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LE
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l trasferimento temporaneo della sede del rettore sotto Regina della Scala, benché di brevissima durata, di fatto sancisce l’avvio di un processo di ascesa del centro salodiano rispetto a Maderno. Esso troverà piena sanzione nella ducale con cui Francesco Foscari nel 1448 definisce l’assetto della Comunità di Riviera, che il passaggio sotto la Repubblica di San Marco non modifica drasticamente: a Salò, dove fin dall’età viscontea si riunisce il Consiglio costituito dai rappresentanti di ciascuna delle sei quadre in cui si articola la Comunità, risiederanno per metà del proprio mandato il provveditore estratto dal patriziato veneziano – che per i restanti otto mesi eserciterà le sue funzioni a Maderno – e un podestà bresciano, unica vera novità rispetto alla piena autonomia dalla città vicina che era stata garantita tanto dai Visconti, quanto dai Veneziani stessi nella primissima fase successiva alla dedizione, e che i Bresciani avevano imposto dopo la tragica resistenza antiviscontea nell’assedio del 1437-1440. L’equilibrio tra i due centri rivieraschi determina l’invio a Maderno di un vicario, pure bresciano e come il podestà incaricato delle cause civili. A Salò sono tenuti a risiedere anche i collaboratori del rettore: “vicarios qui sint doctores legum, collaterales, cancellarios, conestabiles et famulos terrarum prefate nostre ducalis dominationis”61.
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In ragione di questo a Salò vengono a concentrarsi edifici di rappresentanza delle istituzioni del Comune e della Comunità: la residenza privata del provveditore, la sede del Consiglio della Comunità, la residenza del podestà, le cancellerie, gli uffici dei funzionari minori. Sfugge oggi quali potessero essere le strutture più antiche, che pure sono inequivocabilemente ricordate nel 1386 nella pubblicazione degli statuti criminali della Riviera, avvenuta in un Consiglio generale della Comunità riunitosi “in terra de Salodo in domo comunitatis Riperie lacus Garde in qua habitat infrascriptus dominus capitaneus posita in contrata fontane apud lacum”62. D’altra parte alla programmatica campagna di ricostruzione degli edifici più rappresentativi – a partire dalla pieve – che conferì a Salò un aspetto moderno e urbano, difficilmente poteva sopravvivere la sede dei rettori. Le uniche tracce di una parziale conservazione dell’aspetto più antico sembrano da cogliere in quella nota del Grattarolo che ricorda, sul lato settentrionale del palazzo del Provveditore, l’esistenza di teste di pietra medievali, dal naso mozzato, da lui ricondotte alla repressione di Arrigo VI contro i Bresciani al termine dell’assedio del 1310 e che ai suoi tempi dovevano essere già scomparse63.
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234. Salò, loggia della Magnifica Patria, stemma dipinto. Foto Augusto Rizza. 235. Salò, palazzo del Provveditore: epigrafe di Gerolamo e Leonardo Cicogna. Foto Monica Ibsen. 236. Salò, deposito comunale di via Fantoni: epigrafe di Gerolamo Capello. Foto S&B trade promotion.
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Intorno ai palazzi verso lago e verso strada vengono progressivamente edificati o sistemati gli uffici e le abitazioni per i funzionari, in particolare nella spina di case che ha lasciato posto a piazza Sant’Antonio: lì vengono costruite anche le carceri, con le abitazioni per il commilitone e i suoi assistenti, registrate in età austriaca (ma l’assetto deve corrispondere in parte a quello antico nell’edificio adiacente il palazzo superiore del provveditore e ad esso collegato da un sovrappasso, demolito nel 190164). Qualche notizia si ha intorno alla cancelleria criminale, l’ufficio direttamente connesso all’attività giudiziaria del provveditore e del giudice al maleficio, che nel Cinquecento ha sede all’interno del palazzo verso lago e che viene in seguito trasferita sopra la casa del commilitone, uno degli edifici poi demoliti per la creazione di piazza Sant’Antonio65; anche qui come sotto la Loggia, viene posta un’immagine della Vergine, probabilmente su tela, acquistata nel 158266. Pochi decenni più tardi, nel 1629, la cancelleria viene ricostruita sul sito della precedente: i lavori sono affidati a Domenico Lavarino, capomastro attivo in Duomo e in Santa Giustina67. Più ancora che il terremoto sono stati i moti seguiti alla caduta della Serenissima a cancellare il tessuto di architetture e di emblemi che doveva caratte-
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rizzare il centro politico e istituzionale di Salò: sono stati distrutti tutti gli stemmi dipinti – centinaia, se si tiene conto dei 254 rettori e dell’iterazione degli emblemi che venivano posti negli spazi aperti come negli uffici, e i due frammenti nella loggia della Magnifica Patria altro non fanno che enfatizzare la percezione del danno – e sono rimasti pochi frammenti di alcune delle epigrafi, di cui offre una notizia sommaria, fino al 1587, l’Historia di Grattarolo: abrasa l’epigrafe che ricorda i rettori Gerolamo e Leonardo Cicogna68, così come quella di Ludovico Capello (1583), si è conservata solo quella di Alvise Trevisan, probabilmente perché legata alla memoria della piazza di Salò, anche se è possibile che a un esponente della famiglia Loredan, che diede numerosi magistrati a Salò, vada ricondotta l’epigrafe “NON NOBIS DOMINE NON NOBIS”, che sembra esser sempre rimasta sulla facciata del palazzo dei Provveditori (la si intuisce nelle foto antecedenti il terremoto) e che anche caratterizza il palazzo fondato sul Canal Grande da Andrea Loredan. Lo stemma di un magistrato della famiglia Pesaro, abraso e sfregiato negli anni della Rivoluzione, è l’unico testimone degli stemmi lapidei, che secondo una tradizione consolidata nei palazzi pubblici della Terraferma veneziana, dovettero essere apposti in gran numero nel Cinquecento, tanto da indurre la Comunità a vietarli, a causa dei problemi statici del palazzo, su impulso di Alvise Longo, provveditore nel 157269.
238 237. Salò, palazzo del Provveditore: epigrafe. Foto S&B trade promotion. 238. Cividale del Friuli, palazzo dei Provveditori Veneti (1581-1596). Foto Monica Ibsen. 239. Salò, loggia della Magnifica Patria: la Giustizia con lo stemma Pesaro. Foto Monica Ibsen.
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Il palatium dei rettori
Ben presto (a partire dal 1478) la regola di alternan-
240. Maderno, il palazzo delle Fosse nella cartografia seicentesca. Da TURRI 1997.
za tra le sedi del potere della Comunità venne disattesa e i rettori stabilirono la residenza a Salò, anche se la scelta sarebbe stata ratificata giuridicamente solo alla fine del secolo successivo a seguito delle pretese di Maderno di ristabilire il dettato degli statuti. La presenza della sede del Consiglio (che peraltro continuava, almeno fino al 1457, a riunirsi anche nella domo arengaria di Maderno70) dovette avere un ruolo significativo nella scelta dei patrizi veneziani, ma uno dei mezzi posti in campo a quest’effetto da Salò fu certamente la realizzazione di un palazzo adeguato allo status dei rappresentanti inviati da Venezia, che almeno non fosse inferiore al cosiddetto palazzo delle Fosse di Maderno, edificato nel recinto del castello: di esso, che Marin Sanudo ricorda costruito more veneto, ancora nel 1554 – quando or-
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mai giaceva in pieno abbandono – Silvano Cattaneo poteva tessere uno straordinario elogio71. Le strutture Il palazzo del Provveditore dal Quattrocento fino al Seicento sarà il Palatium per antonomasia: neppure la sede comunale potrà ambire a tale definizione e per secoli fino alla ricostruzione del 1612 – quando si distingue domus vetus e palatium novum per poi adottare il termine palatium per entrambi gli edifici –, rimarrà la domus communis. Alle origini di tale gerarchia sta da un lato la consapevolezza che sulla residenza del rettore si fondava il primato della città, dall’altro la figura stessa del rettore veneziano, che emerge dalle fonti coeve come direttamente investito di una regalità derivantegli dall’essere un patrizio, membro, al pari del doge, del corpo depositario della sovranità della Repubblica72. Il palazzo è principalmente – ma non solo, e lo si vedrà più avanti – residenza del rettore e della sua famiglia e sede di rappresentanza, con il grande salone in cui il magistrato veneziano esercita le sue funzioni di capo militare e dà udienza e in cui si riunisce il Consiglio della Comunità di Riviera; tale mescolanza di funzioni caratterizzava il palazzo dall’età viscontea, come dimostrano i già ricordati statuti criminali, pubblicati in una riunione del Consiglio della Comunità nella “domus comunitatis in qua habitat infrascriptus dominus capitaneus, posita in contrata Fontane apud lacum”73; che il rettore vi abitasse effettivamente, lo mostra il fatto che nel 1484 fu saldato alla famiglia Segala l’affitto di una casa in cui il rettore si era trasferito per circa due anni durante i lavori al palazzo. Nello stesso palazzo aveva sede e residenza anche il cancelliere, come documentano una serie di parti dalla metà del XVI secolo, così come, almeno fino al 1504, vi si trovava il carcere74. Probabilmente non è casuale la vicinanza cronologica tra il trasferimento definitivo dei rettori a Salò e i lavori al palazzo documentati nel 1482-1484. La
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241. Salò, palazzo comunale: tavoletta lignea dal soffitto della sala dei Provveditori con l’emblema e le iniziali del rettore Giovanni Erizzo. Foto Augusto Rizza.
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Comunità stipulò un contratto con il capomastro Giacomo q. Pace di Valtrompia, abitante a Riva, per un intervento radicale all’edificio probabilmente trecentesco, che prevedeva l’abbattimento di parte dei perimetrali e la palificazione della facciata e dei cantonali, salvaguardando la sala [doc. 1]. In quest’occasione sorprende il tenore del contratto da cui emerge un ruolo diretto del rettore veneziano Giovanni Erizzo sulle scelte anche tecniche del cantiere, dalle palificazioni, agli spessori dei muri alle tipologie di finestre. Un diretto riconoscimento a questo ruolo deve dunque costituire la presenza ripetuta dello stemma con le iniziali del patrizio tra le tavolette del soffitto della sala75. I lavori affidati a Giacomo da Riva si protrassero fino al 1484 e furono tanto radicali che in alcune provvisioni del 1486 il palazzo è citato come noviter constructo76. Il palazzo prima e dopo i lavori era ad un solo piano77, come si deduce chiaramente dalla clausola nel contratto del 1482 che nel corso dei lavori la sala dovesse rimanere coperta; né in quell’occasione si operarono interventi di sopraelevazione: nel 1505 sulla copertura della sala magna verrà costruita una baltresca per la stenditura dei panni e l’ordinamento per il rifacimento al tetto della sala nel 1507 conferma il ridotto sviluppo verticale del palazzo. L’edificio cui le carte fanno riferimento è riconoscibile nella planimetria del catasto austriaco78 nel
corpo maggiore del tribunale, mentre la porzione di minore lunghezza sul lato occidentale è l’esito dell’addizione di una casa nel 1550; l’edificio doveva comporsi della loggia impostata su pilastri cilindrici di pietra di Seasso – mentre quelli settentrionali di rosso ammonitico suggeriscono per l’impianto primitivo una cronologia trecentesca –, affiancata da uffici e al piano superiore dalla sala grande e dagli ambienti residenziali. La posizione della loggetta o lobia minor, ripetutamente citata nella documentazione, in cui si aprivano ad esempio gli uffici della cancelleria, è riconoscibile nella mappa catastale austriaca come quasi interamente addossata allo stabile occupato nell’Ottocento dalla Guardia di Finanza79. La commistione tra funzione ufficiale e residenziale si rivela soprattutto negli annessi del palazzo: il porto è isolato da quello delle case attigue mediante muri sormontati da merli e ornati di stemmi dipinti, ed è dotato di un giardino con una pergola intagliata ma allo stesso tempo lo si provvede di uno stenditoio e di un riparo per fare il bucato; cento anni più tardi, nel 1599, vi si realizzerà anche una peschiera80. Nella primavera del 1484, terminati i lavori edilizi, si procede alla decorazione e viene pagato Giovanni da Ulma per la realizzazione del leone marciano accompagnato dallo stemma di Giovanni Erizzo sulla facciata e per il fregio della sala: se degli interventi decorativi e delle figure coinvolte si parlerà più
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242. Salò: il sovrappasso tra le due sedi dei magistrati veneziani in una fotografia di fine Ottocento. Collezione Pierangelo Del Mancino. 243. Salò: il sovrappasso tra le due sedi dei magistrati veneziani in una incisione pubblicitaria di fine Ottocento. Da SINISTRI 2000.
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avanti, va segnalata questa presenza di stemmi e imprese dei capitani caratteristica delle sedi delle magistrature locali nelle terre della Serenissima, dove il palatium è la sede per la celebrazione della giustizia, della gloria di Venezia e delle famiglie dei capitani, che appongono i propri emblemi, dipinti o scolpiti. Nei vent’anni successivi all’opera di Giacomo da Riva si svolge un duplice processo: da un lato la riqualificazione e la decorazione del palazzo, dall’altro l’espansione delle sedi istituzionali attraverso l’affitto delle case adiacenti e la ristrutturazione e il collegamento con il palazzo verso strada o palazzo superiore, il cosiddetto palazzo del Provveditore, che a sua volta diventa oggetto di una serie di interventi di riqualificazione a partire dall’inizio del Cinquecento, in modo da poter ospitare il cancelliere del capitano e il capitano stesso81. Nel 1503, infatti, sono registrati pagamenti per oculi in vetro per lo studio del capitano, “versus sala magna pallatii” e nell’anno successivo per banchas, e il palazzo stesso viene citato come palazzo del Capitano82. Da questo momento, inoltre l’edificio sul lago cesserà di essere definito univocamente pallatium ressidentie capitanei, ma sarà indicato più genericamente come palazzo verso lago o palatium capitanei versus lacum, cui si affianca ormai il palatium superioris ressidentiae magnificentiae suae, a suggerire un mutamento di funzione in corso, che ben giustifica l’attività febbrile in entrambi gli edifici. Nel 1505 questi saranno collegati da un poggiolo ligneo sostituito, entro il 1551, in seguito alla completa ricostruzione del palazzo superiore e alla ristrutturazione di quello verso lago, da una struttura in muratura di cui conosciamo l’aspetto più recente grazie ad alcune foto e incisioni di fine Ottocento: il sovrappasso corrispondeva ai due piani superiori dei palazzi e si componeva di un corridoio chiuso, illuminato da finestre quadrate aperte sui due lati, e di un loggiato retto da colonne. L’incisione restituisce anche qualche traccia del decoro – una finta architettura – riconducibile forse all’intervento di Bongianni Grattarolo, che nella Storia della Riviera ricorda di avervi dipinto “duo cavalli, uno di Q. Rufo e l’altro di Oratio Coclo” nella sua prima impresa pittorica83.
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244 244. Salò: il palazzo del Provveditore con la loggia e la terrazza sul lago prima delle demolizioni di fine Ottocento. Da TURRI 1997. 245-250. Salò, palazzo comunale: tavolette lignee dal soffitto della sala dei Provveditori. Foto Augusto Rizza.
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Oltre ad essere la residenza del capitano e sede del Consiglio della Comunità, nel palazzo si amministra la giustizia, si registrano atti pubblici e privati e si fa commercio: tutte queste attività si svolgono nelle due logge sottostanti l’edificio: in quella centrale, il “portico grande aperto, soffolto da molte colonne”, descritto dal Grattarolo, trova posto il “tribunal”, ovvero il banco sopraelevato e privilegiato del podestà bresciano, ma anche il banco notarile, e proprio al notaio viene imposto di provvedere al lume perpetuo davanti all’immagine della Vergine dipinta su una delle colonne verso lago84. La loggia è luogo dunque di una liturgia del potere e di attività civili, su cui è invocata la presenza taumaturgica della Vergine85, ma è anche spazio d’incontro, versione in modo minore – ma non domestica né rustica – del mito umanistico del foro urbano (testimone ancora il
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Grattarolo, che lo dice “luogo dove ragionando, passeggiano i nobili”). Il palazzo aveva una seconda loggia, la “lobia minor” o lobietta distrutta negli interventi successivi al terremoto del 1901, e riconoscibile nel porticato che si affacciava sulla Strada regia. Il gusto veneziano nell’articolazione architettonica emerge chiaramente dalle carte: il palazzo sul lago viene dotato nel 1505 dello scalone in pietra che collega il suo porto con la sala magna, e scale in pietra conducevano dalla loggia all’approdo; un’ulteriore spinta in questa direzione venne apportata dai massicci interventi del 1558-1560, sotto Francesco e Pietro Nani [doc. 12]. In seguito all’acquisto di casa Bertelli, sul lato occidentale, imposto dal rettore Giulio Donato nel 155086, si resero necessari lavori di unificazione degli spazi e probabilmente a queste date rinvia la sopraelevazione del palazzo (che si può ben da-
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tare al 1550-1551, prima della sostituzione del poggiolo con il sovrappasso a due piani dipinto da Grattarolo nel 1551) e il rifacimento del prospetto verso lago con la realizzazione della loggia descritta dal Grattarolo ornata di dipinti e aperta sul lago. A tale struttura potrebbero riferirsi le demolizioni ottocentesche, ma documentate nel 1901, della “parte di mezzogiorno del palazzo del Tribunale e della Pretura con lo sporgente terrazzo”, strutture che sembrano peraltro riconoscibili in un’incisione pubblicata nel 189287. Con quest’intervento sostanzialmente si conclusero le vicende più significative di trasformazione del palazzo che assunse la sua struttura definitiva, subendo invece da un lato continui interventi statici88, dall’altro ulteriori continui incrementi e trasformazioni dell’apparato decorativo e degli arredi, sia nel palazzo verso lago sia in quello verso strada, legati alle variazioni del gusto e alla volontà di autorappresentazione dei rettori. La decorazione e gli arredi Se la costruzione su una linea arretrata rispetto alla sponda del lago ha consentito la conservazione della struttura, le vicende storiche e operazioni disattente hanno portato alla completa dispersione delle decorazioni e degli arredi di una dimora che le carte ci descrivono fastosa e destinata ad ospitare personaggi di primo piano della scena europea: da Isabella d’Este nel 1514 a Nicola Madruzzo, al cardinal d’Augusta e a Guglielmo Gonzaga, duca di Mantova, nel 1562 – durante il concilio tridentino – secondo la testimonianza di Grattarolo89. Ed è proprio Isabella d’Este a descrivere per la prima volta il palazzo e l’ospitalità dei reggitori della Riviera allora in mano spagnola. Smontai alla Casa dil Comune dove sta il Capitano, dove erano gran numero di persone, et tante che restai stupefatta. Li homini de la terra ne receueteno con allegra Ciera: et sotto una loggia che Confina alla Ripa dil laco, et sopra la quale e la sala di ditta Casa, erano Tavole Cariche di Panere grandi di Pane, Brazadelli Pomi, Peri, Vua Frescha, scatole di Confetti Pignocati Marzapani, Cera, Zocharo et piatti de Pesci de diverse sorti et in bona quantita, Quali essi homeni me apresentorno con longe reverente et Belle parole...
Della veste del palazzo visto da Isabella si conservano solo le tavolette della sala dei Provveditori, ma nelle sedi del rettore nell’ultimo quarto del Quattrocento furono chiamate a lavorare alcune botteghe di artigiani – marangoni, intagliatori, pittori – cui venne richiesto di realizzare ambienti sontuosi e confortevoli e dal trasparente significato simbolico. Le commesse vanno per la quasi totalità a Francesco Cattanei da Padova, Giovanni da Ulma, Giovanni Bastari e a Giovanni da Desenzano e – per i lavori d’intaglio – a Bartolomeo Otello90. I loro interventi non rispondono ad un piano organico definito a priori, ma allo stesso modo degli interventi architettonici e strutturali, si qualificano piuttosto come opera in progress, dettata da esigenze estemporanee. Saranno chiamati in primo luogo a iterare stemmi, imprese, emblemi di Venezia e delle famiglie dei rettori: nella sala, nella loggia, nella scala, sulla facciata, nella cancelleria. Qui in particolare nel 1504 sarebbe stata commissionata la realizzazione degli stemmi di tutti i rettori sulle pareti, mentre già i banchi ne erano fregiati [doc. 2]. I luoghi determinano modalità, tecniche, gerarchie esecutive diverse, così che nella sala e negli ambienti più rappresentativi si raccomanda l’impiego di pigmenti preziosi. Soprattutto, la somma delle loro opere disegnerà in pochi lustri il profilo di una piccola capitale, affidato ai suoi edifici rappresentativi e alla loro decorazione, ma anche ad aspetti minori, in grado di connotare un contesto: è così, ad esempio, che a Giovanni da Ulma verrà affidata la realizzazione delle banderuole con l’emblema marciano da porre alle trombe dei ministrali della Comunità91. Sono elementi che vanno a comporre uno scenario urbano accanto ad altri strutturali, come la presenza di finestre vitree, al posto delle assai più consuete impannate: le vetrate a oculi, per le quali vengono chiamati maestri vetrai bresciani, adorneranno una serie di sale del palazzo superiore e del palazzo verso lago, nonché la cancelleria92. Inoltre, dal 1506 le scale in mattoni con cui si accedeva ai piani superiori del palazzo verso lago vengono sostituite da sontuose scale in pietra e le pareti dipinte, e dal 1477 intorno agli edifici pubblici erano state lastricate tanto la Strada regia, quanto i brevi tratti che congiungevano i palazzi tra loro
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o ai rispettivi porti93. A questa dignità manifesta corrispondeva un vero e proprio lusso all’interno, sia negli ambienti di rappresentanza, sia in quelli destinati alla privata residenza del rettore: si pensi ad esempio alla camera noviter facta nel 1474, destinata ad uso di studio e riposo del rettore, in cui la Comunità – per renderla pulchra, bella, come la richiede il patrizio veneziano Daniele Dolfin – mette a lavorare un intagliatore, tale Bertolino che s’impegna a realizzare un mobilio cum retortis et intaliis, definizione che suggerisce elementi traforati di gusto ancora tardogotico, e il pittore Giovanni da Ulma, documentato qui per la prima volta94. Il fulcro dell’intero complesso è la sala grande, che costituiva l’ambiente di rappresentanza della residenza del rettore riunendo così una molteplicità di funzioni direttamente riflessa, poi, nel suo arredo e nella sua decorazione. Era, infatti, al tempo stesso aula di giustizia, sede delle riunioni del Consiglio della Comunità – funzioni esercitate tuttavia anche nella sottostante loggia e nella sala della Cancelleria – e salone delle feste, come mostra una provvisione del febbraio 1506, con cui il Consiglio deliberò di puntellare il soffitto della loggia per assicurare il pavimento della sala e potervi così ballare95. Se dal 1470 in poi siamo aggiornati su un continuum di interventi nel palazzo da parte di pittori, chiamati a dipingere frisiis e stemmi sulla facciata e in vari ambienti, l’arredo e la decorazione della sala si profilano con una certa precisione nell’ultimo quarto del Quattrocento, subito dopo i lavori di Giacomo da Riva: nel 1484 Giovanni da Ulma viene pagato per aver dipinto lo stemma del capitano Erizzo e l’emblema marciano sulla facciata e un fregio et alia nella sala96; nel corso del 1486 e 1487 si susseguono altri pagamenti allo stesso Giovanni per varie non specificate pitture nel palazzo e nella sala. A questo momento vanno ricondotte con ogni probabilità le cinquantadue tavolette lignee del soffitto97: le tavolette superstiti alternano stemmi, emblemi della Serenissima, animali e volti maschili e femminili secondo modalità ben attestate in questa tipologia decorativa; rimandando oltre per quanto concerne l’autore, è il caso qui di notare come i tocchi d’oro sui fondi dovessero integrare le tavolette nel tessuto
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prezioso degli arredi del palazzo. Nel 1487 – a ribadire la commistione tra vita civile e sacro – nella sala è realizzato l’altare della Madonna, che verrà successivamente circondato da una balaustra lignea dipinta [doc. 6]; è plausibile che l’immagine sull’altare fosse un dipinto murale, la cui realizzazione venne affidata a Giovanni da Ulma; ancora una volta del complesso nulla resta, ma sembra identificabile con quello che un secolo dopo Carlo Borromeo avrebbe stigmatizzato come simile piuttosto ad un armadio che ad un oratorio, vietandone l’uso98. Anche gli arredi fissi poi – i banchi e le spalliere, ossia quelle strutture lignee fissate al muro, necessarie per l’applicazione di tappezzerie ad uso decorativo o con la funzione, appunto, di spalliere – saranno dipinti ad verduras e con i consueti emblemi di Venezia [doc. 4]. Nel 1506, ad enfatizzare il ruolo di autorità giudiziaria e di capo militare del capitano, vengono costruiti un tribunal e una panoplia (lanceria) per le lance del capitano stesso99, entrambi lignei e dipinti. La decorazione viene sostanzialmente replicata in piccolo tanto nella cancelleria adiacente quanto nella saletta del palazzo superiore.
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Come accennato più sopra, anche la sala subì una serie di modifiche strutturali nel tempo: la discontinuità dello spessore murario della parete occidentale attesta come originariamente l’ambiente si chiudesse in corrispondenza dello spigolo tuttora visibile in quella parete, a circa 8 metri dalla facciata nord, in modo tale che l’immagine sacra – ora l’Annunciazione su pietra di paragone – si trovasse al centro della parete occidentale. L’ampliamento, posteriore probabilmente alla realizzazione dell’Annunciazione, deriva forse dall’abbattimento dell’antica facciata che era rimasta come muro divisorio tra la sala e il loggiato edificato sul portico a metà Cinquecento, se così si può interpretare il riferimento di Grattarolo a “una longa, larga, et aprica loggia da passeggiare dinanzi, coperta d’un soffitato colorito e tempestato d’oro”. Lo scrittore salodiano descrive inoltre i lavori che modificarono radicalmente la sala magna a fine Cinquecento, con la realizzazione di un’aggiornata de-
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corazione manieristica, nella quale tuttavia dovettero essere preservate le tavolette del soffitto. Ancora una volta vennero riproposti gli stemmi dei rettori, sorretti da figure fantastiche e accompagnati da cartigli, in un insieme oggi scarsamente leggibile, di cui ancora una volta di cui sfugge la paternità e se ne conosce approssimativamente la data di realizzazione, anteriore al 1587, quando la decorazione è citata, e si sa che negli anni Ottanta è impegnato nel palazzo Gian Pietro Mangiavino, nominato nel 1586, che negli stessi anni si trova sui ponteggi del Duomo a rinnovarne la decorazione delle volte100. Pochi anni più tardi verrà realizzato l’orologio del palazzo, documentato dal 1600101. Anche la cappella fu coinvolta nel rinnovamento del palazzo nel 1559, e a seguito del decreto del Borromeo fu realizzato un nuovo oratorio, il cui progetto venne sottoposto all’approvazione apostolica nel 1582102. Ubicazione e caratteri dell’oratorio ci sfuggono completamente come è imprudente qualsiasi ipotesi sull’immagine sacra che doveva esservi posta, dal momento che la tela con la Vergine col Bambino, san Marco e il provveditore Giovanni Barbaro di Giovanni Andrea Bertanza dovrebbe essere collegata alla commissione del 1612 per un dipinto da porre nella sala d’udienza del rettore, quindi probabilmente nella sala dei Provveditori [doc. 26]103. Altra raffigurazione mariana conservata è l’immagine della Vergine di Loreto con la data 1602, dipinta in un ambiente adiacente la sala sul lato sud-occidentale: benché modesta e sconciata da secolari interventi di restauro, la raffigurazione ha un suo interesse perchè è collegabile ad una delibera del 1602 con cui si saldava Giovan Battista Quaglia per aver dipinto l’immagine della Vergine “super scriptorium palatii”, e davvero se, con le cautele imposte dallo stato di conservazione, il dipinto può essere utilizzato per tracciare un profilo del Quaglia, questi ne emerge come un modesto artigiano che nella decorazione della sala del Consiglio nel palazzo del Comune può aver avuto solo un ruolo di aiuto104. Anche l’ultimo significativo intervento nella sala del Consiglio rientra nell’esaltazione della Vergine cara alla cultura e all’ideologia veneziane: ad un’ini-
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ziativa di Paolo Condulmer, rettore nel 1681-1683, che fece scolpire le proprie iniziali e lo stemma, si deve l’Annunciazione su pietra di paragone, posta entro una cornice in pietra ornata di cavalli marini, sirene e putti. Il dipinto, di notevole qualità e attribuito tradizionalmente ad Andrea Celesti, è stato ricondotto ad Alessandro Campi, collaboratore del Veneziano, cui meglio si adattano le fisionomie dai tratti esasperati e gli occhi stupiti affondati in pesanti ombre; spicca nel dipinto la finezza dei panneggi leggerissimi, il cromatismo affocato e la vertiginosa prospettiva del pavimento, non del tutto risolta105. I frammenti superstiti poco restituiscono comunque del complesso figurativo: nel 1631, al posto delle consuete armi, il Consiglio della Comunità si risolse a celebrare il rettore Priuli non con la consueta rappresentazione araldica, ma accompagnandola con la raffigurazione dei “tre infortuni seguiti nel corso del regimento di sua signoria illustrissima, cioè di peste, carestia et guerra, superati con la sua prudenza”106. Alla fine del XVII secolo Francesco Paglia ricordava nella sala anche “un ritratto al naturale espresso di Pietro Bellotto”, segno del continuo aggiornamento del patrimonio figurativo, in questo caso attraverso il ricorso a un artista assurto a fama europea proprio per la ritrattistica e le teste di carattere107. Piacerebbe aver trovato qualche traccia della commissione della tela con La Riviera che rende grazie al provveditore Soranzo, pure destinata alla sala dei Provveditori, con cui la Comunità di Riviera, alla vigilia della fine, nel 1786 onorò il provveditore Marco Soranzo per la sua vittoriosa opera contro il brigantaggio. L’opera che fu affidata al protagonista della scena artistica contemporanea tra Brescia e il Garda, il salodiano Sante Cattaneo, nell’equilibrio compositivo, nella chiarità e levità cromatica, restituisce gli estremi momenti di splendore della committenza pubblica salodiana108. Accanto a queste testimonianze merita almeno di essere citato – dal momento che l’analisi è ora preclusa dalla collocazione privata – l’ambiente della residenza del provveditore “verso strada”, ora casa Amadei, che conserva una straordinaria mostra di camino in stucco, del 1624, commissionata probabilmente dal rettore Giovan Maria Pesaro.
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251. Salò: la facciata settentrionale del palazzo del Provveditore in una fotografia di fine Ottocento. Collezione Pierangelo Del Mancino.
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252. Salò, casa Amadei: il camino della sala di quella che fu la residenza del provveditore veneziano (1624). Foto S&B trade promotion.
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La casa del podestà
La residenza dell’autorità bresciana, mal accetta
dalla città e dalla Comunità e subita solo in forza dell’imposizione della Serenissima, costituisce anche l’episodio meno documentato della vicenda. Imposta nel 1440 dalle autorità veneziane109, la dimora del podestà fu a lungo provvisoria e ancora quindici anni dopo il magistrato bresciano reclamava un’abitazione adeguata e dotata del necessario al soggiorno e all’attività110; solo nel 1462 si giunse all’acquisto di una casa, e il saldo a Giorgio di Lodrone per l’affitto di una casa per il podestà nel 1460 attesta come si fosse proceduto fino allora, quasi a riaffermare l’intenzione che la presenza del rettore bresciano fosse solo provvisoria111; non solo, un’ulteriore provvisio-
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ne del 1460 mette a vista la singolare coabitazione tra il podestà e un ricamatore già insediato nella casa destinata al patrizio bresciano e che la Comunità chiede di non allontanare112. L’acquisto nell’agosto 1462 fu seguito solo nel giugno successivo da delibere per lavori di adattamento, che dovevano configurarsi impegnativi se ancora una volta il podestà venne ospitato in una casa in affitto: la scarsa volontà della Comunità di provvedere alla sua residenza emerge del resto chiara dalla durata dei lavori, cinque anni in cui le delibere non sembrano denunciare il progredire degli interventi quanto la loro dilazione113. Nel 1469, l’inventario degli arredi e le successive provvisioni per acquisti di
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mobilio suggeriscono la conclusione del lungo iter114, anche se l’insediamento sarebbe stato tutt’altro che definitivo: è ipotizzabile che la “domus communitatis in qua habitat dominus potestas” corrispondesse al sedime dell’ex hotel Metropole (mappale 1696 del catasto napoleonico), sul lato E della piazza pubblica con affaccio sul lago (con il proprio porto), come sembrano dimostrare gli atti successivi alla vendita della casa stessa al Comune nel 1532, momento in cui nei documenti del Comune comincia ad apparire la distinzione tra le case “a sero” e “a mane”. In sostituzione della casa sulla piazza presso il lago, la Comunità ne acquistò un’altra da Bartolomeo Calsoni, posta in contrada della Fonte, dunque in prossimità del palazzo del Provveditore115: stavolta le decisioni sui lavori vennero prese con speditezza e contestualmente all’acquisto si stabilì la costruzione di un accesso monumentale e della scala in pietra116, ma il podestà Orfeo Boni rifiutò di insediarvisi, dando vita ad un procedimento di fronte al provveditore veneziano, che dovette concludersi sfavorevolmente per la Comunità. Questa, attraverso la mediazione del patrizio Leonardo Basadonna, inviato da Venezia, procedette all’acquisto di un nuovo edificio, con cui sembra concludersi definitivamente la vicenda117 e che dunque dovrebbe corrispondere a quello registrato nel 1587 da Grattarolo in prossimità della casa del Comune sul lato orientale della piazza affacciato sul lago, da cui è separato da una fondamenta. Dai regesti degli ordinamenti della Comunità sembra di assistere – in parallelo a quanto si dispone per la residenza del provveditore – a un’iniziativa di abbellimento e ampliamento delle strutture destinate al podestà negli anni intorno al 1500-1552: viene acquistata la casa di Gerolamo Griffi (per il costo di 650 lire), contigua alla casa del magistrato bresciano, e per un momento si pensa ad acquisire anche un’altra sede confinante cui poi si rinuncia; all’acquisto seguono interventi di adattamento e miglioria. Tra il 1582 e il 1593 sono finalmente documentati massicci interventi all’edificio, oggetto da allora in poi solo di interventi di restauro (ad esempio per un incendio nel 1604) e manutenzione118. Della dimora del podestà si conosce poco altro: l’esistenza di un approdo, di un poggiolo in facciata
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e di un’altana119. Le testimonianze cinque e seicentesche (Grattarolo e un contratto d’affitto per la casa del Comune sulla piazza) e il catasto napoleonico consentono di rintracciare con sicurezza l’edificio, che doveva essere quello registrato sul catasto con il mappale 1698: arretrato rispetto alla riva, da cui doveva essere separato da un giardino oltre che dal porto e dalla fondamenta, non è visibile sulle foto di inizio Novecento in cui si scorge tuttavia la sua altana. Esemplari del differente trattamento riservato dalla Comunità ai due magistrati sono la presenza di impannate alle finestre, al posto degli oculi vitrei riservati al palatium del rettore, e il riferimento ai privilegi della Comunità di fronte a ogni richiesta d’intervento alla casa del podestà, per limitarne la portata; d’altra parte la sequenza di richieste di mobilio e masserizie da parte dei patrizi bresciani suggerisce da un lato uno stato di perpetua precarietà delle dimore, dall’altro un vero e proprio braccio di ferro giocato intorno al testo della ducale che vietava ai magistrati di chiedere utensili, masserizie e mobili alla Comunità, che si concluderà peraltro con una nuova ducale, sollecitata da Brescia, che obbliga la Comunità a fornire mobili alla casa del magistrato120. La lunga trattazione di Bongianni Grattarolo dedicata alla sequenza dei podestà trasmette tutta l’ambivalenza del rapporto: i magistrati estratti dalle più nobili famiglie bresciane (Caprioli, Calzaveglia, Martinengo), sono spesso fini letterati, cui la Comunità e i suoi esponenti maggiori dedicano versi e doni raffinati, ma tuttavia relegati a risiedere in una “stanza”, ossia una sede priva di qualunque ambizione monumentale.
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254. Salò, vista da est. Foto Marino Colato.
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