Salò Terremoto capitolo 8

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GLI

INDIRIZZI FIGURATIVI

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n questa breve parte conclusiva non si intende offrire un ordinato sviluppo delle vicende artistiche salodiane, che meriterebbero un ampio studio monografico, alla luce dei tanti capitoli ancora aperti e talora inesplorati; si vogliono invece raccogliere degli appunti e delle proposte su argomenti strettamente legati alla produzione artistica per i palazzi del Co-

mune e del Provveditore: la prima parte riprende con profonde revisioni e aggiornamenti un testo già edito nel 2002121; la seconda allinea alcuni episodi dalla seconda metà del Cinquecento alla metà del Seicento con l’intento di suggerire piste di indagine e riflessione.

Ancora Salò 1475-1513

Le tavolette dipinte della sala dei Provveditori of-

frono un comodo punto di partenza per tentare una lettura in parallelo di alcune vicende artistiche della Salò contemporanea, in cui si ravvisa una estrema scarsità di pittura su tavola o su tela, legata certo in parte a dispersioni, ma in misura significativa anche ad una difficoltà della committenza: questa rarefazione di opere può essere semplicisticamente spiegata come esito di un’effettiva assenza di commesse e di realizzazioni, ma la presenza di due cantieri come il Duomo e San Bernardino – chiese che, rispettivamente, avevano undici ed otto altari – impone un approfondimento del problema. Come estremi per

quest’esame sono stati individuati il compimento della cornice dell’ancona per il Duomo nel 1475 e la collocazione sull’altare del Corpus Domini del Duomo del Compianto di Zenone Veronese, nel 1513, punto di avvio di un’altra storia122. Il complesso decorativo del palazzo dei Provveditori richiama immediatamente un altro soffitto, questo conservato integralmente in situ, nella sala di rappresentanza della canonica del Duomo, realizzato tra gli ultimi lustri del Quattrocento e i primi anni del Cinquecento, quando a reggere la pieve era Piccinello Dossi, l’ecclesiastico umanista educato alla scuola di Platina, o il suo creato Baldassarre Gemi123. La

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255. Salò, sala dei Provveditori: tavoletta lignea di Giovanni da Ulma (?), dettaglio. Foto Augusto Rizza. 256. Salò, sala della Canonica: tavoletta lignea del Maestro di Solarolo, dettaglio. Foto Augusto Rizza. 257. Salò, sala della Canonica: il soffitto. Foto Augusto Rizza.

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datazione che si propone qui è anticipata di almeno un decennio rispetto a quanto ritenevamo nel 2002 sulla scorta di una consolidata credenza sull’araldica salodiana, ossia l’inserimento del giglio nello stemma in occasione della breve dominazione francese (dunque, post 1509), smentita dallo studio di Foppoli pubblicato in questo volume. Alla luce di questa sensibile anticipazione cronologica, si impone una revisione anche della relazio-

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ne tra i due complessi dipinti. Viene meno infatti quella distanza pluridecennale che dava ragione – in un contesto di affinità stringenti del modo di delineare le forme anatomiche e di tutta una serie di elementi iconografici – delle profonde differenze nella gamma cromatica e nella consistenza plastica. Se sono uguali occhi, profili, acconciature, delineati con gli stessi rapidi tratti scuri, il timbro caldo e i volumi poco definiti, quasi elusi, della sala dei Provveditori si distaccano nettamente dalle tonalità grigie e dalla durezza quasi lapidea delle teste della canonica di Santa Maria. È diverso – e non sorprende – il modello culturale di riferimento: se nella sala del rettore veneziano si avverte ancora un sentore cortese, nella sala voluta dal Dossi si avverte il rapporto stretto con il modello numismatico e con l’antico, e nelle pareti con l’illustrazione libraria. I due cicli dunque restituiscono non un’unica figura, come credevo, ma due artisti, separati da un non considerevole lasso di tempo: la distanza cronologica tra i due potrebbe contenersi nell’arco di un decennio, in grado di spiegare la dipendenza dell’autore del soffitto della canonica dal maestro attivo nella sala dei Provveditori124. Maestro che potrebbe identificarsi in Giovanni da Ulma, che viene pagato nel 1485 per frisiis et alia nella sala. Il suo stile a quelle date ci è ben noto dalla testa del San Cosma, conservato in Duomo, unico lacerto integro fra tante infedeli ridipinture dei dipinti scoperti nel 1901 nell’ex cappella del cimitero presso il Duomo e irrimediabilmente degradati nel 1957 a causa di un errato strappo e delle conseguenti ridi-


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Da 258 a 263. Salò, sala della Canonica: tavolette del Maestro di Solarolo. Foto Augusto Rizza.

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264. Salò, Duomo: Santi Cosma, Damiano e Lucia di Giovanni da Ulma, particolare. Foto Augusto Rizza. 265. Salò, Duomo: Sant’Agata, di Giovanni da Ulma, foto prima dello strappo. Archivio dei Civici Musei di Arte e Storia di Brescia. 266. Salò, sala dei Provveditori: tavoletta lignea di Giovanni da Ulma (?). Foto Augusto Rizza.

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267. Salò, sala della Canonica: tavoletta lignea del Maestro di Solarolo, particolare. Foto Augusto Rizza. 268. Manerba, Santa Trinità di Solarolo: la Trinità, del Maestro di Solarolo, particolare. Foto Augusto Rizza.

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269. Manerba, Santa Trinità di Solarolo: il Giudizio finale del Maestro di Solarolo, particolare. Foto Emanuele Tonoli.

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pinture. La stesura pittorica e la modulata espressività del volto smentiscono del tutto l’aspetto mortificante della figura, dal panneggio informe, campito più che dipinto, e consentono un confronto abbastanza stringente con almeno alcune delle tavolette, nella delicata variazione degli incarnati, in certo addensarsi di ombre intorno al profilo, che si ritroverà estremamente semplificato nella gamma cromatica e nella stesura nel secondo maestro. Giovanni da Ulma, documentato dal 1475 al 1520 circa, ebbe bottega vicino al convento di San Bernar-

dino e la sua firma è riconoscibile, nelle foto antecedenti, lo strappo nella Sant’Agata, pure proveniente dalla cappella annessa all’ex cimitero presso il Duomo, e datata 1475: le foto di inizio Novecento confermano l’autenticità del sorprendente fondale architettonico con muro bugnato, arcone e festoni e del pavimento lastricato in ripida prospettiva che, all’altezza del 1475, avrebbero potuto suscitare più di qualche sospetto. Sulla base delle vecchie foto è pure possibile attribuirgli le tre figure dei Santi Lucia, Cosma e Damiano, cui doveva aggiungersi un’altra

270. Salò, via di Mezzo: decorazione murale esterna, particolare. Foto S&B trade promotion. 271. Salò, via di Mezzo: decorazione murale esterna. Foto S&B trade promotion. 272. Muscoline, San Quirico: dipinto votivo del Maestro di Solarolo, 1513. Foto Monica Ibsen.

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figura all’estrema sinistra su cui doveva estendersi il resto dell’iscrizione ora mutila: la data pure manca ma quella della Santa Lucia, oggi leggibile come 1481, potrebbe essere attendibile. Tanto è andato perso anche delle altre poche prove superstiti dell’artista: i Santi Rocco e Sebastiano a San Pietro in Lucone di Polpenazze, datati 1489 e attribuitigli da Gaetano Panazza, in cui si ritrovano i festoni che facevano la fortuna dell’artista nelle decorazioni pubbliche di Salò [doc. 3, 4], o la grande tabula quadrata di San Quirico a Muscoline, firmata, dall’aulico riferimento a modelli rinascimentali nella proposizione di una monumentale cornice marmorea, dove tuttavia non vi è più traccia della folgorazione mantegnesca della Sant’Agata, indizio forse di una sua versatilità nell’adottare di volta in volta un linguaggio aggiornato e sostenuto o formule sdate per una committenza tradizionalista125. Se è possibile cautamente proporre una relazione con Giovanni da Ulma per le tavolette della sala dei Provveditori, resta invece anonimo l’autore della decorazione della sala della Canonica, cui è stato attribuito il nome convenzionale di maestro di Solarolo dalla più estesa delle sue opere, la decorazione di un’intera cappella con il Giudizio finale, scene dell’infanzia di Cristo e figure di Santi nella chiesa della Trinità di Solarolo di Manerba, del 1514126, realizzata forse in più fasi e con il largo apporto della bottega e forse di altri maestri, in cui si riscontra da un lato la piena coerenza stilistica con le opere precedenti, con aggiornamenti su Ferramola e sul tardo Foppa e nuovi riferimenti agli illustratori (dalle xilografie della Divina Commedia di Bonino de Boninis, 1487, e di altre edizioni bresciane coeve, al frontespizio del De Claris Mulieribus stampato a Ferrara nel 1497, dall’altro la commistione con un retaggio di tematiche e schemi arcaici. Sia qui, sia nella cronologicamente prossima decorazione di San Zenone ad Eno (Crocefissione sull’altare, Apostoli ai lati e lunette con Storie della Passione) è peraltro rilevabile, nelle parti di maggior qualità, una peculiare prassi esecutiva, caratterizzata da un disegno assai sciolto in colore rosso, con cui sono schizzate le figure, che viene ripreso poi con tinte più marcate. Per le fasi iniziali dell’attività del pittore, va rile-

273. Illustrazione di Giovanni Filippo da Bergamo, De claris mulieribus, Ferrara 1497. Biblioteca Queriniana, Brescia.

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vato come le prime opere indubbiamente attribuibili siano la Madonna e donatore della Rocca di Sabbio e le Storie di Giobbe, ora nel duomo di Salò (1503), che si dovranno far precedere da una serie di dipinti più prossimi alla tradizione locale e, credo, alla maniera di Giovanni da Ulma127. A lui, per le somiglianze con la decorazione della sala della canonica, e in date a questa prossime mi sembra anche si possa accostare il fregio dipinto su una casa della via di Mezzo. A questa produzione pittorica sono da accostare i riferimenti documentari relativi ad interventi nei palazzi pubblici, nonché le descrizioni fornite da inventari privati128, da cui emerge l’intensa attività di un manipolo di artisti (Giovanni da Ulma, Francesco Cattanei, Giovanni da Desenzano e Giovanni Bastari) che dipingono arredi e ambienti desolatamente perduti. A fronte di tanta operosità, la situazione della pittura su tavola offre un contrasto stridente: dal 1475 al 1513 si possono allineare una serie impressionante di fallimenti nel tentativo di porre tavole dipinte sull'altar maggiore del Duomo e neppure una manciata tra tavole e tele, né si tratta solo dell’effetto di successive dispersioni e rinnovamenti di arredi, chè la mole di opere firmate dalla seconda metà degli anni Dieci da Zenone Veronese attesta inequivocabilmente l’assenza di pale in molti degli altari delle chiese di Salò, dove ci saranno stati piuttosto affreschi o

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274 274. Nomi (Tn), parrocchiale: sposalizio mistico di Santa Caterina di Francesco Cattanei. Da SAVA 2008.

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statue. Ad osservare, poi, i pochi elementi riconducibili proprio a quei pittori impegnati nella decorazione dei palazzi della Comunità, ci si avvede di personalità dotate di qualità tecniche ed espressive certo non sfruttate nella realizzazione di metri e metri quadri di frisii ad verduras e di leoni marciani. La figura

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meglio individuabile è indubbiamente Francesco Cattanei, pittore dedito alla mercatura che, traendo forse vantaggio dalle parentele tra i maggiorenti salodiani, nel 1478 ottiene l’incarico di dipingere l’ancona per l’altar maggiore del Duomo, senza riuscire a portarla a compimento: il confronto con lo Sposalizio mistico di santa Caterina della parrocchiale di Nomi129 consente ora di attribuirgli con sicurezza le tavolette della predella e restituisce un petit maitre dedito ad un mantegnismo in tono minore, ma con preziosità e finezze esecutive da miniatore; qualità che giustificano per un verso il suo perdurante successo a Salò e i significativi compensi che riceverà dalla Comunità di Riviera130, a confermare forse la predilezione per una materia pittorica preziosa, per l’altro pongono l’interrogativo sulle ragioni del suo fallimento a Salò sul terreno della pittura d’altare. La storia della pittura a Salò avrebbe dovuto esser dominata dall’ancona per l’altar maggiore del Duomo, una commissione che – alla luce delle ambizioni che guidavano il Comune – probabilmente avrebbe potuto segnare le vicende della pittura bresciana. Vale la pena di riassumere le tappe di questo progetto, per verifìcare alcuni orientamenti della committenza locale: la cornice lignea intagliata da Bartolomeo da Isola Dovarese, consegnata nel 1475, è destinata ad accogliere dieci grandi tavole e i tredici scomparti minori della predella. Il fallimento di Francesco Cattanei nel 1478 nella realizzazione degli scomparti maggiori anticipa il destino di altri due tentativi, nel 1489 e nel 1499 presso pittori veneziani (forse i Vivarini131) e veronesi (Liberale); nel 1499 la situazione si sblocca con il clamoroso abbandono del progetto della pala pittorica e l’incarico ad un intagliatore, Pietro Bussolo132. Le ragioni di queste vi-


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cissitudini non sono certo solo di natura economica: da una sottolineatura sul valore materico, cum coloribus finis et auro, di alcuni dipinti per il palazzo del Provveditore133, sembra di riconoscere nella committenza ufficiale salodiana un orientamento che ricercava il valore dell’opera d’arte nel suo splendore materiale; e realizzare una pala che avesse il suo prestigio nell’essere stilisticamente e culturalmente aggiornata – in chiave mantegnesca o, magari, lombarda – finiva così per contrastare da un lato con i condizionamenti imposti dalle trine tardogotiche della cornice, dall’altro con quella parte della committenza che ricercava in un dipinto la profusione d’oro, di lacche e di oltremarino. La chiamata del Bussolo forse offrì la quadratura del cerchio: le statue lignee sono un’esibizione al tempo stesso di materia preziosa e di magistero esecutivo, e di una cultura figurativa in cui l’ossequio alla lezione mantegnesca – e alla presenza di Mantegna, a Salò si rischiava di fare l’abitudine – si combina con la nozione dei pittori milanesi informati su Bramante e i Ferraresi (Butinone, Zena-

le, Foppa), e con la flagrante attualità bramantesca e leonardesca134. In quest’ordine d’idee si pone anche la chiamata di Vincenzo Foppa per la finitura pittorica delle statue: l’impegno diretto di magistro Vincentio pictore de Brixia nell’ancona, testimoniato dalla provvisione

275. Salò, Duomo: scomparti della predella dell’ancona di Francesco Cattanei. Foto BAMS. 276. Salò, Duomo: Madonna col Bambino di Pietro Bussolo. Foto Marco e Matteo Rapuzzi. 277. Salò, Duomo: Sant’Antonio da Padova di Pietro Bussolo, particolare. Foto S&B trade promotion.

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del 20 settembre 1500 con cui il Comune accetta la proposta dell'arciprete Dossi di far intervenire l'artista “pro anchona perficienda”, e da alcuni pagamenti “pro incarnationem figurarum”, trova flagrante conferma nell’esame delle statue, che finiscono per staccarsi da quell’impaccio che pesa sulle fisionomie dai tratti grevi delle ancone bergamasche del Bussolo135. Ma va pure notato come, completato il suo lavoro, Foppa non abbia avuto ulteriori incarichi a Salò, a meno di ora improbabili recuperi documentari, come se, privato dello scintillio e della matericità delle statue lignee, il pensoso e chiuso mondo figurativo del Bresciano non esercitasse particolari attrattive sui committenti gardesani. Diversamente, Pietro Bussolo e la statuaria lignea conobbero una bella fortuna, tanto che l’intagliatore si trasferì nel capoluogo gardesano, e realizzò probabilmente anche l’ancona per l’altar maggiore di San Bernardino, come sembrano suggerire il Sant’Antonio in Duomo e le perdute statue (San Francesco e Sant’Agata) già collocate sulla cornice della pala dell’altar maggiore di San Bernardino136. Fu forse proprio la fama derivatagli dall’attività a Salò a ottenergli altri incarichi nel Garda e nel Bresciano come la finora ignorata Madonna di Piano di Bovegno, poco più tarda delle statue del Duomo. Sembra che qui si protragga fin dentro il Cinquecento quella difficoltà nei confronti della pittura su tavola, sottolineata per la Lombardia quattrocentesca, il che, per altro verso, mina la tradizionale certezza critica dell’appartenenza di Salò e del Garda bresciano all’orbe artistico veneto; se, poi, si pone mente che tutti i pittori vanamente chiamati (almeno in un caso direttamente dal rettore veneziano) sono veneti, il fatto che nella cornice entrino statue di un milanese, e che altri milanesi (Coirano e Antonio della Porta) siano chiamati per il portale, indica, mi pare, il pieno successo a Salò del verbo lombardo, che trova un’ulteriore attestazione, sia pur con infinite sfumature, nelle uniche tavole note: la pala dei Santi Antonio abate, Rocco e Sebastiano, in Duomo, e il trittico della Natività con i santi Gerolamo e Antonio, in San Bernardino, entrambe post 1505, di commissione privata e non assimilabili in un orientamento stilistico univoco. La controversa vicenda attributiva della prima, emble-

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278. Piano di Bovegno, Santa Maria Assunta: Madonna col Bambino di Pietro Bussolo. Da GUERRINI 2006. 279. Salò, San Bernardino: trittico con la Natività, San Gerolamo e Sant’Antonio da Padova di maestro lombardo. Foto Augusto Rizza.

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280. Salò, Duomo: Sant’Antonio Abate, San Sebastiano, San Rocco e due donatori di Giovanni Antonio de Fedeli (?). Foto Augusto Rizza. 281. Salò, canonica: Madonna col Bambino di Martino Martinazzoli. Foto Augusto Rizza.

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282. Salò, San Bernardo di Serniga: San Bernardo, San Giuseppe e San Gerolamo di Zenone Veronese. Foto Augusto Rizza.

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matica della sua complessità culturale e stilistica, si è ora assestata sul nome del milanese Giovanni Antonio de Fedeli, trasferitosi a Brescia (dove è documentato probabilmente dal 1501), quindi ad Asola, dove si fece divulgatore della maniera zenaliana137. Di qualche anno più antico, il trittico della Natività mi pare che ben si inserisca invece nell’ambito, lombardo per collocazione geografica e per complesse componenti culturali, dei cosiddetti veneti di Terraferma: su una base di mantegnismo alla veneta s'innesta infatti – nelle astrazioni geometriche dei panneggi, o nell’esasperata asprezza dei paesaggi di rocce, cortecce, arbusti – una serie di sperimentazioni assai acerbe, che qui danno esiti di una legnosità leggibile anche come arretratezza stilistica ma che si saldano strettamente al più maturo Cristo nel sepolcro della Rocca di Sabbio, dai forti rimandi al linguaggio di Altobello Melone all’altezza dell’Adorazione Böhler138. A queste due opere si sarebbe tentati di aggiungere, sulla scorta della data Salò 1510, ma con la difficoltà di trovargli una collocazione, il polittico di Martino Martinazzoli di cui resta il San Giovanni della Pinacoteca Tosio: il pittore, che si stabilisce a Salò nel primo decennio del Cinquecento139, dopo una formazione ferramoliana approda a una miscela di peruginismo e curiosità verso esperienze nordiche, leggibili nei bordi dorati dei manti, nell’andamento graffiante di certi panneggi o di certe stesure di terreno.

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Peraltro la propensione verso il verbo lombardo sembra farsi strada anche nella semplice decorazione se in questi termini può leggersi una notizia purtroppo non più verificabile intorno a Gabriele D’Annunzio, al quale nel 1923 venne proposto l’acquisto di un soffitto costituito da trentasei tavolette, appena sequestrato dalla Guardia di Finanza a Salò: la notizia si trae dal carteggio tra l’architetto Maroni e il poeta, ma delle pratiche di sequestro non resta traccia negli archivi statali, forse per l’irregolarità della vicenda. L’interesse della notizia sta nell’attribuzione del soffitto stesso a Bernardino Luini, che se è evidentemente un’etichetta altisonante destituita di fondamento può esser tuttavia accolta come spia di un orientamento verso l’area lombarda e milanese140. Se da queste disiecta membra ci si sposta nell’ambito documentario, emerge un’ulteriore conferma di quanto si è visto ed un episodio dell’attività giovanile di Romanino: il 10 febbraio 1509 il consiglio della Comunità dispone un pagamento a magistro Hierolymo pictore de Brixia, che a quella data non si può identificare altrimenti che in Romanino, per aver dipinto “figuram beatissime Virginis cum figura seu retractu propria magnifici domini capitanei”. Il documento è preceduto da una provvisione del 17 ottobre 1508, in cui veniva deliberata la pittura di un’ymago beatissime virginis Mariae e di uno stemma di Francesco Querini nella loggia del palazzo del Provveditore, che potrebbe essere collegata al saldo a Romanino; è però difficile che, sia pur nell'incombere di Agnadello, un rettore ottenesse di porre un proprio ritratto in un dipinto murale, senza che questo poi venisse considerato un precedente per i mandati successivi; tutto si farebbe più semplice invece, se pensassimo ad una tavoletta di Madonna col Bambino e devoto, magari con una coperta con lo stemma del rettore stesso141, forse destinata ad una camera del palazzo verso strada, da poco sistemato ad uso dei rettori. Secondo le carte è la Comunità a pagare il dipinto ma il contratto fu stipulato dallo stesso Querini (e dunque non si tratta di un dono di fine mandato), che fu quindi il mentore di Romanino a Salò: ancora una volta, dopo l’ancona, una tavola dipinta, se la ricostruzione vale, è legata all'iniziativa non della committenza locale, ma di un veneziano. Infatti,


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chiamato a confrontarsi con i committenti locali della scuola del Corpus Domini, Romanino stesso, in breve volger di tempo, vedrà respinta una sua pala: lo scrive, trent’anni più tardi, Antonio Mazzoleni, allievo e genero di Zenone Veronese, nell'aspra risposta alla perizia sfavorevole di Romanino per le sue ante, insinuando che questa sia stata dettata da spirito di rivalsa (sdegno) nutrito nei suoi confronti da “mastro Hieronimo Romanino come quello dal quale altre volte questo comune fece far un’ancona e poi la refudò, et la fece fare a mio maestro nella cappella del Corpus Domini”142. È proprio l’intervento di Zenone Veronese, con il Compianto firmato nel 1513, che chiude questo periodo di crisi per le commissioni pubbliche di dipinti destinati agli altari: partito nel Compianto da una parlata lombarda e da interessanti tangenze con il percorso degli “eccentrici” padani, evidenti anche in altre opere salodiane, Zenone alla fine del decennio evolverà nel tizianismo spiccato della Natività per l'altare di San Giuseppe in Duomo, cui convertirà la committenza locale, mentre le sperimentazioni stilistiche e psicologiche romaniniane troveranno atten-

zione presso i patroni privati degli altari di San Bernardino. In conclusione, questo quarantennio apparentemente vuoto di opere dimostra di essere per un verso prodotto di dispersioni e distruzioni che hanno cancellato interi contesti dipinti, per un altro un momento ricco di problematiche e forse di veri dibattiti su funzione e caratteri della pittura (come spiegare, altrimenti, le contraddizioni tra dipinti richiesti e dipinti respinti a Romanino o le decennali attese per il compimento dell'ancona?): a Salò nei decenni di passaggio tra Quattro e Cinquecento, in parallelo con la pratica delle humanae litterae – che vede protagonisti Pilade Boccardo, Stefano Vosonio o ecclesiastici come Piccinello Dossi, Baldassarre Gemi o Giovanni della Scola – e con la raccolta delle memorie romane esibite dal Comune sul sagrato e all’interno del Duomo, magistrati veneziani, prelati umanisti e reggenti cittadini si impegnano in controverse e dunque consapevoli commissioni d’arte, i cui eventuali fallimenti vanno letti, al pari delle opere realizzate, come espressione di orientamenti intellettuali e di comportamenti di ricezione.

Salò tra Cinque e Seicento 283. Salò, Duomo: decorazione delle volte di Gian Pietro Mangiavino e bottega, particolare. Da IBSEN 1999.

La tradizione che attribuiva a Tommaso Sandrini tan-

to i dipinti delle volte del Duomo, quanto le facciate del palazzo comunale ha dato vita più che a una confusione attributiva, ad una prospettiva drasticamente alterata delle vicende artistiche salodiane tra la fine del Cinque e i primi lustri del Seicento. Da un lato infatti appiattisce sul maestro celebrato e “d’importazione” i più significativi interventi decorativi della città – ad onta del fatto che almeno per il Duomo non si possa riscontrare alcuna analogia con il linguaggio del quadraturista bresciano –, negando di fatto un’autonomia produttiva e culturale locale, e dall’altro suggerisce una capacità di richiamo di maestri che Salò nel Seicento in realtà confina negli spazi della Cattedrale. L’unica eccezione è, di fatto, quella dell’abilissimo Aliense che, impegnato nella

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284. Salò, sala del Consiglio: decorazione del soffitto di Giovanni Andrea Bertanza. Foto S&B trade promotion.

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decorazione del coro del Duomo, venne richiesto nel 1602 della realizzazione degli stemmi nel palazzo del Provveditore, ma a seguito dell’inadempienza di Andrea Bertanza già chiamato a quell’incarico143. Le figure operanti nei palazzi pubblici di Salò dalla fine del Cinquecento si riducono a due botteghe: quella di Andrea Bertanza, coadiuvato da Giovan Battista Quaglia, e quella di Giovan Pietro Mangiavino e dei suoi figli, cui si deve ricondurre anche la figura, modesta, di Alvise Giglio, sporadicamente registrata nelle carte. Allo stato attuale delle conoscenze Andrea Bertanza si profila come l’unico responsabile delle decorazioni del palazzo comunale: a lui viene affidata sia la decorazione della corte, con finte architetture rustiche, forse estese alle facciate, sia soprattutto la grande figurazione allegorica

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della sala del Consiglio; si tratta di una scelta che se da un lato radica l’impresa nel contesto locale, dall’altro ne garantisce l’adesione al linguaggio più aggiornato, ossia quello di Palma il Giovane144. L’altra compagine, prevalentemente impegnata nel palazzo del Provveditore, è quella di Gian Pietro Mangiavino, che nel 1586 ottiene l’incarico per la realizzazione degli stemmi dei rettori, e di suo figlio Stefano, che nel 1595 riceve l’incarico di approntare gli apparati effimeri per l’avvento dei rettori, nonchè il fregio destinato a contenere gli stemmi, cui lavorò dal 1598 al 1608145. Un pagamento del 1596 attesta come il Comune affidasse ai Mangiavino la decorazione della “casa sul canton”, di cui dipingono il soffitto146, mentre nel 1613 Gian Pietro riceve un pagamento per avere disegnato i numeri e le lettere dell’orologio di piazza e per averne dorato le finiture147. A fronte di tanta documentazione, restano solo gli interventi in Duomo, dal momento che appare controversa l’attribuzione a Gian Pietro della Deposizione della chiesa dei Santi Pietro e Paolo ad Anfo148. Non è detto che l’assenza di Sandrini e di altre figure meglio note del panorama artistico sia indice di un livello modesto. Nelle pagine di Bongianni Grattarolo merita sottolineare i dati sulla realizzazione della loggia del palazzo del Provveditore, desolatamente perduta: “una longa, larga, et aprica loggia da passeggiare dinanzi, coperta d’un soffitato colorito e tempestato d’oro, et armata con un parapetto di bastoni forniti di poma d’oricalco, la quale dà e toglie la prospettiva del lago e della collina opposta, fornita di depenture significanti con motti brevissimi come si legge in un dialogo detto tra l’eccellente medico messer Vincenzo Nerito e il diligente astrologo messer Giovanni Paolo Galucci”; poche pagine prima lo scrittore salodiano ne rivendica la realizzazione sotto la magistratura di Gabriele Emo, nel 1562149. Se nulla si può dire delle propensioni stilistiche e delle capacità tecniche del Grattarolo, della cui opera grafica e pittorica non resta traccia, emerge però la forte connotazione intellettuale delle iniziative artistiche intorno al palazzo, come indica la sua annotazione secondo cui l’intervento pittorico sarebbe stato basato


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un programma iconografico registrato in un testo legato alle figure di Giovan Battista Gallucci e Vincenzo Neriti. Se è vero che il dialogo, peraltro non individuato, non implica necessariamente un coinvolgimento diretto dei due intellettuali nell’ideazione, tuttavia il loro nome associato fosse pure solo a un commento al ciclo conferisce a questo un notevole interesse. Tra i fondatori dell’Ateneo di Salò, Giovanni Paolo Galluci o Gallucci (1538-1621) sarebbe divenuto figura chiave degli studi di astronomia, cosmografia, ottica degli ultimi decenni del Cinquecento150: ebbe fortissimi interessi verso i temi artistici, manifesti nella straordinaria qualità delle illustrazioni dei suoi testi ma soprattutto nella traduzione del trattato in quattro libri Della simmetria dei corpi umani di Albrecht Dürer, cui aggiunse un quinto libro “nel quale s’insegna in qual modo possano i pittori con lineamenti et colori spiegare li affetti del corpo et dell’animo, sì naturali, come accidentali nelle immagini degli huomini et delle donne secondo l’opinione de’ filosofi e poeti”.

La presenza come protagonisti del dialogo del Gallucci e del Nerito – che il Grattarolo ci dice medico e che pure fu tra i diciotto fondatori dell’Accademia degli Unanimi151 – consente di ipotizzare che il programma decorativo dovesse fondarsi su temi astrologici e fisiognomico-fisiologici. L’impresa pittorica si colloca peraltro nel fervido clima culturale da cui trasse origine l’Accademia degli Unanimi e in cui i magistrati veneziani e bresciani (e si ricordi che il podestà nel 1560 era Giovan Antonio Rodengo, filosofo morale ed astrologo) e i nobili visitatori che dal concilio di Trento si portavano a Salò venivano accolti da rappresentazioni drammatiche e letture di versi composte dalla stessa compagnia di giovani letterati, di cui il più anziano era proprio il quarantenne Grattarolo. Alla luce di tutto questo sembra evidente che la mancata chiamata di maestri dalle città vicine sulla scena artistica dei palazzi salodiani non corrisponde ad un basso profilo della produzione artistica ma, al contrario, alla disponibilità in Salò di intellettuali e di artisti in grado di elaborare e realizzare per am-

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bienti profani programmi complessi, sul crinale di discipline scientifiche e filosofiche. Diversamente, è nelle chiese che si concentrano le commissioni ad artisti del panorama bresciano e veneto, a rimarcare le differenti premesse culturali e artistiche delle imprese figurative destinate al culto. Due tra i maggiori protagonisti del manierismo bre-

Monica Ibsen

sciano (Pietro Marone e Tommaso Bona) sono presenti in Duomo, probabilmente come effetto di una commissione coordinata tra i patroni dei due altari – quello di San Cristoforo, di patronato dell’omonima confraternita e quello dei santi Filippo e Giacomo, beneficiato dal rettore Filippo Bon, ma di patronato della confraternita del Rosario. Di altra e recente provenienza è invece la pala del Marone ora nel convento dei Cappuccini, non documentata negli inventari delle soppressioni152. Proprio l’inventario della soppressione di San Giovanni di Barbarano offre qualche indicazione su altre presenze artistiche a Salò: Romualdo Turrini, responsabile della perizia, accanto ai già noti dipinti di Palma, di un anonimo romano chiamato dai Pallavicini e di Stefano Montalto – questo di pieno Seicento e dunque estraneo al contesto che si vorrebbe tracciare –, registra infatti la presenza di una tela di Andrea Vicentino e un’altra tela di scuola veneta ai lati dell’altar maggiore153. Andrea Vicentino è documentato sul lago di Garda a Maderno, chiamato dal Comune, e nella chiesa dei Disciplini di Fasano sopra, e la sua presenza a Salò è un’ulteriore conferma dell’orientamento verso le botteghe veneziane154. Che questo si dovesse per tanta parte ai magistrati della Serenissima pare fatto indubbio, almeno a giudicare dalle vicende del coro del Duomo: qui l’arrivo di Palma evidentemente favorito dal provveditore Angelo Gradenigo, era stato preceduto da un iniziale orientamento verso il cremonese Malosso, in cui piacerebbe riconoscere la volontà del Comune e del suo benefattore-finanziatore, Sebastiano Paride di Lodrone, a seguito della felice riuscita della precedente commissione patrocinata dal Comune e dal Lodrone, ossia la spettacolare cappella delle Reliquie di cui l’artista fu responsabile tanto sul piano della progettazione architettonica, quanto su quello pittorico. Deve tuttavia far riflettere sulla possibile corresponsabilità di Sebastiano Paride nella chiamata di Palma per il cantiere del coro proprio la presenza delle due tele del Veneziano sull’altar maggiore (una Crocifissione) e sulla controfacciata (un’Annunciazione) della chiesa dei Cappuccini di Barbarano, altra


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fondazione beneficata dal nobile trentino, poi egli stesso frate cappuccino; va anche ricordato che nella stessa direzione di un coinvolgimento del Lodrone va la commissione a Palma di un dipinto per San Rocco di Concesio da parte di un altro membro della casata, Gerolamo155. Accanto a queste opere vorrei ricordare la presenza di una serie di dipinti murali posti a decorazione di lunette e accompagnati da lunghe didascalie in strutture già pertinenti al convento di San Bernardino: i dipinti, frammentari e in alcuni punti pesantemente ripresi, rappressentano Storie di san Francesco e un Compianto sul Cristo morto e sicuramente rinviano al coevo panorama bresciano, fortemente influenzato da Palma il Giovane anche se probabilmente non sono di fattura unitaria. Sarebbe forse pensabile un rapporto con le analoghe e contemporanee iniziative nei chiostri dei riformati di San Giuseppe a Brescia, dove la decorazione delle lunette con Storie di san Bernardino viene affidata alla bottega di Antonio Gandino, impegnata poco prima in un’impresa analoga nel chiostro del convento di San Francesco di Paola. La commissione conferma il ruolo degli enti ecclesiastici nella promozione della cultura figurativa locale sia attraverso scelte non allineate sugli orientamenti del Comune, sia in ragione dell’alto livello culturale che frequentemente li contraddistingue. Un’ulteriore conferma viene alcuni decenni più tardi – nel 1635, in un momento in cui la peste ha privato la committenza pubblica di ogni capacità di iniziativa – dalla decorazione della facciata della chiesa del Carmine realizzata, grazie alle elargizioni di Francesco Roveglio e alle cure del priore Giovanni Battista Tonnolini, dal pittore Bernardino Gandino e celebrata da un’epigrafe tuttora conservata. Il religioso, che si assicurò un notevole risalto, era a sua volta figura di primo piano, dal momento che va identificato con l’omonimo carmelitano compositore e organista, di cui sono noti i Salmi a otto voci (1616) dedicati a Giacomo Roveglio, patrono della chiesa carmelitana di Salò156 Il rapporto tra committenza artistica civile e religiosa in conclusione sembra istituire una sorta di circuito virtuoso che vede stimoli e innovazione da par-

287. Salò, chiesa del Carmine: epigrafe celebrativa. Foto Monica Ibsen.

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te di maestri chiamati da fuori nelle chiese, e ricezione ed elaborazione negli edifici civili da parte di artisti e maestranze locali con il concorso dei letterati e intellettuali locali, chiamati a fornire programmi e ad elaborare un tessuto in cui poesia, immagine, festa qualificano la città come capitale. Il livello qualitativo doveva evidentemente apparire adeguato ad esigenze complesse, dettate da un lato dalla pressione dei patrizi veneziani sulle autorità della Riviera per la pulchritas di ambienti e arredi, dall’altro dallo stesso orgoglio locale di non mostrarsi inferiori alle attese dei nobili della Serenissima. Per converso, proprio l’esistenza di un cantiere perenne con le caratteristiche che abbiamo visto connotare i palazzi della Comunità funzionò da stimolo sulle botteghe locali, non solo per l’estrema diversificazione delle prestazioni richieste, ma soprattutto imponendo un continuo aggiornamento stilistico e un affinamento tecnico e qualitativo, che hanno garantito a Salò una posizione autonoma e non marginale nelle vicende artistiche tra Quattro e Settecento.

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288. Salò, il palazzo municipale. Foto Marino Colato.

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