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ELEONORA DUSE ULTIMA NOTTE A PITTSBURGH L’8 novembre, alle ore 20.45, al Piccolo Eliseo Patroni Griffi, Anna Maria Guarnieri interpreta la grande Eleonora Duse portando in scena lo spettacolo di Ghigo de Chiara “Eleonora - ultima notte a Pittsburgh” per la regia di Maurizio Scaparro. Nasce a Vigevano, in una camera d’albergo; muore a Pittsburgh, in una camera d’albergo. È l’inizio e la fine del lungo viaggio, la lunga tournée, intorno al mondo di Eleonora Duse, figlia d’arte. Ma l’arte sua, quella costruita con la gioia e la fatica di vivere, con la curiosità e l’ansia di conoscere, era destinata a resistere nel tempo ed a diventare mito, forse perché era un grido o un canto splendidamente e tragicamente umano (come sa essere talvolta l’arte teatrale). Eleonora Duse recitava in giro per il mondo con coraggio, nella sua lingua, giorno dopo giorno, città dopo città, sempre attenta ai mutamenti della scrittura e dell’arte scenica. I primi amori, il cielo di Napoli, Asolo, gli incontri con Gabriele D’Annunzio e Arrigo Boito, le lettere sparse negli anni e nei viaggi, il grande affetto per la figlia Enrichetta, e poi la guerra, l’amore per l’Italia e per la sua lingua, le vittorie, la solitudine, le delusioni, le rivincite, la Parigi di Sarah Bernhardt e via via i palazzi di Pietroburgo, l’amore per Beethoven, la crudeltà di New York, il sole di San Francisco, la pioggia e le ciminiere di Pittsburgh, ma sempre la volontà, malgrado tutto, di viaggiare, di conoscere e di sperimentare il nuovo, per poi tornare sempre al suo vero amore: il teatro. Per questo, “l’ultima notte a Pittsburgh” è rivissuta da Maurizio Scaparro partendo dal testo di Ghigo de Chiara ed affidando il ricordo alla sensibilità di una grande attrice italiana come Anna Maria Guarnieri, in un alternarsi febbricitante di ricordi e di sogni, con l’eco dei testi e degli spettacoli a lei più cari, ma soprattutto con il conforto di parole scritte durante tutta la sua vita alle persone amate e a se stessa. Ed è anche un modo per rendere omaggio oggi, a 150 anni dall’Unità d’Italia, ad una donna straordinaria come Eleonora Duse e a quello che ha significato e significa per la diffusione della nostra cultura e del Teatro italiano nel Mondo.

La divina La Divina nasce nel 1858 a Vigevano. Figlia di attori girovaghi, varca le scene fin dalla tenera età e a soli ventitré anni è già a capo di una compagnia teatrale. Fin da subito dimostrerà di essere una persona piena di grinta e tenacia. Dopo l’ingresso nel 1879 nella Compagnia Semistabile di Torino, giungerà a maturazione la sua poetica, frutto di un abile incrocio tra passato e rottura con la tradizione. Eleonora vorrà esprimere dall'inizio della sua carriera la profonda crisi che la separa dalla sua epoca: formerà un suo repertorio che forgerà la sua personalità artistica attraverso un lungo e articolato percorso. Le pièce francesi, nelle sue mani, subiranno variazioni, si arricchiranno di nuova vita abbattendo i vecchi valori borghesi. L’attrice avrà il coraggio di togliere il velo ipocrita che ricopriva la società borghese, la società dell’apparenza governata dal dio-denaro che, regolando ogni rapporto, impedirà il costituirsi di relazioni basate sulla sincerità. I suoi temi preferiti saranno quindi i più irti, quelli più vicini alla realtà. Donna fortissima e fiera porterà alta come un vessillo la sua voglia di far cadere tutti gli stereotipi di cui si permeava l’epoca a cavallo tra Ottocento e Novecento. Da questa lunga carriera emergerà anche la sua interiorità, alienata e nevrotica, che la porterà quasi a confondersi con le donne da lei recitate, le sue donne. Nella sua vita conobbe


personaggi molto importanti, quali Boito con cui ebbe una lunga relazione amorosa e cartacea. Dalle lettere che si scambiavano, affiora il profondo amore per l’arte e il teatro, lo studio e la cultura. Boito per lei scrisse un adattamento di Antonio e Cleopatra che favorì l’avvicinamento a Shakespeare e alle sue opere. Non ritenendo sufficienti le sue naturali doti artistiche, si applicherà in una continua ricerca, che la porterà a un livello artistico superiore. Venne in contatto anche con D’Annunzio, che incontrò dapprima in maniera sfuggevole al Teatro Valle a Roma e definitivamente a Venezia. Anche con lo scrittore ebbe un’intensa storia d'amore e un sodalizio artistico. Finanziò ed esportò le sue opere fuori dal confine italiano assicurandone il successo. Ma la Duse non si fermerà solo a questi contatti: si recherà in Spagna, Germania, America e in Gran Bretagna, dove porterà la bandiera della cultura italiana recitando una “Signora delle camelie” in italiano. Nel 1909 abbandonò il teatro per tornare poi in scena nel 1921. Donna anche un po’ capricciosa, amava indossare gli abiti di scena anche fuori, forse perché la sua vita era un enorme palcoscenico o forse perché amava talmente il teatro da volerselo portare dietro anche nella quotidianità. In fondo il teatro era la sua casa, la sua famiglia, era lì che era nata e lì che morirà: di polmonite proprio durante la sua ultima tournée a Pittsburgh. Così si conclude il suo cammino che, dalle botte dietro le quinte per far uscire quelle lacrime sul palco, la porterà ad essere un’attrice sensibile, naturale e amata fin dai suoi tempi e che continuerà a far parlare di sé nei secoli. Sarà lei il simbolo indiscusso del teatro moderno, lei a stravolgere i canoni del “come si sta sul palco” non preoccupandosi di recitare con le mani sui fianchi, lei a portare il viola in teatro e sempre lei a rifiutare il trucco, come se non volesse celarsi dietro una maschera.

L’evoluzione della recitazione Tra la metà del XIX secolo e i primi venti anni del XX secolo si assiste ad un delicato passaggio di generazioni attoriali che segna una svolta fondamentale in Italia. La prima generazione è cosiddetta del “grande attore”, attiva dagli anni '40 agli anni '80 dell'Ottocento circa, che vede i suoi rappresentanti più illustri in Adelaide Ristori (1822-1906), Ernesto Rossi (1827-96) e Tommaso Salvini (18291915); il secondo gruppo è quello del “mattatore”, attivo più o meno tra gli ultimi venti anni dell'Ottocento e i primi venti del Novecento, le cui principali personalità furono Ermete Novelli (1851-1919), Ermete Zacconi (1857-1948), ed Eleonora Duse (1858-1924). Per la prima generazione lo spettacolo girava esclusivamente attorno al grande attore: il primo attore/ la prima attrice, spesso coincidente con il capocomico, disponeva arbitrariamente del testo per metterne in luce solo le componenti che ne esaltassero il suo personaggio, rimaneggiandolo, ove necessario, per far brillare la sua persona a scapito dell'intera compagnia. La cura per la messa in scena, per la scenografia, per i costumi e per l'illuminazione erano secondari: tutto era incentrato solo sul nome di spicco che richiamava pubblico. Il grande attore dava vita al personaggio mettendo la sua persona da parte: da qui una recitazione assolutamente en-

fatica e ammaliante, che emozionasse lo spettatore e lo catturasse con gesti ridondanti e una voce piena e vibrante, per certi aspetti simile ai cantanti d'opera. Durante il corso dell'Ottocento in tutta Europa si inizia a sentire una doppia esigenza: da una parte un maggior realismo che investisse tutti gli aspetti del teatro, e dall'altra una figura unica che riuscisse a raccordare tutti gli elementi che componevano la messa in scena, in funzione non più dell'attore ma del testo. Nasce il ruolo del regista come tutore dell'autore drammatico. La seconda generazione di attori italiani, quella dei mattatori, si confronta con queste problematiche: Zacconi, Novelli e la Duse tentano di ridimensionare in parte i ruoli principali, e di lavorare maggiormente sul testo, accostandosi di più alle intenzioni dell'autore. Concepiscono il dramma nella sua totalità di opera d'arte e si pongono come tramite tra lo scrittore e il pubblico: il mattatore interpreta l'autore e non il personaggio. Da qui un tipo di recitazione meno maestosa e più naturalistica: il nuovo repertorio del teatro europeo (Ibsen, Strindberg, Čechov) arriva anche in Italia grazie ai mattatori, i quali si fan-


no carico di portare sulla scena i nuovi anti-eroi. Viene fuori un nuovo approccio alla recitazione: non più annullando se stessi per far vivere i protagonisti, ma fare propri i personaggi di volta in volta interpretati, sempre trasfondendo in loro una componente intima dell'attore. La Duse in modo particolare incarnò più di tutti questo delicato passaggio. L'intenzione di rinnovare il repertorio fu il primo segnale di presa di coscienza: al suo nome si legarono la prima di “Cavalleria rusticana” e de “La moglie ideale” di Marco Praga, e, oltre a riportare in auge alcuni drammi caduti alla prima (“In portineria” e “Tristi amori”) fondamentale furono i testi di Ibsen e di D'annunzio. Inoltre la sua attività capocomicale presupponeva un tipo di organizzazione che non andasse oltre il semplicistico assestamento dell'impianto scenico. Esemplare la messa in scena de “La città morta” di D'Annunzio nel 1901, interpretata dalla compagnia co-fondata con Ermete Novelli (compagnia che i critici assursero alla pari delle migliori compagnie europee): nel dramma non ci sono personaggi che primeggiano sugli altri e l'impianto scenico venne curato minuziosamente per servire il testo e non l'attore. La Duse scelse di amalgamarsi nel disegno d'insieme e di recitare nella parte retrostante del palcoscenico (una cosa inaudita per il grande attore). Con la “Francesca da Rimini” fu spodestata dal suo ruolo di capocomica, e si mise completamente al servizio del regista-autore D'Annunzio. In questo periodo venne in contatto con molti intellettuali innovatori e si mise con passione a studiare i drammi di Ibsen, giungendo nel 1906 ad allestire “Rosmersholm” a Firenze con l'importante contributo di Gordon Craig. Tuttavia Eleonora Duse è forse quella che tra i mattatori incarna meglio la contraddittorietà di uno slancio verso il futuro, che resta poi per molti aspetti fermo su se stesso. Anche la sua recitazione mette in evidenza questo doppio aspetto: fu una grandissima prima attrice, senza averne le caratteristiche (sicuramente non aveva quelle della Ristori); c'era in lei una sostanziale incoerenza tra la dizione e la voce, i suoi gesti e la sua mimica sembrarono ai contemporanei eccentrici e inconsueti, ma allo stesso tempo straordinari. Il suo stile recitativo segnò una netta rottura con il passato: mai dritta e stabile, ma sempre curva e sbilanciata rispetto all'asse corporeo, arricchendo la sue interpretazioni con la casualità di gesti spontanei ed autentici. La sua grande modernità, e lo scarto con la generazione del grande attore, fu la capacità di instaurare un rapporto con il personaggio, non scomparendo dietro di esso, bensì creando con esso una nuova identità. La Duse utilizzava il palcoscenico e l'arte attorica come mezzo per esprimere la propria nevrosi, le proprie crisi interiori e il delicato equilibrio tra una vecchia tradizione che non riusciva a scrollarsi, e nuove prospettive di respiro internazionale che non poteva abbracciare pienamente. sara iacobitti


POSTCARD FROM… LARA ALMARCEGUI Giovedì 10 novembre inaugura a Roma, presso la Fondazione Pastificio Cerere, la prima mostra personale in Italia dell’artista spagnola Lara Almarcegui (Saragozza, 1972). Aperta al pubblico con ingresso gratuito fino al 7 gennaio 2012, l’esposizione fa parte di un ciclo annuale di attività proposto da Vincenzo de Bellis, curator in residence della Fondazione per il 2011. La mostra di Lara Almarcegui è composta da due distinti e complessi progetti, realizzati appositamente per l’occasione, che rappresentano l’elaborazione di un suo più semplice lavoro esposto nel 2010 a Vienna. Pur diverse fra loro, entrambe le opere indagano la città di Roma, evidenziando l’interesse dell’artista nei confronti delle relazioni fra architettura e contesto urbano, fra ciò che accade in strada e ciò che accade negli spazi espositivi. “Guide to Wastelands of the River Tevere, 12 Empty Spaces Await the 2020 Rome Olympics” (2011) è il titolo del primo lavoro realizzato per la mostra. Il progetto, già sperimentato in diverse capitali, è basato sull’idea di creare una mappa delle aree abbandonate delle città. A Roma, Lara Almarcegui si concentra soprattutto su una grande area a nord-est del Tevere, inclusa nel piano di sviluppo urbanistico del parco fluviale destinato alla costruzione di infrastrutture per i giochi olimpici del 2020. In Fondazione l’artista presenta il risultato del suo operato: una serie di guide, frutto delle ricerche condotte in loco, insieme a dossier e proiezioni di diapositive. La seconda opera esposta, dal titolo “Construction Rubble of Pastificio’s exhibition space” (2011), è un’installazione composta da cumuli di macerie di materiali da costruzione, corrispondenti a quelli utilizzati anni fa per realizzare l’attuale spazio espositivo nel quartiere San Lorenzo. Con questo lavoro l’artista riflette sulla storia della sede della Fondazione, così strettamente legata alla città di Roma, e s’interroga sulle potenzialità di tali elementi e su di un loro possibile utilizzo futuro. Lara Almarcegui è anche la quarta protagonista di “Postcard from…”, il progetto promosso dalla Fondazione Pastificio Cerere e ideato dal suo direttore artistico,

Marcello Smarrelli, per portare l’arte nel contesto urbano. L'iniziativa, realizzata in collaborazione con A.P.A. - Agenzia Pubblicità Affissioni, è curata in questa occasione da Vincenzo de Bellis. “Postcard from…” prevede che di volta in volta venga chiesto a un artista di ideare un manifesto di dimensioni 400x300 cm, come quelli usati nella cartellonistica pubblicitaria. L’immagine scelta dall’artista viene affissa su una struttura installata nel cortile del Pastificio Cerere e contemporaneamente riproposta nei due mesi successivi in dieci impianti di Roma gestiti da A.P.A. __ con il turnover di quattordici giorni tipico delle affissioni pubblicitarie __ il cui elenco viene aggiornato sul sito internet della Fondazione www.pastificiocerere.it. Il manifesto ideato da Lara Almarcegui è un ideale proseguimento del progetto “Guide to Wastelands of the River Tevere, 12 Empty Spaces Await the 2020 Rome Olympics” e mostra una delle immagini provenienti da quella ricerca. Esposta temporaneamente nei cartelloni pubblicitari, destinati poi ad altri manifesti, rappresenta un naturale amplificamento concettuale della ricerca dell’artista, volta a sottolineare il preservamento e la tutela di quegli spazi pubblici in attesa di utilizzo. Lara Almarcegui vive e lavora a Rotterdam. Ha frequentato la facoltà di Belle Arti presso l’Università di Cuenca, proseguendo poi gli studi presso il de Ateliers 63 ad Amsterdam. Ha esposto in numerosi spazi pubblici e privati fra cui: Sala Rekald e, Bilbao (2008); Centro Galego de Arte Contemporánea, Santiago de Compostela (2008); Center of Contemporary Art, Malaga (2007); the FRAC Bourgogne, Dijon (2004); INDEX, Stoccolma (2003). Tra le sue ultime personali ricordiamo: Secession,


Vienna (2010); Ludlow38, New York (2010); Art Basel de Bruin Projects (2010).

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Art Statements con la Gallery Ellen

Fra le sue recenti mostre collettive: Taipei Biennale (2010); 3a Moscow Biennale of Contemporary Art (2009); 7a Gwangju Biennale (2008); 5th Lofoten International Art Festival, Svolvaer (2008); Greenwashing: Environment: Perils, Promises and Perplexities, Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Torino (2008); Sharjah Art Biennial 8 (2007); 27a Biennale di San Paolo (2006); Biacs2, 2a Biennale di Siviglia (2006); Momentum, Nordic Festival of Contemporary Art, Moss (2006); Offentlig Handling (Public Ac)t, Lunds Konsthall, Lund (2005).

UNA VISITA MOLTO PRIVATA Con: Francesco Acquaroli: Ministro della polizia Sebastiano Colla: Lorenzo servitore David Gallarello: Pietro Missoni carbonaro Patrizia La Fonte: contessa Caracci Silvia Salvatori: Giulia Braschi Ideazione e regia: Roberto Marafante Passaggi Segreti®, la manifestazione di spettacoli teatrali itineranti all’interno dei luoghi e siti storici di Roma, organizzata e prodotta dalla Bilancia Produzioni, è arrivata alla XV Edizione ed è ormai una realtà radicata e riconoscibile nel panorama artistico della Capitale, un punto di riferimento per i cittadini romani e stranieri che la scelgono quando cercano un prodotto di alta qualità che sappia coniugare la cultura con lo svago.

papalina percorsa dai venti libertari della carboneria e dell’indipendenza. In quelle sale, dove i ritratti delle grandi famiglie si fondono con le immagini delle magnificenze di una città rinascimentale e barocca, matura il dramma di una storia d’amore e di libertà tra la giovane aristocratica Giulia Braschi __ interpretata da Silvia Salvatori__ e un carbonaro fuggitivo __ David Gallarello __ come nella più appassionate tradizione stendhaliana.

Il pubblico, nel corso dello spettacolo teatrale itinerante, viene invitato a partecipare ad una festa della famiglia Braschi ma è dirottato da una sala all’altra da una severa governante __ la Contessa Caracci di Patrizia La Fonte __ e dal servitore di famiglia __ Sebastiano Colla __ ad ammirare le bellezze del palazzo perché un increscioso incidente ha interrotto bruscamente i festeggiamenti. Difatti la polizia è in fermento, il palazzo è tutto un misterioso andare e venire e il Ministro della polizia __ “Una visita molto privata” ci racconta la StoFrancesco Acquaroli __ è alla ricerca di un ria di Roma dal punto di vista dei protagonisti carbonaro fuggitivo. che l’hanno vissuta e getta uno sguardo su un periodo molto turbolento della Capitale, il In questo clima di mistero e di sospetti, il passaggio dallo strapotere dei papi agli afflati pubblico potrà rivivere quella sensazione di di indipendenza confluiti nei moti carbonari. decadenza di uno stato pontificio ormai tropNon poteva mancare in un Palazzo così sce- po occupato a curare gli interessi politici più nografico e pieno di grazia una storia d’amore che a salvare le anime dal peccato. Prendenappassionata e ricca di colpi di scena, fedele do spunto dagli autori italiani e stranieri allo stile di Stendhal a cui si riferiscono alcu- (Stendhal, Goethe, Belli, De Sade) che in quel momento amarono Roma, affiorerà nel ne ispirazioni del testo dello spettacolo. racconto quel sapore agrodolce che rende Costruito alla fine del diciottesimo secolo, Paunico lo spirito romano. lazzo Braschi si colloca al centro di una Roma Il progetto Passaggi Segreti® quest’anno propone all’interno di Palazzo Braschi, dall’1 al 18 dicembre 2011, lo spettacolo ideato e diretto da Roberto Marafante dal titolo “Una visita molto privata”. Seguendo le vicende di due innamorati divisi dall’amor di patria, il pubblico ammirerà da vicino le bellezze di un palazzo diventato Museo di Roma, che racchiude in sé capolavori artistici e scorci architettonici.


A COME … AMIANTO A Roma Eur, il 24 luglio del 2008 l’amministrazione comunale fa implodere, grazie all’uso del tritolo, il Velodromo al cui interno, secondo la relazione dell’ASL, sono presenti 130 chili di materiali in cemento amianto e ben 4.535 chili di materiali contenenti amianto. Parte consistente di questi materiali, dopo l’implosione, si liberano in una nuvola bianca che disperdendosi nell’aria invade pericolosamente la capitale d’Italia. Per far crollare i 66mila metri quadrati del Velodromo, giudicato da molti giornali sportivi: “la pista ciclabile migliore del mondo”, realizzata per le Olimpiadi degli anni ’60, furono utilizzate dal Genio Civile 1.800 cariche di tritolo. La società Eur spa proprietaria del Velodromo, società pubblica del Ministero del Tesoro e del Comune di Roma, non ha avvertito l’ASL dell’imminente esplosione. Il 17 novembre di quest’anno ci sarà la prima udienza presso il tribunale di Roma, che ha accolto la richiesta della petizione pubblicata sul sito di Ulderico Pesce (più di 3000 firme) per trasformare l’imputazione alle società coinvolte da “getto di cose pericolose” a “disastro colposo”. “ A come … amianto” nasce dalle personali indagini del suo autore su questo argomento ed è corredato dalla proiezione di sessanta immagini che documentano l’evento romano.

IN EXCELSIS Non è un inno liturgico né una mostra sul sacro, è Batman. “In Excelsis”, mostra costituita da un piccolo nucleo di inediti, porta lo spettatore di fronte a temi a lui conosciuti ma combinati in maniera nuova ed innovativa. La personale di Adrian Tranquilli (Melbourne 1966), accolta dallo Studio Stefania Miscetti, ci catapulta in un mondo composto da supereroi e simboli già presenti nell’immaginario collettivo. Un tema a tinte forti quello che l’artista rappresenta: un eroe, nato dalla fantasia, che viene ad associarsi alla figura del Salvatore. Posture, anatomie, panneggio classicheggiante e ovviamente, la croce, ci riportano a un aspetto piuttosto caro all’iconologia religiosa. Va ricordato che Tranquilli con le sue opere vuole andare oltre la pura e semplice simbologia religiosa, invitando a ricercare dei significati altri e più profondi. La chiave, quindi, è incentrata sulla figura dell’eroe e sui vari tipi di croce, ma importante è anche il ricorso al simmetrico e al numero tre che troviamo sia nella scala di grandezza: piccolo, medio e grande, sia nei trittici che aprono la mostra: quello verticale e quello orizzontale. Ritornando alla figura dell’eroe, qui possiamo vedere come viene snaturata la sua aura di invincibilità per arrivare a sfiorare un aspetto un po’ più quotidiano, legato alla realtà della crisi della cultura nei nostri giorni. L’aspetto della tragicità riguarda anche la cromia bianco/nero che ricorre sia nella tecnica utilizzata, il carboncino, sia nel supporto in legno e plexiglass. “In Excelsis” costituisce un punto di arrivo che affonda le radici nel 2004 con “These Imaginary Boys”, nel 2005 con “The Age Of Chance” e nel 2006 con “Don’t Forget the Jocker”, dove aveva già iniziato a intaccare la natura salvifica del supereroe.


Forte è il collegamento con la tematica già affrontata nella mostra, allestita presso il MACRO e terminata a novembre, “All is violent, all is bright”; ciò rivela come quello del fumetto e dell’eroe sia un tema particolarmente caro all’artista che così facendo si accosta anche alla collettività che ammirerà le sue opere. L’eroe fin dall’antichità viene cantato ed esaltato e rappresenta una figura familiare a cui oggi volentieri ci appelleremmo per uscire da questa situazione di criticità. Per questo il richiamo all’excelsis, a qualcosa o qualcuno che ci sovrasta e che rappresenta l’ultima possibilità di salvezza per l’uomo comune. maria merola

JOACHIM SEINFELD/ RAUL GABRIEL La testimonianza storica di quanto accaduto in passato avviene attraverso la teorizzazione di eventi che si tramandano dalla Storia fino ai giorni nostri. Per comprendere tali eventi si è abituati ad affrontare una lettura verticale degli avvenimenti in questione; la Storia si materializza ai nostri occhi come un diagramma piramidale di date, in cui ad un’azione corrisponde una causa e così via. Nei lavori degli artisti Joachim Seinfeld e Raul Gabriel presentati insieme negli spazi di artMbassy per una doppia personale di respiro internazionale, la lettura della storia avviene tramite la sovrapposizione di stratificazioni visive, in grado di dare origine ad una superficie mentale sintattica ma orizzontale. Per la serie “Neighbours” nei lavori del tedesco Joachim Seinfeld, la conservazione di epoche passate può essere paragonabile ad una pratica atipica del restauro, che attua la conservazione della materia in senso inverso. Dopo gli studi all’Accademia di Belle Arti di Firenze, l’artista ha sentito il bisogno di preservare una parte della storia della sua città e non solo, lavorando sulle superfici più vissute di edifici in disfacimento. Dopo aver conservato parte delle mura rimosse, l’artista applica con l’emulsione fotografie e materiale d’archivio sulle stesse macerie, facendo uscire immagini bidimensionali che prendono il nome dall’indirizzo in cui è avvenuto lo strappo iniziale. Una pratica di restauro certosina e arbitraria, che parte da una ricerca privata per aprirsi alla sfera pubblica. Dietro la conservazione di Joachim Seinfeld si apre infatti un ampio raggio di immaginazione in cui il fruitore è sensibilizzato alla memoria storica e architettonica della sua città, grazie ad una strana combinazione di particolari sia materici che visivi, racchiusi a loro volta in una seconda immagine: il reperto lavorato di ciò che era. “It is therefore also a work about what we want to do with our cities, what do we want to preserve…”, scrive l’artista. Memoria e attualità si incontrano in una cornice invisibile che raccoglie in parte un presente compromesso dagli eventi - il muro con ciò che l’artista ha rimosso - e in parte un passato immortalato da obiettivi fotografici altrui - il supporto su cui l’artista lavora. L’immagine finale è una sovrapposizione di suggestioni che rievocano la vivibilità sociale ed estetica di Berlino, abbracciando pratiche di arte popolare e ricerca d’archivio personale. A suggellare i frame di questo viaggio onirico bidimensionale è il fermo immagine del video di Raul Gabriel “Back2Berlin”. La sagoma di una bicicletta bianca scorta sul vetro di un vagone metropolitano, appare in primo piano dietro un susseguirsi di paesaggi berlinesi suggeriti dal viaggio dell’artista verso l’aeroporto. Un susseguirsi di rumori urbani si confonde con inserti sonori fatti emergere successivamente, la cui fonte originale deriva da avvenimenti storici salienti. La stratificazione del tempo e della memoria assume anche qui una lettura orizzontale, che si carica di una forza onirica grazie all’uso dell’artista del reverse. I livelli visivi dell’immagine-video mantengono la bidimensionalità dei lavori di Joachim Seinfeld, mentre il movimento su cui si attuano aziona un “flusso ipnotico” sottolineato dal leitmotiv delle sonorità in sottofondo: torna la forza della memoria, proprio dove il paesaggio sembra sfrecciare via con il percorso del treno. Il messaggio di Raul Gabriel si concentra nella forza che l’immobilità del simbolo “bike” suggerisce. Non è il treno la costante del suo viaggio nonostante sia il motore effettivo del movimento presente nel video; è la “formula-bicicletta” che, “imposta sulla città, contrasta con il suo messaggio di riappacificazione ambientale e sembra invitare ad una ecologia della mente prima ancora che dell’ambiente.” (Raul Gabriel).


Entrambi i lavori presentati insieme negli spazi di artMbassy si servono del potenziale narrativo dell’immagine fissa che, soggetta a stimolazioni visive di substrati, suscita un “movimento mentale” a favore del ricordo che da individuale si fa collettivo. Una chiave di lettura diversa per conoscere e insieme immaginare la quotidianità di una città in perenne movimento, scavando nel suo passato e nei suoi dintorni, per attraversarla poi in un presente visionario ma fedele all’anima vitale che le pulsa dentro.

VIOLA DI MARE “Viola di mare” nasce da una storia vera, da un amore impossibile. In un’isola siciliana, in piena vicenda garibaldina, Pina si innamora di un’altra donna e per poter vivere questo amore proibito, sfuggendo alla furia di suo padre e alla grettezza del paese, accetta di vivere travestita da uomo per il resto della sua vita. Ispirata a una vera vicenda siciliana __ raccontata in modo avvincente da Giacomo Pilati nel suo romanzo “Minchia di re” __ la storia di Pina riflette anche la Storia più grande del Risorgimento italiano. La menzogna del suo corpo travestito è anche la menzogna di un Paese che in quegli anni sta nascendo, fra promesse tradite e speranze disattese. Tuttavia la ribellione di Pina, la sua sfida, il solco doloroso della sua vita divisa in due, saranno per l’isola anche segnale di un possibile cambiamento: un esempio di libertà che andrà a incidere sugli animi più della legge dei potenti, fatta di promesse e di catene. Isabella Carloni __ attrice e cantante che ha lavorato con artisti come Carlo Cecchi, Marco Baliani, Toni Servillo, Elio De Capitani, Franco Branciaroli, Giancarlo Sepe, e per maestri musicisti quali Giovanna Marini, Carlo Boccadoro e Filippo del Corno __ è impegnata da anni in un progetto di drammaturgia della voce che l'ha portata già a esprimersi con successo anche come autrice. In questo spettacolo, dichiara nelle sue note di regia, “la scena si apre su un tempo sospeso. Il tempo dell’attrice, che è il nostro, e il tempo di Pina/Pino, in attesa. Entrambe segnalano un travestimento e aspettano di offrire il loro “ritratto” al pubblico sguardo. In quell’attesa riaffiorano, come soprassalti di memoria, tracce di esistenza. A tratti, improvvise scritte di luce titolano i passaggi di vita di Pina/Pino, la costringono a precipitare in storie rimosse, a svelarne, perfino a se stessa, attraverso un monologare intimo, che a tratti si fa narrazione, risvolti segreti o nascosti. La memoria, allora, diventa anche un’intima resa dei conti. La metamorfosi del corpo femminile in quello maschile, che segna la storia di Pina, lasciandola perennemente in bilico tra due identità, si esprime nel corpo-voce dell’attrice, nella sua fisicità inquieta, nelle sfumature che ne raccolgono gli stati emotivi. Eccola allora circoscrivere lo spazio in un percorso di spostamenti essenziali, e dilatare o accelerare il tempo nell’invisibile della memoria, facendo rivivere i luoghi dell’isola e quelli dell’anima. Eccola iscrivere sul suo corpo altre figure: il prigioniero Cece’, la figura grottesca della madre, il duro profilo di suo padre, l’angelico apparire del suo amore, Sara. La scrittura drammaturgica si sviluppa con la medesima essenzialità del lavoro attorale: sedimenta, dal testo originale di Giacomo Pilati, quelle sequenze indispensabili a coagulare la vicenda sulla scena, a renderne memorabili i passaggi. Senza rinunciare alla forza pittorica della scrittura di Pilati, la drammaturgia si nutre di quella scrittura, dei suoi colori e di quelle atmosfere, facendole precipitare nel “cuore di tenebra” della storia. Le sonorità, create da Alfredo Laviano, a volte come echi di lontananze, a volte come anticipo dei combattimenti interiori della figura sulla scena, segnano, nello spettacolo, il tempo dell’azione, individuano i passaggi, interrompono o spiazzano il fluire della memoria, come una partitura drammaturgica parallela. Nello spazio, pensato da Giancarlo Gentilucci, si staccano come affioranti dalla crosta del tempo pochi elementi scenici che, assieme alla luce, creano i luoghi della memoria, inventano squarci che diventano luoghi, tagli che ospitano spazi, che si fanno botola, mare, ritratto.


VIAGGI DI ULISSE “Viaggi di Ulisse - Concerto mitologico per strumenti e voci registrate” è la nuova opera scritta e diretta dal compositore Nicola Piovani, proposta per la prima volta nella capitale alla stagione 2011-2012 della Istituzione Universitaria Concerti. Il mito di cui si sono appropriati i più grandi artisti di ogni epoca viene trasposto in musica da uno dei più celebri compositori italiani contemporanei in un'opera complessa e pluridisciplinare. L'autore ha incontrato gli studenti alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università “La Sapienza” giovedì 3 novembre per illustrare nel dettaglio il lavoro. Ulisse affascina prima di tutto per la sua poliedricità, la quale ha dato vita, nel corso dei secoli, a modi interpretativi ambigui e anche antitetici tra loro. Tra le infinite sfaccettature quella che Piovani ha deciso di raccontare è la curiosità: “L'aspetto che più mi sta a cuore di Ulisse è l'uomo che vuole guardare oltre, che vuole varcare i confini della conoscenza” (Roma, 26 maggio 1946). L'opera sarà articolata su più livelli: strutturata in sei parti, con un prologo e cinque movimenti, intervallerà ad ogni sezione musicale dei brani recitati da voci registrate, e per ogni sezione, sullo sfondo, saranno proiettati i disegni eseguiti appositamente da Mino Manara; illustri voci hanno interpretato i brani registrati (Carlo Cecchi, Paila Pavese, Massimo Popolizio, Mariano Rigillo, Virgilio Zernitz, Chiara Baffi, Massimo Wertmuller e Siobhan McKenna), mentre la componente strumentale sarà affidata al nutrito organico dell'Ensamble Aracoeli (contrabbasso, sax, clarinetto, violoncello, percussioni, pianoforte e tastiere). I testi, scelti da Piovani stesso, non sono ordinati cronologicamente o secondo l'ordine omerico: da “Itaca” di Konstantinos Kavafis è tratto il prologo; i primi tre movimenti, presi tutti dall’“Odissea” omerica, narrano rispettivamente gli episodi dell'Isola delle Sirene, dell'Isola dei Lotofagi e dell'Isola dei Ciclopi; il quarto movimento è dedicato all’“Ulisse” di James Joyce, con un brano letto dall'autore irlandese; l'ultimo movimento riguarda l'episodio delle Colonne d'Ercole, raccontato attraverso un brano del XV canto della “Gerusalemme liberata” di Torquato Tasso e un passo pindarico della “Nemea”; sui versi di “Ulisse” di Umberto Saba l'opera giunge a conclusione. Musica, letteratura e arte visiva per narrare l'irresistibile potenza della “curiositas odissiaca”: “Viaggi di Ulisse” sarà un'opera che, come il suo protagonista, viaggia nel tempo e nello spazio, varcando limiti ignoti dentro e fuori la coscienza umana. sara iacobitti

INFINITE O SFINITE?/ MIRACOLI DELLE DONNE DI OGGI In questo spettacolo Dio è una donna. E neanche giovane. Contrariamente al trend del momento è una Signora di mezza età. Fa miracoli ma anche i conti con le rughe, che nel suo caso sono eterne, e come si sa all’eternità non c’è rimedio. Non è magra perché tende ad espandersi come l’universo. E’ terribile ma anche insicura, perché una donna anche se è Dio fa fatica a crederci! Poi dall’Infinito si passa allo Sfinito ed ecco che scesa tra gli uomini la donna deve fare miracoli di ben altro tipo. Mettere assieme il marito e il mutuo, la carriera e la diarrea dei figli, trovare un asilo nido, far salire un passeggino in metropolitana all’ora di punta. Questi sì che sono miracoli!


E allora vai con le donne che amano troppo, mangiano troppo, parlano troppo, fanno tutto troppo. Un mondo popolato da manager rampanti, iperfemministe dalle improbabili campagne, povere assassine, vecchie ciniche, qualunquiste coatte, ed eleganti snob la cui Bibbia è Vanity Fair. Nei palazzi dell’amministrazione come nelle redazioni dei giornali si consumano le “Impiegatomachie”, feroci lotte tra figure mitologiche metà donna e metà sedia da ufficio, mentre nei centri commerciali e negli outlet la maggioranza cerca di sfangarla. Pregustando il giorno del Giudizio Universale in cui finalmente gli utimi saranno i primi e gli uomini partoriranno con dolore, non ci resta che chiederci: Se il Diavolo veste Prada, Dio cosa si deve mettere?

LA FINE DELLA FIERA Non è la solita espressione idiomatica ma il titolo di una pièce teatrale che ha debuttato sul palco del “Cometa Off” l’8 novembre scorso. Sono in quattro, non hanno nome, tre uomini e una donna che decidono di eleggere il pubblico a loro confessore. Uno scrittore che non scrive più, un’archivista, un uomo capace solo di amare e uno che invece sa solo odiare. Questi, dunque, i protagonisti che decidono di mettersi a nudo davanti allo spettatore, non conoscono chi hanno davanti eppure non hanno timore di essere giudicati. Quattro persone diverse si raccontano rendendo lo spettatore partecipe dei loro monologhi. Sono storie romantiche, tragiche e comiche in cui è possibile immedesimarsi e identificarsi. Interessante la scelta di non attribuire un nome a quei quattro volti, scelta che pone il pubblico sullo stesso piano dei protagonisti: nelle sale sono presenti tante persone, ma il personaggio sul palco non ne conosce l’identità. Fabrizio Sabatucci è lo scrittore che non scrive più, incarna la figura del lavoratore precario che va tanto di moda oggigiorno. Vende gelati, si occupa del magazzino, cuce cravatte... Il destino è sempre lo stesso: il licenziamento. Perché non scrive più? Non ha più soldi, ispirazione. I tentativi li fa eppure dopo aver accumulato insuccessi su insuccessi inizia a demoralizzarsi e deprimersi. E quanti non si rivedono in lui? Veruska Rossi è l’archivista video. Lavora a casa eppure non ha mai tempo di uscire, ma non è sola, mai. Tante persone diverse le fanno visita. Soffre della sindrome da personalità multipla. Un giorno però, un video la porterà faccia a faccia col passato. Un’immagine e la mente torna a quel giorno. A sedici anni prima. Riccardo Scarafoni è l’uomo che crede nell’amore, che ama e che si ritroverà con la sua amata che prenderà pian piano possesso della sua casa e della sua vita. Fa discorsi contorti sull’amore e prova a dare e darsi una spiegazione, una definizione. Ma non ci riesce. Ci sono giorni che proprio non la sopporta la sua dolce metà … Vorrebbe tanto ribellarsi ma lei si ammalerà e allora sarà lui a cercare di organizzare le loro vite, stilando tabelle orarie che puntualmente non saranno rispettate. Francesco Venditti rappresenta la freddezza e l’indifferenza dell’uomo ricco il cui lavoro lo vede costretto a regolare dei conti con imprenditori accusati di aver sbagliato qualcosa. “Distrarre” dice lui. I premi che riceve gli fanno dimenticare tutti i sensi di colpa, ma un giorno verrà in contatto con la più dura realtà: un imprenditore a cui aveva fatto “visita” in realtà non aveva commesso nessuno sbaglio. Ed è lì che si scontrerà con la crudezza del suo lavoro, ma come uscirne? In fondo lui sapeva … eppure alla verità preferisce una bella cravat-


nuova. I protagonisti finiranno con l’essere accomunati da sentimenti forti come sofferenza, rimorsi, rimpianti, senso di inadeguatezza. Inizieranno a sentirsi alienati da loro stessi e dal mondo, vorrebbero cambiare, tornare indietro, rimediare agli errori. Riusciranno solo ad avere una fine comune, un destino triste frutto dell’esasperazione di ciò che hanno commesso e ciò che ha influenzato le loro vite. maria merola

DANNATI

L’11 novembre, alle ore 18.30, presso la IPER URANIUM Art Gallery, inaugura la rassegna fotografica “Dannati”, che propone una serie di immagini di Giorgio Taraschi, fotografo teramano che, dal 2011, lavora per l'agenzia InVision Images. Il progetto “Dannati” è manale “Nepali Times” feriche della città. Una rie che valesse la pena

una piccola parte di una storia più ampia, commissionatami dal settidi Kathmandu con l'intento di documentare gli slum nelle zone perivolta sul luogo non è stato difficile trovare in quel contesto altre storaccontare.

“È economica e facile da reperire; e una volta provata non puoi fermarti perché ad ogni respiro riesci a vedere il tuo dio...lassù” __ Ram Hari, 12 anni. Se Kathmandu è una delle città asiatiche con la più alta concentrazione di O. N. G. è perché la piaga dell'alcolismo costringe da anni un numero sempre più ingente di bambini a fuggire dalle loro case per sottrarsi agli abusi e alle violenze che ne derivano. Di età compresa tra gli 8 e i 12 anni, riuniti in piccoli gruppi per far fronte ai pericoli e alla solitudine della strada, iniziano a sniffare colla per uso industriale o domestico, una droga alternativa ed estremamente economica con effetti disastrosi sul cervello umano.


Chiamati “freaks” dai locali, scacciati dai turisti e malmenati dalla polizia, la strada diventa un posto in cui nascondersi e la colla un rifugio per le loro menti. Giorgio Taraschi nasce a Teramo nel 1986. Nel 2008 si diploma in fotografia presso l'Istituto Europeo di Design di Roma presentando un progetto sulle condizioni degli ex ospedali psichiatrici italiani a trent'anni dalla legge “Basaglia”. Parte nel 2009 alla volta dell'Asia spostandosi tra India e Nepal e collaborando con testate locali. Nella primavera del 2010 si trasferisce in Thailandia per documentare gli scontri tra Red Shirts e Truppe governative nel centro di Bangkok. Nell'aprile 2011 entra a far parte dell'agenzia InVision Images.

BOLERO DEL DRAGO ROSSO “Bolero del Drago Rosso”, spettacolo già collaudato e che ha già riscosso vari ed ampi consensi sul territorio nazionale, è frutto della collaborazione tra Marco Schiavoni e Caterina Genta. Performance danzata nella quale il GuJang (arpa cinese), magistralmente rivissuto dal maestro Schiavoni sarà utilizzato in modo “totale”, per coniugarsi armonicamente con il mondo plastico e sensuale di Caterina Genta. Caterina Genta, danzatrice che utilizza ed integra la propria formazione alla scuola tedesca (la Folkwangschule di Pina Bausch) con le suggestioni nate dall'incontro con alcuni danzatori Butô, esperta nell'arte della composizione istantanea all'interno di una struttura data, interagisce con uno schermo video sul fondale entrando ed uscendo dallo spazio bidimensionale della proiezione, in un continuo gioco di sovrapposizioni visive e disvelamenti. Nonostante il fatto che il video sia registrato, il lavoro sempre rinnovato della danzatrice lascia spazio ad una interazione all'istante. Marco Schiavoni, compositore, polistrumentista e videografo, da più di trent'anni attivo sulla scena italiana, abile nella composizione musicale per il teatro, nel live sound set acustico ed elettronico e nelle videoscenografie, suona dal vivo uno strumento molto singolare, l'arpa cinese e dialoga con i materiali registrati e video.

CONSONANTIA “Un percorso in uno scenario totalmente evocativo”. Il viaggio di un ricordo e il ricordo di un viaggio. “Consonantia” nasce dal ricordo, tanto doloroso quanto elettrizzante, di una delle esperienze che ha accomunato generazioni italiane di ieri e di oggi: l'emigrazione. AnnaChiara Tealdi


racconta nella sua prima opera teatrale di un viaggio lontano nel tempo e nello spazio: una storia d'amore tra un musicista in cerca di fortune negli Stati Uniti (Lorenzo Farina) e una cantante di successo che resta a Napoli (AnnaChiara Tealdi). Una relazione divisa da un oceano, ma scissa soprattutto tra la volontà di cercare nuove possibilità nella terra promessa e le riserve di lasciare le certezze del paese natale. Queste le ragioni dei due protagonisti che inseguono i loro sogni, ma che alla fine si ritroveranno insieme. Lo spettacolo gioca sulla doppia valenza espressiva della parola recitata e della parola cantata: i due eccellenti chitarristi Andrea Brandizzi e Carlo Testana accompagnano canzoni senza tempo interpretate splendidamente dalla protagonista: brani evocativi come “Over the rainbow”, “New York New York”, “Anema e Core”, “Quanto t'ho amato”, “Santa Lucia Luntana”, “Malafemmena” (solo per citarne alcuni) stimolano il serbatoio della memoria sia nei personaggi sia negli spettatori. I dialoghi recitati sono inseriti tra le maglie delle canzoni per creare un filo conduttore, operazione che alcune volte risulta forzata o troppo frettolosa: lo scavo psicologico dei personaggi è espresso in certi casi da monologhi intensi, ma più spesso il senso è affidato alla musica, che non sempre sopperisce da sola a far immedesimare il pubblico nello stato d'animo dei due innamorati. La scenografia di Cuqui Trujillo dona maggior forza al senso del ricordo: oltre agli essenziali elementi d'arredo, primeggiano sullo sfondo sei pannelli bianchi con brandelli delle parti recitate. I pensieri della memoria riaffiorano dalla mente dei protagonisti e si mostrano al pubblico in sala, presenze costanti durante tutto lo spettacolo. I colori della scena sono prevalentemente il bianco e il nero, così come in bianco e nero sono i costumi di tutti i personaggi, curati da Norha Trujillo: gli stessi colori delle foto e delle cartoline scattate in un paese lontano e spedite ai propri cari rimasti a casa. Tra la prima e la seconda parte dello spettacolo un intermezzo strumentale delle due chitarre si sovrappone proprio ad immagini di emigranti all'estero proiettate sui pannelli bianchi dello sfondo, creando un effetto davvero suggestivo dei mezzi espressivi. Musica, parole e immagini per alludere, come il baule posto al centro della scena, alle due essenze di “Consonantia”: il viaggio e il ricordo. sara iacobitti

L’attualità dell’emigrazione Dal 1905 ad oggi gli scenari non sono cambiati poi di molto, gli Italiani partivano alla ricerca di qualcosa di migliore, della felicità. Tutto era un’incognita. Oggi gli Italiani continuano a partire, colpa della crisi che non dà più speranze per il futuro. Non ci si domanda se si tornerà o meno indietro, si pensa solo a star bene. Chi sono i nuovi emigranti? Giovani che hanno studiato ma a cui i tagli sulla ricerca tarpano le ali, giovani a cui viene impedito di continuare i loro studi e di fare nuove scoperte. Partono i laureati, che si vedono chiuse tutte le porte dal mondo del lavoro con la motivazione che: “costano troppo”. Ora non si sa quanti di quegli italiani che se ne sono andati in passato avessero la voglia effettiva di tornare indietro, ma molti lo hanno fatto e si sono sentiti stranieri nel loro Paese. Perché? La lunga assenza ha provocato dei cambiamenti sia a livello fonico, per via dell’accento acquisito stando in terra straniera, che culturale. La nostalgia del luogo di origine si trasforma così in una barriera culturale da superare che condurrà ad un duro impatto con la realtà. Quella terra ospitale, che era il simbolo della casa, diventa ostile, sconosciuta e chissà se non c’è voglia di ritornare indietro, alla casa adottiva … Oggigiorno molte sono le possibilità che ci mettono in contatto coi Paesi esteri come Inghilterra e Australia, sono nate tantissime agenzie che promettono e permettono di aiutare lo “straniero” a non sentirsi solo e abbandonato. Queste agenzie, infatti, si occupano di fornire assistenza per il lavoro e lo studio. Ma l’Italiano che partiva all’inizio del novecento non aveva tutte queste possibilità, questi aiuti. Era solo, se la cavava con le sue forze. Nel 2011 e già da molti anni ormai, siamo di fronte al fenomeno dello sbarco dei clandestini in Italia e qui si tende a ricordare quando erano i nostri connazionali a farlo, a fuggire dal futuro incerto. Si parla, però, anche di come questi emigrati portino criminalità e violenza, si vorrebbe che fossero allontanati e che tornassero ai luoghi di origine, che ci


ci lasciassero in pace. Ma questo è chiudere gli occhi di fronte a ciò che successe anche ai nostri concittadini, connazionali. Se si vuole andare ad analizzare il fenomeno non ci si può dimenticare che la mafia fu portata in America dagli Italiani stessi. Non si può fare di tutta l’erba un fascio additando qualsiasi straniero come criminale. Non si può essere ciechi davanti a chi lavora per stipendi miseri senza lamentarsi, mentre un Italiano per condurre una vita decorosa e spendere e spandere rifiuta alcuni stipendi definendoli da fame. Allora la domanda è: come fa lo straniero ad andare avanti con quello stesso stipendio? Sarà l’epoca ma ormai tutti si puntano il dito contro, l’accoglienza benevola non esiste quasi più, siamo di fronte al fenomeno del cane mangia cane, del rifiuto del diverso. Basterebbe solo un po’ di educazione in più a partire dalle scuole. Il convegno L’emigrazione italiana: un percorso a senso unico?, organizzato dal Museo Nazionale dell'Emigrazione Italiana presso il Complesso del Vittoriano mercoledì 30 novembre, coglie l’occasione per creare dibattiti costruttivi e per dare maggiori informazioni nonché approfondire questa tematica sempre esistita e dai toni sempre attuali. maria merola

Altrove Gli italiani nel mondo: l’emigrazione dal periodo pre-unitario ad oggi La ricorrenza dei centocinquanta anni dell’Unità d’Italia consente di riaprire un capitolo della nostra storia quanto mai memorabile e significativo: l’emigrazione. Va subito detto che già il Risorgimento aveva assistito all’emigrazione e all’esilio di molti italiani, per cui si può asserire che il fenomeno nasce prima dell’Unità ed ha riguardato dapprima il Settentrione, con in testa Piemonte, Veneto e Friuli e poi, dopo il 1880, anche il Meridione. E’ certo che l’unificazione dell’Italia non portò alla risoluzione dei problemi economici e sociali della penisola. Gli ultimi anni dell’Ottocento vedevano l’Italia ancora molto povera e velleitaria rispetto alle proprie capacità e risorse. Le due più grandi ondate migratorie si registrarono in modo rilevante tra 1896-1918 e il 1947-1970 ed ebbero proporzioni tali da incidere sulla storia d’Italia e del mondo nonché, secondariamente, sulla storia dell’immagine della nazione italiana e degli italiani nel mondo. Il fenomeno fu talmente vasto da distinguersi ben presto per la sua portata epocale: tutte le regioni d’Italia, naturalmente in misura diversa, ne furono coinvolte. La prima ondata migratoria (1896-1918) si inserisce in un secondo momento della storia dell’Italia unita, ovvero un periodo di accresciuto benessere per l’Italia e per il mondo: forte era all’epoca la richiesta di manodopera degli Stati Uniti e di stati del Sud America (soprattutto Venezuela e Argentina); si trattò dunque in primo luogo di un’emigrazione “agricola”, che andò esaurendosi con l’avvento dell’era fascista. E’ bene notare che anche la seconda ondata migratoria (1947-1970) nacque in un periodo connotato dal boom economico. Chiaramente, le possibilità che gli emigranti italiani videro oltre i confini della propria patria furono ben più floride e allettanti di quelle offerte dal proprio paese. Altre mete furono l’Australia e il Canada, ma vi fu anche un’emigrazione “europea”, verso la metà del Novecento, che ebbe come mete paesi come il Belgio, la Francia, la Svizzera e, infine, la Germania. E’ bene ricordare, tra l’altro, che nel 1955 l’Italia firmò addirittura un patto di emigrazione con la Germania, il cui risultato è chiaro a tutti: un immenso flusso di italiani __ si stimano circa tre milioni di persone __ si recò in Germania alla ricerca di un lavoro, spesso nelle fabbriche e nelle grandi industrie, anch’esse bisognose di manodopera. L’integrazione fu talora dolorosa, talaltra più agevole; è un dato di fatto che al giorno d’oggi si contano milioni di italiani sparsi in questi paesi, dove hanno poi creato una propria famiglia, unitamente a reti di relazioni le quali hanno col tempo portato ad un’integrazione spesso perfetta con la società ospitante. Il flusso migratorio italiano ha subito un’attenuazione allo scattare del terzo millennio, tuttavia è evidente la sua attuale ripresa, che spesso ha come protagonisti professionisti e laureati che non sentendosi apprezzati e valorizzati nel proprio paese, sono spesso costretti


qui è sinonimo di “indotti”, “invogliati”) a prendere la decisione di trasferirsi all’estero. Com’è chiaro, cambiano i soggetti, le motivazioni e le condizioni, poiché naturalmente è più semplice ora spostarsi da un paese all’altro, ma gli italiani devono continuamente fare i conti con le mancanze e le difficoltà derivanti dal vivere nel proprio paese e cercare, con orgoglio, determinazione e spirito di sacrificio, di soddisfare le proprie esigenze altrove. vincenza accardi

STRANI-IERI Matera. Alcune donne si dispongono sul ciglio di un dirupo e urlano forte il nome dei propri uomini, partiti per Torino in cerca di fortuna. Questa è l’immagine iniziale di “Strani-Ieri”. Lo spettacolo racconta, con ironia, la storia dei meridionali che, fra gli anni Cinquanta e Settanta, lasciarono le terre natie per migliorare la propria condizione economica e sociale. L’opera è una produzione Tedacà, in coproduzione con La Tela di Aracne, con il contributo di Regione Piemonte in collaborazione con Fondazione del Teatro Stabile di Torino, Sistema Teatro Torino e Fondazione circuito Teatrale del Piemonte. Tra il 1950 e il 1970, milioni di contadini del Meridione abbandonano le campagne per recarsi nelle grandi città del Cento e Nord Italia. Torino è una delle mete privilegiate di questa ondata. Strani-Ieri narra la storia di questi immigrati (la scelta della partenza, il viaggio sull’ancora esistente treno del sole, l’arrivo, l’ambientazione, il lavoro, la fabbrica, la casa, il primo ritorno nella terra natale, le prospettive per il futuro) sia attraverso la ricostruzione del contesto storico e sociale del periodo, sia riportando le esperienze reali di chi ha vissuto in prima persona questa storia. La drammaturgia dell'opera, difatti, si basa sia su una fase di documentazione sia su un lavoro d'interviste agli immigrati di ieri, con l'obbiettivo di focalizzarsi sulle speranze, i problemi, i sentimenti e i sacrifici che la scelta di migrare ha comportato nelle loro vite. Dice Valentina Veratrini, assistente alla regia: “L’auspicio è che tale rilettura permetta, inoltre, d'interrogarsi sulla situazione contemporanea: forse negli occhi degli immigrati di oggi, che da ogni luogo giungono in Italia, si può ritrovare la medesima volontà di cercare una vita migliore non solo per se stessi ma anche, e soprattutto, per le future generazioni”. La drammaturgia dell’opera è stata il termine di un percorso in cui i migranti meridionali degli anni Cinquanta-Settanta si sono confrontati con la discendente generazione nata e cresciuta a Torino. L’associazione Tedacà ha prima incentivato i ragazzi a intervistare i propri nonni e genitori, poi ha chiesto ad alcuni testimoni di raccontare la propria esperienza in pubblico, attraverso una serie d’incontri chiamati da Sud a Nord: le storie di ieri. Una platea di giovani ha così potuto sentire la diretta testimonianza di chi ha vissuto da protagonista i problemi legati a questo processo storico, come la ricerca del lavoro e della casa, l’ambientazione, la povertà e il pregiudizio, ma anche le motivazioni che li hanno spinti a rimanere, contribuendo allo sviluppo economico della città. Queste esperienze sono diventate il bagaglio di una narrazione della quotidianità che si fonde a un lavoro di descrizione del contesto storico e sociale. Dice Simone Schinocca regista e ideatore dell'opera: “Strani-Ieri” nasce da esperienze diverse ma per alcuni aspetti simili. A noi una fortuna: quella di poterle ancora raccogliere dalla voce delle persone che negli anni Cinquanta-Settanta salirono su quei treni del sole per giungere in questa città. Da qui a una decina di anni, molte di queste storie andranno perdute, così come la possibilità di poter leggere il nostro presente attraverso quelle esperienze. Ma


questo spettacolo non vuole comunque pretendere di rappresentare la realtà contemporanea, bensì si basa sulla sola consapevolezza che i giovani meridionali di quegli anni approdarono in molte città industrializzate per cambiare vita, offrendo un contributo fondamentale al loro sviluppo urbano ed economico”. “Strani-Ieri” utilizza un linguaggio fondato sia sulla parola sia sulla rappresentazione emblematica di macro situazioni. Ogni attore interpreta un personaggio di provenienza diversa (Sicilia, Campania, Veneto, Basilicata, Piemonte), quindi con differente bagaglio linguistico e culturale. I protagonisti vengono poi seguiti, nel loro percorso, da una narrazione che prosegue per quadri argomentativi. Nel momento in cui l’opera analizza il contesto storico e sociale, gli attori diventano popolo, materializzando stati condivisi da tutta la comunità di migranti. La narrazione possiede così un doppio binario che fluisce dal piano individuale al piano sociale e viceversa. Contribuiscono all’atmosfera ironica dello spettacolo le canzoni dei Pappazzum, una fanfara che mescola con disinvoltura musica, danza e numeri comici.

FILIPPINO LIPPI E SANDRO BOTTICELLI NELLA FIRENZE DEL ‘400 Grandissimo allievo di un grande maestro. Sotto i riflettori delle Scuderie del Quirinale occupa finalmente il centro della scena “l’amico di Sandro”, Filippino Lippi. Indiscussa protagonista della mostra curata da Alessandro Cecchi è l’opera di Filippino Lippi (Prato 1457 __ Firenze 1504), figlio di Filippo Lippi (Firenze 1406 __ Spoleto 1469), che ne fu il primissimo maestro, e allievo di Sandro Botticelli (Firenze 1445 __ Firenze 1510). Intento del curatore è, in linea con numerose voci della critica novecentesca, quello di affermare l’importanza di un artista dapprima noto come “l’amico di Sandro”, ma che ben presto seppe conquistarsi indipendenza e riconoscibilità, fino ad essere spesso preferito a Botticelli da illustri committenti. La mostra consta di sei grandi sezioni, composte da numerose opere provenienti da musei e collezioni private di tutto il mondo. Le singole sezioni permettono al visitatore di ripercorrere le principali tappe della carriera di Filippino Lippi: dall’apprendistato paterno alla bottega botticelliana, dai primi lavori autonomi al successo fiorentino, toscano e poi romano. La predominante produzione di Filippino Lippi è inframmezzata dalla presenza di alcune opere del padre Filippo e di Botticelli, tra le quali vale la pena di ricordare almeno l“Adorazione dei Magi”, contenente il noto autoritratto dell’artista. Tuttavia non mancano lavori di autori coevi e di allievi di Filippino Lippi, come Raffaellino Del Garbo (San Lorenzo a Vigliano, Firenze, 1466 __ Firenze 1524). L’allestimento della mostra mira spesso alla comparazione tra le opere, che si gioca sul piano tematico e su quello stilistico. Le tavole sono accompagnate da un cospicuo numero di studi, disegni grazie ai quali è possibile conoscere l’affascinante evoluzione di un’opera, il cui risultato definitivo è spesso il frutto di ripensamenti, ritocchi e stravolgimenti. L’esposizione è inoltre arricchita dalla presenza di preziosi documenti dell’epoca: registrazioni, denunce, inventari. Tra i documenti spiccano alcune lettere, che testimoniano il rapporto con illustri committenti, come Filippo Strozzi il Vecchio e il cardinale Oliviero Carafa. E’ proprio da una lettera scritta da quest’ultimo che si apprende che l’incarico della decorazione della cappella Carafa, presso la Chiesa di Santa Maria sopra Minerva di Roma, fu favorito dalla raccomandazione di Lorenzo il Magnifico. Uno dei più noti e apprezzati capolavori dell’autore, “L’Apparizione della Vergine a San Bernardo” (1486), conservato nella Badia Fiorentina, racconta al visitatore le tangenze e l’inci-


e l’incipiente infrazione degli schemi botticelliani. Le figure allungate all’inverosimile sono ancora un chiaro marchio del maestro, ma s’insedia una nuova inquietudine, tipica della produzione matura, unita ad un personale gusto per il minuzioso dettaglio, per il capriccio, tratto che ha consentito di accostare la sua pittura a quella fiamminga. Come testimonia la presenza di “Due studi per candelabri a grottesca”, Lippi coltivò anche la decorazione “a grottesca”, tipica dell’antichità e tornata in voga nel Quattrocento. E’ possibile riscontrare anche una certa vena misteriosa e fantastica che serpeggia in alcune sue opere esposte. I levigati volti delle madonne, i colori delicati, il recupero di motivi floreali cari al maestro Botticelli non sono le uniche cifre, dunque, di un artista che a ben vedere manifesta una più complessa e vertiginosa concezione dell’arte e della bellezza. vincenza accardi

GEORGIA O’KEEFFE “Non c’è nulla di astratto in questi quadri, sono quello che ho visto, e per me sono molto realistici”. Un viaggio nello sguardo dell’artista americana che ha rivoluzionato il concetto di arte modernista. Ha il sapore di una passeggiata per una New York di inizi ‘900 l’apertura della mostra che celebra una delle artiste più interessanti del secolo scorso. Georgia O’Keeffe (Sun Prairie, 15 novembre 1887 __ Santa Fe, 6 marzo 1986) ha cominciato la sua carriera di artista quasi per caso, grazie all’aiuto dell’amica Anita Pollitzer e del gallerista e fotografo Alfred Stieglitz (1864 __ 1946) che, intuendone il talento, espose i suoi primi lavori a carboncino presso la 291 Gallery sulla Fifth Evenue. Sempre all’influenza di Stieglitz, che diventò marito della O’Keeffe nel 1924, si devono gli autoritratti dell’artista. Si tratta di nudi realizzati intorno al 1917, la stessa artista scriveva all’amico a corredo delle opere: “Oggi volevo dipingere la nudità, ma non saprei dire se sono più nudi questi di un paesaggio al quale sto lavorando”. L’intero allestimento dell’esposizione vuole riproporre il percorso storico -artistico della pittrice attraverso un viaggio tra circa 60 opere realizzate nel corso della lunga vita della O’Keeffe e che riflettono immancabilmente i luoghi in cui ha vissuto. In questa prima sezione dedicata agli anni giovanili spiccano i lavori ispirati ai vasti spazi texani in cui aveva trascorso alcuni anni come insegnante. Tra questi “Evening Star No. VI” del 1917, un acquerello esempio di un nuovo astrattismo, in cui le forme cariche e colorate rimangono sospese sul foglio senza toccarne i bordi. Il percorso ora si insinua tra le pareti di legno della ricostruzione della casa della famiglia Stieglitz a Lake George. Immersa nel verde, con vista sul lago, dava spesso rifugio alla O’Keeffe che vi trascorreva lunghi periodi per dipingere. A questo periodo si deve il pregevole “New York Street With Moon” del 1925 prestato eccezionalmente alla mostra romana dal


Thyssen-Bornemisza di Madrid. Delusa dalle erronee interpretazioni delle sue opere astratte in chiave freudiana, l’artista americana negli anni ’20 sposterà l’oggetto delle sue rappresentazioni su elementi naturali quali calle, petunie e mele di un rosso profondo modificando il punto di vista delle nature morte attraverso un’inquadratura macroscopica. Negli anni ’40, in cerca di nuova ispirazione, comprò una casa a Ghost Ranch, in New Mexico, e vi si trasferì conquistata dal paesaggio esotico delle montagne rosse e gialle del Painted Desert dove la sua creatività troverà nuova linfa. Questi paesaggi brulli e surreali diventarono il fulcro delle creazioni della O’Keffe che rivedeva nelle ossa di animali sbiancate dal deserto la migliore rappresentazione di questo ambiente, come in “Summer Days” del 1936. La mostra si chiude con una ricostruzione dello studio nel deserto della O’Keffe composta da oggetti personali e strumenti di lavoro originali di questa artista caratterizzata da grande forza ed originalità espressiva e che solo grazie alla sua determinazione cominciò a proporre dipinti considerati così audaci e inusuali, specie per una donna. Dopo Roma l’esposizione si trasferirà presso il Kunsthalle der Hypo-Kulturstiftung di Monaco. raffaella mossa

CENTO VOLTE PRIMAVERA. FOTOGRAFIE DI TEL AVIV DAL 1909 AD OGGI Il fascino del bianco e nero e gli accesi colori della modernità. Uno sguardo approfondito su una città in trasformazione che sorprende, incuriosisce e affascina a tal punto da far venire voglia di visitarla al più presto.

Nel cuore di Trastevere è da oggi possibile visitare una ricca mostra fotografica dedicata a Tel Aviv, ideata da Roly Kornblit e curata insieme a Francesca Barbi Marinetti. L’evento nasce dal desiderio di testimoniare la bellezza della città israeliana che proprio due anni fa ha compiuto il suo primo centenario. La mostra si compone di due grandi sezioni: la prima riguarda le prime fasi della città in costruzione, raccontata dagli scatti del russo Avraham Soskin (1881-1963). La seconda sezione ritrae l’odierna Tel Aviv, così come ha scelto di illustrarla Viviana Tagar (1949), romana di nascita, che oggi risiede a Tel Aviv. Con due significative immagini della fondazione della città, “Il sorteggio dei terreni” (1909) e la “Celebrazione per la deposizione della prima pietra della Nuova Società” (1913), si apre la ricca raccolta di scatti fotografici degli albori della città, firmati Avraham Soskin. Gli sguardi fissi all’obiettivo dei fondatori della “collina di primavera” (significato dell’ebraico nome di Tel


Aviv documentano la consapevolezza di un preciso momento storico e la fierezza per quanto stava accadendo. Le prime foto scandiscono i momenti della fondazione della città “nata sulle dune”, come testimonia uno scatto del 1909, che coglie gli operai nell’attività di spianare le dune nella zona di via Allenby. Raccontano di una realtà urbana che sta prendendo vita le fotografie di opere portate ormai a compimento come abitazioni, acquedotti, scuole, l’ufficio postale e la Sinagoga di via Allenby, il cinema e i locali alla moda, che simbolicamente danno l’idea delle priorità di una città moderna. Soggetti come lo spazzino, con lo sguardo fisso e immobile all’obiettivo di Soskin, e attività come la raccolta dei rifiuti, così come una lezione nelle scuole elementari, compongono un ideale quadro della quotidianità di una città il cui cuore inizia a pulsare. Desta l’interesse dei visitatori la foto datata 1924, che documenta la visita di Albert Einstein a Tel Aviv. Impressionante è la vicinanza di quattro fotografie che illustrano la trasformazione dell’aspetto di Boulevard Rothschild: il mare è sempre sullo sfondo, la strada prende forma, gli alberi appena piantati delle prime immagini crescono a vista d’occhio man mano che lo sguardo passa da una fotografia all’altra. La mostra ci porta per mano verso il cuore architettonico della modernità: alcune foto presentano le numerose costruzioni in stile Bauhaus (edificate tra il 1931 e il 1956), preziosi oggetti dell’arredamento urbano grazie alla cui presenza Tel Aviv è stata dichiarata dall’UNESCO patrimonio dell’umanità. Infine, una parte meno cospicua della mostra è affidata al racconto della modernità vista da Viviana Tagar, le cui immagini producono un apparente contrasto __ che in realtà è una fusione armonica con il resto della mostra __ dovuto alla presenza di moderni edifici, di nuovi locali alla moda, di imponenti grattacieli, ma soprattutto per la vivacità dei colori, simboli di un’accattivante e insaziabile modernità. Quando si pensa a questa città si potrebbe parlare di “dinamismo monumentale”, come ha osservato Dino Gasperini, assessore alle politiche culturali del Comune di Roma, alla presenza dell’ambasciatore di Israele in Italia durante l’inaugurazione del 22 novembre. L’assessore ha inoltre dato voce ad un desiderio che senz’altro ha accomunato la folla di visitatori accorsi all’evento: “Viene davvero voglia di andarci!”. vincenza accardi

VIK MUNIZ. MATRICI ITALIANE I grandi maestri della pittura italiana attraverso fotocopiatrici, cisterne, frigoriferi, corde, rotelle, botti di vino... La personale di Vik Muniz nel cuore di Roma. È stata inaugurata il 25 novembre la mostra dedicata all'artista brasiliano più famoso al mondo, allestita presso l'Ambasciata del Brasile a Roma all'interno del Primo Festival di Cultura Brasiliana. La sontuosa Galleria Cortona di Palazzo Pamphilj accoglie sette opere ispirate ad alcuni dei più celebri pittori italiani del Cinquecento e del Seicento. “Matrici italiane” esplora capolavori di Caravaggio, Tiziano, Guido Reni, Michelangelo, Carracci e del Guercino per mezzo di ciò che Muniz definisce “un negativo, qualcosa che non si usa più: ciò che non si vuol vedere”. L'immondizia torna a nuova vita nella prima delle due sezioni della mostra “Pictures of Junk”: Muniz utilizza ogni sorta di oggetto solido per comporre quadri famosissimi con un collage di prodotto in disuso. Cinque stampe digitali che giocano sulla contraddittorietà tra qualcosa di estremamente noto ma anche di fortemente nuovo: questo è ciò che la curatrice della mostra Claudia M. Abreu definisce il “perturbante di Muniz”, ossia l'ambiguità con cui Muniz disorienta lo spettatore. Gli offre una visione bifronte: da lontano la ricostituzione di contorni conosciuti, estesi su dimensioni piuttosto imponenti;avvicinandosi progressivamente si sco-


prono i pezzi del puzzle che affiorano dalla discarica, e acquisiscono dignità pari ad olio su tela. Ma l'incertezza si basa su altri due aspetti: la bidimensionalità dell'opera si increspa con la sua componente tridimensionale man mano che si riconoscono gli oggetti nella loro concretezza. In ultimo, la prospettiva viene confusa in duplice modo: da una parte la grandezza degli oggetti non viene percepita in proporzione perché i lineamenti dei protagonisti dei quadri confondono i parametri reali, e dall'altra è lo stesso Muniz che predispone gli oggetti più grandi in primo piano e via via sempre più piccoli sullo sfondo, dando all'opera una profondità assoluta. Inoltre in sala viene proiettato un video che presenta le fasi di realizzazione delle composizioni da parte dell'artista e dei suoi collaboratori. Ad una sola sostanza materica è affidata la seconda sezione della mostra “Picture of Magazine 2”: “la carta assume una scala quasi scultorea […] mi affascina”. “Bacchino malato” di Caravaggio e “Bottega del macellaio” di Annibale Carracci sono ricreati attraverso un'infinita serie di ritagli: colori, sfumature, ombre, la carta viene sapientemente disposta da Muniz donando una veste totalmente nuova ai dipinti. Come per le altre stampe digitali, anche per queste sussiste l'elemento perturbante: la completezza d'insieme contro il singolo particolare, volutamente mostrato attraverso lo strappo della carta, poiché il mezzo espressivo utilizzato deve essere ostentato e non nascosto, come accade nella quotidianità di tutti i giorni. Nell'epoca del riciclo, “Matrici italiane” spinge anche a riflessioni che vanno oltre l'arte stessa: nell’ “Atlante” del Guercino agli albori dell'umanità il titano sollevò il mondo; nell'opera di Muniz l'uomo del XXI secolo solleva un mondo fatto di rifiuti. sara iacobitti

OUTSIDE Mostra fotografica Francesca Petrella e Teresa Brillante, giovani fotografe emergenti, iniziano il loro viaggio verso mete ignote, con la semplicità di chi per la prima volta si affaccia in un mondo nuovo. La loro prima mostra collettiva: “Outside”, nasce da un progetto di Teresa Brillante, “L’emancipazione”, espressione ironica per denunziare un percorso difficile di integrazione sociale da parte delle persone. Teresa è un’artista, si avvicina alla fotografia grazie alla sua passione per la pittura. Francesca invece si accosta piano, quasi in sordina, alla fotografia, prima come modella e poi come fotografa. Il connubio tra Teresa e Francesca è uno scambio di reciproco aiuto, fatto soprattutto dalla “sofferenza” per la fotografia, che si trasforma ben presto in passione. Quella passione che permetterà ad entrambe di entrare a spiare un mondo lontano dalle apparenze. La mostra è stata allestita presso la libreria “Hamletica” in Maddaloni, un luogo insolito ma


mondo della lettura è colui che per un attimo si allontana da una vita frivola, si addentra in uno spazio senza fine e dove, almeno per una volta, si può essere liberi con se stessi! La scelta del titolo non è casuale, anzi, il termine inglese “outside” identifica il significato e il taglio che Francesca e Teresa vogliono dare alle loro opere. Le due giovani artiste denunciano con la loro macchina fotografica il disagio di oggi, cogliendo, attraverso i “modelli umani” la velocità e la staticità del nostro tempo, la cattiva abitudine di non soffermarsi a guardare le sfumature di ciò che “Outside” in italiano significa : “Al di fuori”. Al di fuori degli schemi convenzionali esiste la realtà di ogni singolo essere umano, in cui si intrecciano imprecisioni, incertezze, paure, coraggio e solitudine. Ma ogni essere umano è distratto dal consumismo, dall’indifferenza verso l’altro, dalla voglia di apparire e non di essere. Lo stile è accademico, ancorato alla precisione e alla ricercatezza della perfezione, che in certi momenti diventa quasi maniacale. Le immagini hanno un duplice significato, entrambe presentano sette scatti, e da una prima analisi di lettura si deducono delle domande: la predilezione del loro stile è dettata dalla volontà o dall’esigenza? In che modo riescono a rompere gli schemi consolidati nel tempo? Ma soprattutto, hanno la forza di uscire da una nicchia fatta di sicurezza per addentrarsi in un mondo ignoto? Per cosa? Per essere controcorrente e per avere un ruolo marginale nel sistema? Domande legittime che l’osservatore attento si pone davanti alle fotografie di Francesca e Teresa. L’altra lettura è: Francesca e Teresa sono due donne spregiudicate che non hanno paura, hanno la consapevolezza di essere se stesse nel bene e nel male, di correre dei rischi, di mettere a nudo la loro visione della vita, consapevole di esserci, e più di ogni altra cosa, sicure di aver dato un contributo in questo mondo. Enigma di capire prima noi stessi, poi addentrarsi nell’immaginario fotografico di Francesca Petrella e Teresa Brillante, solo attraverso la visione diretta delle loro opere si possono trovare delle risposte. La mostra è visibile tutti i giorni presso la libreria “Hamletica”, piazza della Vittoria, 12, Maddaloni (Caserta). Esterina Pacelli


LA REDAZIONE

Michele Luca Nero

(Agnone, 1979), figlio d’arte, inizia a dipingere all’età di sei anni. Una passione ereditata dal padre, Francesco, insieme a quella teatrale acquisita dal nonno, Valentino, poeta e drammaturgo riconosciuto a livello internazionale. In pochi anni ha curato e realizzato numerose mostre, tra cui alcune personali. Un successo di pubblico che lo ha accompagnato anche nelle performance teatrali, non senza un'esperienza come ufficio stampa. Appassionato di cultura e società e dotato di uno spiccato senso critico. Curioso, perfezionista, esteta. Forse a causa della sua innata passione per la musica, per la quale vanta, oltre ad una laurea in etnomusicologia, anche studi musicali di pianoforte. Ha maturato esperienze nell'insegnamento e nella trascrizione apportando un decisivo contributo alla salvaguardia del patrimonio di tradizione orale delle melodie della sua terra di origine. Vivace sperimentatore nel campo della pittura, è alla costante ricerca di sempre nuovi linguaggi espressivi. Sostenitore del collage, cerca da sempre di unire tradizione e modernità, con un ricorrente accenno al mondo del sacro, sua costante ossessione. La formazione teatrale ha influito notevolmente sulla sua concezione del corpo (figura), dello spazio e della materia. Nelle sue opere prevale sempre un carattere deciso, vuoi nel colore che nella definizione del soggetto: eleganza nella postura, espressività nel volto. Ha frequentato un corso di mimo e uno di portamento e passerella. In qualità di illustratore ha pubblicato “Matteo e il viaggio nel meraviglioso mondo dei libri” (2009) e “Gigì le coiffeur et la maison de beauté” (2011) per la Edigiò. E’ direttore responsabile del magazine CU.SP.I.D.E. (cultura, spettacolo, intrattenimento, divagazioni artistiche, etno -gastronomia). Dal 2011 fa parte dello staff redazionale di Artribune.

Sara Iacobitti (Atessa, 1984), terminato il liceo, si trasferisce a Roma per gli studi universitari. Dopo una laurea di primo livello in Letteratura, musica e spettacolo (2008), si specializza prendendo l'indirizzo musicale, (passione che coltiva fin da piccola con lo studio del pianoforte per sette anni) e nel 2011 consegue la laurea a pieni voti in Musicologia e beni musicali. Durante il percorso universitario si confronta con diverse esperienze del settore musicologico. Nel 2009 partecipa alla Giornata di studi organizzata dall'Irtem in collaborazione con L'Università “La Sapienza” intitolata “Futurismo e musica. Una relazione non facile”, tenutasi presso la Biblioteca Casanatense, con l'intervento “I manifesti: forza e contraddizione del futurismo” a firma congiunta con Irene Morelli; lo stesso è stato pubblicato nel 2010, a cura di Antonio Rostagno e Marco Stacca. Tra il 2009 e il 2010 svolge uno stage editoriale presso l'Accademia di Santa Cecilia Fondazione, e collabora alle fasi finali di redazione di alcuni volumi. Per due anni (2008-2010) scrive brevi saggi pubblicati nei programmi di sala del Teatro dell'Opera di Roma in collaborazione con il progetto “Studiare con l'Opera” del Servizio didattica. Attualmente svolge ricerca archivistica per il progetto “Gli spazi teatrali nel Lazio tra XIX e XX secolo”, promosso dall'Irtem in collaborazione con la Soprintendenza Archivistica per il Lazio e sotto il patrocinio Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Collabora con CU.SP.I.D.E. magazine dal 2011.


Maria Merola (Agnone, 1984) è laureata in Storia e Conservazione del Patrimonio Artistico. Ha conseguito un master in Organizzazione e Gestione di Galleria ed Eventi. Attualmente lavora presso l’encoding della Rai ed ha una collaborazione attiva presso un antiquario. Dal 2011 collabora con CU.SP.I.D.E. Magazine.

Vincenza Accardi (Maratea, 1986) è laureata in Filologia Moderna. Le sue ricerche in ambito universitario hanno dapprima riguardato la dialettologia e in un secondo momento la storia della letteratura italiana, con un particolare sguardo sulla trattatistica e la poesia del Cinquecento, che tuttora costituiscono il suo campo di ricerca. Ha svolto uno stage presso la redazione di un istituto storico ed ha collaborato con un'importante biblioteca romana. Collabora con CU.SP.I.D.E. Magazine dal 2011.

Adriana Farina ( Vibo Valentia, 1985) è laureata in Storia e Conservazione del Patrimonio Artistico. Durante il suo percorso di studi ha avuto modo di svolgere un tirocinio presso un istituto storico e di collaborare con il CROMA (Centro di Ateneo per lo studio di Roma) e con la biblioteca dell’università. Attualmente è laureanda in Storia dell’Arte presso l’Università di Roma Tre. Collabora con CU.SP.I.D.E. Magazine dal 2011.


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