone centrale – ospita il monte di pietà, preceduto da una loggetta, al piano superiore sul lato verso il lago la sala del Consiglio con la cancelleria piccola e l’archivio, e più in alto la cancelleria40; la piccola corte interna, lastricata in cotto posto di taglio, viene coperta con un soffitto ligneo e ospita l’antenna per il gonfalone del Comune41. Non è chiara invece la funzione dell’altana, con colonne lignee e soffitto dipinto42, che ripetutamente compare nelle provvisioni e che è visibile nelle foto di fine Ottocento. Rispetto alle sistemazioni precedenti, il palazzo assume una vocazione istituzionale ancor più accentuata e dalla struttura scompaiono le beccherie, anche se vengono affittati a privati un fondaco, due botteghe, che tuttavia in corso d’opera vengono ulteriormente ristrette a vantaggio degli uffici pubblici, e alcuni spa-
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231. Salò, il palazzo del Comune e la casa sul lato orientale della piazza nell’Ottocento. Collezione Pierangelo Del Mancino.
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zi di risulta43. Il catasto austriaco sembra confermare la ricostruzione dell’assetto antico, con la porzione a lago interamente ad uso del Comune, quella a monte destinata a botteghe d’affitto e a uso civico al piano superiore44. Se nel 1591 ai lapicidi attivi sulla fabbrica orientale è esplicitamente richiesto di copiare i sostegni e le membrature architettoniche della “casa del comun a sera parte” [doc. 18], ossia pilastri al pianterreno con il capitello ionico, la loro presenza nell’edificio sopravvissuto fino al 1901, implica che il rifacimento del 1612-1619, in ragione della ricerca di uniformità dei prospetti, abbia mantenuto le forme dei palazzi edificati alla metà del Cinquecento, con un portico sul lato orientale scandito da pilastri cui si addossano lesene ioniche e un ordine gigante di lesene corinzie ad unificare la superficie muraria dei piani superiori; immutata resta anche la cornice delle finestre almeno del piano nobile. Questo fu dun-
que il tramite per il permanere di suggestioni sansoviniane riconosciute da tutti gli studi nel palazzo del Comune fino ad attribuirne il progetto al Sansovino stesso45, laddove è invece forse più agevole riconoscere un rapporto con alcune fabbriche bresciane di Ludovico Beretta, architetto comunale della città, che a metà secolo, ad esempio nelle case pubbliche di piazza del Mercato, aveva realizzato analoghi volumi squadrati, riducendo al minimo membrature ed elementi decorativi (si pensi alla scomparsa dei timpani e di qualsiasi cornice dalle finestre); analoga è anche la tipologia a portico sovrastato da un corpo pieno superiore rispondente all’uso pubblico dell’edificio destinato al piano terreno in parte a botteghe, in parte all’esercizio di funzioni pubbliche sia negli spazi aperti sia negli ambienti interni46. L’edificio coniuga attentamente le esigenze di prestigio della sede pubblica, quelle statiche di non caricare eccessivamente la riva e quelle del conteni-
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232. Brescia, Ludovico Beretta, case di piazza Erbe. Foto Monica Ibsen.
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mento dei costi a fronte di un impegno così massiccio imposto dai dissesti. In questo delicato equilibrio si colloca la scelta di scale con balaustre in pietra fino al primo piano – quindi alla sala del Consiglio – e in legno tornito per i livelli superiori, l’utilizzo di vetrate commissionate a maestri veronesi per tutte le finestre, ma al contempo l’attento recupero di ante e materiali dall’edificio precedente47. Lo stesso equilibrio caratterizza anche la decorazione – a chiaroscuro all’esterno – con il colore riservato alla sala del Consiglio per la quale si adoperano le soluzioni più appropriate, sia per la valorizzazione degli interventi pittorici (con l’ampio utilizzo di finiture dorate), sia per la loro tutela, attraverso la realizzazione di un soffitto ligneo in grado di scongiurare infiltrazioni e conseguenti danni ai teleri [doc. 28]. Dell’arredo del palazzo nulla rimane oltre il rimaneggiato soffitto con gli intagli dorati e la tela centrale di Andrea Bertanza del 1617, che alla luce dei documenti appare davvero un frammento di un complesso assai più ricco: basti ricordare la “portiera” della sala del Consiglio in seta ricamata, per la cui realizzazione ci si affidò a un ricamatore di Vaprio, fuori dunque dallo Stato della Serenissima48. La facciata doveva essere dipinta a chiaroscuro con finte architetture al pari dell’atrio [doc. 27]: se di questo è ben nota la paternità – come si è visto di Bertanza e del suo collaboratore Gian Battista Quaglia – per la facciata nei registri della fabbrica non
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compare alcun documento, salvo la delibera di impegnare una cifra cospicua, settanta scudi. Il silenzio non consente alcuna considerazione e la cronologia plausibile dell’intervento – il 1614 – ben si adatterebbe tanto a un intervento di Bertanza tanto a quello del bresciano Tommaso Sandrini, cui Giulio Antonio Averoldo ascrisse l’opera49. Nè di più si cava dalla spesa prevista, dal momento che in realtà per la sala del Consiglio vennero inizialmente stanziati cinquanta scudi, ma al termine dei lavori Bertanza per la sua opera ne ottenne complessivamente settantacinque50. L’unica traccia documentaria è nel contratto con Bertanza per la decorazione della corte, in cui è compreso l’impegno dei pittori a dipingere li pilastri alla rustica e parimenti le muraglie alla rustica di fori via [doc. 28], che potrebbe adombrare – ma sembra troppo poco esplicito – anche la decorazione dei fronti esterni dell’edificio. L’elogio dei decori sulle tre facciate “con varj ornamenti d’architettura”, e l’attribuzione al più celebre quadraturista bresciano non può del resto essere accolta senza il dubbio che si tratti di un’etichetta di comodo di fronte a una tipologia decorativa e a un livello eccellente e le poche tracce riconoscibili sulle vecchie fotografie non consentono alcuna considerazione. L’eventuale realizzazione da parte di maestranze locali non significa necessariamente un ridimensionamento del profilo qualitativo del cantiere, ma piuttosto andrà letto come prova dell’esistenza di un tessuto locale in grado di raggiungere ottimi livelli, al punto da suggerire ad un eccellente conoscitore come l’Averoldo il nome di Sandrini. Le vicissitudini statiche del palazzo non si conclusero con la ricostruzione del Cobelli: nel 1662 si susseguono provvisioni sullo stato dell’edificio, con la nomina di una commissione apposita delegata a consultarsi con periti e la gravità della situazione emerge dall’urgenza con cui si svolgono i lavori che nel 1663 sono compiuti51. Vennero immediatamente poste in opera nuove chiavi in ferro e in legno (dopo che quelle già presenti si erano spezzate) e si procedette a una palificazione davanti al palazzo52. Non sembra invece attendibile la notizia dell’incendio: a bruciare nel 1660
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fu un’altra casa (o meglio casetta come nelle carte) del Comune, data ad affitto: del resto ancora nel 1700
Averoldo poteva elogiare la decorazione sulle tre facciate senza registrare significativi danni53.
Il fronte orientale della piazza
Le case acquistate sul lato est nel 1533 – destinate
a ospitare un’ostaria e ad essere affittate e solo in occasione dei lavori di ricostruzione del palazzo comunale utilizzate come sede istituzionale – dagli anni Settanta del Cinquecento rivelano l’urgenza di interventi, avviati con la ricostruzione del portico54; lo testimonia inequivocabilmente la presenza di un collegio di eletti pro domibus communis in platea ecclesiam versus nel 1574; i lavori saranno avviati due anni più tardi, nel febbraio 1576, quando compare il primo stanziamento significativo (1.200 lire [doc. 14]), ma i contemporanei lavori sul fronte occidentale della piazza dovettero significativamente rallentare il cantiere e solo nel 1587 si registra il pagamento a Gerolamo Cisoncelli per il modello della “domus construenda a mane parte ubi nunc fit hospitium”, probabilmente il rimborso per una somma da lui anticipata all’architetto55; da allora sono registrati continui, cospicui finanziamenti, e si susseguono contratti per le fondamenta (1593) e per gli apparati in pietra (cornici di porte e finestre e scale, 1599) [doc. 18], da cui è possibile trarre indicazioni utili sull’edificio, in particolare per la presenza anche in questo caso di quattro botteghe56. Nel 1600 il provveditore Gradenigo – lo stesso che aveva condotto a Salò Palma il Giovane – suggerì la costruzione di un portico verso il lago, destinato a ovviare all’angustia della piazza, ma l’alto costo dell’impresa (non meno di quattrocento scudi) impose la rinuncia al progetto. All’impegno del Gradenigo a favore della piazza di Salò il Comune riservò un riconoscimento inconsueto nell’attenta strategia di contenimento delle manifestazioni di orgoglio gentilizio, stabilendo di apporne lo stemma sul volto che scavalcava la via verso la chiesa. Del resto i costi del cantiere si rivelavano sempre più ingenti, tanto che dal 1602 il Comune non fu più
in grado di farvi fronte con le risorse ordinarie e dovette far ripetutamente ricorso alle “borse delle donzelle”, ossia al fondo per le doti delle nubende povere, e al monte di pietà57: le concomitanti spese per il cantiere del palazzo comunale dovettero imporre una chiusura dei lavori anticipata così che non vennero mai realizzati ad esempio i capitelli corinzi dell’ordine gigante. La migliore descrizione del complesso, che replicando il modello del palazzo comunale di Battista Oselli di metà Cinquecento risulta perfettamente omogeneo rispetto al lato occidentale della piazza, emerge dall’atto di locazione della “casa grande di piazza sotto il reloio” o “casa grande verso mattina” a Giovanni Percaccini di Portese che la rileva “per far ... hostaria”: la casa è “sita nella piazza di questa terra verso il lago et il signor podestà di sotto dalla strada, con una bottega che va verso la chiesa, la qual bottega è appresso la porta di detta casa verso monte”58. Ben presto tuttavia le destinazioni dell’edificio mutarono e l’osteria, con due botteghe, trovò posto nella parte settentrionale, compresa tra la via alla chiesa e la via di Mezzo. La restante parte della casa grande di piazza, o palazzo vecchio, per la qualità delle strutture e il prestigio della posizione, doveva costituire uno degli edifici più importanti della città, e dunque nei contratti stipulati dal Comune si succedono il podestà, esponenti dell’aristocrazia bresciana come il conte Francesco Martinengo o famiglie notabili di Salò, come i Cattanei (che la casa in piazza l’avevano sempre avuta, come si è visto59). Diventa dunque emblema della straordinaria fortuna di Zenone Veronese, vero e proprio genius loci, il fatto che nel 1681 il Comune di Salò concedesse in affitto il palazzo per quattro anni a un discendente del pittore, in cambio – al posto del canone – di un dipinto del maestro60.
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233. Veduta aerea di Campoverde di Salò. Foto Marino Colato.
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