“[..] la città è forse il veicolo più efficiente che abbiamo inventato per migliorare la qualità della vita e per aumentare la ricchezza.”
Alejandro Aravena “Mai come in questi ultimi anni, la città europea è diventata un ambiente di soste temporanee e spostamenti. Un grande territorio che migliaia di individui e di famiglie abitano per ore, periodi, fasi cicliche o intermittenti della propria vita, spesso spostando al suo interno l’ubicazione del luogo dell’abitare.“
Stefano Boeri “[..] lo sviluppo di nuove tecnologie rende possibile, per la prima volta, progettare e costruire edifici che possano generare autonomamente energia dalle fonti rinnovabili disponibili localmente, permettendoci di ripensare le future costruzioni come vere e proprie centrali elettriche.”
Jeremy Rifkin
dalla casa all’abitare storie di case e persone al tempo della crisi globale
dalla casa all’abitare
storie di case e persone al tempo della crisi globale
a cura di Marco Guerzoni con contributi di Alejandro Aravena Stefano Boeri Jeremy Rifkin contiene DVD storie di housing sociale, viaggio in Europa
Prima di copertina foto di Tadeuz Jalocha e Cristobal Palma per Elemental Quarta di copertina foto di Alfredo Farina
dalla casa all’abitare
storie di case e persone al tempo della crisi globale
dalla casa all’abitare
storie di case e persone al tempo della crisi globale Volume a cura di Marco Guerzoni Collaborazione redazionale Alessandro Delpiano, Samantha Trombetta Progetto grafico e impaginazione Pablo Comunicazione, Bologna Logo “Urbania” Chialab, Bologna DVD – Storie di housing sociale _ viaggio in Europa Scritto da Marco Santarelli Regia di Marco Santarelli e Gianluca Torelli © Damiani Editore 2009 © Provincia di Bologna 2009 © Gli artisti per le opere © Gli autori per i testi ISBN 978-88-6208-124-5 Damiani Editore Via Zanardi 376 40131 Bologna tel +39 0516350805 fax +39 0516347188 info@damianieditore.it www.damianieditore.it
Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma con qualsiasi mezzo elettronico o meccanico incluse copie fotostatiche, copie su supporti magnetico-ottici, sistemi di archiviazione e di ricerca delle informazioni senza l’autorizzazione scritta dell’editore. L’editore è a disposizione degli aventi diritto con i quali non è stato possibile comunicare, nonché per eventuali involontarie omissioni o inesattezze nelle citazioni delle fonti riprodotte in quest’opera.
Un ringraziamento a Carla Abbattista per la correzione delle bozze di questo volume.
Questo volume raccoglie una parte del lavoro di ricerca, documentazione e riflessione prodotta a Bologna in occasione di Urbania, l’inferno e il paradiso delle città 4° festival internazionale di urbanistica www.urbaniafestival.it Promosso e ideato da Provincia di Bologna In collaborazione con Urban Center Bologna Direzione artistica Abitare (Stefano Boeri, Fabrizio Gallanti, Gianluigi Ricuperati) Organizzazione Provincia di Bologna Assessorato Pianificazione Territoriale e Trasporti Associazione Culturale Toolbox Urban Center Bologna Biblioteca Salaborsa Bologna
questo volume è stato realizzato grazie al sostegno di
Prefazione Avere una casa, un luogo in cui vivere, un recapito a cui essere raggiunti, un confine tra la nostra dimensione pubblica e quella più intima e privata è il primo requisito per poter affermare di avere una identità sociale. Non a caso i “senza casa” sono considerati senza identità, invisibili, e all’estremo opposto “mettere su casa” è sinonimo di farsi una famiglia, diventare adulto, conquistare il proprio posto nella società. Le politiche abitative sono quindi un aspetto chiave dell’azione di governo che – ad ogni livello – istituzioni, forze politiche, organizzazioni sociali, soggetti economici ed imprenditoriali, mettono in campo. Politiche che oggi sono chiamate a fare i conti con una “innovazione” del problema che impone un ripensamento profondo del modo in cui lo abbiamo affrontato fino a ieri, del modo in cui possiamo affrontare i nuovi tratti emergenziali che presenta e – soprattutto – di come immaginiamo dovrà essere affrontato per avere il “respiro lungo” che il futuro richiede. Siamo oggi di fronte a dati strutturali e congiunturali che indicano come l’obiettivo di una casa in proprietà per ciascuno - un tratto fondamentale che ha caratterizzato la storia urbanistica del nostro Paese - mostri più di una crepa. Infatti quella grande maggioranza di persone che oggi possiede una casa se rappresenta un dato di solidità economica e sociale dell’Italia, è - per altro verso – anche il principale elemento di criticità con cui confrontarsi a fronte delle trasformazioni sociali, economiche e culturali che si stanno affermando. Ma anche le politiche edilizie pubbliche riservate a quella minoranza che non poteva accedere alla proprietà edilizia, mostrano tutti i limiti, da quelli di natura economica che rendono impensabile e impossibile un intervento pubblico massiccio e diretto, a quelli di natura sociale e civile che mostrano emergere una “fascia grigia” di cittadini e famiglie che è troppo povera per accedere alla proprietà, ma troppo ricca per aspirare alle cosiddette “case popolari”. Né può essere dimenticato che proprio il modello di una casa in proprietà per tutti ha significato anche un uso eccessivo di territorio, facilitato anche dall’affermarsi di tipologie costruttive poco risparmiose sia in termini di spazio occupato che di energia necessaria al loro funzionamento. È alla luce di queste sintetiche e sommarie considerazioni che abbiamo deciso di dedicare la quarta edizione del Festival di Urbanistica (“Urbania,
l’inferno e il paradico delle città”) proprio ad indagare il “pianeta casa”, mettendo a confronto esperienze europee ed internazionali alla ricerca di nuovi strumenti e nuove soluzioni da applicare anche nel nostro Paese e nel nostro territorio metropolitano prima di tutto. Viviamo in una società che diventa ogni giorno più flessibile, richiedendoci di cambiare lavoro e luogo di residenza, più volte nella vita; che in molti campi e per diversi anni offre – soprattutto ai giovani – condizioni professionali tutt’altro che ricche e stabili; che tende a richiamare cittadini da altri paesi e che a quei paesi vorrebbero tornare e non sono quindi in condizioni di “investire” in modo rilevante; e viviamo in una società che ogni giorno di più deve fare i conti con l’esigenza di iniziare a consumare meno territorio, energia, materie prime ed usare sempre più risorse rinnovabili. In questo nuovo scenario, se non vogliamo essere travolti dai processi di trasformazione ma riuscire a governarli, è necessario immettere sul mercato stock crescenti di case in affitto a prezzi calmierati; garantire che di fronte all’esigenza di spostarsi per seguire il ritmo e le tappe del proprio progetto di vita non scaturisca il panico del “dove andrò a stare”; recuperare e riqualificare aggregati urbani che, ancorché nati con spirito diverso, hanno finito per diventare luoghi privi di personalità e socialità; immettere sul mercato case che consumino meno e contribuiscano alla conversione ecologica del nostro modo di vivere . Per raggiungere una maggiore sostenibilità sociale, economica e ambientale delle nostre città si può e si deve partire proprio dalla casa, elemento fondamentale del suo essere e divenire, e si deve farlo con un rinnovato e potente ruolo del Pubblico, delle Istituzioni, con la ricerca di una condivisione larga delle scelte, con una rinnovata partecipazione che porti ad una nuova concertazione, perché o si trova insieme la
strada vincente per affrontare questa nuova stagione urbanistica, o nessuno potrà ritenersi al riparo dalle conseguenze che l’emergere di nuove tensioni potrà causare. Questo volume raccoglie alcuni dei contributi prodotti durante le giornate del festival e vuole essere uno stimolo per continuare la riflessione che lì abbiamo avviato; un volume che nasce grazie anche al sostegno materiale di Istituzioni pubbliche e Aziende private che continuano a ritenere che sia dallo studio e dal confronto che possano nascere le soluzioni migliori.
Giacomo Venturi Vice Presidente della Provincia di Bologna
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urbania l’inferno e il paradiso delle città
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idee per un mondo più equo e duraturo
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indice
Introduzione
Marco Guerzoni
[1] Abitare oggi
pag 12 pag 22
Coabitare nell’Accampamento urbano
Stefano Boeri
Dalla casa all’abitare
Giovanni Caudo
pag 30
Casa e finanza
Gualtiero Tamburini
pag 36
[2] L’America in crisi
pag 24
pag 42
La casa che svanisce
Rolf Pendall
Stati insolventi d’America
Joseph Grima
pag 50
Vita e morte dei suburbia
Lucia Tozzi
pag 56
[3] Idee per un mondo più equo e duraturo
pag 44
pag 62
Architettura “low cost”: l’esperienza di “Elemental”
Alejandro Aravena
pag 64
Verso la Terza Rivoluzione Industriale
Jeremy Rifkin
pag 76
[4] Storie di housing sociale
pag 86
Storie di housing sociale, viaggio in Europa. Esperienze dell’abitare solidale e sostenibile
Giovanni Franceschelli
La casa solare a Göteborg
Christer Nodrstöm
pag 94
L’Eldonian Village a Liverpool
Jack McBane
pag 102
Biografie
pag 88
pag 112
Introduzione testo e foto di
Marco Guerzoni Tre “e” per la questione abitativa Non è per conseguenza di una potente battaglia sociale che da qualche tempo la questione abitativa è tornata alla ribalta delle cronache. Per molti e differenti motivi, la casa oggi ha smesso di rappresentare un dispositivo di rivendicazione sociale attorno a diritti di cittadinanza universali, come invece è successo per (quasi) tutto il dopoguerra, fino agli anni ottanta del secolo scorso, in molte realtà metropolitane del Paese. Casa e giustizia sociale erano allora il binomio inscindibile di un progetto egualitario, strutturale, tramite il quale le forze politiche costruivano conflitti, capaci spesso di mobilitare masse ingenti di popolazione sospinte da una prospettiva di vita che doveva per forza essere differente dalla miseria quotidiana delle periferie operaie o delle sacche rurali di un Italia che stava rapidamente (ma disordinatamente) riprendendosi dal secondo conflitto mondiale. Dare la casa a chi non l’aveva, costruire spazi domestici più confortevoli; la casa come fattore primario e necessario per una vita dignitosa e liberata dal giogo dello sfruttamento capitalistico. Questi erano gli obiettivi programmatici di una stagione politica che sembra lontanissima dal nostro tempo. Non è dato sapere se l’obiettivo della “casa in proprietà per tutti” abbia rappresentato in quegli anni, più o meno formalmente, un programma politico trasversale, ma nei fatti – a giudicare dai dati statistici – si tratta di un obiettivo raggiunto per oltre il 73%. Tale è infatti la percentuale di abitazioni in proprietà rispetto allo stock complessivo di abitazioni in Italia. Un dato che non trova riscontri simili in altri Paesi avanzati: Francia, Olanda e Danimarca si attestano tra il 50 e il 55% di abitazioni in proprietà, la Germania si ferma poco sopra il 40%, e gli Stati Uniti – patria del concetto stesso di “proprietà privata” – non superano il 65%. Insomma, un buon risultato verrebbe da dire. Se non fosse che oggi torniamo a discutere di politiche per la casa, perché i problemi abitativi in Italia e altrove non sembrano finiti. Anzi, si affacciano questioni per certi versi più complesse, che chiamano a governarle una pluralità di soggetti e attori, anche transnazionali, che mai prima d’ora erano stati chiamati in causa. Mentre l’obiettivo della proprietà abitativa generalizzata mostra tutti i suoi limiti. Una discussione, questa sulla casa, che tuttavia ha nuovi presupposti; intanto perché – come è stato appena detto - essa non scaturisce da un “con-
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introduzione
flitto sociale” chiaramente identificabile. In questo senso è utile annotare come non esista oggi, in Italia, un “problema casa”, ma molti e differenti “problemi abitativi”. E che, di conseguenza, sia più complicato individuare anche le risposte al problema, senza incorrere nelle banalizzazioni che vogliono uniformare in un generico “piano casa” (di cui si dirà più avanti) le multiformi condizioni di domanda e le altrettanto differenti situazioni di offerta che la geografia (sociale e fisica) del nostro Paese impone. Quella odierna è una domanda “silenziosa”, che prende voce indirettamente, che sale alla ribalta con toni duri – spesso disperati - solo in presenza di problemi particolari, relativi a segmenti specifichi della collettività, che da soli rappresentano continuamente una “piccola minoranza” della società: gli indigenti, i pensionati “al minimo”, gli studenti fuori sede, le giovani coppie, i lavoratori in mobilità geografica, i migranti; e ancora tutti coloro che debbono affrontare mutui ipotecari e affitti di mercato in condizioni di crisi congiunturali del lavoro, i cassaintegrati, i precari di tutte le categorie, fino ai lavoratori del “ceto medio impiegatizio”. Ciascuno rappresenta appunto una componente della società con una problema abitativo specifico; ma insieme non sono una unità sociale, non esprimono una domanda unitaria. Non sono – in un certo senso – un soggetto politico. C’è poi una componente di mobilità, di nomadismo, di migrazione strutturale (endogena e straniera) che interessa oggi la nostra società, con intensità e forme inedite nella storia italiana. Una componente che contribuisce a scompaginare le rigidità nella risposta al problema abitativo come l’abbiamo intesa fin qua. Perché a spostarsi, a muoversi e a migrare, sono una pluralità di individui, che hanno origini molto diverse e destinazioni continuamente incerte, volubili, propor-
zionali alla “liquidità” dei paradigmi economici, alle condizioni del lavoro, alla (in)stabilità delle condizioni geopolitiche globali. Popolazioni per le quali “la casa” non rappresenta (solo) un risultato sociale, ma uno strumento (magari temporaneo) per “abitare”. Dove “abitare” significa l’insieme delle condizioni che rendono possibile una vita dignitosa, oltre le mura domestiche: il lavoro, la rete di uno “stato sociale” efficace, la qualità dello spazio pubblico e dell’ambiente di vita. In questo senso va anche detto che per conseguenza di questi movimenti di individui, siamo oggi di fronte – com’è ampiamente noto – ad una rivoluzione epocale, che vede le città del mondo ospitare la maggior parte della popolazione del pianeta; condizione che in futuro è destinata ad intensificarsi. Anche per questo sembra oggi necessario e urgente dedicarsi “all’abitare” negli ambienti urbani, perché è qui che si gioca una delle partite più significative per il futuro del pianeta; è nella città e nel suo governo complessivo che vanno ricercate le risposte alle esigenze abitative. Altro fatto che certamente rende differente questa nuova ribalta della casa rispetto al recente passato è che oggi la rendita ha “rialzato la testa”. La rendita legata al settore immobiliare è tornata prepotentemente a rappresentare un obbiettivo incontrastato di accumulo, mostrando di nuovo gli effetti devastanti che essa produce sulle altre due componenti del reddito: il salario e il profitto. I settori produttivi del mercato – l’impresa e il lavoro – sono schiacciati dalla perversione che questa forma illiberale di reddito produce sul sistema economico: la rendita sottrae ricchezza materiale tanto al lavoro quanto all’impresa capitalistica; annichilisce le prospettive di futuro perché impedisce alla collettività di progredire; contribuisce all’irrazionale consumo di suolo per alimentare una macchina perversa.
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Anche la recente crisi del credito americano è intimamente legata alla vicenda della rendita, nella catena finanziaria-immobiliare. Una vicenda che mostra la drammatica vulnerabilità, anche in presenza di una economia robusta, di quei sistemi che non si (pre) occupano politicamente di governare la rendita. Così, questa prima decade del nuovo secolo racconta di un Paese (il nostro) in preda ad un doloroso paradosso: una produzione edilizia finalizzata alla rendita speculativa, che genera una disponibilità di abitazioni edificio residenziale, Belgrado (Serbia), 2009
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introduzione
notevolmente più ingente rispetto alle famiglie che potenzialmente (ora e in futuro) potrebbero abitarle; famiglie che tuttavia soffrono cronicamente di uno “stress” – per usare un eufemismo - legato all’alto tenore dei prezzi e dei fitti delle abitazioni, generato dal perverso meccanismo della rendita. Un paradosso non nuovo, ma che oggi assume dimensioni e forme eclatanti. Dimensioni che paiono inarrestabili, che parlano (secondo un recente rapporto Istat1 ) di aumenti a due cifre delle superfici urbanizzate di alcune
Regioni, tra il 2001 e oggi; in presenza, nello stesso periodo, di una sostanziale stagnazione demografica. Aumenti per quasi la metà imputabili alle funzioni residenziali, spesso a bassa densità, che trasformano il paesaggio italiano nell’indistinto sprawl metropolitano. Non ultima – in questo panorama di differenze storiche legate alla nuova ribalta del problema abitativo la questione ambientale, la necessità di trovare forme di produzione energetica alternative al petrolio e di trovare soluzioni efficienti per il risparmio di energia, di rifiuti, di emissioni ecc., investe finalmente le città e il settore edilizio. E’ una questione che diventa “sociale”, e non solo etica; che comincia ad investire progressivamente l’intera società, perché il risparmio energetico e la riduzione delle emissioni hanno a che fare con la tutela di un bene comune irriproducibile (l’ambiente, nelle sue differenti declinazioni); ma anche perché la questione ambientale implica oggi un modo più efficiente di affrontare le sfide economiche, locali, quotidiane, ma anche globali. Questo cambiamento di prospettiva investe finalmente la città come organismo unitario, e comincia a produrre idee e soluzioni organiche: la casa può diventare in questo modo anche uno degli strumenti per contribuire al risparmio e alla produzione di energia; una “centrale energetica” come la definisce Jeremy Rifkin. E la città, la vita che in essa si svolge (il lavoro, la produzione ecc.), è un dispositivo che complessivamente, se opportunamente governata, può favorire il risparmio di emissioni e di consumo energetico. Da questi elementi di “novità” con i quali il problema abitativo si presenta oggi, si può rintracciare qualche indicazione operativa. Ecco allora che in una ipotetica agenda per “l’abitare del prossimo futuro” i termini economia, ecologia, equità, potrebbero rappresenta-
re tre principi, tre “e” per la casa, cui ispirare azioni ed interventi: la necessità di governare le diverse forme di rendita, per contenere i costi della filiera di produzione della città e dunque anche della casa, con lo scopo esplicito di interrompere l’attuale fase di espansione urbana; la sfida ecologica in una prospettiva nuova e sistemica, che veda la città come punto di riferimento per l’innovazione e la produzione di risposte alla grave questione ambientale; la necessità di superare le nuove disparità sociali che si sono affacciate, riducendo la forbice della disuguaglianza, mettendo a valore la diversità dei tanti problemi abitativi, coinvolgendo cittadini e comunità nel progetto di futuro. Ma in questa ipotetica agenda non bisogna tuttavia dimenticare che per un certo segmento del problema abitativo, quello emergenziale, lo Stato deve tornare protagonista indiscusso. Bisogna trovare il modo di rileggere criticamente la storia recente per individuare i punti deboli, le crepe che oggi stanno portando al collasso uno dei pilastri del nostro Stato Sociale. Edilizia pubblica, una storia italiana2 Se rileggiamo infatti la storia del dopoguerra italiano, tramite le leggi per il finanziamento dell’edilizia residenziale pubblica e tramite le loro ripercussioni sullo sviluppo delle città italiane e sulla stratificazione sociale delle periferie metropolitane, si ripercorre altalenando tra grandi speranze e gravi omissioni la volontà di una giovane Repubblica di normalizzare situazioni di degrado, di sanare il debito col secondo conflitto mondiale, di trovare un percorso di sviluppo sufficientemente veloce. Questa volontà, manifestata da ingenti operazioni finanziarie e urbanistiche, si è tuttavia scontrata con l’incapacità politica di portare a coerenza, nel lungo periodo, gli obiettivi sociali con l’evoluzione della società e dei cittadini, gli obiettivi
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finanziari con le nuove condizioni del mercato e dello Stato, e infine, ma non ultimo, gli obiettivi urbanistici con le nuove condizioni del territorio e dell’ambiente. Come già accennato, uno degli aspetti che storicamente ha caratterizzato la dinamica del mercato edilizio fa riferimento al così detto “spreco edilizio”3 , una produzione di alloggi più che proporzionale alla crescita della popolazione e dei nuclei famigliari, e indifferente alla dismissione del patrimonio esistente. Negli ultimi cinquant’anni infatti, mentre le famiglie sono aumentate dell’82%, lo stock di abitazioni disponibili per le famiglie è aumentato in maniera molto più ingente, fino al 132%; ma il dato forse ancora più significativo è che in questo frangente di lungo periodo lo stock di abitazioni inutilizzato, sottoutilizzato o non utilizzato come residenza primaria, è aumentato del 700%. Questo spreco non è casuale, ma deriva dal ruolo economico del settore edile e dall’indotto che esso produce, in un economia del “capitalismo incompiuto” come quella italiana, in cui coesistono un mercato (di fatto) oligopolistico, uno Stato debole, e una chiusura quasi protezionistica alla liberalizzazione vera dei diversi settori dell’economia. In questa condizione anomala quindi l’edilizia ha rappresentato, e continua a rappresentare, una risorsa formidabile, poiché richiede consistente manodopera non specializzata (quindi a basso costo di formazione e a basso prezzo) - che significa la potenziale capacità di assorbire la disoccupazione nelle fasi di contrazione dell’economia – e materiali per la produzione e semilavorati reperibili con le risorse locali, a costi bassi e sostanzialmente stabili nel tempo. A ciò si aggiunge, in tempi recenti, a riduzione ulteriore dei costi generalizzati di produzione, anche la standardizzazione tipologica dell’edilizia (con i vantaggi delle catene fordiste). La voce di case popolari, Hrlem - NYC (USA), 2008
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introduzione
costo che rimane esclusa da questo conteggio è il suolo, che continua a risentire delle influenze legate alla rendita, con costanti lievitazioni. Ed è qui che si è inserita l’azione dello Stato a sostegno di questo settore, con le incentivazioni che sinteticamente sono riconducibili alle politiche di agevolazione fiscale e tributaria e di sovvenzionamento per le case popolari, che negli anni del boom economico tra gli anni ’50 e ‘60 sono avvenute con scarsi o nulli vincoli localizzativi – in assenza cioè di legame tra programmazione finanziaria e pianificazione territoriale – e in assenza di indirizzi circa la destinazione sociale delle stesse politiche; fatti che lasciano intravedere una sorta di “privatizzazione dell’intervento statale” in favore della riduzione dei costi di produzione delle imprese. L’impatto del problema abitativo La condizione di grave onerosità della casa per le famiglie, ha generato nel tempo la consapevolezza (o la convinzione) che sia più vantaggioso l’acquisto di un immobile, affidandosi a mutui bancari pluriennali, piuttosto del pagamento di una pigione molto elevata e che nel tempo non produce alcuna capitalizzazione dell’investimento4. Tuttavia se questo comportamento ha rappresentato per le famiglie un (apparente) vantaggio finanziario soggettivo, l’estensione dello status di proprietario immobiliare – come già detto - fino a oltre il 73% delle famiglie italiane, ha comportato nel tempo una serie di impatti configgenti con la modificazione del mercato del lavoro, e per conseguenza, con la mobilità privata indotta dai motivi di lavoro e di vita; impatti di cui oggi si cominciano a misurare le entità, e che fondano le radici nello storico e irrisolto problema del ruolo dell’edilizia nel sistema economico italiano. case popolari, Tirana (Albania), 2009
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In sostanza, mentre le riforme del mercato e dello stato stanno mirando ad una flessibilità del lavoro, richiedendo maggiore capacità per i lavoratori di “muoversi” da un lavoro all’altro, ovvero da un luogo di lavoro all’altro, in funzione delle necessità incrementali e assai volubili dell’odierna struttura imprenditoriale ed economica, il mercato della casa si è strutturato in una dimensione esattamente contraria, cioè verso la “stanzialità” della residenza, agevolando implicitamente la proprietà immobiliare a danno della locazione e a favore “dell’erraticità” della vita quotidiana. A ciò si deve aggiungere il significato “sociale” attribuito alla casa, tramite il ricorso perdurante di politiche di promozione della proprietà privata. Quindi chi ha deciso di lavorare e vivere in un luogo, e lì ha comprato casa, difficilmente accetterà di muoversi da quel luogo quando, per conseguenza di una ristrutturazione aziendale per esempio, si presenterà la necessità di lavorare in un’altra sede dell’azienda o addirittura in un’altra azienda: il comportamento che verosimilmente si svilupperà è riconducibile al pendolarismo (casa – lavoro). Se a ciò aggiungiamo che l’attuale paradigma tecnico-produttivo è orientato alla segmentazione delle strutture, cioè alla dispersione degli apparati della filiera produttiva sul territorio vasto e non più nei poli urbani consolidati (in conseguenza anche di una terziarizzazione spinta, che rende sempre più indifferenziato il territorio extraurbano sotto il profilo dei vantaggi localizzativi), è facile dedurre che questo pendolarismo si verificherà prevalentemente con mezzi privati, con le conseguenze che ciò comporta, sull’inquinamento, l’incidentaltà, il consumo di risorse non rinnovabili, sul consumo di suolo ecc. La ricerca della casa in proprietà è legata poi anche ai sistemi di qualità che un luogo riesce ad offrire, assieme al vantaggio in termini di costo dell’investimento casa privata, Prishtina (Kosovo), 2009
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introduzione
che i diversi territori propongono, e di conseguenza l’orientamento che negli ultimi anni sembra essersi affacciato nelle “regioni mature” è rappresentato dalla dispersione delle famiglie e della crescita edilizia nelle località esterne alle aree urbane, laddove la qualità ambientale (in senso lato) è più confortevole e i prezzi sono mediamente più bassi. La “balcanizzazione” della città Se quelle sommariamente richiamate sono le condizioni, i problemi, le tensioni relative alla questione abitativa, per completare questo riepilogo introduttivo, vale la pena intendere anche quali siano oggi le prospettive, che cosa stia succedendo nelle intenzioni per il futuro, anche a seguito, eventualmente, delle vicende esemplari che stanno interessando altri luoghi. Ma questa prospettiva non è confortante. Mentre infatti negli Stati Uniti – la democrazia dalle quale traiamo ispirazioni continue - si sta consumando la recessione più rilevante dopo quella del 1929, le cui cause – com’è stato detto – vanno ricercate nelle pieghe del sistema finanziario e immobiliare, e mentre l’Istat e altri autorevoli istituti di ricerca5, da diverso tempo, restituiscono immagini di un’ Italia in cui continua prepotentemente la crescita fisica dei tessuti urbanizzati, in cui aumenta la segregazione sociale e la povertà delle famiglie, le politiche per la casa, nel nostro Paese, sembrano guardare altrove. Una direzione questa che trae ispirazione dalla continua delegittimazione dell’attività urbanistica e di governo del territorio, da una disaffezione cronicizzata per le “regole”, nel senso più alto e generale del termine. Atteggiamenti espliciti nelle pratiche, a tutti i livelli, soprattutto quando ricorrono obiettivi di semplificazione, sburocratizzazione, o si dichiarano emergenze e nominano commissari straordinari;
atti che in fondo, spesso, celano il semplice scopo di “ridurre le regole”, non di rafforzarle migliorandole. Assieme a questo atteggiamento culturale, che pervade il Paese, la centralità degli organi elettivi a rappresentanza generale, che costituzionalmente sono chiamati a decidere del futuro di città e territori, a partire dai Consigli Comunali per arrivare al Parlamento, vivono una inedita e pericolosa – per la tenuta della stessa democrazia - fase di depotenziamento e svuotamento. Non stupisce del tutto quindi che l’ultimo provvedimento governativo, molto discusso in questi mesi, relativo alle questioni abitative, il così detto “piano casa”6, nasca con lo scopo dichiarato, scientifico, di alleviare la crisi economica tramite il sostengo al settore edilizio, e non di rispondere ai diversi “problemi abitativi” della popolazione; proponendo invece misure, appunto, volte al sostegno di chi la casa già ce l’ha. Cioè, una manovra che solo nel nome evoca l’abitare, ma che non dà alcuna risposta alle diverse domande abitative, secondo una logica che vorrebbe si privilegiassero le emergenze. Stupisce semmai – ma fino a un certo punto - il fatto che ancora si sostenga il settore dell’edilizia per risolevare l’economia del Paese; proprio quel settore che negli ultimi tre lustri (almeno) è stato protagonista - e ne ha goduto direttamente - delle attività speculative legate alle rendite fondiarie e immobiliari; che ha guidato e alimentato il consumo irrazionale di suolo. In sintesi, siamo di fronte a una documentata crescita accelerata dell’urbanizzazione, ad una spinta – più che sussurrata - alla deregolamentazione nelle attività di governo del territorio; mentre si investono i singoli cittadini di una funzione propria dello Stato – quella di allestire politiche abitative – che chiede loro, sostanzialmente, di “arrangiarsi con la casa”, in cambio di
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aumenti di volumetrie, della possibilità di effettuare superfetazioni, trasformazioni fisiche degli immobili ecc. Cioè, ancora, di crescere fisicamente. A questo punto, vale giusto la pena di rilevare che il risultato possibile di questo processo, se portato alle estreme conseguenze, è quello che si sta realizzando – con le dovute proporzioni e diversità – nel sud-est europeo, nell’area balcanica, a dieci/quindici anni dalla fine dei conflitti. Luoghi vicini, che distano un’ora di volo dal nostro Paese, e dove il termine che bene identifica il processo che lì sta esplodendo è “turbo urbanism”7, a segnalare una velocissima e incontrollata crescita dei tessuti urbanizzati; con effetti sconvolgenti sul paesaggio urbano: disordine, suburbanizzazione selvaggia, eclettismo formale, “brutalismo architettonico”, perdita d’identità della società, distruzione della memoria dei luoghi, aggressione al patrimonio naturale e rurale; in un trionfo inverosimile “dell’arte di arrangiarsi” a casa propria. Le infrastrutture pubbliche, in questa situazione, inseguono la crescita dilagante, senza mai raggiungere un punto di equilibrio: così mancano costantemente marciapiedi, strade, fognature, scuole, trasporto pubcase sparse, Urosevac (Kosovo), 2009
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introduzione
blico. E lo Stato è continuamente assente. Certo, si tratta di un parallelismo forse esagerato con quanto sta accadendo in Italia. Ma il “turbo urbanism” balcanico è un monito efficace, una vetrina degli errori davanti alla quale sembra educativo fermarsi a guardare. Questo libro Le pagine di questo libro raccontano in modo dettagliato e approfondito molti dei temi che sono stati fin qua richiamati. Esse sono la testimonianza di una parte delle riflessioni che sono state prodotte a Bologna in occasione della quarta edizione del “festival di urbanistica” (Urbania, l’inferno e il paradiso delle città). Un’ occasione, quella del festival, che rappresenta la punta di un iceberg; perché, oltre ai 4 giorni di dibattiti, il lungo e “subacqueo” lavoro preparatorio, di indagine, di studio, di ideazione, hanno consentito di produrre conoscenza e consapevolezza, poi divulgazione, tramite il festival e oggi tramite questo volume. Le pagine che seguono cercano quindi di mettere “in valore” questo lavoro. Il primo capitolo è dedicato all’inquadramento dei
tratti principali, dei problemi più rilevanti, legati alla questione abitativa. Il secondo capitolo ci porta direttamente negli Stati Uniti, per capire l’origine di una crisi globale, incentrata sul binomio “casa-finanza”, e che influenza l’Europa e l’Italia. Equità ed ecologia, sono i due termini che rappresentano bene le prospettive per un mondo differente, proposte da Alejandro Aravena e Jeremy Rifkin, nel terzo capitolo, dove la casa viene proposta come uno strumento per raggiungere gli obiettivi di sostenbilità sociale ed ambientale, indipendentemente dal luogo geografico in cui si opera. Il festival, tra le sue varie attività, ha prodotto anche un documentario: “storie di housing sociale, viaggio in Europa”, allegato a questo volume. Dove, in maniera molto efficace, si raccontano alcune esperienze di social housing, che dando risposta al problema abitativo, hanno cercato di coniugare quelle esigenze di sostenibilità (economica e ambientale), di risparmio (di energia, suolo ecc.), di partecipazione, di identità, evocati in tutti gli interventi che questo volume raccoglie. Ed è quello che viene presentato, in sintesi, nel quarto e ultimo capitolo.
NOTE 1 Istat (2009), Rapporto annuale. La situazione del Paese
nel 2008, Roma. La sintesi del rapporto è reperibile al sito http://www.istat.it/dati/catalogo/20090526_00 2 Alcune delle riflessioni di questo paragrafo sono contenute anche in: Guerzoni M., La politica della casa come strumen-
to urbanistico, in “Archivio di Studi Urbani e Regionali” n. 74/2003. 3 Cfr. Indovina F. (a cura di), 1972, Lo spreco edilizio, Marsilio, Venezia. 4 Molte e utili informazioni sono desumibili dal sito web del “Sunia” (www.sunia.it). 5 Si vedano ad esempio i rapporti periodici e le indagini prodotte dagli istituti di ricerca Cresme e Nomisma. 6 Con questo termine si intende una pluralità di provvedimenti, intese e accordi, che hanno origine dall’art.11 del DL 112/2008 “Manovra Finanziaria 2009” e arrivano (al momento) al Decreto Legge “Misure urgenti in materia di urbanistica, edilizia e opere pubbliche”, non ancora giunto alla sua approvazione. 7 Cfr. Vöckler K. (2008), Prishtina is everywhere. Turbo urba-
nism: the aftermath of a crisis, Archis, Amsterdam.
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[1] abitare oggi
Nella prima decade di questo nuovo secolo sono emersi con straordinaria chiarezza i paradossi che stanno alla base della “questione abitativa italiana”. E’ mutato sensibilmente, rispetto al recente passato, il panorama sociale e il “valore d’uso” che, una cittadinanza sempre più fluida e dinamica, attribuisce alla casa. Mentre il Mercato e lo Stato sembrano lontani dal proporre adattamenti rispetto al mutamento in atto: il primo è concentrato nel drenare risorse derivanti dalle rendite; il secondo, soffocato da endemiche inefficienze, è incapace di produrre innovazione e politiche di lungo periodo. Così sono la città stessa e i suoi abitanti a produrre adattamenti: inventando forme di coabitazione, di autocostruzione, di cooperazione ecc. Ma questo non basta. Oggi quindi, in questo panorama, che cosa significa abitare e che cosa rappresenta la casa?
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foto di Alfredo Farina - via Artom, Torino (Italia) 2008
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Coabitare nell’Accampamento urbano Stefano Boeri
Abitare temporaneamente La cronaca locale delle grandi città europee, ogni giorno, ci racconta di anziani che ospitano temporaneamente studenti univesitari in cambio di piccoli lavori domestici; dell’aumento delle auto-dormitorio per i senza-casa; del mercato nero dei posti letto a rotazione per i migranti cinesi o sudamericani; della crescita di bed and breakfast e di agenzie di “affitto veloce” per “creativi”, modelle, manager e consulenti di azienda; delle baracche sorte nei vuoti della città, che vengono distrutte dalle ruspe e che poi risorgono in altri vuoti. Mai come in questi ultimi anni, la città europea è diventata un ambiente di soste temporanee e spostamenti. Un grande territorio che migliaia di individui e di famiglie abitano per ore, periodi, fasi cicliche o intermittenti della propria vita, spesso spostando al suo interno l’ubicazione del luogo dell’abitare. Ma soprattutto la cronaca delle città europee ci parla di una temporaneità che è sempre meno l’esito di una scelta consapevole, ma piuttosto una condizione subita, per l’impossibilità di un investimento duraturo su una residenza stabile. Anche il tradizionale pendolarismo casa-lavoro, che scorre lungo i binari ferroviari o nelle migliaia di autovetture che ogni mattina entrano nelle città europee dagli svincoli delle tangenziali, da qualche anno ha visto aggiungersi anche una nuova forma, più legata a una condizione di instabilità sociale. Quella dell’avvicinamento quotidiano pedonale e con i mezzi pubblici al centro urbano da parte di migliaia di cittadini “senza fissa dimora”. Un esercito di individui isolati che, pur svolgendo in molti casi, una prestazione precaria, hanno un posto letto abusivo negli sterrati, nelle nicchie delle infrastrutture e negli edifici abbandonati che circondano la corona delle tangenziali e delle circonvallazioni esterne. E se non sono certo una novità i grandi flussi di “city users” che nei giorni festivi e in alcune serate riempiono un centro urbano sempre meno residenziale e sempre più palcoscenico intermittente dei rituali del tempo libero, l’accamparsi in città di migliaia di utenti dei suoi grandi servizi, come le migliaia di studenti universitari fuori-sede che alimentano il mercato nero dei posti letto e del subaffitto è diventato uno degli aspetti più caratteristici della città contemporanea europea . Un altro esempio di questo fenomeno di residenzialità temporanea a
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ridosso dei grandi servizi offerti dalla città è quello dei parenti dei pazienti ricoverati nelle strutture sanitarie; spesso impossibilitati a accedere ai costi di alberghi e residence, sono costretti ad accedere al mercato nero dei posti-letto, o a cercare spazio nelle strutture del volontariato di accoglienza, fino a trovare dimora in spazi provvisori e del tutto inadatti (come le automobili parcheggiate nei pressi dell’ospedale). E non basta neppure, a spiegare la nuova potenza dell’Accampamento urbano, la lista dei grandi eventi che richiamano ogni anno ondate di popolazioni specializzate di utenti e consumatori. La vera grande irreversibile spinta all’abitare temporaneo – soprattutto a quello che si sposta entro i confini comunali - arriva dalla combinazione tra la crescente precarietà del lavoro e la fragilizzazione della cornice della famiglia. Non è infatti solo la distanza geografica tra residenza e lavoro, ma piuttosto una sostanziale instabilità sociale e familiare il vero motore di un abitare temporaneo che rende la città oggi un grande accampamento in continua ridefinizione. Nel quale il numero degli individui che si spostano, cercando di adattarsi a nuove condizioni abitative è almeno comparabile con quello degli individui che vi entrano e ne escono a cadenze cicliche. Adattarsi La dimensione temporanea dell’abitare nelle città europee è intrinsecamente legata al difficile rapporto tra il mutare dei bisogni abitativi e la rigidità dell’offerta di abitazioni. Non è un caso che ovunque, in qualsiasi circostanza, la cronaca delle nostre città ci porti a guardare un mondo di azioni, desideri, sforzi volti ad adattare a luoghi di vita e di residenza, spazi nati per tutt’altra funzione.
La città contemporanea è oggi percorsa in tutte le sue parti da un faticoso, ostinato, molecolare sforzo di adattamento dei propri cittadini a delle condizioni di abitabilità sempre più difficili; e soprattutto instabili. L’imbianchino quarantenne costretto ad abitare in un garage dell’hinterland, le famiglie rom che occupano fabbriche dimesse insieme a giovani migranti nordafricani, la coppia di migranti sudamericani che abita uno scantinato di 6 metri quadri nel pieno centro storico; sono alcuni dei protagonisti di una tensione verso l’adattamento a residenza di spazi incongrui che include anche altri comportamenti meno estremi, ma altrettanto faticosi. La trasformazione in residenze dei negozi con vetrina, l’utilizzo dell’ufficio per molti pendolari come “stanza provvisoria”, i posti letto negli scantinati affittati dai pazienti dei ricoverati nelle eccellenze sanitarie milanesi, sono altri indizi di un formidabile processo di adattamento. Si tratta in tutti questi casi di una moltitudine di piccoli interventi edilizi che, seppur molecolari e frammentati costituiscono nel loro insieme delle formidabili ondate di trasformazione della città. La lettura dei fatti di cronaca ci segnala come la moltitudine di microtrasformazioni che modifica le condizioni dell’abitare sia in parte l’esito di dinamiche socioeconomiche strutturali (come la crescente precarietà nel mondo del lavoro, i processi di “fragilizzazione” della famiglia, l’articolazione urbana dei fenomeni di immigrazione) e in parte invece l’effetto del concentrarsi di alcune peculiari condizioni sovra-strutturali. Tra queste, l’assenza di una politica complessiva e lungimirante sulla casa, la scarsità e il degrado dell’offerta di residenza pubblica in affitto, il costo crescente del bene casa, la diversificazione e il potenziamento di attività in grado di attirare per periodi limitati dell’anno utenti e dunque residenti temporanei.
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Le “tattiche” di adattamento che la città europea oggi ospita1, rappresentano una prima efficace classificazione di uno “sforzo sociale diffuso” che non produce grandi trasformazioni edilizie, ma piuttosto una moltitudine di piccoli “sussulti” del corpo urbano; sussulti spesso invisibili e comunque propensi a mimetizzarsi, anche perché quasi sempre ai limiti della legalità. L’ adattamento di spazi incongrui (cantine, negozi, uffici, sottotetti, fabbriche dimesse, automobili) affinché diventino luoghi di residenza nasce da uno “sforzo sociale” del tutto interclassista e affidato prevalentemente all’azione privata di individui che agiscono assecondando dinamiche familiari o lavorative, intese nella loro accezione più ampia. E’un’intera porzione della società urbana europea che, al di fuori da qualsiasi mediazione politica e istituzionale, autorganizzandosi e sviluppando spesso una creatività sorprendente, mossa da disperazione, da preoccupazioni economiche, da necessità di riconfigurare le proprie relazioni di convivenza, sta modificando antiche convenzioni tra gli spazi e i loro originari modi d’uso. Sta trasformando la città in un paesaggio sociale dove l’atto del “risiedere” si rivolge ormai ad uno spettro ampissimo di spazi urbani, ben al di là dei luoghi tradizionali dell’abitare. Coabitare Non c’è vicenda di cronaca sull’abitare che non sia anche un indizio sulle tensioni che plasmano, luogo per luogo, in questa grande città, le relazioni familiari. Del resto, è spesso la famiglia - la sua deformazione, estensione, caricaturizzazione - a dettare il ritmo delle dinamiche abitative. I 6 metri quadri in periferia abitati dai membri di una famiglia di immigrati appena ricongiunta, l’impiegato-modello che dopo il divorzio cade nella sfera delle pratiche dell’abitare erratico, foto di Alfredo Farina - Case delle beghine, Berlino (Germania) 2008
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l’anziana vedova che accudisce i bambini di un intero condominio, la ragazza madre costretta a vivere da squatter, le migliaia di badanti che accompagnano i gesti quotidiani di una crescente popolazione di cittadini anziani e disabili, la nascita di progetti di “cohousing” per giovani coppie interessate a condividere servizi e spazi semi-domestici: i fatti di cronaca della città europea contemporanea ci investono di una moltitudine di scelte e di spostamenti che svelano la grande turbolenza delle relazioni familiari in una città dove all’invecchiamento della popolazione indigena si sovrappone (spesso negli stessi spazi) una quota crescente di giovani, coppie e famiglie di recente immigrazione. Così, le scelte di riduzione o miglior sfruttamento del bene-casa per anziani soli, si sovrappongono alle tecniche di adattamento (e accampamento) che rendono abitabili spazi ridotti per famiglie allargate; alle strategie di “bi-residenzialità” (una casa per la famiglia fuori città e un piccolo “presidio” usato in rotazione dai suoi membri in città) si affiancano le pratiche per valorizzare economicamente – e dunque subaffittare - spazi non più utilizzati della propria casa, oppure la scelta di coabitare tra familiari (oltre il ciclo usuale o addirittura ricomponendo famiglie ormai disperse) per ridurre i costi di stanze e appartamenti. La lettura dei fatti di cronaca rende – in altre parole - sempre più sfumata l’idea di una casa familiare stabile, un luogo fisso in cui risiedere per lunghi periodi della propria vita. Al contrario, la cronaca ci suggerisce l’immagine di una città che sta diventando un laboratorio di sperimentazione di relazioni familiari. Il grande tema dei prossimi anni sembra dunque quello della coabitazione. Il prolungamento dell’età media, l’instabilità dovuta all’incertezza di un posto di lavoro, le difficoltà a reperire abitazioni adatte alle foto di Alfredo Farina - villaggio Barona, Milano (Italia) 2008
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cangianti esigenze di una vita sempre più mobile, spingono infatti oggi milioni di individui e famiglie a coabitare. Si coabita con uno o più “altri” (un parente, un collega, un amico, un socio di lavoro o semplicemente qualcuno che condivide la nostra condizione) per ridurre i costi, aumentare le sinergie e razionalizzare – fosse anche per periodi limitati - il proprio spazio di vita. Ma si torna a coabitare anche tra i membri della stessa famiglia allargata per contenere le spese e fornire assistenza a chi (i genitori anziani soli, i nipoti in età scolare) ne ha bisogno. E si coabita anche per assecondare scelte di vita basate sulla mobilità, e dunque sull’uso temporaneo di spazi domestici dislocati in luoghi distanti (per esigenze di lavoro, di studio, per scelta di vita) dalla casa di famiglia. Nonostante regolamenti edilizi ottusamente rigidi, nonostante un mercato immobiliare che continua ad offrire appartamenti con tagli anacronostici, gli sforzi per adattare nel tempo la propria dimora a secondo delle nuove esigenze di coabitazione, rendono lo spazio domestico oggi un vero e proprio luogo “a geometria variabile”. Facilitato in questo dalle innovazioni tecnologiche nel campo dei dispositivi domestici. Gli elettrodomestici-televisione, il piano-cucina cablato, il letto multifunzionale non sono certo novità, ma da qualche anno grazie alla loro crescente customizzazione (cioè alla loro personalizzazione all’atto dell’acquisto) e alla loro capacità di assorbire prestazioni multiple, stanno ridefinendo la geografia dei punti di incontro e di solitudine nella sfera domestica. Un effetto dell’incontro tra spinte alla coabitazione e innovazioni tecnologiche, è la crescente “monolocalizzazione” dei vani individuali; un fenomeno frequente entro appartamenti condivisi da utenti che scelgono di vivere “insieme, ma in autonomia” e dunque di foto di Alfredo Farina - villaggio Barona, Milano (Italia) 2008
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attrezzare la propria “zona-notte” con una pluralità di prestazioni (in stanza si ricevono amici, si guarda le televisione, si lavora, addirittura si mangia..). Di segno opposto, ma in qualche modo complementare alla monolocalizzazione delle stanze, è la crescente attrazione esercitata dallo spazio-cucina. Un luogo sempre più ricco di prestazioni, l’unico epicentro collettivo per le isole totalizzanti di intimità domestica che ogni singolo coabitante ricava nella sua stanza. Sta insomma nascendo una nuova generazione di stili di vita che, pur differenziati in base alle differenze di reddito, di cultura abitativa, di tradizione familiare, sembrano potentemente investiti dagli effetti contraddittori dei processi di coabitazione. Che da un lato spingono verso l’isolamento e l’individualismo; dall’altro aprono la possibilità di nuove forme di vita comunitaria. Il mercato e le politiche immobiliari sono ancora lontani dal registrare i sommovimenti dovuti ai processi di coabitazione. Ma alcuni centri di ricerca e alcune delle aziende più attente, cominciano ad interrogarsi sugli scenari della vita domestica del futuro prossimo. Anche se è presto per dirlo con certezza, una rivoluzione degli stili di abitare è già in atto; e sta bussando alle nostre porte.
NOTE 1 Si veda: Multipilicity.lab (a cura di), Milano. Cronache
dell’abitare, Bruno Mondadori, Milano, 2007.
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Dalla casa all’abitare Giovanni Caudo
Tra il 1958 e il 1960, in Italia, si accese un dibattito molto interessante, che forse è poco noto, su un tema particolarmente importante: quello della obbligatorietà dei servizi legati alla casa e al quartiere nella costruzione della città. Un dibattito che, avviato dall’Unione Donne Italiane, portò successivamente alla legge che ora conosciamo come “legge sugli standard”. È importante oggi ricordare questo fatto perché evidenzia come già allora si riconosceva il legame profondo esistente tra l’emancipazione della donna con la casa e con il quartiere e la sua dotazione di servizi. Il concetto di “quartiere amico”, introdotto da quel dibattito, allargò, infatti, la casa oltre le sue quattro mura e affermò l’idea di un abitare più ampio non circoscritto alla sola abitazione. Tuttavia la storia ha avuto un decorso un po’ diverso. Ricorre proprio quest’anno il quarantennale del più grande sciopero avvenuto negli anni ’60, precisamente il 19 novembre 1969. Si trattò di uno sciopero unitario sulla casa, intesa come emergenza sociale, indetto a seguito di eventi gravosi che accaddero a Torino nel luglio di quello stesso anno a Largo Traiano, dove l’insieme degli operai legati alla FIAT scesero in piazza proprio per il problema della casa. Nell’aprile dello stesso anno, Gianni Agnelli, presidente della FIAT, intervistato da Eugenio Scalfari, dichiarò che mentre l’azienda, in procinto di assumere 18.000 nuovi operai, era motore di sviluppo economico del Paese, l’Amministrazione Comunale era invece il soggetto che doveva pensare alle case. Vi era perciò una consonanza tra gli interessi dell’imprenditoria italiana e il fabbisogno di case che veniva dichiarato e reclamato dagli operai. Le agitazioni e gli scioperi di questa stagione portarono alla formazione della legge 865/71, vale a dire del più grande piano di case pubbliche che la storia italiana, seppur breve, ricordi. Nel 1978 si definì il piano decennale per la costruzione di case. Una fervida stagione che durò fino agli anni ’90 dopodichè il tema della casa non è più stato nell’agenda politica. Alla massiccia produzione edilizia corrispose un calo di attenzione per i temi dell’abitare. Negli anni ’70, infatti, sia il pubblico che il privato si dedicarono alla costruzione di case. Negli anni ’90, come già anticipato, il tema della casa scompare dall’agenda politica non solo perché viene meno il fondo GESCAL 1, ma anche perché scompare l’idea stessa del ruolo che il soggetto pubblico possa e debba avere nella costruzione degli alloggi. Comincia invece a farsi strada l’idea che spetti al mercato provvedere al bisogno di
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casa. L’idea “rivoluzionaria” di quegli anni è dunque che il mercato poteva produrre anche l’alloggio destinato alle classi sociali più deboli. Dal ’98 in poi il rapporto fra la casa e il mercato cambia completamente rispetto al periodo precedente al 1997. Dal rapporto tra i prezzi ed i canoni immobiliari ed il reddito delle famiglie nasce l’attuale emergenza casa in particolare per chi vive in affitto. Nel 69% dei casi chi vive in affitto ha un contratto con un privato, nel 5% con una società e nel 2% dei casi con un ente previdenziale. Se mettiamo questi tre dati insieme arriviamo al 76% cioè quasi 8 famiglie che vivono in affitto su 10 hanno un contratto di locazione in libero mercato e, quindi, soggetto all’andamento del mercato stesso. Sono queste le famiglie che negli ultimi 12 anni hanno subito lo schiacciamento più forte in termini di aumento dei costi. Sofferenza, difficoltà di pagamento, restrizione della propria capacità di consumo e di spesa. Se confrontiamo questo dato con quello Europeo ci accorgiamo che la quota di affitti in libero mercato e di affitto sociale è molto più variegata. Vi è, infine, accanto al godimento di una casa in proprietà ed in affitto, una fetta di popolazione che abita una casa, ma ad altro titolo, come ad esempio in usufrutto. Si tratta di quella forma di welfare familiare che in Italia negli ultimi anni è cresciuto tantissimo e riguarda circa il 9% delle famiglie. Ogni anno l’Osservatorio sul mercato immobiliare assieme all’agenzia del Ministero degli affari economici elabora i dati relativi al numero di appartamenti venduti ed acquistati nel nostro Paese. Se si confrontano questi dati nell’ambito della serie storica, si può notare che tra il 1985 e il 1996 la media degli alloggi comprati e venduti annualmente è intorno ai 488.000. Dal 1996 in poi c’è una costante crescita: 483.000 nel 1996, 525.000 nel 1997, 578.000 nel 1998 e via dicendo, con incrementi
a due cifre 8,7, 10, 11% di alloggi comprati e venduti in più ogni anno rispetto all’anno precedente fino ad arrivare agli 845.000 alloggi del 2007. La crescita del mercato immobiliare è stata legata alla famosa bolla della new economy del maggio 2000, anche se in Italia, come abbiamo visto, l’incremento costante degli alloggi comprati e venduti si è registrato prima. Altro dato storico da ricordare è indubbiamente il crollo delle torri gemelle nel 2001. A fronte di questi dati dell’Osservatorio, l’attuale emergenza abitativa sembra un paradosso: perché c’è questa emergenza se tanti alloggi sono stati costruiti, comprati e venduti? Il mercato immobiliare evidentemente non segue il fabbisogno delle persone avendo logiche diverse, da sempre speculative. Ma ciò non basta a rispondere all’interrogativo postoci. È successo, invece, qualcosa di nuovo. L’incremento vertiginoso del numero degli alloggi comprati e venduti ogni anno è stato determinato dal fenomeno del trading immobiliare: comprare una casa, tenerla ferma e dopo 6 mesi rivenderla guadagnando un plus valore. Ciò significa che alla base del ciclo immobiliare che si è appena chiuso ci sono delle ragioni che affondano direttamente nel sistema economico e in particolare all’interno di un processo di ristrutturazione, ovvero di ricapitalizzazione del sistema produttivo italiano, cioè delle grandi industrie, delle grandi imprese, dei grandi operatori e del capitalismo più avveduto del nostro sistema economico. Cerchiamo di capire meglio cosa è avvenuto. A partire dal 1997, molto prima della new economy, le industrie italiane che detenevano un patrimonio immobiliare fisso a garanzia per le banche in virtù dei prestiti che le stesse gli riconoscevano, cominciano a ragionare sul fatto che sia più opportuno nonché vantaggioso
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esternalizzare, smobilizzare questo capitale immobiliare. Costituiscono così società immobiliari ad hoc, che si chiamano società veicolo, alle quali conferiscono gli immobili di loro proprietà. Le aziende vendono gli immobili a queste società le quali in cambio riconoscono all’impresa, potremmo dire madre, un equivalente in denaro. A questo punto l’impresa, che ha ricevuto i soldi dalla società veicolo, non ha esposizione debitoria verso le banche ottenendo così una redditività molto più alta rispetto a prima. Le società immobiliari, invece, per pagare all’industria il patrimonio fisso ricevuto si rivolgono alle banche che forniscono loro lo stesso finanziamento precedentemente concesso alle imprese. Le banche continuano così a finanziare le imprese, non più esposte a quel rischio dell’indebitamento al quale ora sono esposte le società immobiliari che devono restituire il finanziamento ricevuto dalla banca maggiorato degli interessi. Ma dove possono attingere capitali per ripagare le banche anche degli interessi maturati? Dagli immobili che gli sono stati conferiti dall’impresa! Infatti, queste società aumentando la redditività degli immobili riescono a restituire alla banca gli interessi ed il capitale; operazione questa che si traduce necessariamente nell’incremento dei canoni e quindi anche dei valori immobiliari. L’impatto sul mercato immobiliare in generale e su quello dell’affitto in particolare è stato significativo. Non essendoci, in più, dal 1998 alcun limite al canone di affitto2, le società immobiliari hanno potuto chiedere la rinegoziazione dei canoni con incrementi notevoli. Ma ciò non basta a spiegare l’accaduto. Contemporaneamente, infatti, si è registrata una crescita della domanda di case necessaria per far aumentare le plusvalenze immobiliari. Una ragione “naturale” di ciò si rintraccia nell’ingresso di nuove famiglie dovuto al baby boom degli anni ‘60. Ma c’è di più. foto di Alfredo Farina - Case Ikea (Svezia) 2008
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Sempre in quegli anni - ‘97 /‘98 - la domanda di acquisto sul mercato è cresciuta anche grazie alla facilità con la quale le banche concedevano i mutui alle famiglie. Questo meccanismo ha di fatto consentito l’incremento dei valori immobiliari di quei plus valori necessari a ripagare le banche degli interessi maturati che hanno gravato sul bilancio delle famiglie. Queste ultime - anche quelle che non avevano la possibilità di accedere ad un mutuo o che non potevano averlo hanno attinto risorse dai propri risparmi per l’acquisto della casa. Dunque indebitandosi. Anche qui vi è un tasso di esposizione al rischio abbastanza alto: nel comune di Genova, ad esempio, ci sono 3.000 famiglie che hanno difficoltà a pagare le rate del mutuo. Il ministro Tremonti, parlando delle famiglie italiane, ha detto che la loro situazione è migliore rispetto ad altri Paesi. Tuttavia anche noi abbiamo finanziato la nostra economia in buona parte drenando risorse dalle famiglie. E’ dunque cambiato il rapporto casa-finanza: le case sono diventate di carta, sono come le azioni. Hanno prodotto una ricchezza della quale tutti abbiamo beneficiato. Ma non illudiamoci che si tratti di un processo indolore. Viviamo in un Paese nel quale le case non valgono più per quello che sono, per dove sono, per come sono fatte, ma valgono perché sono entrate in un meccanismo che ha prodotto valore economico da immettere nel mercato per sostenere il nostro tenore di vita. Ciò ha comportato quell’incremento dei valori immobiliari che è stato pagato dalle famiglie che hanno comprato una casa con un mutuo o che vivono in affitto a prezzi di mercato. Alcuni dati pubblicati dimostrano che nel dicembre ‘97 le banche impiegavano nell’edilizia prestiti che erano circa il 6,5% del totale mentre nel ‘98 le stesse banche investivano nel credito edilizio il 7,6%: in appena un
anno il sistema bancario decise di allocare risorse sul mercato della casa. Lo start up dei valori della crescita immobiliare è avvenuto in buona parte a seguito di questo spostamento perché esisteva una convenienza delle imprese e delle banche a fare sì che le famiglie italiane comprassero casa. Da un’analisi dei dati che la Banca d’Italia ogni anno produce circa le scelte di investimento delle banche, emerge che nel dicembre ‘97 per una banca era più importante prestare soldi ad un’impresa che comprava una ruspa piuttosto che darli ad una famiglia che doveva acquistare una casa; nel marzo del 2000 i termini si sono invertiti. Questo passaggio, questa allocazione diversa delle risorse avviene in pochissimo tempo: fra il dicembre ‘97 e il ‘98. Ciò è proprio della politica economica di un Paese che decide che le risorse da immettere nel sistema economico possono essere prese dal mercato immobiliare e fatte gravare sulle famiglie facendo perno sulla necessità della “casa” che tutti hanno. Nel 1998 l’INA, Istituto Nazionale Assicurazione, costituisce l’Unione Immobiliare e effettua una transazione di 2,6 miliardi di euro; nello stesso anno la FIAT cede a Morgan Stanley 220 milioni di euro di immobili, nel ‘99 si quota in borsa Beni Stabili San Paolo IMI, nello stesso anno si costituisce la Investimenti immobiliari lombardi del gruppo Falk. In pratica nel 2000, molto prima della new economy e delle torri gemelle, le operazioni immobiliari di questa natura in Italia ammontano a 16 miliardi di euro. Chi sono i beneficiari? Leonardo del Vecchio, proprietario di una società che si chiama Beni Stabili, che è una piccola società di lunga tradizione, nel ‘99 aveva un fatturato di 47 milioni di euro, nel 2000 erano 65, nel 2001 sono 382 milioni di euro di fatturato. Le operazioni di finanza immobiliare hanno realizzato plusvalenze immobiliari tali da rendere impossibile la cognizione dell’effettivo
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loro valore. Plusvalore che si è determinato nelle città, soprattutto nelle grandi città italiane, senza che i comuni riuscissero ad intercettarne un euro. Gli urbanisti, in quegli anni, erano impegnati a disquisire della legge sul territorio per catturare quel certo plusvalore dalle aree agricole e non hanno compreso, invece, che il monte delle plusvalenze immobiliari stava crescendo nella città già costruita, nella città che c’era. Oggi le famiglie italiane si sono indebitate per 300 miliardi, dei quali 250 per debiti immobiliari. Le case quindi, sono diventate di carta ma ora occorre chiedersi se casa e finanza sono o devono essere un problema pubblico. Si tratta, in effetti, di riscoprire il ruolo del soggetto pubblico all’interno di questo meccanismo. Ma è proprio questo il problema: l’incapacità del soggetto pubblico di riconoscere le opportunità all’interno di questo meccanismo. In Inghilterra, proprio a seguito delle forti speculazioni sul mercato immobiliare, vi è stata una nuova riarticolazione dello stesso mercato, che si è diviso in tre tronconi. Il primo è quello del mercato pubblico, quello sociale, in pratica dell’edilizia sovvenzionata (del resto, è impossibile credere che ci possa essere un soggetto privato in grado di rispondere a questo segmento di mercato; non c’è paese al mondo in cui questo segmento non sia infatti presidiato da risorse pubbliche). Il secondo è quello del libero mercato, della casa privata, cioè quella fetta di mercato più speculativo. Tra questi due estremi è possibile riempire uno spazio intermedio, quello della “casa collettiva” fatto ad esempio di persone che si mettono insieme e poi costruiscono la casa, fatto di forme di abitare in comune e ancora di case a costo accessibile. Tuttavia questo nuovo ambito richiede il ruolo portante del soggetto pubblico. Purtroppo non abbiamo ancora politiche per presidiare questo mercato e far sì che quel protagonismo diventi
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una risposta pubblica e non l’arte di arrangiarsi. Si tratta di uno spazio importantissimo. Il primo ambito di intervento per il soggetto pubblico resta comunque l’edilizia popolare. Il secondo ambito di intervento è il social housing, quello delle case a costo accessibile. Rendere, in breve, più accessibili le case a quella fascia di reddito che non si può permettere di comprarle e non si può permettere di stare in una casa pubblica perché ha un reddito troppo elevato. In pratica si tratta di un sostegno all’acquisto per chi non può farcela da solo. Ogni anno in Italia ci sono 450.000 nuove famiglie. Non tutte queste possono andare in una casa popolare e non tutte queste hanno bisogno dell’housing sociale, ma forse con un sostegno all’acquisto potrebbero restare sul mercato. Le agevolazioni fiscali dovrebbero essere riconosciute a favore di chi acquista ma anche per coloro che affittano. Non è possibile parlare di piano casa, di questioni abitative se non parliamo dell’insieme di questi elementi. In più, non bisogna dimenticare che non tutti vogliono un’abitazione in proprietà: a Roma, ad esempio, la maggior parte dei city users, cioè coloro che abitano momentaneamente la città, sono stati costretti a comprare casa. In pratica non abbiamo una politica abitativa che ritenga la casa come bene d’uso e non necessariamente come un investimento. Infine il terzo ambito, la casa come patrimonio, quella che tradizionalmente ci caratterizza. Il governo inglese conservatore, non laburista, nel 1996, negli stessi anni in cui in Italia ignoravamo quello che stava succedendo - e ancora oggi fa specie un ministro della repubblica che afferma che l’obiettivo del governo è il 100% di italiani proprietari di casa e non sia contraddetto da nessuno - cambiò il sistema delle politiche abitative aprendo e liberalizzando il mercato intermedio, immettendo soggetti nuovi.
Non si tratta delle solite imprese che costruiscono o di soggetti speculativi, ma soggetti radicati nella realtà locale, nella comunità locale, oppure soggetti che nascono come emanazione del mercato immobiliare. Si tratta di housing associations, storicamente strutture caritatevoli, poi soggetti che invece di svendere il patrimonio lo gestiscono. Diventano protagonisti di questa azione con finanziamenti che in parte provengono dal soggetto pubblico ed in parte dal mercato del capitale. Non si tratta della classica edilizia convenzionata per cui il soggetto pubblico concede un terreno all’impresa che poi vi costruisce le case. L’edilizia convenzionata non ha mai risolto il problema della casa in Italia. Abbiamo bisogno di costruire soggetti nuovi, come i proprietari sociali che esistono in tutta Europa. In Italia c’è bisogno di una legge che crei un registro dei proprietari sociali, che fissi dei requisiti e che concorra ad un mercato di risorse non speculative. In Inghilterra nel 2006 i proprietari sociali registrati erano 1.950, il 67% dei quali gestisce meno di 250 alloggi. Poi c’è anche un 1% che gestisce 17.000 alloggi. Parliamo di case da abitare e non semplicemente di case da costruire. Con questi meccanismi non si dà solo la casa, si fa anche assistenza al lavoro, si gestiscono parchi, scuole e ludoteche. Si crea un rapporto di vicinato diverso: le persone che abitano queste case spesso ne gestiscono anche la manutenzione. In un sobborgo vicino a Londra, non troppo lontano dal centro, c’è un complesso integrato in cui ci sono case da immettere sul mercato, case popolari e case costruite da una housing association destinate a particolari soggetti, lavoratori chiave (infermiere, poliziotti, ecc,). In definitiva, l’esperienza ci dimostra che i soldi non sono realmente un problema, perché i Comuni pur avendo tantissime risorse ed immobili da
mettere in campo necessitano dell’anello mancante che è quello dei proprietari sociali ai quali affidare la gestione di questo segmento del mercato immobiliare, quello della casa a costo accessibile. NOTE 1 Gescal sta per Gestione casa dei lavoratori, com’è noto si tratta di un fondo che era alimentato da una trattenuta sulla busta paga dei lavoratori. 2 La legge sugli affitti, L. 431/1998, ha cancellato ogni limite al canone di affitto, mentre l’introduzione di forme di canone concordato o calmierato si sono rivelate inefficaci.
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Casa e finanza Gualtiero Tamburini
Nel 2000 Jeremy Rifkin scrisse un saggio, “L’età dell’accesso”, dove argomentava come la tendenza immanente delle moderne società, nel lungo periodo, fosse quella di trasformarsi da società basate sulla proprietà dei beni a società basate sull’accesso all’uso dei beni. Questo, per quanto riguarda la casa, significherebbe allora il passaggio dalla proprietà all’affitto, qualcosa quindi di molto diverso da quanto stiamo oggi osservando. Infatti, come è noto, specie nel corso dell’ultimo decennio, contrassegnato dal lungo ciclo di aumento dei prezzi delle case, nella maggior parte dei Paesi tale aumento si è accompagnato a quello della percentuale delle famiglie proprietarie dell’abitazione in cui vive. La proprietà dell’abitazione è stata posta all’esplicita base delle scelte di politica economica, negli USA, dall’Amministrazione Bush, dove è stata teorizzata come l’obiettivo della “ownerschip society”, la società di proprietari, non solo di abitazioni ma soprattutto di abitazioni. Le statistiche peraltro ci dicono che ovunque nella composizione della ricchezza delle famiglie la casa occupa la parte più rilevante. In Italia, peraltro, la percentuale di proprietari è fra le più alte al mondo e nelle diverse indagini condotte per capire le motivazioni che spingono le famiglie verso l’acquisto della casa viene regolarmente messa in luce, come quella preminente, a motivazione della “sicurezza”. La casa in proprietà risponde quindi al bisogno di sicurezza delle famiglie: sicurezza, soprattutto, di non dover essere costretti a lasciare la casa dove si abita senza la sicurezza di poterne trovare una equivalente a cui “accedere” e a un costo abbordabile. Oggi la distribuzione fra proprietari e inquilini è grosso modo rappresentata da un rapporto di quattro a uno; ogni quattro famiglie proprietarie della abitazione principale ne abbiamo una in affitto. Nella maggior parte dei casi, poi, le abitazioni in affitto, salvo le circa 800 mila di proprietà pubblica, sono a loro volta di proprietà famigliare, mentre la componente di proprietà di investitori istituzionali si è andata via via assottigliando. D’altro canto la lunga fase di crescita delle famiglie proprietarie è stata possibile, sia grazie all’aumento della offerta di nuove abitazioni, sia grazie alla vendita, prevalentemente rivolta agli inquilini delle abitazioni di proprietà di soggetti come enti previdenziali, casse di previdenza, fondi pensione, assicurazioni, banche, ecc.
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abitare oggi
Questi soggetti che, come investitori istituzionali, per molti anni avevano investito parte considerevole delle loro risorse in edifici residenziali per la locazione, a partire dagli anni ’90 avviano politiche di dismissioni, anche attraverso tecniche di cartolarizzazione, come nel caso degli enti previdenziali pubblici, in quanto la redditività dell’investimento di tipo residenziale era andata progressivamente riducendosi e per contro si stavano creando le condizioni favorevoli all’acquisto da parte degli inquilini. Per il proprietario istituzionale la casa locata ad equo canone produceva un reddito modesto e scorrelato dall’andamento del costo della vita, mentre i costi di gestione lievitavano in modo più che correlato all’inflazione, inoltre il valore di una abitazione locata era anche penalizzato dal vincolo costituito dalla presenza dell’inquilino stesso, tant’è che sul mercato il prezzo di una abitazione “occupata” era normalmente ridotto, rispetto a quello di una abitazione “libera”di circa il 30%. Tali condizioni divengono diffuse a partire dalla seconda metà degli anni ’80, quando la discesa dei tassi di interesse rende conveniente la trasformazione del canone di locazione in una rata di mutuo. In tal modo, pagando anziché l’affitto il mutuo, l’inquilino tipo accede alla proprietà e la sua scelta viene peraltro premiata dato che la pressione della domanda, che così si viene ad attivare, è a sua volta causa dell’aumento dei valori delle case. I grandi proprietari escono allora dal mercato della casa in locazione e preferiscono concentrarsi sull’investimento immobiliare in uffici, centri commerciali, hotel, logistica, ecc., insomma nei settori degli immobili destinati alle attività economiche dove i rendimenti lordi sono più elevati e le spese di gestione più contenute.
La diffusione della casa in proprietà diretta delle famiglie residenti se da un lato costituisce un importante modo di accrescimento della ricchezza familiare e di stimolo al risparmio, da accumulare per effettuare l’acquisto stesso, dall’altro può comportare qualche problema. Non solo perché, come abbiamo sperimentato dopo la così detta crisi dei “sub prime”, la componente dei consumi sostenuta dall’effetto ricchezza, ovvero dall’aumento dei prezzi delle case che permette, attraverso l’indebitamento garantito dal maggior valore immobiliare, di finanziare i consumi correnti è un meccanismo pericoloso dato che, al contrario, quando i valori degli immobili scendono, si viene a determinare (è quanto è successo soprattutto negli USA dove tale meccanismo è stato più spinto) una contraria contrazione della capacità di spesa, ma anche perché la proprietà della casa costituisce un forte freno alla mobilità delle famiglie e quindi alla flessibilità delle imprese e dell’intero sistema economico. Inoltre la proprietà individuale della casa, specie nelle città dove l’abitazione è solitamente inserita in un edificio condominiale, non favorisce la gestione edilizia professionale e neppure la possibilità di effettuare interventi di riqualificazione urbanistica. La gestione edilizia professionale può essere realizzata solo da imprese specializzate che, in quanto tali, possono godere delle economie di scala associate alla numerosità delle unità immobiliari gestite. Solo con una proprietà unitaria dell’intero edificio o di più edifici è possibile effettuare la manutenzione programmata o la manutenzione preventiva, raggiungendo livelli di efficienza altrimenti impensabili, senza considerare l’impossibilità vera a propria di effettuare interventi di manutenzione straordinaria efficienti in contesti condominiali dove magari le singole unità immobiliari sono state oggetto, in modo differenziato, di inter-
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venti di riqualificazione e ristrutturazione che, peraltro, possono comportare anche evidenti problemi di sicurezza oltre che di efficienza per l’intero edificio. E’ poi evidente che anche sulla scala urbanistica, ovvero nel caso si volesse intervenire per riqualificare un’ area vasta, un porzione di città, la diffusione della proprietà individuale costituisce un ostacolo pressoché insormontabile alla realizzazione di qualsivoglia progetto. In pratica, peraltro, sovente, anche la proprietà unitaria non assicura di per sé elevati livelli di efficienza. Basti guardare alle proprietà pubbliche dove, ad esempio, nel caso degli enti previdenziali pubblici, per la quasi maggior parte dei casi, gli acquisti di edifici residenziali sono stati fatti a prezzi alti, le vendite a prezzi bassi, le manutenzioni a costi esorbitanti, le locazioni a canoni irrisori. A fronte di tali situazioni fallimentari è chiaro che la scelta non poteva che essere quella di dismettere le proprietà. Vicende non dissimili hanno costituito la regola, con poche eccezioni, delle gestioni delle abitazioni dell’ edilizia economica e popolare dove, come ogni anno avvertono le Relazioni della Corte dei Conti, i risultati delle gestioni sono tutt’altro che lusinghieri sotto vari profili che attengono nell’insieme le problematicità del perseguimento della loro missione. Naturalmente le cause di tutto ciò sono complesse e certamente non solo riconducibili a responsabilità gestionali ma, soprattutto, a responsabilità regolamentari e normative che di fatto inibiscono l’attuazione di efficaci politiche gestionali dell’edilizia residenziale sociale e non. La casa, peraltro, come ha espressivamente osservato un economista come John Kenneth Galbraith, è forse il più eclatante caso di fallimento del mercato capitalistico; un mercato che è riuscito nell’intento di foto di Alfredo Farina - Case Cooperativa Dozza, Bologna (Italia) 2008
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produrre, a costi decrescenti, cibo e beni di consumo in abbondanza, ma che, nel caso delle abitazioni, non è stato in grado, in nessun paese del mondo, di realizzare case in abbondanza e a basso prezzo. Perché i prezzi e i canoni di locazione possano ridursi è necessario intervenire su tutte le componenti del valore che per gli immobili sono ascrivibili, in termini generali, a tre principali categorie la cui incidenza è pressoché simile: il prezzo del terreno, il costo di costruzione e le imposte. Per il prezzo del terreno, al netto delle politiche urbanistiche ed edilizie, una drastica riduzione di costo può essere ottenuta solo con la sua messa a disposizione da parte pubblica. I terreni demaniali, presenti sovente in modo consistente nelle grandi città dove i fabbisogni sono più forti, potrebbero essere una significativa risposta a cui si potrebbe aggiungere quella costituita dai terreni a standard che, secondo recenti ricerche, ed in virtù delle disposizioni legislative che ne consentono l’utilizzo per l’edilizia sociale (considerata essa stessa standard urbanistico) sono, specie nelle grandi città, numerose ed inutilizzate. Quanto al costo di costruzione esso può essere contenuto là dove il processo produttivo possa industrializzarsi grazie alle economie di scala e quindi favorendone la concentrazione in interventi di ampia dimensione unitaria; infine per le imposte è evidente che questo rientra nella discrezionalità e nella possibilità del pubblico, centrale e locale. L’elevato costo degli alloggi è il maggior ostacolo alla copertura sociale della domanda di abitazioni che costituisce ovunque, pertanto, un problema di difficile soluzione e per il quale – lo mostrano le diverse esperienze internazionali – non è il caso di affidarsi ad una sola ricetta, bensì a un mix di modalità di intervento da modulare opportunamente.
Posto che la casa in proprietà può essere una comprensibile aspirazione della maggior parte della popolazione è evidente che almeno per una fascia sociale essa non è perseguibile. Peraltro, una ampia offerta di abitazioni in locazione è il requisito indispensabile per poter contare su un certo grado di mobilità delle famiglie. L’area della proprietà può essere ulteriormente estesa con l’offerta, a condizioni particolarmente favorevoli, con i meccanismi dell’edilizia convenzionata, soprattutto da parte di cooperative di inquilini – e su questo numerosi sono attualmente gli esempi – oppure, come testimoniano sporadici casi nel nostro paese, attraverso l’autocostruzione, una modalità questa particolarmente diffusa nel Nord Europa. Anche l’ingegneria finanziaria può porsi al servizio della diffusine della proprietà, come ha peraltro fatto in questi anni con una varietà di formule di finanziamento, incluse quelle costituite dal così detto acquisto “a riscatto”, adatte a soddisfare le più diverse esigenze della domanda. Dove però occorre particolarmente innovare è nella ricerca di strumenti che consentano di ampliare il mercato della locazione al fine di soddisfare le molteplici esigenze anche di questo tipo di domanda, una domanda non solo sociale. Per quella sociale, che a volte non è in grado di esprimere alcuna capacità reddituale rispetto al canone di locazione, non si sfugge alla necessità dell’intervento pubblico nel sostenimento delle spese di alloggio. Come mostrano i dati dell’edilizia residenziale pubblica, per certe fasce di inquilinato, infatti, il canone di locazione è prossimo allo zero e, addirittura, il rendimento della gestione è negativo, dato che l’inquilino non è neppure in grado di pagare le spese di manutenzione.
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Ma, una volta attivati i non banali meccanismi capaci di individuare le famiglie bisognose d’aiuto e di modulare gli interventi in rapporto alle reali esigenze, si tratterà “semplicemente” di stabilire l’ampiezza della copertura sociale e di applicarla nei casi concreti affidando al mercato il compito di provvedere alle sue condizioni, integrate per quanto manca dal pubblico, ai bisogni. Occorre, in altri termini, creare le condizioni perché i vecchi e i nuovi investitori istituzionali investano in abitazioni per la locazione. Oggi, anche in Italia, disponiamo di strumenti di gestione e attrazione del risparmio analoghi a quelli presenti in altri Paesi sviluppati, come i Fondi Immobiliari o le Società di Investimento Immobiliare Quotate (SIIQ) e a tali strumenti, concepiti propriamente per gestire patrimoni immobiliari per la locazione di lungo periodo, occorrerà fare riferimento in materia. Aspetti come la regolamentazione dei contratti di locazione o la fiscalità sono certamente decisivi e imprescindibili, ma questi vanno calati in un insieme più vasto di iniziative che rimettano la locazione al centro delle politiche per la casa non lasciando affidato il tema dell’accesso al soddisfacimento dei bisogni abitativi alla sola casa in proprietà.
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foto di Alfredo Farina - Case Cooperativa Dozza, Bologna (Italia) 2008
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L’America in crisi
La questione abitativa ha assunto oggi una dimensione planetaria. L’icona più rappresentativa del crollo dei mercati e del tramonto del modello americano è forse il cartello traballante che recita “for sale”, davanti alla villetta unifamiliare con giardino, che per tutto il ‘900 aveva rappresentato il sogno della classe media statunitense. Un’immagine circolata su ogni giornale e tv del pianeta, divenuta famigliare; un’immagine che ha contribuito a far condividere i drammi, vicini e lontani. La crisi americana, che ha investito in modi e tempi differenti tutto l’occidente, è intimamente legata alla finanza immobiliare e sembra talmente potente da mettere radicalmente in discussione, nel bene e nel male, un modello - non solo economico, ma “di vita” - che fino a ieri sembrava inossidabile, che trovava il suo epicentro proprio nel mito della villetta e del sobborgo. Così l’America, come spesso accade, rappresenta anche in questo caso un punto di riferimento cui guardare, per intuire come sarà il prossimo futuro.
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l’America in crisi
foto di Corinne Vermeulen-Smith, Warren, Michigan (USA) 2009
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La casa che svanisce Rolf Pendall
L’odierna crisi finanziaria degli Stati Uniti, che è diventata una crisi globale, è stata ben documentata dai media internazionali, perciò oggi abbiamo una buona consapevolezza del boom edilizio americano e del suo collasso. Ci sono, a questo proposito, tre questioni utili per comprendere meglio la situazione americana, e per intendere i legami tra crisi finanziaria legata a casa e urbanistica: l’ideologia della casa in proprietà; la geografia nazionale e la crisi edilizia; la segregazione razziale. Gli Stati Uniti, come l’Italia del resto, sono una nazione con un orientamento ideologico molto forte verso l’assetto proprietario della casa. Il famoso “Sogno Americano” è – di fatto - un preciso “pacchetto” che contiene: due macchine, una villetta indipendente con giardino, un lavoro e la libertà di apprezzare tutte queste cose. Così, più dell’80% degli americani credono che possedere sia meglio che affittare, e perciò, ad un certo punto della loro vita, vogliono comprare una casa. La politica del Governo – d’altra parte - ha sempre sostenuto l’ideologia relativa al valore della proprietà privata. Testimonianza di questo atteggiamento è una (tipica) affermazione dell’ex-Presidente Bush (del 15 ottobre 2002): ”possiamo portare luce dove c’è l’oscurità, e speranza dove c’è avvilimento in questo Paese. Per fare questo, dobbiamo lavorare insieme come Nazione, per incoraggiare la gente ad acquistare la propria casa”. Molte persone negli Stati Uniti credono che senza la proprietà della casa non si possano ottenere garanzie, costruire benessere, o rivendicare l’appartenenza alla classe media. Nella misura in cui questo è vero - fino a quando si considererà il possesso delle abitazioni, non utile ma essenziale – si continuerà ad essere esposti a episodi di speculazione, a rischi di vulnerabilità e al collasso del mercato immobiliare. Tuttavia non tutte le regioni degli Stati Uniti soffrono la crisi alla stessa maniera. Ci sono infatti due diverse crisi che si stanno sviluppando allo stesso tempo, ma che hanno differenti manifestazioni geografiche. La prima - concentrata in California e in Florida - è la così detta crisi speculativa. Dopo lo scoppio della bolla legata al mercato della “new economy”, gli investitori hanno cercato altre possibilità di guadagno. E le hanno trovate nell’edilizia. Le multinazionali finanziarie hanno deciso di acquistare “pacchetti ipotecari”, e fondi d’investimento legati all’edilizia, poiché i rendimenti sembravano enormi e l’investimento apparentemente sicuro. Questo fenomeno è stato chiamato “the giant pool of money”, la gigantesca pozza di capitale.
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Allo stesso tempo, aumentavano i prezzi degli edifici, specialmente in California e Florida, mentre i tassi d’interesse dei mutui rimanevano bassi. Una condizione questa che ha indotto i cittadini a ritenere necessario e vantaggioso – in quel momento particolare – comprare casa, perchÊ i prezzi stavano aumentando velocemente, mentre i tassi dei mutui rimanevano bassi. Per incoraggiare un numero crescente di persone a
prendere denaro in prestito, molte banche e compagnie finanziarie hanno adottato comportamenti molto rischiosi: hanno eliminato molti dei requisiti prima richiesti ai clienti per l’accesso al mutuo; hanno rivisto i metodi per stimare i valori reali delle case in vendita; hanno permesso ai debitori di sottoscrivere prestiti che avrebbero eroso la maggior parte delle loro entrate; in alcuni casi hanno addirittura smesso di controllare le entrate del cliente, o la sua storia lavorativa. un particolare dello skyline di Miami, Folorida (USA), 2007
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In questo modo, centinaia di migliaia di dollari in prestiti per l’acquisto di case sono stati autorizzati a lavoratori precari, ai ragazzi che consegnano la pizza, a musicisti part-time ecc. Le compagnie finanziarie hanno poi rivenduto questi mutui ad altri investitori, allontanandosi rapidamente dai rischi, ma traendo profitto dai rendimenti ricevuti ad ogni tappa del processo di scambio. Così grazie alla “giant pool of money”, un numero record di persone hanno comprato casa in questi ultimi anni, nel modo appena descritto. Tra il 1990 e il 2002, la percentuale di proprietari di case è aumentata dal 64% al 69%, ovvero l’aumento più rapido degli ultimi cinquant’anni. La più intensa speculazione edilizia si è concentrata in California, che da tempo vanta i più alti costi degli immobili della Nazione. In California i valori immobiliari sono aumentati di oltre il 90% tra l’inizio del 2002 e il 2007. Ma la geografia delle speculazioni edilizie si è estesa anche molto oltre la California, fin dentro Las Vegas e Phoenix. Anche la Florida ha avuto un grosso incremento di speculazione immobiliare, legata sia alle transazioni che alle costruzioni. Tra i 2002 e il 2006 infatti, sono stati rilasciati molti permessi di costruire nella zona metropolitana di Miami, tanto da produrre più di 70.000 nuovi appartamenti; una quantità di nuove costruzioni che ha modificato lo skyline di Miami, con edifici che però oggi – a seguito di questa crisi - sono spesso sottoposti a pignoramento. La seconda crisi geografica - centrata in Michigan ma con riflessi anche su tutto il Midwest industriale - è una crisi economica che rappresenta solo l’ultimo capitolo della transizione dell’economia americana dalla manifattura ai servizi.
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La crisi economia del Michigan è una delle principali cause che ha condotto gli Stati Uniti alla recessione iniziata tra 2004 e il 2005. Questa drammatica condizione si manifesta oggi con una straordinaria disoccupazione: nel gennaio del 2009, il tasso di disoccupazione del Michigan è del 10,6%, mentre il tasso nazionale è del 7,2%. Detroit è oggi - e lo sarà probabilmente per almeno altri 10 anni- l’epicentro del declino dei valori immobiliari della Nazione. Così qui - come nelle altre aree metropolitane del Michigan – chi ha contratto mutui avendo entrate modeste, è anche maggiormente esposto al rischio di perdere il lavoro, rispetto ad altri luoghi del Paese. Il ruolo della segregazione razziale La storia americana relativa alla discriminazione razziale è utile a chiarire ulteriormente i meccanismi e gli effetti della crisi immobiliare. Gli afroamericani, negli Stati Uniti, vivono generalmente in quartieri molto segregati, per un retaggio di discriminazione legata alla concessione di mutui e di finanziamenti da parte delle banche, all’affitto delle case, e in generale agli interventi del Governo. In alcune aree metropolitane poi, la stessa condizione vale anche per i “latinos”. Così i quartieri che i potenziali acquirenti di prima casa, neri e latini, prendono in considerazione per primi sono spesso quelli che i bianchi (non ispanici) non hanno mai abitato o dai quali se ne stanno andando. Questi quartieri hanno case popolari, più vecchie e scadenti, e i servizi pubblici presenti - soprattutto le scuole - sono peggiori di quelli dei quartieri prevalentemente abitati da bianchi. In questi quartieri poi il tasso di disoccupazione è più alto che altrove e la
percentuale di proprietari di casa è inferiore. Successivamente a questa fase di segregazione spaziale, i proprietari di case con un basso reddito, in questi quartieri poveri, improvvisamente ebbero la possibilità di accedere a finanziamenti, grazie proprio alla loro condizione di proprietari immobiliari, per fronteggiare altre spese (educazione, salute ecc.). Sfortunatamente però, molte delle società che offrivano prestiti in questi quartieri hanno assunto
un comportamento da veri strozzini, nascondendo deliberatamente importanti informazioni riguardo ai costi reali delle operazioni finanziarie; omettendo informazioni circa la rapida crescita dei tassi di interesse; tacendo le alte sanzioni previste per la riscossione anticipata delle ipoteche. Molti dei debitori, peraltro, avevano un basso livello di scolarizzazione, condizione che permetteva alle società finanziarie di compiere indisturbate il loro lavoro. un particolare dello skyline, di San Diego, California (USA), 2008
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Così oggi, in ogni area metropolitana americana, il pignoramento delle abitazioni avviene in modo più incisivo nei quartieri con un’alta concentrazione di afroamericani e latini, a causa appunto di questa complessa e storica serie di fattori interconnessi. La segregazione residenziale legata alla “razza”, crea quindi un ambiente nel quale si manifestano in modo più virulento i peggiori effetti della crisi immobiliare. Se in questi quartieri infatti si concentra il numero maggiore di case sottoposte a provvedimenti di pignoramento, allora significa anche che qui si accelera “il contagio” che riduce il valore immobiliare delle abitazioni vicine a quelle pignorate, in un continuo ciclo negativo e indeterminato. In questi quartieri, in cui già l’essere proprietario dell’abitazione non ha mai garantito benessere, sicurezza e appartenenza alla classe media (quindi un pieno raggiungimento del “Sogno Americano”), oggi l’effetto della crisi ha trasformato questi cittadini con reddito basso, in bersagli per i criminali delle società finanziarie, che li hanno spogliati delle stesse case – unica garanzia per la sopravvivenza - esponendoli quasi totalmente ad una condizione di piena vulnerabilità abitativa. Poiché, come abbiamo visto, la crisi immobiliare ha diverse radici – riferibili specialmente a speculazione e depressione economica – e ha diversi effetti differenziati nella geografia nazionale, è stato molto difficile - tecnicamente e politicamente - costruire un risposta ragionevole a questa crisi. Come può infatti una risposta univoca alleviare la sofferenza di famiglie che sono state colpite dall’ulteriore colpo della deindustrializzazione, senza rischiare di premiare gli speculatori immobiliari senza scrupoli? Politicamente, come può la legislazione nazionale
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americana - prodotta da un Parlamento i cui membri rappresentano Stati e circoscrizioni locali - dare risposte efficaci e capaci di portare a sintesi le differenti istanze geografiche? Fino ad ora, le risposte a queste domande non sono state incoraggianti, anche perché si sono focalizzate sul recupero generale dell’economia e non su un approccio “geografico” e “sistematico” capace di agire sulla crisi dei mutui. Gli aspetti legati alla diversità della società e della geografia urbana degli Stati Uniti rappresentano quindi la direzione nelle quale investire se si vuole dare velocemente una risposta alla grave crisi americana. La nuova amministrazione di Barak Obama non rinuncerà al “Sogno Americano” e nemmeno quindi all’ideologia della proprietà privata. Dovrà comunque cercare una regolazione più forte dei mercati finanziari e nuovi sistemi di garanzia per chi compra o vende una casa. Il nuovo Ministero della casa e dello sviluppo urbano deve poi urgentemente dar vita ad una politica migliore per soddisfare la probabile domanda crescente di case in affitto. Tanto il Ministro Shaun Donovan quanto il Presidente Barak Obama, hanno lavorato nelle città più grandi degli Stati Uniti - New York e Chicago - e questo lascia intendere una certa affezione di questa amministrazione per le politiche abitative. Il Ministro della casa è infatti di New York City, così come lo è il principale consulente della Casa Bianca in materia di problemi urbani. I “New Yorkers” tuttavia dimenticano che le altre parti della Nazione sono molto diverse da “The City” - come chiamano New York - o che il Michigan è molto diverso dalla Pennsylvania. Forse hanno le risposte per i fallimenti della politica urbana delle grandi città, ma non si è ancora
capito quanto siano esperti della complessità dei sistemi metropolitani americani, e dunque quanto siano in grado di lavorare a politiche differenziate per i differenti sistemi geografici . Bisogna invece essere maggiormente ottimisti circa la capacità dell’attuale amministrazione di affrontare la questione della segregazione razziale, perché la storia personale del Presidente Obama testimonia chiaramente la volontà di vincere le differenze etniche. Se
l’Amministrazione americana abbraccerà completamente la sua visione - “We Are One” - le cause razziali della crisi immobiliare potranno essere sradicate.
un particolare dello skyline di Los Angeles, California (USA), 2008
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Stati insolventi d’America Joseph Grima
L’attuale crisi finanziaria che interessa gli Stati Uniti e non solo, a differenza di quanto avvenuto in passato, ha una natura straordinaria e non prevedibile in termini di effetti. Negli USA un appellativo frequente, usato per definire quanto sta avvenendo, è “crisi dei mutui” anche se la parola centrale attorno alla quale ruota questo sistema è il termine “foreclosure”, che è nello stesso tempo effetto e causa della crisi stessa. Questo termine ibrido e di difficile traduzione, a metà tra sfratto e insolvenza, è un termine bancario che fino a poco tempo fa era familiare solo a chi che non era in grado di pagare il mutuo e veniva per questo sfrattato (da qui il termine “foreclosure”, ovvero la chiusura in anticipo del contratto di mutuo con la banca). Attualmente negli Stati Uniti questa situazione ha raggiunto un elevato grado di intensità, soprattutto in territori come la Florida, il sud ovest della California, lo Stato dell’Arizona e lo Utah; meno colpiti sono, invece, gli Stati più centrali e il nord ovest. Ciò che, probabilmente, differenzia questa crisi da quelle precedenti, è proprio il suo legame con il territorio. Sul tema “crisi-casa”, binomio fino ad oggi raro, vi sono un’infinità di analisi nelle quali vengono illustrati i dati attuali paragonati a quanto avvenuto nelle recessioni passate. Da un primo confronto dei dati sembrerebbe che questa crisi non sia poi così drammatica. Analizzando invece i dati relativi al mercato immobiliare, le considerazioni a cui si giunge sono molto differenti. Paragonando il numero di case vendute sul mercato con lo stock, ossia il numero di immobili a disposizione ed il numero di giorni che essi rimangono sul mercato, le conclusioni sono preoccupanti: le case rimangono più tempo sul mercato e, nel numero di case vendute, rientrano in particolare quelle sfrattate dalle banche, soprattutto nella west coast degli Stati Uniti. Da ciò ne consegue che questa crisi nasce e vive dentro il territorio, dentro le case delle persone, producendo effetti sulla vita quotidiana; inoltre essendo stato intaccato il mercato globale, si tratta forse della prima vera recessione dell’era globalizzata. Non è necessario ripercorrere quanto sta alla base dell’attuale situazione (in particolare il fatto che i mutui assunti dalle persone, venivano aggregati, poi spartiti, e in seguito venduti a banche successivamente collassate), è importante invece analizzare quanto emerge dallo stato di insolvenza degli americani, i quali si sono resi conto della loro vulnerabilità e di quanto il valore delle loro case continui a scendere (con la drammatica conseguenza di essere costretti a pagare
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alle banche, dopo 10 anni di mutuo, una somma molto più elevata rispetto al valore della casa stessa). Gli Americani si sono così trovati costretti a lasciare la propria casa alle banche, le quali non essendo immobiliaristi, non hanno saputo e non sanno come reinvestire tale patrimonio; semplificando, questa è la situazione che ha portato ai diversi crolli di cui negli ultimi mesi l’intero mondo finanziario è testimone. Per facilitare la comprensione e contestualizzare gli effetti di tali dinamiche, vengono presentate di seguito 10 brevi storie tratte dai titoli di giornale, casi che negli Stati Uniti hanno scatenando numerose proteste; storie rappresentative di situazioni vissute da milioni di americani, basti pensare che nell’ autunno del 2008 più di 2,4 milioni di persone si trovavano in una situazione di “foreclosure” all’incirca una su 100 - tutto ciò a fronte di un dibattito politico incentrato sul sostegno finanziario a favore delle banche e non delle persone. 1. Los Angeles, California: Disperato per le perdite finanziarie, padre massacra la famiglia e si suicida […] Karthik Rajaram aveva perso tutto. Il quarantacinquenne manager finanziario di Porter Ranch, che in passato aveva guadagnato più di 1,2 milioni di dollari con un fondo di investimento di base a Londra, aveva perso il lavoro. La fortuna con il mercato azionario l’aveva abbandonato. Il 16 settembre aveva comperato un’arma. Aveva scritto due ultime righe d’addio, le ultime volontà e il testamento. Poi, nella notte fra domenica e lunedì, ha ucciso moglie, suocera e tre figli prima di suicidarsi. Le autorità credono che Rajaram abbia ucciso se stesso e la sua famiglia dopo aver assistito al dissolvimento del suo capitale in seguito alla crisi dei mercati azionari […] (7 ottobre 200,8 LA Times)
2. Pasadena, California: Donna di Pasadena minacciata di sfratto viene ritrovata morta nella casa in fiamme […] Una serie di dissesti finanziari aveva portato Wanda Dunn sulla soglia dello sfratto della casa dove la sua famiglia aveva vissuto per generazioni. Dunn, di 53 anni, aveva detto al vicino che avrebbe preferito morire piuttosto che andarsene. La mattina di lunedì, il giorno in cui era previsto lo sfratto, i vigili del fuoco hanno estratto il suo corpo dalla casa in fiamme. Secondo quanto dichiarato dalle autorità sembra che la donna abbia dato fuoco alla casa prima di spararsi alla testa. “Sapevamo che sarebbe successo”, ha dichiarato Steve Brooks, che vive dall’altro lato della strada. “Non è colpa di nessuno è colpa di tutti” […] (15 ottobre 2008, LA Times) 3. Mira Mesa, California: Donna si incatena a casa sua […] Una donna di Mira Mesa, in California, si è incatenata alla sua casa, determinata a lottare contro il suo prossimo sfratto in ogni modo possibile. Dopo aver vissuto nella casa per 19 anni, la donna ha dichiarato: “Non permetteremo alla banca di portarcela via. Abbiamo vissuto tempi difficili…siamo caduti…Non consegneremo semplicemente le chiavi senza lottare”. Secondo il resoconto, la donna ha acceso un mutuo a tasso variabile alcuni mesi fa e “non era informata della crisi di quel prodotto finanziario” […] (28 ottobre 2008, KFMB San Diego) 4. Lake Elsinore, California: Famiglia di linci si stabilisce a Lake Elsinore in casa confiscata […] Una casa nella zona di Tuscany Hills a Lake Elsinore ha tutti i segni della proprietà confiscata: un prato marrone incolto, aiuole trascurate e cartelli sulla porta
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d’ingresso. E un’altra cosa: Linci. Secondo quanto dicono gli operatori della protezione animali sembra che una coppia di linci e i loro cuccioli si siano stabiliti nel retro della casa. Karen Brown, una residente della zona, racconta di essere stata avvertita lo scorso mercoledì da un vicino che c’erano “cuccioli di leone di montagna” dall’altro lato della strada. […] (3 settembre 2008, The Press Enterprise) 5. Las Vegas, Nevada: La vendetta degli espropriati: devastare la casa […] I lotti stuccati di Las Vegas sono nel pieno della crisi nazionale dei mutui. Banche e compagnie finanziarie spesso scoprono, solo nel momento in cui ritirano le chiavi, che gli ex-inquilini, amareggiati, hanno strappato via gli elettrodomestici dalle pareti, bucato a pugni le pareti, rovesciato vernice sulla moquette e, come regalo d’addio, chiuso a chiave i loro animali domestici nelle abitazioni, per creare ulteriori danni. Gli agenti immobiliari calcolano che circa la metà degli immobili espropriati e destinati a essere venduti dalle compagnie finanziarie sia stata “considerevolmente” danneggiata. […] (28 marzo 2008, Wall Street Journal) 6. Los Angeles, California: Michael Jackson evita esproprio […] Michael Jackson oggi ha annunciato la vendita all’asta del suo ranch di Neverland, prevista per questa settimana, è stata cancellata da Colony Capital LLC, che ha appena acquisito l’ipoteca di circa 23,5 milioni di dollari gravante su di esso (che si estende su una superficie di quasi 12 km quadrati) da una Società controllata del Fortress Investment Group. L’asta dell’immobile era prevista per il 14 maggio, ma è stata cancellata il 9 maggio, secondo quanto riportato da Fox News il giorno stesso. […] (11 maggio 2008, US News and Report)
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7. Fontana, California: Sequestrata marijuana per 4,5 milioni di dollari in casa confiscata […] Angel Wayhang Kou, trentenne di Rancho Cucamonga, arrestato e sospettato di avere occupato un’immobile per coltivare marijuana e nascondere droga, di furto di beni di servizio e di cospirazione. La polizia ha iniziato a investigare il caso dopo che un impiegato di banca, lo scorso giovedì, durante l’ispezione di un’immobile confiscato nell’isolato al 14.500 di Mammoth Place, ha trovato piante di cannabis all’interno della casa. […] (6 maggio 2008 , The Sun of San Bernardino) 8. Las Vegas, Nevada: Esproprio e adulterio a Las Vegas […] Apparentemente, alcuni mariti della California non erano solo interessati a investire capitale quando compravano proprietà di lusso a Las Vegas. Questo fine settimana ho incontrato un’inattesa vittima della crisi dei mutui – una donna che non vuole che il suo nome venga utilizzato. Quando già da tempo si trovava come escort a Las Vegas, dove abitava in un appartamento, un suo protettore le propose di vivere gratis nella casa che aveva comprato come investimento. Poi è arrivata la crisi dei mutui. Quando il proprietario non è stato più in grado di pagare le rate per il lussuoso immobile, questo è stato espropriato e l’amministrazione del condominio le ha dato un giorno per andarsene. […] (25 agosto 2008, LA Times) 9. Bend, Oregon: Il villaggio de “Il Signore degli Anelli” viene espropriato […] L’ascesa e la caduta dell’economia immobiliare di Bend ha avuto come risultato l’esproprio di The Shire, un villaggio a tema a sud-est di Bend, concepito secondo il modello della serie de “Il Signore degli Anelli” di J.R.R. Tolkien. Una denuncia di insolvenza è stata messa agli
atti negli uffici amministrativi della contea di Deschutes riguardo la struttura composta di 31 lotti, che secondo uno dei suo costruttori “ricorda Disneyland” ed è caratterizzata da stili architettonici da Vecchio Mondo e un’ambientazione fantasiosa. […] (31 luglio 2008, The Bend Bulletin) 10. Akron, Ohio: Fannie Mae riscatta il debito della donna che si è sparata […] Fannie Mae ha dichiarato che cancellerà il debito della donna che ha fatto fuoco contro se stessa mentre gli agenti dello sceriffo cercavano di sfrattarla dall’abitazione che le era stata espropriata. Addie Polk, di 90 anni, di Akron, nell’Ohio, è diventata un simbolo della crisi
nazionale dei mutui sulla casa quando è stata ricoverata in ospedale dopo essersi sparata almeno due volte nel torace mercoledì pomeriggio. Venerdì Brian Faith, il iportavoce di Fannie Mae, ha dichiarato che la compagnia finanziaria aveva deciso di fermare l’azione contro Polk ed assegnarle l’immobile “tutto di un colpo”. […] (3 ottobre 2008, CNN) Quali implicazioni sociali? I casi esposti, evidenziano molto chiaramente come la crisi abbia portato con sé episodi di violenza, disperazione, rabbia, vendetta, talvolta anche con risvolti comici, ma non è tutto: questa crisi non conosce differenze sociali colpendo in maniera proporzionale sia strati altissimi Una immagine dei sobborghi di Los Angeles, California (USA), 2008
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che bassissimi della società; l’esposizione a questo rischio è altissima in quanto, a differenza di quanto avviene in Italia dove solo il 14% delle persone pagano un mutuo, la percentuale di persone in America con un mutuo acceso è davvero molto più elevata ed è facile che anche coloro che hanno un reddito molto elevato ne abbiano uno in essere. A fronte di tutto ciò, nella collettività americana continua a permanere l’idea che anche questa situazione possa, per chi ha idee o sa “sfruttare” il momento, creare opportunità. Un esempio emblematico di quanto sta avvenendo è restituito dall’utilizzo di internet attraverso i siti web, ovvero dalla nascita di una vera e propria industria che realizza strumenti on line (tipo google maps) e, attraverso una mappatura satellitare interattiva, fornisce dati provenienti da fonti governative sugli sfratti. In questi siti internet è possibile conoscere la densità del fenomeno che investe gli Stati e le singole Contee, è possibile individuare le case sottoposte a sfratto o in procinto di esserlo, verificare le proprietà in vendita, a quale banca appartengono e a quale punto è la procedura. L’iscrizione a questi siti è a pagamento e chi è iscritto può conoscere anche i prezzi di vendita delle case sfrattate. Dall’accessibilità per chiunque di disporre di questi dati è nato un nuovo mercato di persone che in passato non avevano liquidità per acquistare una casa ma oggi possono farlo grazie ai prezzi ribassati. Un dato rilevante che emerge da questi fenomeni è che se una casa entra in “foreclosure”, tutte le case nel raggio di un miglio perdono un 10% del proprio valore, una sorta di catena fallimentare che invade il territorio. Le conseguenze che questa crisi ha sul territorio e sulla società sono tangibili anche dalla nascita di nuove attività: visite in pullman alle case sfrattate, organizzate dalle agenzie immobiliari, per presentare offerte di acquisto; la nascita dei “self storage”, fenomeno figlio della cultura del consumismo americano nato dall’esigenza di chi ha perso
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la propria casa di accatastare le cose contenute un tempo nelle case sfrattate. Gli “storage” sono diventati ormai una presenza consolidata delle periferie delle grandi città, oggi se ne contano circa 51.000. Verso la fine del 2008 sul New York Times è stato pubblicato un articolo sull’incremento delle vendite all’asta dei contenuti degli “storage” in quanto coloro che li utilizzano sono costretti a pagare una rata mensile che, all’inizio, è molto bassa ed estremamente vantaggiosa, ma con il passare del tempo aumenta, costringendo i proprietari a vendere i propri beni all’asta. In conclusione si può affermare, in accordo con un recente articolo del Wall Street Journal, che Barack Obama rappresenti il primo “presidente urbano americano” perché, a differenza di George Bush e dei precedenti presidenti che provenivano da un ranch o dalle periferie del New England, lui, non solo per destino ma anche per scelta, ha vissuto in situazioni di forte “intensità urbana” portando con sé una profonda conoscenza del funzionamento e delle difficoltà della città; da qui è fondamentale sottolineare l’importanza dell’annuncio del Presidente degli Stati Uniti circa la creazione di una commissione alla Casa Bianca per l’Urbanistica. Anche negli Stati Uniti, come in tutto il resto del mondo, sono le città con prevalenza di immigrati, quelle interessate da situazioni di forte tensione sociale; è pertanto giunto il momento di affrontare molte delle tematiche legate al desiderio di costruire la città, di investire sulle infrastrutture, cominciando a chiedersi prima di tutto, che cos’è e come dovrà essere la città che vogliamo.
Una immagine dei sobborghi di Los Angeles, California (USA), 2008
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Vita e morte dei suburbia Lucia Tozzi
Warren, Macomb County, Michigan: un quadrato di sei miglia per sei (88 kmq, circa la metà del comune di Milano) a nord di Detroit. Nella sua griglia perfetta di case unifamiliari – Ranch, a un piano, o Colonial Style, su due – è incastonato il recinto rettangolare del General Motors Technical Center progettato da Eero Saarinen tra il 1946 e il 1955. Negli anni prosperi della produzione automobilistica, dal dopoguerra agli anni Settanta, questo sobborgo vampiro non ha fatto altro che drenare risorse a Detroit, raddoppiando la popolazione (rigorosamente bianca) ogni dieci anni, fino a raggiungere i 180.000 abitanti. Oggi la tempesta del Credit Crunch sta assestando a questa simbolica porzione di suburbia la mazzata finale, dopo trent’anni di declino industriale e spopolamento. E così se finora, in anticipo sul resto del mondo, Detroit aveva sempre rappresentato il paradigma della crisi urbana, ora è Warren a configurare il prossimo sconvolgimento epocale: la (probabile) caduta del modello suburbano. Positive thinking? L’aereo atterra alle 2 del mattino, venerdì 20 febbraio. Sono qui per un incontro di tre giorni, RSVP#13: After the Crisis, organizzato da Archis Foundation con NAi, College of Architecture and Design at Lawrence Tech University e Abitare. Un confronto tra un piccolo manipolo di europei e un nutrito gruppo di residenti sugli scenari possibili, almeno così la vedo io. Perché invece bastano poche ore, la mattina, per rendermi conto che gli obiettivi sono ben altri: entro 72 ore bisogna tirare fuori proposte pragmatiche. Progetti per la comunità locale. In effetti era accennato sul programma, ma mi era sembrato così improbabile che l’avevo rimosso all’istante. Tre olandesi, un belga e un’italiana che dovrebbero proporre soluzioni (a scala architettonico-urbanistica, per di più) per contrastare gli effetti della sovrapposizione di una crisi finanziaria mondiale a una decadenza trentennale del più suburbio tra i suburbi americani: una barzelletta, e pure noiosa. Con quali forze opporsi all’energia distruttrice di una crisi che non fa più distinzione tra economia reale e finanza? A che santo votarsi se il mercato ha sancito l’inutilità di questo luogo, contraendo rendite e profitti, posti di lavoro e prezzi delle case? E soprattutto, vale veramente la pena di salvare Warren? In fondo, come dichiarava candidamente Cedric Price in un’intervista con Hans Ulrich Obrist,
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“Le città esistono in funzione degli abitanti, e quando diventano inutili, muoiono […]. Solo nell’eccesso di opulenza e di cultura delle civiltà occidentali la gente si preoccupa delle città morte. La città più grande del mondo, Angkor Wat, fu inghiottita dalla giungla semplicemente perché non era più utile a nessuno, ed era durata meno di 200 anni”. Non sarebbe molto meglio separare il destino delle persone da quello dei luoghi, e optare per la salvezza delle prime?
Frustrazione percettiva Le informazioni che ci vengono fornite dai politici, dagli amministratori, dagli studiosi, studenti, abitanti e developer locali sono precise e impressionanti. Circa il 10% delle case è in foreclosure: si pignora per i mutui, ma a volte anche solo per l’impossibilità di pagare le tasse. Il tasso di disoccupazione si innalza rapidamente e i valori immobiliari sono calati del 40% dal 2005. Ma nulla di tutto questo è visibile ai profani. A furia di attraversare in lungo e in largo schiere di bianche foto di Corinne Vermeulen-Smith Warren, Michigan (USA) 2009
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casette di legno, dopo lungo esercizio l’occhio comincia a percepire dei discreti biglietti bianchi o gialli dietro alle finestre, ma è praticamente tutto. Niente case in rovina, niente degrado, niente brutte facce. Anzi, di facce, per la verità, neanche l’ombra: ma con meno dieci e la neve chi andrebbe in giro? E comunque, anche col caldo, nella totale assenza di spazi pubblici le persone le vedi solo al chiuso o dentro la macchina. Forse d’estate si noterebbero l’erba selvaggia e le aiuole non potate intorno alle case vuote, ma non è detto. L’assoluta uniformità di questo luogo, accentuata dal sottile strato di neve che cancella qualsiasi distinzione tra prato, acqua e parcheggi, fa pensare a un’immobilità temporale. E in effetti tra i primati di Warren c’è il record di permanenza media degli abitanti: mentre nelle altre città statunitensi le persone traslocano in media dopo 8 anni, qui si resta per 35,5 anni – sempre in media. Non a caso, la sua popolazione è anche tra le più “anziane” degli USA, con un 17-20% di persone sopra i 65 anni. In uno stato di deprivazione sensoriale, incapace dopo tre giorni di riconoscere la strada per il mio albergo, mi chiedo quali possano essere i desideri di questi ormai 130.000 abitanti. United in property La risposta è una sola: conservare tutto com’è, costi quel che costi. Se non mi muovo, non si deve muovere neanche il resto. È fondamentale che le case, i negozi, ma anche le persone restino sempre uguali. La community deve mantenersi il più possibile inalterata nel tempo, nell’aspetto e nella sostanza. Leggi, regole e denaro vanno indirizzati alla manutenzione della community, che richiede un costante
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lavoro di monitoraggio, selezione e sostituzione degli elementi decadenti o spuri. È un sistema fondato sull’interdipendenza di luoghi, persone e proprietà privata, incomprensibile senza capire che cosa si intenda per community: un gruppo più o meno esteso di persone legate a un certo luogo – che può essere una città, un quartiere o anche un’enclave privata – unite non tanto dai comuni diritti di cittadinanza o da strutture culturali, politiche, parentali, bensì dal fatto di essere proprietari. L’armonia tra vicini non è in questo quadro solo un indice della qualità della vita, ma un elemento che influisce direttamente sul valore immobiliare delle case. Ci si batte per la rimozione di un albero caduto, la sostituzione di un mall abbandonato o il restauro di una casa in rovina per non inficiare l’immagine e la competitività commerciale della strada, quartiere o città. La ricerca dell’omogeneità non è necessariamente il frutto di truci istinti xenofobi o classisti, ma del timore di essere penalizzati dal fatale conformismo del mercato (non ho niente contro di te, ma sparisci, o mi rovinerai la piazza). Ogni membro della community ragiona in termini di marketing urbano, perciò invoca soluzioni locali e competitive. Pride Uno dei più apprezzati strumenti pubblicitari è l’istituzione di premi: leggo ad esempio da un opuscolo sulla contea di Macomb che i tre edifici in cui sono avvenuti gli incontri di RSVP#13 – il Warren City Center, il Warren Community Center e la villetta modello Superior della Winnick Homes all’interno dell’Heritage Village – sono tutti pluripremiati, come pure le scuole di Warren e la City Square. Sempre secondo l’opuscolo, Warren gode di più di tre miliardi di nuovi
investimenti, di infrastrutture disegnate per consegne just-in-time, della vicinanza alla I-696 (l’Interstate Highway diretta allo Zoo di Detroit, conosciuta anche come Walter P. Reuther freeway: il panorama della mia stanza d’albergo), di tasse sulla proprietà e tariffe per il consumo di acqua molto basse, e di un’ampia serie di vantaggi riassunti nella formula great location, great people, and great resources. Difficile immaginare che il sobborgo affianco, Sterling Heights, possegga caratteristiche radicalmente diverse, eppure qui come in qualunque altro sobbor-
go la gente è necessariamente orgogliosa di essere di qui. Non: vive bene, o si trova bene. Proud. L’orgoglio è uno strano sentimento, una sorta di difesa preventiva dall’altrui offesa. Nel bene e nel male, qualunque cosa si pensi o si dica, quale che sia la situazione, prima di tutto c’è l’orgoglio, la cui funzione principale consiste nel respingere a priori qualsiasi istanza critica. Tra onnipotenza e impotenza Sul tavolo del cosiddetto workshop c’è la rivista con foto di Corinne Vermeulen-Smith Warren, Michigan (USA) 2009
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l’articolo di Richard Florida, l’ennesimo tentativo di rilancio delle proprie tesi sulla creatività, questa volta modulato sul tema del momento: la crisi spazzerà via i sobborghi americani e in particolare la Rust Belt per sancire il definitivo trionfo delle metropoli creative come New York. I quotidiani sono presi dall’appena annunciato housing plan di Obama, 75 miliardi di dollari (più 200 per le banche) per cercare di salvare una parte dei 6 milioni di americani esposti al rischio del pignoramento. Sulla lavagna c’è scritto: “Buone idee/cattive”. La cattiva è “il sistema delle Mile Roads” (le strade parallele distanti un miglio che in questo pezzo di Michigan rivelano la lontananza dal degrado di Downtown Detroit, e di conseguenza il valore crescente degli immobili). Le buone si dividono nel genere che De Gaulle definirebbe vaste programme (Puntare sul bassissimo costo di case e terra e sul surplus di strade, case, etc; Convertire l’allora produzione di massa di automobili in produzione di massa di tecnologia ecosostenibile; Ripensare la proprietà: mettere in discussione il paradigma jeffersoniano e ritornare allo spirito dei nativi americani che ritenevano non si potesse possedere terra; Utilizzare le case vuote e darle a migranti, locali, chiunque possa dimostrare un potenziale contributo) e inequivocabilmente pragmatiche (Partire dai quartieri: empowering, promozione di scambi di oggetti e servizi; Tracciare le proprietà, pubblicizzare le notizie attraverso il web; Riutilizzare il materiale delle foreclosed properties, trovando un sistema legale o semilegale per farlo). Sarà perché ho fame e nessun mezzo per procurarmi cibo (il bar del community center è chiuso e non ho un’auto personale a disposizione) ma durante il workshop sono ossessionata dal “micidiale cocktail foto di Lucia Tozzi, veduta dei sobborghi di Detroit, Michigan (USA) 2009
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di onnipotenza e impotenza”, la metafora preferita da Koolhaas per definire l’architettura. Detroit, enfin L’incontro è finito. Salgo sull’auto di Mitch Cope di Design99, un artista di Detroit che insieme alla moglie Gina Reichert sta sviluppando il Power House Project: la creazione di un network di artisti e pensatori attraverso la lenta rivitalizzazione di un quartiere eroso dalle foreclosures. A cominciare dalla propria casa (con annesso grocerystore) e dalla Power House vera e propria, Mitch e Gina hanno cominciato a sorvegliare, acquistare e rimettere a posto delle villette pignorate situate in Moran Street, Detroit. Attraverso una paziente ricerca di materiali ecosostenibili a basso costo, una lenta ristrutturazione e il coinvolgimento di amici e altri artisti trasformano questo luogo di abbandono in un generatore non solo di elettricità, ma anche di energia intellettuale – e quindi, naturalmente di valore immobiliare: dai 2000, 500 o perfino 75 dollari originali si può arrivare a prezzi cento, duecento, cinquecento volte più alti. Non sono un caso isolato. Le rovine monumentali di quella che una volta veniva chiamata “l’arsenale della democrazia” sono sempre state uno scenario ricco di eventi, se non sempre piacevoli, di un certo rilievo: dalle rivolte del 1967 alla straordinaria scena musicale, al fenomeno assurdo delle Devil’s Nights (incendi dolosi di case in occasione di Halloween, prima sporadiche speculazioni, poi trasformati negli anni Ottanta in un vero e proprio spettacolo) e poi un intreccio di esperimenti artistici, attivismo, agricoltura urbana, pratiche di riciclaggio legali o semilegali e altre forme di vita autorganizzata, associata, non convenzionale. Fenomeni inimmaginabili nell’abulia
dei sobborghi che le hanno succhiato la linfa vitale, e che ora paradossalmente le potrebbero fornire una possibilità di rivincita. Anche liberandosi dei teoremi stantii di Richard Florida sulle città creative, infatti, non è difficile immaginare che nuove soluzioni, nuovi modi di adattarsi ai cambiamenti imponenti che questa crisi sembra prefigurare, le necessarie svolte culturali e politiche e le migliori trasformazioni fisiche emergeranno in luoghi densi di persone e cose diverse, di relazioni complesse e stratificate, piuttosto che nella griglia suburbana indifferenziata. Uscendo da Warren ci fermiamo a un convenience store, uno di quei mall giganteschi dove si compra merce molto passabile, e poi passiamo l’8 Mile, siamo a Detroit. Mitch respira: “I really hate suburbs”. “Come? E i tre giorni di incontri a Warren? Non pensi che ci possa essere una suburban Power House?” “Do you?” NOTE Fondamentale per la storia dello spopolamento e della decadenza di Detroit a favore dei suburbia è il 1° volume di
Shrinking Cities, curato da Philippe Oswalt per Hatje Cantz nel 2006, e frutto di una ricerca internazionale focalizzata sul fenomeno della contrazione delle città. Per un panorama sulla scena contemporanea a Detroit: Kyong Park (a cura di), Urban Ecology: Detroit and Beyond, Map Book Publishers, 2005.
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Equità e sostenibilità sono i due termini che forse più di altri dovrebbero rappresentare lo slogan delle politiche globali per questo nuovo secolo. Due termini da applicare operativamente negli ambienti urbani, perché è qui che si gioca il futuro del Pianeta. Termini utili a modificare l’approccio con il quale comunemente ci si confronta con l’architettura, e per riconsiderare le funzioni rappresentate dalla “casa”. Alejandro Aravena - architetto cileno distante dal glamour dell’industria patinata dell’architettura – e Jeremy Rifkin - economista americano considerato il guru mondiale della rivoluzione all’idrogeno – propongono ricette semplici (praticamente elementari), per un mondo complesso.
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immagine di Cloud9_Enric Ruiz-Geli - Vertical Garden
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Architettura “low cost”: l’esperienza di “Elemental“ Alejandro Aravena
foto di Tadeuz Jalocha e Cristobal Palma per Elemental
Il lavoro del gruppo di architetti e ingegneri che fanno riferimento a “Elemental”1 offre la possibilità di un approccio nuovo e originale al tema della progettazione e della realizzazione di edifici convenzionali e “low cost”, assieme allo sviluppo delle infrastrutture, dei trasporti e dello spazio pubblico; concependo sempre la città come strada imprescindibile verso l’equità sociale. Per spiegare questo tipo di approccio al tema della progettazione può essere utile un esempio. Ipotizziamo che ci venga chiesto di realizzare una sedia. Pensiamo ad una sedia semplicissima, composta da un pezzo di stoffa e da un mero supporto. Una sedia che dovrà essere usata da un indiano del Paraguay. In questo caso ci sono tre tipi di valutazioni che devono essere fatte. Prima di tutto l’uomo al quale è destinata la sedia non ha soldi per pagarne nessuna d’altro tipo, che non sia realizzata con un semplice pezzo di tela. Quindi, per poter risolvere la sua necessità, occorre tener conto della scarsità di mezzi di cui egli dispone. Inoltre, anche nel caso che questo uomo avesse più soldi, non avrebbe comunque bisogno di un altro tipo di sedia, perché lui è nomade! Quindi una
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sedia minima e trasportabile è quella che fa per lui. Il design giusto per questa sedia rappresenta una specie di limite: non si può togliere niente, perché sparirebbe il concetto stesso di sedia e resterebbe solo il verbo “sedersi”. Si tratta dunque di un design, in un certo senso, irriducibile. L’esempio della sedia ci serve per spiegare con un’equazione il problema che dobbiamo risolvere per la realizzazione del progetto. Quel pezzo minimo di stoffa sta alla nozione convenzionale di sedia come x sta all’architettura. Quindi, la sfida per la realizzazione del progetto è trovare il valore più rilevante, preciso possibile e irriducibile, per x. Questo è stato l’approccio che ci ha consentito di realizzare un nuovo modo di fare architettura. Ad esempio, nel 1998, abbiamo realizzato l’ampliamento della Facoltà di matematica dell’Università Cattolica del Cile, dove vi erano già due edifici e se ne doveva aggiungere un altro. La nostra idea era che il risultato finale fosse una sintesi invece che un’aggiunta; perciò abbiamo cercato di realizzare un edificio di 150 metri di lunghezza invece di aggiungere altri 2.000 metri quadrati di edifici isolati. Questo primo progetto ci è servito anche per procurare altre com-
messe, poiché ha avuto il pregio – tra l’altro - di essere costato poco. Successivamente ci è stato chiesto di realizzare un edificio, sempre per l’Università, destinato ad ospitare i numerosi computer del Centro Elaborazione Dati. Il committente aveva le idee ben chiare: voleva una torre di vetro. Ma la realizzazione di un edificio in vetro rappresenta un problema piuttosto serio in Cile, soprattutto a Santiago, perché il clima è desertico. In aggiunta non c’erano risorse sufficienti per realizzare un edificio con vetro doppio, isolato, con una superficie riflettente fuori. Quindi abbiamo cercato di affrontare questo problema piuttosto impegnativo, spezzando il “problema principale” in diversi problemi più semplici, cercando di fare una cosa giusta alla volta. Il vetro probabilmente non è la scelta migliore per quel che riguarda la resa in termini di efficienza energetica, ma è comunque un materiale abbastanza buono in quanto resiste all’invecchiamento, alla polvere, all’inquinamento. Abbiamo usato il vetro, quindi, per ciò che meglio si adatta alla sue caratteristiche, realizzando con esso un involucro esterno. Poi abbiamo realizzato un altro edificio all’interno adatto
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all’efficienza energetica. Il risultato è stato un edificio fatto in vetro all’esterno, che consente al calore di passare per convenzione all’interno così da creare un effetto serra. Questa “pelle” esterna non tocca il suolo e questo permette all’aria calda di salire, accelerata da questo effetto, e di uscire dal sistema prima di entrare all’interno del secondo edificio. Il risultato ci ha permesso di ottenere aria fresca che entra dal basso e un effetto serra che la fa salire lungo tutto il perimetro dell’edificio, così c’è aria che circola costantemente in questa intercapedine attorno all’edificio interno. Lo spazio fra i due edifici, quello di vetro e quello interno, è un isolante molto efficiente. Va poi apprezzato che questa tecnologia ha consentito di produrre un edificio con costi contenuti, attorno ai 90 dollari al metro quadrato. Questa esperienza, e altre fatte al di fuori del Cile, ci hanno allenato a fare un tipo di architettura che guarda certo il design, ma che fa anche un uso strategico della forma. Ma la questione più difficile di tutte, alla quale possiamo tentare di rispondere solo perché abbiamo avuto queste precedenti esperienze, è “di cosa abbiamo bisogno per realizzare abitazioni sociali?”. Nel 2000 “Elemental” è diventato un corso accademico presso l’Università di Harvard, negli Stati Uniti. Noi - parlo in particolare di me e del mio socio, Andrés Iacobelli, ingegnere che teneva il suo master all’Università di Harvard - abbiamo cercato in quest’ambito di sviluppare idee da applicare alle abitazioni sociali. Per due anni io ho insegnato in workshops cercando di capire quale fosse la domanda a cui si poteva rispondere; Andrés, che è una persona abbastanza geniale, ha sistematicamente fatto le domande giuste e ha trovato le regole del gioco. Lui aveva in mente due cose: per avere qualche in-
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fluenza in questo settore bisogna giocare con le stesse regole a cui giocano tutti, e soprattutto costruire, non fare dibattiti o pubblicazioni. Bisogna costruire, applicare le idee, altrimenti nessuno crede in niente. Questa concezione è stata concretizzata nel 2003, con il progetto di abitazioni sociali presso “Quinta Monroy” a Iquique in Cile, che abbiamo realizzato con soldi pubblici e secondo le regole del mercato. In seguito abbiamo creduto che si dovesse moltiplicare questa esperienza in altri luoghi, in Cile e altrove, partecipando così ad altri concorsi internazionali, per cimentarci con altre situazioni climatiche, geografiche, sociali. Man a mano che la nostra esperienza cresceva abbiamo iniziato a fare altri progetti di natura urbana, non soltanto di abitazioni, per riuscire a migliorare la qualità della vita dei cittadini, usando strategicamente la città come scorciatoia verso l’equità. Il 2007 rappresenta una svolta epocale per il Cile, poiché, per la prima volta nella sua storia, in questo Paese ci sono più persone che abitano nelle città rispetto alla campagna. Si tratta di una notizia eccellente, perché la città è forse il veicolo più efficiente che abbiamo inventato per migliorare la qualità della vita e per aumentare la ricchezza. Qualunque indicatore si prenda in esame, è migliore in città piuttosto che in campagna, anche se può sembrare una contraddizione. A questo proposito, sono rimasto particolarmente colpito da un intervento del Vice Presidente della Banca Centrale Indiana, che nel corso di un incontro, l’anno scorso, ha espresso le considerazioni più lucide che io abbia mai sentito sulla città. Ha iniziato riconducendo il processo di urbanizzazione del mondo nell’ambito del sistema globalizzato dell’economia. Tra l’altro egli afferma che la differenza nella condizio-
ne economica tra i Paesi non dipende più dal costo dei beni e dei servizi. Per avere un computer dieci anni fa, per esempio, si doveva attendere che qualcuno uscisse dal Cile e andasse negli Stati Uniti per comprarne uno. Oggi la differenza principale sta nel prezzo, che negli Stati Uniti è 200 dollari, praticamente niente. Ciò che fa la differenza nel mondo, sostiene il Vice Presidente della Banca Centrale Indiana, sono l’efficienza e la mobilità dei servizi; e questo spiega, tra l’altro, lo sviluppo economico asiatico, direttamente proporzionale al tasso di urbanizzazione. In Corea, ad esempio, il 70% della popolazione è concentrata in due regioni urbane. Il motivo per cui la concentrazione urbana agisce in modo così efficiente sull’economia sta nel fatto che ogni dollaro investito nell’infrastruttura rende di più, perché le persone sono più vicine le une alle altre. In pratica se osserviamo
questa parte di mondo, possiamo vedere un corridoio urbano continuo, da Tokio a Sidney, all’interno del quale si trovano tutte le economie asiatiche che hanno creato lo sviluppo veloce degli ultimi anni. Ma, affermava ancora il Vice Presidente, “what’s next?”. Quale è la prossima tappa di questo sviluppo economico? “La differenza tra le economie – rispondeva - passerà attraverso la capacità di creare conoscenza”. E questo ha due particolarità nell’economia globalizzata: è un tipo di sviluppo reso possibile dal contatto fra le persone; e – seconda particolarità coloro che creeranno queste condizioni di conoscenza guadagneranno più o meno la stessa somma in qualsiasi posto al mondo. Essi sceglieranno dove vivere in relazione alla qualità della vita che certi luoghi possono offrire loro. Infatti se si osservano le scelte di investimento in alun particolare delle residenze di Quinta Monroy, Iquique, Cile
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cune grandi città del mondo, come Chicago, Londra o Barcellona, si nota come in queste città si investa continuamente nella qualità della vita urbana, proprio per attirare i professionisti che faranno la differenza nella economia del mondo. Quindi, in linea di principio, queste città potrebbero essere un luogo di vita ideale sia per i ricchi che per i poveri, poiché pensate per essere veicoli efficienti e poderosi, sia per creare ricchezza che per creare equità. In sostanza, ci sono le condizioni per non aspettare una redistribuzione delle risorse per migliorare la qualità della vita dei poveri. Resta però un problema. Questo processo di urbanizzazione avrà una scala e una velocità senza precedenti nella storia dell’umanità. Oggi infatti ci sono 3 miliardi di persone che vivono in città e un miliardo di queste vive al di sotto della soglia di povertà; nel 2030, secondo le stime più attendibili, saranno 5 miliardi di persone a vivere nella città, e 2 miliardi vivranno sotto la soglia di povertà. Questo processo di urbanizzazione si realizzerà soprattutto tra i tropici, nei Paesi più poveri del mondo, e il problema principale che dovremmo risolvere – come umanità - è quello di costruire, nei prossimi 20 anni, città capaci di ospitare complessivamente un miliardo di abitanti, con un reddito annuo per famiglia di 10.000 dollari. In questo senso, la sfida raccolta da “Elemental” è tra le più impegnative: usare la città come scorciatoia verso l’equità sociale e allo stesso tempo come un veicolo poderoso ed efficiente per creare ricchezza e sviluppo. Abbiamo cominciato ad applicare questa concezione quando ci è stato chiesto di realizzare un parco pubblico a Santiago del Cile, in occasione del centenario dell’indipendenza del Paese. In genere non occorre del denaro per godere di uno
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spazio pubblico, ma a Santiago non è così: si può passeggiare liberamente in un parco solo se si è soci di un club. Quindi – e questa è la sfida - se riusciamo a realizzare 10 chilometri continui pedonali, nei 600 ettari che avevamo a disposizione proprio nel centro della città - la stessa dimensione di Central Park a New York - otterremo uno spazio dove persone senza soldi possono migliorare la loro qualità della vita. Allo stesso tempo questo parco deve rappresentare anche un luogo adatto per quella componente della popolazione che sta cercando una adeguata rappresentazione del proprio status economico. La città insomma deve rappresentare queste differenti realtà, tramite la realizzazione di spazi e infrastrutture adeguate. Per quanto riguarda la realizzazione di abitazioni a basso costo, ciò che il mercato tende a fare, in condizioni di scarsità di risorse economiche, è una casa più piccola. Noi però abbiamo pensato che se si hanno poche risorse, invece di fare una casa “più piccola” si può realizzare metà di una casa “buona”. A questo punto tuttavia la domanda chiave è “quale metà facciamo?”. La risposta strategica, a livello sociale, è realizzare con le risorse pubbliche quella metà che una famiglia mai riuscirà a realizzare da sola. Bisogna sapere che una delle obiezioni che la popolazione del Cile muove verso le abitazioni sociali è che queste sono troppo piccole, prive di finiture, e costruite male complessivamente. Ma se, per esempio, si disponesse di una casa sufficientemente grande, le finiture potrebbero realizzarle direttamente le famiglie. Per noi però è più importante rispondere bene alla questione localizzativa, cioè “dove si costruisce”, piuttosto che alla domanda dimensionale, cioè “quanto si costruisce”. Ma la società civile – come ho appena detto - non chiede mai “dov’è l’abitazione sociale?”; chiede invece “di
quanti metri quadri dispone l’abitazione?”. Per i più poveri tuttavia essere inseriti nelle reti di opportunità che offre la città è la cosa più importante, perché è da quella rete di opportunità che dipende il loro guadagno e la loro speranza di vita. Quindi invece di far pagare allo Stato un metro quadrato di casa generico, noi preferiamo che lo Stato paghi un metro quadrato di suolo ben localizzato. L’importanza della localizzazione è quindi, per noi, il primo punto di partenza. Secondo punto. Noi crediamo che il valore di un’abitazione sia l’opposto di quello di un’auto, che di giorno in giorno perde valore. In Cile questo concetto non è così evidente. Tutti noi, invece, quando compriamo
una casa speriamo che acquisti valore col tempo. Così abbiamo compiuto scelte di design che permettono ad una abitazione sociale di aumentare il suo valore nel tempo. Abbiamo pensato all’housing sociale come ad un investimento, invece che una spesa sociale. Questo è molto importante, non solo per usare in modo più efficiente il denaro pubblico, ma anche per consentire ad una famiglia povera di usare la casa come un capitale, come un mezzo – per esempio - per accedere a un prestito. Questo, in sintesi, è dunque ciò che abbiamo voluto fare: abitazioni come investimento; metà di una casa buona, realizzando per prima cosa la metà più difficile. Ma per far questo occorreva accettare le regole del il modulo abitativo in materiale prefabbricato, proposto da “Elemental” per la Triennale di Milano (2008)
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gioco. E quali erano le regole del gioco in Cile nel 2001? Nell’ambito delle politiche abitative la famiglia povera ottiene un sussidio dallo Stato che corrisponde a circa 7.200 dollari, a cui la famiglia che riceve questo sussidio deve aggiungere almeno altri 300 dollari. Con questo sistema ottiene un voucher col quale si rivolge al mercato immobiliare privato per il soddisfacimento dei propri bisogni abitativi. Quindi il sistema pubblico è un sistema di finanziamento; non disegna e non costruisce case, perché questo lo fanno i privati. Il mercato tuttavia non è stato in grado di offrire una risposta adeguata alle esigenze sociali; così noi abbiamo pensato che fosse arrivato il momento adatto per accettare la sfida. Si doveva costruire secondo un ordine di grandezza che prevedesse almeno 100 abitazioni (meno di 100 abitazioni, per il mercato, non rappresentava una impresa conveniente). Il punto di partenza era realizzare metà di una casa buona che guadagnasse valore nel tempo. I dati su cui lavorare erano quindi: 100 case e 7.500 dollari di sussidio per ciascuna. Nel 2003 il governo cileno, conosciute le nostre idee, ha raccolto questa sfida. Ci hanno proposto di lavorare in una città del nord del Cile con problemi abitativi, precisando che se la nostra proposta fosse stata risolutiva, il progetto sarebbe stato nostro. Con una richiesta esplicita: la nostra proposta non poteva contemplare lo spostamento di quelle famiglie dal luogo in cui vivevano. Cento famiglie e 7.500 dollari a disposizione per ciascuna, sono cifre che, nel migliore dei casi, permettono di costruire un’unità abitativa di 30 metri quadri, mentre queste 100 famiglie abitavano in un sito molto esteso, di 5.000 metri quadri complessivi, dimensione della quale bisognava tenere conto. Le condizioni di vita erano però di bassissima qualità,
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con problemi di natura ambientale, di tossicodipendenza e spaccio molto complicati, anche se le condizioni offerte dalla città intorno erano buone perché lì c’erano lavoro, trasporti, servizi educativi e così via. Quindi, invece di spostare queste famiglie in periferia, che sarebbe stata la normale conseguenza, noi abbiamo detto che avevamo il modo per lasciarli lì e soprattutto avevamo l’esperienza per realizzare tutto questo a costi contenuti. Abbiamo incontrato quelle 100 famiglie e abbiamo fatto vedere loro le condizioni in cui abitavano: 100 famiglie in 5.000 metri quadri. Le abbiamo informate che se desideravano una casa unifamiliare isolata, come era nelle loro aspettative, saremmo riusciti ad accontentare soltanto 30 famiglie. Quindi, abbiamo continuato con una provocazione: era necessario scegliere quali fossero le 70 famiglie che dovevano andarsene da lì. Anche se noi sapevamo – tra l’altro che il sussidio di sole 30 famiglie non avrebbe potuto pagare il costo di quel terreno e l’intera operazione di trasformazione. Bocciata questa ipotesi e valutate negativamente anche altre alternative che il libero mercato offriva, abbiamo proposto una costruzione che si sviluppa in altezza. Le famiglie ci hanno però risposto: “se osate darci queste abitazioni facciamo lo sciopero della fame. Non siamo disponibili a questa soluzione perché non permette di essere ampliata”. In pratica, eravamo nei guai! Bisognava trovare una soluzione innovativa. Lì abbiamo capito che il modo di porre la domanda era sbagliato. Noi stavamo cercando di fare la migliore unità abitativa con 7.500 dollari e replicarla, in questo caso, 100 volte. Invece dovevamo chiedere a noi stessi: “Qual’ è il migliore edificio da 750.000 dollari che possa soddisfare queste necessità?”.
Alloggiare 100 famiglie in un sistema creato per dar loro la possibilità di crescere e svilupparsi, rimanendo nella stessa casa: questa era la strada da seguire. Abbiamo quindi proceduto con questa idea, anche se eravamo consapevoli che un normale edificio pluripiano non poteva, in un secondo momento, essere ampliato, fatta eccezione per il piano terra e l’ultimo piano. Perché il piano terra può essere ampliato orizzontalmente sul suolo, mentre l’ultimo piano può crescere verticalmente. Quindi, ciò che di fatto abbiamo realizzato, è stato un edificio con solo un piano terra e l’ultimo piano. Poi lo abbiamo spostato sul lotto in modo tale da coprire almeno il 50% dello spazio disponibile, per poter garantire nel tempo lo sviluppo individuale. In genere coloro che occupano abitazioni sociali non riescono a produrre un contesto urbano che possa preservare il valore delle unità abitative nel tempo. In pratica, si assiste sempre ad un degrado urbano
evidente. Il nostro obiettivo invece è stato quello di occupare il più possibile il lotto disponibile con le unità abitative iniziali, e lasciare che, in un secondo momento, le famiglie potessero realizzare l’altra metà della casa. Tutto questo però doveva essere discusso con la popolazione. Con nostra sorpresa le famiglie hanno immediatamente accettato questa ipotesi, perché loro stessi avevano applicato quel sistema: erano originariamente 50 famiglie che avevano occupato abusivamente quel terreno e col tempo avevano costruito un appartamento che affittavano ad una seconda generazione di occupanti illegali. Solo che non erano riusciti a fare bene queste lavoro, a valorizzare cioè lo spazio urbano disponibile e gli spazi interni degli edifici auto-costruiti. Ma comunque la struttura era già lì, noi non avevamo inventato niente. Per presentare il progetto e illustrare il percorso abbiamo organizzato le famiglie in piccoli gruppi, all’interImmagini del laboratorio di partecipazione realizzato da “Elemental” in Cile
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no dei quali si potessero raggiungere accordi sociali. La casa era più o meno la stessa per ciascuna famiglia: 36 metri quadri – sei metri per sei - al piano terra, poi un solaio di calcestruzzo; sopra appartamenti in duplex, ognuno con accesso diretto allo spazio pubblico, in pratica ogni appartamento avrebbe avuto il suo ingresso dal lato anteriore. Poi abbiamo realizzato un laboratorio partecipato per spiegare queste regole del gioco alle famiglie. Facevamo usare modelli, disegnare, scrivere ad ogni capo famiglia, per capire se eravamo concordi. Quindi facevamo disegnare il progetto, illustrare – con le loro capacità – il cambiamento delle facciate, degli spazi comuni e così erano direttamente loro, in un certo senso, ad ideare la loro casa. Queste dimensioni abitative, in genere, si riuscivano a realizzare con 7.500 dollari solo nella periferia della città, ad un’ora d’auto da dove abitavano queste famiglie. Noi volevamo provare che con lo stesso denaro si potevano costruire le stesse dimensioni nel centro della città, senza che la struttura architettonica ed il design della nuova abitazione fossero molto diversi da quella vecchia. L’unica differenza era che il 50% dei metri quadrati della casa sarebbero stati costruiti dalle famiglie stesse. La monotonia iniziale della costruzione non solo non era male, ma probabilmente ha rappresentato l’unico modo per garantire una certa qualità nel tempo. La neutralità dell’architettura, il silenzio iniziale, hanno garantito che l’intervento individuale successivo, sarebbe stato contenuto. Riepilogando quindi: prima metà della casa a un costo di 7.500 dollari; la seconda metà della casa, realizzata da loro, per un valore di 1.000 dollari. Il valore di quelle case oggi, in quel contesto, è di 20.000 dollari. Un obiettivo è stato quindi raggiunto.
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Insomma per poter avere case con maggior valore bisognava non fare qualcosa. È stato, quindi, realizzato un accordo con le famiglie: niente pavimenti, niente tinteggiatura, una cucina molto semplice - praticamente senza confort - ma solo la struttura finale. Il metro quadrato di suolo è più importante di quello di una casa! In queste case però, progettate in questo modo, le famiglie potevano avere un letto matrimoniale, cosa impossibile fino a quel momento nelle abitazioni sociali in Cile, in quanto la stanza da letto non è abbastanza grande per riuscire a contenere un letto matrimoniale. Quindi, quando si pensa al 50% di una casa “buona”, si intende che il suo DNA è quello di una casa per classe media, dove un letto matrimoniale deve riuscire a stare in una stanza. E anche il bagno deve riuscire a contenere una vasca e non soltanto la doccia. Questo, che sembra banale, è invece molto importante. In una vasca un bambino può farsi il bagno, si possono lavare gli abiti, ma soprattutto non vi sono pericoli di infiltrazioni nella proprietà sottostante, come potrebbe avvenire tramite la doccia. Quindi ciò che abbiamo fatto con questo progetto, è stato di realizzare una densità abitativa piuttosto alta, ma senza generare problemi di sovraffollamento, e con la possibilità di ampliamento. Risolta questa “equazione” il progetto si può esportare in altri luoghi. Infatti siamo riusciti a realizzare una variante di questo progetto anche a Santiago del Cile, in un quartiere dove la densità abitativa è alta, intorno a 750 abitanti per ettaro, con case che possono raggiungere minimo 72 metri quadri, cioè uno standard da classe media, anche se noi potevamo permetterci – inizialmente – di pagare soltanto i primi 36 metri quadrati di costruzione.
Questo lavoro è stato mostrato alla Biennale di Venezia nel 2008, dove abbiamo rappresentato il workshop condotto con le persone interessate a queste abitazioni, con modelli di carta che avevamo realizzato per capire come sarebbero venute le facciate delle abitazioni e come l’intervento individuale poteva essere regolato. Con questa esperienza siamo andati anche in Messico, non perché abbiamo un piano di espansione della nostra azienda, ma perché ci hanno chiamato dicendo che volevano applicare lo stesso design e sapere se vi era una sorta di copyright. Li abbiamo convinti che forse la domanda - in quel contesto - era simile ma non uguale. In Messico infatti la situazione è diversa
dal Cile: relativamente all’housing non c’è un sussidio pubblico per i più poveri, è quasi tutto mercato libero. Vengono spese molte risorse in architettura, colori e decorazioni. Lo spazio non è controllato, vi è una mancanza di qualità; in pratica i soldi spesi nell’architettura in senso convenzionale sono inefficienti. Si tratta per lo più di edifici a tre-quattro piani. Siamo riusciti a realizzare in Messico abitazioni per 8.000 e per 20.000 dollari con ottimi risultati. Ma il progetto realizzato è diverso da quello fatto in Cile. Si tratta di costruzioni 4 metri per 5, che costano 8.000 dollari ad un piano e 20.000 dollari a due. Non so se riusciremo a realizzare tutto il progetto, ma quello che a noi importa è andare là dove c’è minor disponivista frontale del modulo abitativo in materiale prefabbricato, proposto da “Elemental” per la Triennale di Milano (2008)
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bilità economica: i problemi che dobbiamo risolvere sono più difficili, ma credo che si riesca ad essere più efficaci se si hanno a disposizione minori risorse. Nel luogo in cui sono state realizzate abitazioni da 20.000 dollari, le case vicine ne valgono 50.000. Siamo quindi riusciti a realizzare abitazione da 20.000 dollari in un contesto del valore di 50.000. Non solo; tutti sono convinti che le case che abbiamo realizzato acquisteranno quel valore di 50.000 dollari abbastanza presto. In questo caso la domanda più importante, a cui dovevamo dare risposta è: “riusciamo a creare un progetto, con queste dimensioni e queste risorse, in tempi rapidi e in modo facilmente riproducibile?”. Anche per rispondere a questa domanda è stato importante il prototipo costruito alla Triennale di Milano, perché bisogna prefabbricare per essere veloci e per rendere un progetto facilmente replicabile. In due giorni il prototipo ideato da “Elemental” è stato costruito cercando di rispondere al tema della “casa per tutti”2. Ciò che mi ha colpito è la capacità delle ditte di prefabbricazione italiane di prendere i nostri progetti e di svilupparli, portandoli ad uno stadio più evoluto. È stato veramente incredibile ciò che hanno fatto. Ma la cosa più importante, secondo me, è che per abbassare i costi dell’abitazione sociale occorre ripetere e proporre soluzioni uguali. In problema, certo, è che in questo modo non si riesce a cogliere la diversità di struttura, di economia, di preferenze, di gusti, di identità delle famiglie. Ma quando si hanno solo i soldi per realizzare metà di una casa, la soluzione del problema c’è già: prima si realizza la metà della casa in modo monotono e ripetitivo, cosa molto funzionale al risparmio economico, cercando di garantire però
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maggiore qualità dello spazio urbano complessivo nel quale si colloca l’abitazione. Quindi si può prefabbricare senza avere un “problema di coscienza”. Con questa filosofia, alla Triennale di Milano, sono state costruite 2 case in 24 ore. Per formalizzare questa filosofia abbiamo anche realizzato un sistema chiamato 2 elevato a 5 (che è un vero software pensato per essere diffuso in rete), perché sono cinque le principali domande alle quali occorre rispondere in modo dicotomico. Se qualcuno infatti vuole cercare di capire come affrontare un problema legato alla realizzazione di residenze sociali, deve porsi queste cinque questioni: • • • • •
il clima (piove o non piove); il suolo (è in pendenza oppure no); la densità urbana (alta o bassa); lo standard (minimo o medio); la struttura iniziale (molti vani piccoli, o uno grande tipo loft).
Questo modo “automatico” di pensare e di affrontare i problemi ci consente di lavorare alla difficile sfida della crescita urbana, tramite la realizzazione di abitazioni sociali per le persone che in futuro vivranno nelle città e che dobbiamo accogliere, perché la città è la soluzione ottimale per migliorare la qualità della vita di queste persone. Secondo un approccio che definiremo “di destra” riferito al “guadagno” - oggi le città sono una fonte di ricchezza, un veicolo di guadagno economico, di voti politici, e le risorse che esse mobilitano sono altissime. Poi, nel mondo, c’è anche un approccio “di sinistra”, che cerca di evitare conflitti tra individui e compo-
nenti della società; che cerca di evitare che questo processo sia un inferno. Tuttavia, di fronte alla velocità di questo processo di urbanizzazione, e ai grandi problemi che esso pone, si può arrivare a produrre soluzioni partendo dallo slogan del poeta cileno Nicanor Parra, che parafrasando il noto adagio “El pueblo unido jamás será vencido” sostiene che “la izquierda y la derecha unidas, jamás serán vencida”.
NOTE 1 “Elemental” è una organizzazione di architetti e ingegneri, con base a Santiago del Cile, che si occupa di progetti con interesse sociale (www.elementachile.cl). 2 La mostra “casa per tutti” si è tenuta alla Triennale di Milano tra il 22 maggio e il 24 settembre 2008, a cura di Fulvio Irace e Carlos Sambricio.
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Verso la Terza Rivoluzione Industriale Jeremy Rifkin
La prima metà del 21° secolo vedrà la fine dell’era del petrolio. Il prezzo del greggio sul mercato globale rimane alto e il picco più elevato di sfruttamento sarà raggiunto nell’arco di alcuni decenni. Allo stesso tempo, la drammatica crescita delle emissioni di anidride carbonica proveniente dall’uso dei combustibili fossili sta innalzando la temperatura terrestre e minaccia un cambiamento senza precedenti nella chimica del pianeta e del clima globale, con conseguenze nefaste per la civiltà umana e gli ecosistemi della Terra. All’Unione Europea occorre una nuova e potente teoria economica che sposti la discussione e l’ordine del giorno sul tema del cambiamento climatico e sul picco del petrolio, passando dalla paura alla speranza, e dalle restrizioni alle potenzialità economiche. Questa politica è sul punto di emergere proprio ora che le industrie europee iniziano a porre le basi per una Terza Rivoluzione Industriale post-carbone. La necessità di una nuova visione economica diviene ancora più urgente alla luce del rapporto appena stilato, insieme con altri otto illustri scienziati, dal grande climatologo statunitense James Hansen, Capo del NASA Goddard Institute for Space Studies (Istituto Goddard di studi spaziali della NASA). Hansen afferma che il target di emissioni di anidride carbonica dell’UE, il più rigoroso di qualsiasi governo, dovrà essere portato a 350 ppm se “l’umanità vorrà conservare un pianeta simile a quello in cui si sviluppò la civiltà” e al quale si è adattata la vita terrestre. Secondo Hansen “abbiamo capito che l’obiettivo cui tutti stiamo mirando è un disastro, un disastro assicurato”. Secondo le nuove scoperte, ottenute dai carotaggi estratti dal fondo oceanico, se i livelli di anidride carbonica dovessero crescere fino a 550 ppm, la temperatura del pianeta si alzerebbe di 6°C; stime precedenti parlavano di un incremento della temperatura di 3° C entro la fine del secolo, con risultati catastrofici per la vita sulla terra1. E’ quindi vitale, per l’Europa e il mondo, delineare una forte “visione sociale” che accompagni la nuova teoria economica. La Terza Rivoluzione Industriale può garantire la struttura per la nascita di una “Nuova Europa Sociale” nella prima metà del 21° secolo. Come la rivoluzione dell’IT (information technology) e la comunicazione attraverso Internet hanno profondamente mutato sia il contesto sociale sia i parametri economici del business, l’estensione della rivoluzione all’energia rinnovabile potrebbe avere lo stesso impatto sull’Europa e sul mondo.
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schema di Bjarke Ingels Group - Ecolomy Pattern
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Verso una società post carbonio e la Terza Rivoluzione Industriale Mentre il petrolio, il carbone e il gas naturale continueranno a garantire una sostanziale porzione dell’energia del mondo e dell’Unione Europea per buona parte del 21° secolo, vi è un crescente consenso sul fatto che sta per iniziare un periodo crepuscolare, dove i costi complessivi dovuti alla nostra dipendenza dai combustibili fossili agiscono come un freno sull’economia mondiale. In quest’era di declino, i 27 Stati membri dell’Unione Europea compiono ogni sforzo possibile per assicurare che la riserva residua di combustibili fossili sia usata in modo più efficiente e sperimentano tecnologie con energia pulita per limitare le emissioni di anidride carbonica dei combustibili convenzionali. Questi sforzi sono in linea con il mandato dell’Unione Europea secondo il quale gli Stati membri dovranno, entro il 2020, incrementare l’efficienza energetica del 20% e ridurre del 20% le emissioni che riscaldano il pianeta (basandosi sui livelli del 1990). Una migliore efficienza nell’uso dei combustibili fossili e la forzata riduzione dei gas che provocano il riscaldamento globale, non sono tuttavia sufficienti per affrontare in maniera adeguata la crisi senza precedenti del riscaldamento globale e del picco di produzione di petrolio e gas. Guardando al futuro, ogni governo avrà bisogno di esplorare nuovi percorsi energetici e stabilire nuovi modelli economici, con il fine di avvicinarsi il più possibile all’obiettivo dell’azzeramento delle emissioni di anidride carbonica. Le grandi rivoluzioni economiche nella storia. Convergenza dei nuovi sistemi di energia e di comunicazione I cambiamenti economici più cruciali nella storia mondiale sono avvenuti quando nuovi sistemi energetici si sono intrecciati con nuovi sistemi di comunicazione. In immagine di Cloud9_Enric Ruiz-Geli - Prestige Forest (2008)
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occasioni di simili convergenze la società subisce una ristrutturazione a 360 gradi. Furono le prime società agricole che disponevano di sistemi idraulici, come la Mesopotamia, l’Egitto, la Cina e l’India, a inventare la scrittura, che usarono per gestire la coltivazione, l’immagazzinamento e la distribuzione del grano. Le maggiori scorte di grano consentirono l’espansione della popolazione e il nutrimento di una forza lavoro in schiavitù che, in cambio di tale sostentamento, garantiva la propria opera per svolgere attività di carattere economico. La convergenza di comunicazione scritta e scorte di energia, sotto forma di sovrapproduzione di grano, diedero inizio alla rivoluzione agricola, aprendo le porte alla civiltà stessa. All’inizio dell’era moderna, l’avvento simultaneo della tecnologia della macchina a vapore e della stampa diedero vita alla prima rivoluzione industriale. Sarebbe stato impossibile organizzare l’incremento enorme del passo, della velocità, del flusso e della connettività dell’economia, reso possibile dal motore a vapore, servendosi dei codici precedenti e della comunicazione orale. Verso la fine del diciannovesimo secolo e nel corso dei primi due terzi del ventesimo secolo, la prima generazione di mezzi di comunicazione elettrica, che comprendeva telegrafo, telefono, radio, televisione, macchina da scrivere elettrica, i primi calcolatori, corrispose all’introduzione del petrolio e del motore a combustione interna, dando vita a meccanismi di controllo e di comando della comunicazione, che organizzarono e diffusero la seconda rivoluzione industriale. Oggi, gli stessi principi di progettazione e le tecnologie intelligenti che hanno reso possibile Internet e le enormi reti “distribuite” di comunicazione globale, vengono usate per riconfigurare le strutture mondiali del potere, così che i popoli possano produrre energia rinnovabile e condividerla “da pari a pari”, esattamente come oggi, questi popoli producono e condividono informazioni,
creando una nuova, decentralizzata forma di utilizzo dell’energia. È necessario immaginare un futuro in cui milioni di individui possano produrre e ottenere energia rinnovabile generata localmente nelle case, uffici, aziende e veicoli e stoccare tale energia sotto forma di idrogeno, per condividere questa potenza tramite una griglia intelligente che attraversi tutta Europa. (L’idrogeno è un mezzo di conservazione universale per energie rinnovabili intermittenti, così come il digitale è un meccanismo di conservazione universale per testi, audio, video, dati e altre forme di media). Viene spesso posta la domanda se l’energia rinnovabile, nel lungo periodo, possa fornire abbastanza potenza per sostenere l’economia nazionale e globale. Come la rete di tecnologie dei sistemi d’informazione di seconda generazione consente alle imprese di connettere migliaia di computer, creando una potenza di calcolo molto maggiore di quella che esiste anche nei più potenti computer centralizzati, milioni di produttori locali di energia rinnovabile con accesso a reti di servizi intelligenti possono produrre e condividere molta più potenza rispetto a quella distribuita dalle più datate forme centralizzate di energia, come petrolio, carbone, gas naturale e nucleare, alle quali ricorriamo normalmente. I quattro fondamenti della Terza Rivoluzione Industriale La creazione di un regime di energia rinnovabile, prodotta dagli edifici, stoccata parzialmente sotto forma di idrogeno, e distribuita attraverso reti intelligenti, apre la porta ad una Terza Rivoluzione Industriale e dovrebbe avere un effetto economico moltiplicatore nel corso del 21° secolo, potente quanto, se non superiore, alla convergenza di tecnologia della stampa e motore a vapore del 19° secolo, o allo sviluppo congiunto di comunicazione elettrica, petrolio e motore a combustione interna del 20° secolo.
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Primo fondamento: l’energia rinnovabile Forme di energia rinnovabile, solare, eolica, idrica, geotermica, oceanica e delle biomasse, rappresentano il primo dei quattro pilastri della Terza Rivoluzione Industriale. Seppure queste energie emergenti rappresentino oggi solo una piccola percentuale nel totale dell’energia prodotta, sono destinate comunque a crescere rapidamente poiché i governi impongono target e benchmark per la loro introduzione generalizzata nel mercato e poiché l’abbassamento dei costi le rende sempre più competitive. Miliardi di euro, pubblici e privati, vengono oggi investiti in ricerca e sviluppo con l’obiettivo di ridurre le emissioni di anidride carbonica, di aumentare l’efficienza e l’indipendenza energetica. L’investimento globale in energie rinnovabili ha raggiunto nel 2007 i 148 miliardi di dollari, pari ad un 60% in più rispetto al 20062. Gli investimenti globali nelle energie rinnovabili sono destinati a balzare entro il 2020 a 250 miliardi di dollari e a 460 miliardi di dollari verso il 20303. Oggi la produzione, l’operatività e la manutenzione di energia rinnovabile forniscono lavoro su scala mondiale a circa 2 milioni di persone4. Un studio recente ha dimostrato che il numero di posti di lavoro per euro investiti (e per chilowatt ore prodotti) creato dalle tecnologie con energia rinnovabile è superiore da 3 a 5 volte al numero di posti di lavoro creati dalla generazione dei combustibili fossili5. Diventando la prima superpotenza a stabilire l’obiettivo obbligatorio del 20% di energia rinnovabile entro il 20206, l’Unione Europea ha avviato il processo di un ampio incremento della porzione di energia rinnovabile rispetto al totale di tutta l’energia prodotta. Riflettendo il nuovo impegno verso target di energia rinnovabile più elevati, la Banca Europea per gli Investimenti ha aumentato il volume dei prestiti totali annuali concessi di oltre 800 milioni di euro 7. Nella sola Germania l’industria dell’energia rinnovabile ha vantato un giro d’affari di 21,6 miliardi di euro
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e 214.000 posti di lavoro nel 2006 e il settore dovrebbe pervenire a circa 244.000 - 263.000 posti di lavoro entro il 2010, tra i 307.000 ed i 354.000 entro il 2020, tra i 333.000 ed i 415.000 entro il 20308. Anche gli altri 26 Stati membri dell’Unione Europea stanno creando nuovi posti di lavoro nel momento in cui spostano risorse per produrre energia da fonti rinnovabili, allo scopo di raggiungere gli obiettivi di emissioni di carbonio vicini allo zero. Nell’Unione Europea l’energia rinnovabile ha realizzato, nel 2005, 8,9 miliardi di euro di profitti e si stima che essi saliranno, entro il 2010, fino a 14,5 miliardi9. Più di 700.000 posti di lavoro saranno creati nell’Unione Europea entro il 2010 nel campo dell’energia elettrica prodotta da fonti rinnovabili 10. Entro il 2050, si stima che le fonti rinnovabili rappresenteranno circa la metà dell’energia complessiva, e da esse si produrrà il 70% dell’energia elettrica dell’Unione Europea, con un aumento conseguente di parecchi milioni di nuovi posti di lavoro11. Secondo fondamento: edifici come centrali elettriche Seppure l’energia rinnovabile è reperibile ovunque e le nuove tecnologie ci consentono di sfruttarla in maniera più economica ed efficiente, ci occorrono infrastrutture per stoccarla. È qui che deve farsi avanti il settore edile, per posare quello che possiamo chiamare il secondo pilastro della Terza Rivoluzione Industriale. L’industria edile è l’industria che impiega il più alto numero di lavoratori dell’UE e nel 2003 rappresentava il 10% del PIL12. Gli edifici sono i maggiori contributori del riscaldamento globale causato dall’uomo. Su scala mondiale, gli edifici consumano dal 30 al 40% dell’energia totale prodotta e sono responsabili, nelle stesse percentuali, dell’emissione totale di CO2 13. Ora, lo sviluppo di nuove tecnologie rende possibile, per
la prima volta, progettare e costruire edifici che possano generare autonomamente energia dalle fonti rinnovabili disponibili localmente, permettendoci di ripensare le future costruzioni come vere e proprie centrali elettriche. Per il settore immobiliare, in Europa e nel mondo, questa nuova concezione ha implicazioni commerciali vaste e inesplorate. Tra 25 anni milioni di edifici, di abitazioni, uffici, aree commerciali, zone industriali e tecnologiche, saranno costruiti con la doppia funzione di centrali energetiche e di habitat. Queste costruzioni genereranno e accumuleranno l’energia a livello locale dal sole, dal vento, dai rifiuti e dagli scarti dell’agricoltura e dei boschi, dagli oceani e dalle maree, dalle risorse idro e geotermali, energia sufficiente per il proprio fabbisogno con un surplus da condividere: già oggi sta nascendo una nuova generazione di edifici commerciali e residenziali come vere e proprie centrali energetiche. Negli Stati Uniti, Frito Lay sta riconvertendo il suo stabilimento Casa Grande, ricorrendo principalmente all’energia rinnovabile e al riciclo dell’acqua. Il concetto è chiamato “net – zero”. Lo stabilimento genera autonomamente tutta la sua energia dai pannelli solari e dal riciclo degli scarti produttivi. In Francia, Bouygues, il colosso francese nel campo edile, è un passo avanti, avendo realizzato un complesso di edifici all’avanguardia nella periferia parigina, che produce energia solare sufficiente a garantire non solo il proprio fabbisogno energetico, ma addirittura un surplus. Il Walqa Technology Park a Huesca in Spagna si trova in una valle dei Pirenei ed è fra i centri di nuova generazione a livello tecnologico perchè produce localmente l’energia rinnovabile necessaria al proprio funzionamento. Al Walqa Park ci sono circa 12 edifici in funzione e 40 in fase di realizzazione. Il complesso si basa interamente su forme rinnovabili di energia, incluse quelle eolica, idrica
e solare. Il complesso ospita società leader nel settore dell’alta tecnologia, come la Microsoft e altre compagnie IT, aziende impegnate sull’energia rinnovabile, ecc. Il terzo fondamento: stoccaggio dell’idrogeno L’introduzione dei primi due pilastri della Terza Rivoluzione Industriale, energia rinnovabile e “edifici come centrali elettriche” richiedono la simultanea introduzione del terzo pilastro della Terza Rivoluzione Industriale. Per massimizzare la produzione di energia rinnovabile e minimizzare i costi è necessario sviluppare metodi di stoccaggio affidabili, che permettano approvvigionamenti intermittenti di queste risorse energetiche. Batterie, pompe idrauliche differenziate e altri strumenti possono consentire una capacità di immagazzinamento limitata. Esiste, tuttavia, una modalità di stoccaggio media che è ampiamente disponibile e può essere relativamente efficiente. L’idrogeno è un mezzo universale che “immagazzina” tutte le forme di energia rinnovabile e può assicurare un rifornimento stabile e sicuro, sia per l’energia elettrica che per l’energia finalizzata alla trazione. L’idrogeno è il più leggero e il più abbondante elemento nell’universo e, se usato come risorsa energetica, ha come unici suoi sottoprodotti acqua e calore. Le navicelle spaziali erano alimentate, già più di 30 anni fa, da cellule di idrogeno ad alta tecnologia. Ecco come funziona l’idrogeno. L’energia rinnovabile, solare, eolica, idrica e geotermale, viene trasformata in elettricità. Questa elettricità, in cambio, può essere usata in un processo chiamato elettrolisi, per dividere l’acqua in idrogeno e ossigeno. L’idrogeno può anche essere estratto direttamente dalle energy crop, dai rifiuti organici di animali e foreste, dalla biomassa, senza passare dal processo di elettrolisi. L’aspetto importante da sottolineare è che una società basata sull’energia rinnovabile è possibile se parte di
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quell’energia può essere immagazzinata sotto forma di idrogeno. Il problema infatti è che la disponibilità di energia rinnovabile è discontinua. Il sole non è sempre disponibile, il vento non soffia sempre, l’acqua non scorre dopo una siccità e le rese agricole variano nel tempo. Quando mancano queste risorse rinnovabili non si produce elettricità e dunque l’attività economica rischia di fermarsi. Ma se parte dell’elettricità generata, quando l’energia rinnovabile è abbondante, può essere usata per estrarre idrogeno dall’acqua, che può essere immagazzinato per usi successivi, la società può avere un rifornimento di energia continuo. L’idrogeno inoltre può essere estratto anche dalle bio masse e da prodotti simili. La Commissione Europea riconosce che la crescente fiducia in forme rinnovabili di energia sarebbe fortemente incentivata dallo sviluppo di tecnologie per lo stoccaggio dell’idrogeno e, nel 2003, ha fondato la “Hydrogen Technology Platform”, un’importante ricerca e un ingente sforzo per condurre l’Europa all’avanguardia nella corsa verso un futuro basato sull’uso dell’idrogeno14. I governi europei hanno già avviato ricerche e sviluppato programmi e sono nelle prime fasi per introdurre sul mercato tecnologie basate sull’idrogeno. Nel 2006, la Repubblica Federale Tedesca ha impegnato 500 milioni di euro in ricerca e sviluppo sull’idrogeno e ha dato vita a una “road map”, con l’obiettivo dichiarato di condurre l’Europa e il mondo verso l’era dell’idrogeno entro il 202015. Nel 2007 il Cancelliere Angela Merkel e i membri del suo Governo hanno parlato della Terza Rivoluzione Industriale in occasione di conferenze pubbliche16. Nell’ottobre del 2007, la Commissione Europea ha annunciato un’ambiziosa collaborazione pubblico-privata, presentata nel 2008 come la JTI o Joint Technology Iniziative, con il fine di accelerare l’introduzione “dell’economia all’idrogeno” nei 27 Stati membri dell’Unione Europea, e
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con l’obiettivo principale di produrre idrogeno da fonti rinnovabili. Il quarto fondamento: reti veloci e veicoli ricaricabili Prendendo come punto di riferimento il cambiamento verso l’energia rinnovabile, introducendo il concetto di “edificio-centrale elettrica” e puntando su un programma che preveda l’utilizzo dell’idrogeno, l’Unione Europea ha eretto i tre pilastri della Terza Rivoluzione Industriale. Il quarto pilastro, la riconfigurazione della rete europea di distribuzione dell’energia, lungo le linee di internet, che consente all’industria e ai privati di produrre la propria energia e condividerla con altri, è in fase di verifica da parte delle aziende europee. Una rete intelligente è costituita da tre componenti decisive. Le mini reti consentono ai proprietari di abitazioni, alle piccole e medie imprese e alle imprese su larga scala economica, di produrre localmente energia rinnovabile attraverso l’energia solare, eolica, idrica, gli scarti animali e agricoli, i rifiuti organici ecc., e di utilizzarla per le loro necessità elettriche. Piccoli contatori tecnologici consentono ai produttori locali di vendere in maniera più efficace la propria energia alle grandi reti di distribuzione così come di accettare elettricità dalla rete, realizzando un flusso bidirezionale. La fase successiva, nella tecnologia delle reti intelligenti, prevede l’installazione di dispositivi captatori e chip lungo la rete, a cui collegare gli apparecchi elettrici. I software consentiranno all’intera rete di conoscere quanta energia è stata usata, in qualsiasi momento e in qualsiasi luogo. Questa interconnettività può essere utilizzata per ridirigere gli usi e i flussi di energia durante i picchi e le pause, e perfino di modificare i prezzi dell’elettricità nei vari momenti. In futuro, reti intelligenti di utenze saranno sempre più connesse per rilevare i cambiamenti meteorologici,
registrando le modificazioni del vento, le fasi solari, la temperatura dell’ambiente, e fornendo alla rete la possibilità di adattare continuamente il flusso di energia, indipendentemente dalle condizioni del tempo, secondo la domanda dei consumatori. Per esempio se la rete sta sopportando un picco di energia, con un possibile sovraccarico a causa della troppa domanda, il software può comandare alla lavatrice presente in una casa di ridurre il ciclo, oppure di ridurre l’aria condizionata di un grado. I consumatori che accettano di effettuare adattamenti nel loro consumo di elettricità potrebbero ricevere agevolazioni economiche nelle loro bollette. Quando il prezzo reale dell’elettricità in rete varia nelle 24 ore, l’informazione continua, sul consumo energetico, apre la porta al “prezzo dinamico”, consentendo ai consumatori di aumentare o diminuire automaticamente l’uso di energia, in relazione al prezzo dell’elettricità in rete. Questa dinamica dei prezzi consente anche ai mini produttori di energia di vendere automaticamente o meno energia alla rete. Questa rete dinamica non soltanto darà ai consumatori finali più scelte nell’offerta di energia, ma porterà ad una maggiore efficienza nel sistema di distribuzione dell’energia stessa. La “intergrid”, o rete globale, rende possibile un’ampia ridistribuzione di energia. Oggi il sistema centralizzato, con i suoi flussi irregolari, diventa quindi sempre più obsoleto. Nella nuova era, l’industria, i Comuni e i proprietari di case diventano sia produttori sia consumatori della propria energia, creando la cosiddetta “generazione distribuita”. Perfino i veicoli elettrici o ad idrogeno sono “stazioni di energia su ruote”, con una capacità generatrice di 20 o più chilowattora. Poiché l’automobile media, gli autobus o i camion restano parcheggiati per molto tempo della loro vita, possono essere ricaricati nel periodo in cui non vengono usati, tramite la rete elettrica di casa, o dell’ufficio, fornendo in cambio - nei momenti di necessità - energia
alla rete. I veicoli elettrici diventano, così, un modo per immagazzinare quantità notevole di energia rinnovabile che può essere restituita sotto forma di elettricità alla rete principale di distribuzione. Nel 2008, Daimler e RWE, la seconda compagnia energetica tedesca, ha lanciato un progetto a Berlino per installare punti di ricarica per le automobili elettriche Smart e Mercedes nell’area attorno alla capitale tedesca. La Renault – Nyssan è pronta per un progetto simile, per offrire una rete di centinaia di migliaia di punti di ricarica in Israele, Danimarca e Portogallo. Le stazioni di distribuzione e ricarica di energia elettrica serviranno per le auto elettriche marcate Renault e Mégane. La Toyota si è alleata con la EDF, la più grande società energetica francese, per costruire punti di ricarica in Francia e in altri Paesi. Entro il 2030 punti di ricarica per i veicoli elettrici e per quelli ad idrogeno saranno virtualmente installati ovunque, lungo le strade, nelle case, negli edifici commerciali, nelle industrie, nei garage e nei parcheggi, garantendo una infrastruttura continua per inviare elettricità da e verso la rete elettrica principale. Se solo il 25% degli automobilisti usasse questi veicoli come veri e propri accumulatori energetici, vendendo energia alla rete, si potrebbero eliminare tutte le centrali elettriche degli Stati Uniti e d’Europa. IBM e altre società tecnologiche mondiali stanno ora entrando sul mercato energetico, collaborando con le società che forniscono servizi pubblici per trasformare la rete di distribuzione elettrica in infrastrutture interconnesse, in modo tale che i proprietari di case ed edifici possano produrre la propria energia e condividerla con altri. Centerpoint Utility a Houston in Texas, Xcel Utility a Boulder in Colorado, Sempra e Southern ConEdison in California, stanno attualmente costruendo parti della “Smart Grid”, connettendo migliaia di abitazioni ed edifici commerciali.
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Il nuovo piano energetico dell’Unione Europea sta preparando la strada per questa infrastruttura, con la richiesta che essa sia completamente separata, o sempre più autonoma dalle società fornitrici di energia, in modo tale che i nuovi interlocutori, specialmente le imprese medio - piccole e i proprietari di case, abbiano l’opportunità di produrre e rivendere energia alla rete con la stessa facilità e trasparenza con la quale producono e condividono informazioni su Internet. La Commissione Europea ha inoltre stabilito una “European Smart Grid Technology Paltform” e ha predisposto una “vision” a lungo termine in un documento strategico del 2006, per riconfigurare la rete energetica europea, in modo tale da diventare intelligente, diffusa e interattiva17. Infine, la principale domanda che ogni nazione deve farsi è dunque capire dove vuole che si trovi il proprio Paese tra 25 anni: al tramonto delle energie e delle industrie della Seconda Rivoluzione Industriale o all’alba delle energie e delle industrie della Terza Rivoluzione Industriale. La Terza Rivoluzione Industriale è la strada che conduce il mondo fuori dall’era basata sulle energie fossili e sull’uranio, verso un’era pulita e un futuro sostenibile per la razza umana.
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[4] Storie di housing sociale Prodotto dalla Provincia di Bologna “Storie di Housing Sociale; Viaggio in Europa” è un documentario (allegato a questo volume) che esplora pratiche e sperimentazioni nella produzione di alloggi sociali; un racconto di esperienze esemplari italiane ed europee attraverso la voce dei protagonisti: cittadini, pubbliche amministrazioni, società private, terzo settore ecc., che nella quasi totalità dei casi lavorano per riqualificare aree dismesse della città; costruiscono sul costruito. Un confronto tra politiche abitative, storie di vita e progetti alternativi di case, nella consapevolezza che costruire e ricostruire, oggi, non sia una semplice questione di metri quadrati e di mattoni. Un filo rosso collega le esperienze: per produrre abitazioni bisogna lavorare con gli abitanti; è necessario operare sulla comunità con la comunità, in una vera forma di partecipazione. Abitare è un termine ampio, che travalica le mura domestiche, e che deve comprendere lo spazio pubblico e collettivo, la qualità urbana complessiva, la piacevolezza dei servizi. I casi di Gårdsten a Göteborg e dell’Eldonian Village a Liverpool - raccontati nelle pagine che seguono da due protagonisti - rappresentano bene questa filosofia.
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foto di Alfredo Farina - quartiere Bon Pastor, Barcellona (Spagna) 2008
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Storie di housing sociale, viaggio in Europa Esperienze dell’abitare solidale e sostenibile Giovanni Franceschelli foto di Alfredo Farina
Dal co-housing all’autocostruzione, dal villaggio solidale alla riqualificazione di quartieri degradati: “Storie di Housing Sociale. Viaggio in Europa”, rappresenta l’esito di una ricerca condotta in alcune città italiane ed europee alla scoperta di forme e sistemi abitativi “sociali”. Oltre il tema dell’emergenza “casa” e le conseguenti, spesso improvvisate, risposte attuative, la ricerca ha indagato i meccanismi economici, politici e sociali alla base di alcuni esempi di edilizia sociale particolarmente virtuosi presenti nelle più interessanti realtà europee. Il “viaggio” nel mondo dell’housing sociale si è tradotto in un documentario, scritto e diretto dal regista Marco Santarelli, che porta alla luce le risposte più innovative alle necessità abitative della popolazione europea, confrontandole “in presa diretta”, ovvero sia attraverso interviste ai protagonisti delle scelte di trasformazione urbana (attori politici e del mondo economico), che facendo narrare agli stessi abitanti la storia e l’evoluzione dei loro quartieri e delle loro nuove abitazioni. Il documentario, prodotto dalla Provincia di Bologna, esplora le pratiche e le sperimentazioni più interessanti: dal condominio abitato da sole donne a Berlino, alla comunità operaia di Liverpool che contribuisce attivamente a trasformare il luogo del lavoro in un quartiere dalla forte coesione sociale, gli esempi di costruzione dell’alloggio sociale incontrati lungo il viaggio in Europa non sembrano essere una semplice questione di metri quadrati e di mattoni. La quasi totalità dei progetti di housing sociale, in Italia come in Europa, sembra intimamente legata ad alcuni fattori principali: • riqualificazione urbana: i quartieri interessati da progetti di alloggi sociali sono interessati da progetti più ampi che coinvolgono il disegno di nuovi spazi pubblici, nuove infrastrutture per la mobilità, nuovi servizi pubblici. Attraverso i progetti di housing sociale si assiste ad un processo di rigenerazione urbana che spesso diviene contagiosa anche per i quartieri limitrofi, traducendosi in fenomeno di ricomposizione sociale ed economica di intere porzioni di città; • sperimentazione progettuale: i quartieri che ospitano progetti di housing sociale spesso facilitano la sperimentazione di nuove forme abitative, creano nuove condizioni per la condivisione di spazi comuni, divengono occasione per la diffusione di pratiche di co-housing, quasi sempre tradotte in soluzioni progettuali degli spazi interni ed esterni innovative ed in grado di favorire le relazioni sociali tra gli abitanti; • risparmio energetico: la sperimentazione progettuale di nuove forme
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architettoniche ha favorito l’applicazione di scelte tecnologiche e compositive volte al risparmio energetico ed al contenimento delle emissioni di CO2. Sono state introdotte tecniche per il raffrescamento ed il riscaldamento naturale attraverso la geotermia, come per la produzione di acqua calda sanitaria attraverso pannelli solari e per la produzione di energia attraverso pannelli fotovoltaici. Tali scelte si sono tradotte in scelte compositive innovative che rendono gli edifici di housing sociale più “contemporanei” ed efficienti di quelli, spesso più costosi, del libero mercato. Dall’espansione edilizia legata al boom economico degli anni ’50 ad oggi, in Italia la casa rimane ancora un sogno da realizzare: nel corso degli ultimi anni, di fronte a prezzi di mercato spesso inaccessibili e ad un’offerta pubblica di alloggi in grado di coprire solo lo 0,06% delle richieste, alcuni singoli proprietari, riuniti in cooperative o attraverso agenzie semipubbliche o aziende private, hanno promosso un insieme di progetti creati all’insegna della partecipazione e tradotti in spazi abitativi condivisi ed economicamente accessibili. Spesso, soprattutto in Italia, quando le scelte della politica sembrano troppo lente o inadeguate, l’iniziativa passa direttamente ai cittadini, producendo episodi particolarmente virtuosi, ma pur sempre episodi, appunto. Mentre in alcune realtà europee le politiche abitative pubbliche sembrano garantire maggiore continuità agli investimenti per la realizzazione di alloggi sociali, rappresentando un esempio di buone pratiche da studiare attentamente. Il documentario parte dall’esperienza di un gruppo di giovani famiglie della periferia di Cesena, le quali nel 2001 hanno costituito una cooperativa associata per inseguire un sogno: costruirsi da sole la propria casa. L’autocostruzione si fonda infatti sul lavoro manuale
casa delle beghine - Berlino (Germania) 2008
quartiere Bon Pastor - Barcellona (Spagna) 2008
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quartiere Bon Pastor - Barcellona (Spagna) 2008
casa delle beghine - Berlino (Germania) 2008
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degli stessi futuri proprietari, che sotto la direzione di esperti e con l’appoggio delle amministrazioni locali, possono abbattere i costi di costruzione fino al 70%. Il viaggio passa quindi per la periferia sud di Milano, dove, sotto la spinta di un’associazione e di un prete intraprendente, la Fondazione Cassoni ha recuperato un’area industriale di 44 mila metri quadri, trasformandola nel Villaggio Barona. Qui si sperimenta una politica abitativa innovativa, basata su un’idea di integrazione sociale e capace di offrire alloggi ad affitti calmierati (300-400 euro al mese per una casa di 70-80 metri quadri) a famiglie italiane e straniere di diversa estrazione. Una risposta all’esigenze di universitari e giovani lavoratori arriva invece da Torino, dove la Compagnia di San Paolo, una cooperativa sociale e un’associazione di architetti e ingegneri hanno dato vita a StessoPiano, uno sportello immobiliare gratuito che ricerca case in affitto per giovani coabitanti, offrendo vantaggi e incentivi ai proprietari di casa. Sempre a Torino, la demolizione di alcuni palazzi fatiscenti costruiti negli anni ’60 e ‘70 in via Artom, zona Mirafiori sud, per ospitare le famiglie dei lavoratori emigrate dal sud Italia, è stata l’occasione per costruire un complesso ad uso residenziale e commerciale. Gli alloggi (in affitto o in vendita) sono stati destinati per lo più a coppie sotto i 40 anni, in modo da abbassare l’età media dei residenti in una zona abitata, ormai, soprattutto da anziani. Protagonisti del progetto sono stati l’amministrazione pubblica, due cooperative e gli stessi residenti del quartiere: insieme hanno contribuito a rigenerare un quartiere periferico del quale, fino a qualche anno fa, si provava vergogna solo a pronunciarne il nome. Il viaggio alla scoperta dell’abitare sociale si sposta quindi in Europa. A Berlino dal 2007 esiste la “casa delle beghine”, un’esperienza di co-housing unica nel suo
genere, pensata esclusivamente per le donne. Grazie all’intervento di un costruttore illuminato (la società olandese Condor Wessels), 53 donne single tra i 40 e i 73 anni, provenienti da tutta la Germania, sono diventate proprietarie di altrettanti appartamenti da 55 a 105 metri quadri, comprandoli a prezzo di mercato. Se in Germania c’è chi pensa ai bisogni di sicurezza e di socialità delle donne autorganizzandosi, in Spagna a Barcellona il Patronat Municipal de l’Habitatge, struttura comunale fondata nel 1927 per realizzare, ed in seguito gestire, le residenze dei primi immigrati nella città catalana, è in grado di offrire circa 5.500 alloggi ad affitto moderato (fino al 40% in meno rispetto al prezzo di mercato) e rivolti alle famiglie meno abbienti, come ai lavoratori single e alle famiglie numerose. Il Patronat opera come un Ente autonomo, procede alla realizzazione diretta di nuovi alloggi, gestisce quelli esistenti, collabora con le strutture tecniche comunali per individuare e programmare gli interventi di demolizione/ricostruzione degli edifici più fatiscenti, contribuendo alla riqualificazione urbana di impor-
tanti aree della città, come nel caso del quartiere del Bon Pastor. Qui le “casas baratas”, letteralmente “case economiche”, grandi poco più di 35 mq e abitate anche da famiglie di 9 componenti, sono state sostituite da nuovi edifici a risparmio energetico, che integrano giardini e piazze di quartiere per ospitare nuovi abitanti, passando da circa 700 alloggi a quasi 1.000, tutti di proprietà pubblica e dunque, sia per l’affitto che per la vendita, offerti a prezzi calmierati. In un’epoca di crisi economica e ambientale, l’Europa si interroga dunque su come intervenire per migliorare e riqualificare il patrimonio abitativo esistente. Proprio dai progetti di recupero di zone degradate o abbandonate come il Bon Pastor, nascono un nuovo volto e una nuova vitalità per intere aree cittadine. Energie rinnovabili e coinvolgimento degli inquilini sono invece gli ingredienti chiave del progetto vincitore del premio World Habitat Award nel 2005: si tratta dell’intervento effettuato a Gårdsten, un quartiere alla periferia di Göteborg in Svezia. Gårdsten, costruito nel 1970 come parte di un vasto programma nazionale di villaggio Barona Milano (Italia) 2008
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social-housing del governo svedese, diventa presto un luogo poco attraente e semi abbandonato. La formazione di un’azienda municipalizzata porta a una serie di ristrutturazioni partite negli anni ‘90 e volte al recupero sociale e ambientale del luogo. L’ultimo grande intervento, effettuato grazie al sostegno della Comunità Europea, proietta l’area verso un futuro eco-sostenibile. I 225 appartamenti, suddivisi in 10 palazzi, sono stati riqualificati ponendo molta enfasi sul risparmio energetico e sul coinvolgimento degli inquilini, fin dalle prime fasi del lavoro. L’esperimento è riuscito, l’area è tornata di nuovo appetibile per nuovi residenti e privati, non ci sono più appartamenti sfitti e il maggior risparmio sui consumi di energia, circa il 40%, grazie agli interventi di eco-edilizia, ha consentito un abbattimento dei costi. Il modello “Gårdsten” è diventato, nel corso degli anni, punto di riferimento per altri interventi simili sul territorio comunale e nazionale. Nell’ultimo caso, presso il villaggio inglese di Eldonian, alla periferia di Liverpool, il documentario rivela gli esiti del movimento di riappropriazione degli spazi nato dai residenti del quartiere stesso, che ha portato alla trasformazione dei vecchi alloggi operai in un ambiente per la nuova comunità tanto che l’iniziativa è risultata vincitrice del World Habitat Award nel 2004. Nel cuore dell’Inghilterra operaia e laburista tale esito, realizzato attraverso la formazione di cooperative sociali di residenti, ha rappresentato e rappresenta tuttora un modello di social-housing, come dichiarato recentemente dal premier britannico Gordon Brown. La storia della comunità inizia nel 1978 con il tentativo di demolizione di diversi blocchi di appartamenti operai. Il forte legame tra gli individui porta alla formazione di un comitato di quartiere contro la demolizione e successivamente alla costituzione di due cooperative:
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la Portlands Gardens, fondata nel 1982, e la Eldonian Housing, costituita nel 1983. Inizia una vertenza con le autorità comunali che ha come risultato la costruzione di 130 case su cinque siti locali, la riconversione degli alloggi operai in 112 strutture residenziali e la costruzione di 145 nuove residenze, conosciute come Eldonian Village, nell’area dell’ex zuccherificio “Tate & Lyle” chiuso nel 1980. Quest’ ultimo intervento è stato sovvenzionato con 4.5 milioni di sterline, dando vita a una delle più grandi cooperative d’Europa, per quanto riguarda alloggi di nuova costruzione. Oggi, vivere all’Eldonian Village, tra parchi pubblici e canali navigabili recuperati, è divenuta un’ambizione per molti abitanti di Liverpool: il luogo più negletto si è trasformato in spazio del desiderio, dove “un’altra città è possibile”.
Storie di housing sociale, viaggio in Europa Un documentario prodotto dalla Provincia di Bologna Da una idea di Alessandro Delpiano e Marco Guerzoni Scritto da Marco Santarelli Diretto da Marco Santarelli e Gianluca Torelli Fotografia di Alfredo Farina Riprese Super8 e Montaggio di Marco Santarelli Voce fuori campo Ennio Libralesso Grafica Marco Maciariello Musiche originali Cobol Pongide Supervisione editoriale Alessandro Delpiano, Giovanni Franceschelli, Alice Giovanninetti, Marco Guerzoni
foto di Alfredo Farina - GĂĽrdsten, GĂśteborg (Svezia) 2008
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La casa solare a Göteborg Christer Nordström
L’area di Gårdsten si trova a 10 chilometri a nord della città di Göteborg, è stata realizzata nel 1970 come risultato della decisione politica del Governo svedese di produrre un milione di appartamenti nell’arco di 10 anni. L’area è divisa in due parti – Gårdsten Orientale e Occidentale – ognuna comprensiva di circa 2.200 alloggi. Le due parti sono state progettate da architetti diversi e questo ha comportato differenti risultati nel layout; la parte ovest (che comprende il progetto di recupero) è composta da 11 blocchi e cortili collegati, mentre la parte est si caratterizza per file parallele di grandi edifici. Dal completamento dell’area e fino al 1996, la storia di Gårdsten è stata caratterizzata da un continuo incremento di problemi dovuti alla disoccupazione, all’alienazione, all’insicurezza e alla cattiva manutenzione degli edifici. A metà degli anni ’90 il 30% degli appartamenti era vuoto con una conseguente perdita economica da parte dei proprietari. Durante i primi 25 anni le due parti di questa area appartenevano alle due principali società di edilizia pubblica di Göteborg. A causa dei crescenti problemi, la municipalità decise, nel 1996, di fondare una nuova società di edilizia pubblica per Gårdsten per il recupero dei tre blocchi nell’area ovest e per disegnare un progetto con alti standard qualitativi sotto il profilo sociale, della sostenibilità, del risparmio energetico ed economico. La nuova società, “Gårdstensbostäder” divenne proprietaria di tutta l’area e al suo nuovo direttore, Stina Fransson, fu dato l’obiettivo di cambiare l’andamento negativo e di far divenire Gårdsten un’ area attraente che offrisse un’alta qualità della vita per i suoi abitanti, garantendo integrazione innovativa tra progetto e utilizzo di fonti di energia rinnovabile, oltre alla possibilità di offrire un edilizia pubblica di alta qualità a costi contenuti. Importante riferimento per il recupero fu il progetto di rinnovamento bioclimatico “Järnbrott” disegnato all’inizio degli anni ’80, nel quale un edificio che ospitava molte famiglie fu convertito in una “casa a riscaldamento solare”, ovvero in un edificio integrato con un sistema di “solar air” e una vasta serra per gli abitanti. Il progetto “Solar Housing Renovation” comprende 3 degli 11 blocchi di case e cortili dell’area occidentale di Gårdsten, ed include 255 appartamenti in 10 costruzioni. Le costruzioni si trovano attorno a 3 cortili identici, divisi da edifici di 6 piani (più il piano terra) e circondati da edifici di tre piani. Ogni cortile è stato concepito come “un’unità sociale e tecnica” per l’80 – 90% delle fami-
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glie che risiedono negli edifici costruiti attorno all’area cortiliva; tra gli appartamenti e lo spazio pubblico sono stati creati specifici spazi che appartenessero agli abitanti di ogni cortile per favorire socializzazione e collaborazione fra gli abitanti stessi. Le funzioni comuni sono state concentrate in diverse unità (serra comune, lavanderia, sale per le attività comuni, compostaggio, gioco, riscaldamento solare, gestione Gårdstensbostäder - casa del proprietario - destinata alla direzione/gestione di ogni area cortiliva). Insieme ad altri 5 progetti di recupero, il progetto di Gårdsten ha partecipato ad una seduta della Commissione Europea nel 1996 per diventare un progetto pilota nel campo dell’innovazione energetica e delle energie rinnovabili. Il gruppo di lavoro, chiamato SHINE fu selezionato per i finanziamenti del programma Termie. Dal 1996 Gårdsten sta vivendo un processo di rinnovamento sociale e fisico. La storia del progetto Prima del recupero l’area soffriva di significativi problemi sociali dovuti al fatto che più del 60% degli abitanti era disoccupato con conseguenti situazioni di povertà, mancanza di autostima e incremento della criminalità nell’area. Un’ampia rappresentanza di diverse lingue e culture, e la scarsa presenza di abitanti svedesi, portò ad una separazione tra gli abitanti in diversi gruppi con difficoltà di integrazione sociale. Vi era una totale mancanza di luoghi condivisi per incontrare e conoscere gli altri condomini al di fuori degli appartamenti e nel momento stesso in cui si usciva di casa ci si trovava nella “terra di nessuno”; le poche aree comuni come la lavanderia erano spaventose, buie, nei seminterrati e in condizioni misere. Il materiale presente ovunque, grezzo, brutto, grigio che copriva le superfici degli edifici creava una sensazione di disperazione, inol-
tre un’inefficiente rete di trasporto e la mancanza di servizi sociali e negozi causava isolamento e problemi quotidiani tra gli abitanti. A partire dalle risorse presenti nell’area di progetto, ovvero dagli abitanti, dalla singolare qualità architettonica degli edifici che poteva essere recuperata, dalla ridotta dimensione dell’area, è stato possibile creare e radicare il concetto di comunità e spazio condiviso, punto di partenza per una “Progettazione integrata”, attraverso la quale gli abitanti e tutti gli esperti sono stati coinvolti fin dalla prima fase del progetto. Questa modalità di lavoro ha consentito di affrontare da subito i diversi aspetti problematici presenti nell’area producendo soluzioni ottimali ed efficienti. Nella fase iniziale del progetto è stato destinato alla comunicazione un appartamento vuoto, per informare gli abitanti sulle idee di base ed è stato chiesto loro di scrivere i propri desideri sul muro della stanza destinata alla comunicazione; i desideri sono stati poi analizzati e rappresentati da parte della società edile pubblica. Nella fase successiva, la compagnia edile ha organizzato gli abitanti in gruppi che hanno lavorato con compiti specifici, in particolare sui problemi di sicurezza, la lavanderia, la pianificazione degli ambienti esterni. I progettisti hanno collaborato con gli abitanti durante tutta la fase progettuale in particolare nella pianificazione delle aree comuni, delle lavanderie e degli spazi condivisi. Successivamente al completamento del progetto, la società edile ha coinvolto gli abitanti nel mantenimento e nella gestione dell’area. Il progetto, dal costo complessivo di 11,7 milioni di euro (di cui 2,2 milioni di euro per l’installazione di impianti ad energia rinnovabile), ha visto la partecipazione di diversi investitori tra cui gli stessi proprietari (per un totale di 11 milioni di euro), dello Stato attraverso un
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finanziamento nazionale pari a 0,3 milioni di euro, ed un finanziamento dell’Unione Europea di 0,4 milioni di euro; quest’ultimo ha reso possibile e necessaria una progettazione molto minuziosa: sono infatti state analizzate diverse soluzioni di natura tecnica, economica, ambientale ed energetica sotto diversi punti di vista. Grazie a questo ampio percorso di condivisione e coinvolgimento, durante la fase di realizzazione del progetto sono stati commessi pochissimi errori, raggiungendo un ottimo risultato in termini qualitativi. Il progetto è stato completato nel 2000 e tutti gli appartamenti risultavano affittati nell’estate 2001. Il progetto “Solar Housing Renovation”, dalla fase progettuale alla realizzazione delle opere, presenta molteplici caratteristiche innovative che hanno generato un consistente miglioramento della vita degli abitanti e della coesione sociale, anche attraverso la creazione di spazi comuni e condivisi (serre, lavanderie, spazi per il gioco). L’idea guida è stata centrata su un sistema che utilizza fonti di energia rinnovabili, attraverso l’integrazione di moduli prefabbricati per l’energia solare sui tetti, un sistema integrato di riscaldamento solare per i locali, il pre-riscaldamento solare dell’aria attraverso le verande, sistemi solari adatti al recupero, sistemi di controllo e misurazione del dispendio energetico, consentendo un rilevante risparmio in termini energetici. Gli effetti positivi generati sulla qualità della vita degli abitanti, i costi sostenibili dell’intera operazione, l’utilizzo di tecniche costruttive semplici e poco costose fanno sì che l’idea e le caratteristiche del progetto Gårdsten possano essere riproposte anche in altri contesti; considerate le numerose aree residenziali in tutto il mondo simili a Gårdsten che stanno affrontando le stesse problematiche diventa necessario e importante introdurre nuove tecniche e metodi per ridurre il consumo di energia. Nel caso di Gårdsten, seguendo
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storie di housing sociale
le indicazioni per il progetto comunitario, gli effetti degli investimenti sul risparmio energetico sono stati monitorati per più di un anno intero; le misurazioni dimostrano che la richiesta di energia per riscaldare gli spazi si è ridotta di circa il 40%. L’uso dell’elettricità rimane lo stesso di prima nonostante gli appartamenti affittati siano aumentati dal 65% al 100%.
tà era centrata sul problema delle abitazioni, gli abitanti percepivano comunque che un quartiere è qualcosa di più di semplici case e, per creare una comunità sostenibile, era necessario qualificare la sanità, l’educazione e l’impiego, oltre a garantire la sicurezza del luogo in cui vivere o avviare un’attività. Gli Eldonians sapevano inoltre, che la comunità non poteva essere composta semplicemente da coloro che abitavano nelle case popolari, ma era necessaria un’integrazione con tutti coloro che abitavano nell’area o avevano un’attività, includendo le scuole locali, i medici e altri servizi. Nel 1982, con l’aiuto di alcuni esperti, la visione di comunità così intesa, fu sviluppata attraverso il principio denominato “Comunità di autorigenerazione” ovvero un progetto che interessava l’ambiente, i negozi locali, i servizi pubblici e ricreativi, le abitazioni e che gettò le basi per il lavoro dei successivi 20 anni; nel 1987 fu realizzato il primo piano di sviluppo per dirigere i servizi alla comunità ed i nuovi progetti “oltre le case”. Oggi nel villaggio, sono presenti molteplici servizi per gli abitanti e pensati dalla comunità stessa: il Centro Tony McGann, utilizzato dalle organizzazioni interne al villaggio e dai proprietari in cerca di consigli e aiuti; l’Eldonian Village Hall, completata nel 1993, luogo di incontro, pub e sede sociale per tutta la comunità; la Community Trust i cui introiti annuali sono riversati alla comunità per aiutare le attività locali; la Kids Unlimited Day Nursery, aperta nel 1994, luogo di assistenza per bambini da tre mesi ai cinque anni di proprietà del Gruppo Eldonian; il Centro Sportivo Elaine Norris, aperto nel 1998 come risposta al bisogno di salute di tutta la comunità a nord di Liverpool. Gli abitanti dell’Eldonian Village, in collaborazione con il settore privato, altre comunità, gruppi di volontari e imprese edili, hanno esteso i loro confini oltre i limiti fisici del villaggio, essendo stati chiamati a condividere
il loro progetto su un’area più ampia, oltre il villaggio. Il progetto più significativo realizzato nel 2007 in collaborazione con il settore privato, è un progetto nei pressi dell’Eldonian Village, tra Pall Mall e Vauxhall Roadin, per un nuovo viale all’interno dell’area, Vauxhall Road, nel quale acquisire nuovi negozi, uffici, centri per il tempo libero, ristoranti, bar, oltre a 400 nuove case ed appartamenti, alcuni dei quali destinati a chi è in cerca della prima casa. Altro progetto significativo è rappresentato dalla nuova estensione del canale Leeds- Liverpool, costruito dal British Waterways dal villaggio al centro di Liverpool, aperto per la prima volta nel 1777 per il trasporto di merci dallo zuccherificio Tate & Lyle, fino a quando l’avvento del trasporto a motore non lo rese superfluo; alla fine del XX secolo il canale fu dismesso e abbandonato per molti anni. Nel corso della seconda fase progettuale con l’estensione del villaggio, gli abitanti decisero di riqualificare quella parte di canale ricadente all’interno del nuovo progetto di sviluppo, oggi divenuto il pezzo forte del villaggio. Il successo dell’Eldonian Village, la bellezza e la sicurezza del canale hanno riportato a Liverpool numerose chiatte. Altri progetti che interessano il territorio oltre i confini del villaggio includono aspetti legati al sistema economico e lavorativo, ovvero: • lo sviluppo di un progetto di “impresa del Parco” con unità industriali e spazi di lavoro per nuovi posti di lavoro e per gli attuali lavoratori; • lo sviluppo di progetti per lavori mirati nell’area a nord di Liverpool per migliorare le capacità lavorative e l’esperienza e per sviluppare sicurezza nel lavoro e autostima; • la costituzione di una propria impresa sociale per aiutare le altre comunità a sviluppare la propria attività;
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• l’estensione del modello e la condivisione di queste buone pratiche ospitando visitatori ed accettando inviti da altri gruppi interessati a livello mondiale, prevedendo anche dibattiti e conferenze; • l’offerta di servizi di consulenza per lo sviluppo di aree fabbricabili a Londra e nel nord dell’Inghilterra. In sintesi da quando è iniziato il progetto negli anni ’70, gli abitanti dell’Eldonian Village sono stati un baluardo per l’intera area del Vauxhall; se non avessero lottato per mantenere insieme la loro comunità nel 1978, quasi sicuramente oggi l’area in cui sorge il villaggio ospiterebbe un insulso centro affari, un parcheggio pluripiano per coloro che lavorano in centro, o, ancora peggio, un posto abbandonato e derelitto. Invece, la Comunità ha saputo mantenere viva quest’area creando un luogo dove si desideri abitare e trasformando il termine Eldonians in sinonimo di qualità nella compra-vendita immobiliare. I risultati di questo successo, sono tangibili anche negli effetti a più ampio raggio, tanto che nel centro di Liverpool si stanno concentrando nuovi investimenti privati. Che cosa contraddistingue gli Eldonians dagli abitanti di altri quartieri della Gran Bretagna che hanno realizzato abitazioni? Molte organizzazioni di quartiere, incluse le cooperative edili, lavorano con l’unico scopo di realizzare nuovi alloggi, che in molti casi può essere un ragionevole risultato, rispetto ad altre situazioni locali. Quello che contraddistingue gli Eldonians è la continua ricerca di una visione più ampia di Comunità e del bene degli abitanti.
ha sviluppato un modello tipo di comunità sostenibile basato su otto componenti chiave, da applicare retrospettivamente ai luoghi interessati da progetti di riqualificazione; il progetto rappresenta un buon esempio di sostenibilità quando le componenti sono tutte presenti. In una recensione sull’Eldonian Village, il Presidente dell’Accademia delle Comunità Sostenibili, il professor Peter Roberts, fornisce un’utile spiegazione sulle origini del termine “comunità sostenibile” differente dal termine “riqualificazione” e sul perché le componenti chiave siano importanti. Egli spiega che la riqualificazione fine e se stessa, per migliorare un determinato luogo, non è da sola sufficiente: avendo riqualificato un sito è difficile continuare a riqualificarlo per assicurare che questo possa essere considerato “una comunità sostenibile”. I principi e la pratica legati alla “comunità sostenibile” vanno oltre la semplice riqualificazione, e sono strettamente legate al “luogo” e al “realizzare un luogo”; le problematiche di un quartiere non possono essere legate semplicemente ad iniziative di riqualificazione, limitate nel tempo, nello scopo e nel finanziamento. Le otto componenti chiave del modello di comunità sostenibile riflettono contemporaneamente l’obiettivo di creare spazi dove le persone vogliono vivere, in altre parole “realizzare un luogo”. L’Eldonian Village possiede tutti gli otto elementi chiave della sostenibilità.
Una comunità sostenibile L’Accademia per le Comunità Sostenibili, fondata dal Governo Britannico nel 2005, è il centro nazionale delle eccellenze per la ricerca e la conoscenza necessari alla creazione di comunità sostenibili; l’organizzazione
1° elemento chiave: identità “…offrire un senso di identità comunitaria e di appartenenza, essere tolleranti, offrire rispetto, essere amichevoli e cooperativi, offrire opportunità per la cultura, il tempo libero e lo sport”
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storie di housing sociale
Perché l’Eldonian Village è una Comunità sostenibile?
Le modalità con cui gli Eldonians hanno creato il loro villaggio dimostrano e rafforzano il senso sia di identità comunitaria che di appartenenza. Bill Halsall, l’architetto che ha lavorato a stretto contatto con gli abitanti per 12 anni, ha definito insieme a loro le case e individuato le necessità; ha creato un programma di educazione per gli adulti, con attrezzi e modelli per dare loro la capacità di disegnare le proprie abitazioni; il programma ha incluso anche visite ad altri progetti che potessero aiutare le persone a creare una personale visione del villaggio. Ogni abitante ha approvato il progetto definitivo della propria abitazione. Il lavoro degli anziani ha contribuito ulteriormente a rafforzare il senso di appartenenza al villaggio. 2° elemento chiave: buona gestione “… condividere il governo rappresentativo e responsabile con una leadership strategica e visionaria, collaborazione forte ed efficace, coinvolgimento reale nella comunità, un settore forte e completo di volontariato e un senso civico e di responsabilità” Il CBHA è un modello organizzativo, simile nelle sue regole alla Corporazione Edile e “a basso rischio”. Come tutte le organizzazioni pubbliche, gli organi hanno una vasta gamma di competenze, potendo contare anche su esperti provenienti dal settore privato. Negli anni ‘80 la comunità lottava per la sopravvivenza e possedeva pochi alleati che intendevano aiutarla, nel momento stesso in cui essa è cresciuta è diventata un soggetto attivo e capace di cooperare sia con il settore pubblico che privato. Gli Eldonians hanno un forte senso civico, le persone si rispettano l’una con l’altra, non sono tollerati comportamenti aggressivi e il benessere delle persone è il principale obiettivo dei team che gestiscono la CBHA.
3° elemento chiave: sensibilità ambientale “… ricerca effettiva per minimizzare il cambiamento climatico, proteggere l’ambiente, ridurre al minimo i rifiuti, fare un uso efficace delle risorse naturali, proteggere le bio diversità, ridurre al minimo l’impatto negativo sull’ambiente e creare un quartiere più verde, più sicuro e più pulito” Il villaggio, finanziato dal Governo, è stato progettato negli anni ’80 e ’90 periodo in cui, rispetto ad oggi, vi erano minori problematicità legate al cambiamento climatico e all’impatto sull’ambiente oltre che a minori disponibilità di fondi da destinare a misure di salvaguardia dell’ambiente. Nonostante ciò, gli Eldonians ed i loro architetti raggiunsero una serie di successi, grazie anche ad alcuni accorgimenti progettuali come il riutilizzo di terra dopo la rimozione degli inquinanti, l’aumento delle biodiversità grazie all’utilizzo di piante, la realizzazione del canale Leeds/Liverpool, alla progettazione di abitazioni energeticamente efficienti realizzate con muri ben isolati, all’utilizzo di porte e finestre coibentate e di materiale riciclato come granito, sabbia drenata dal Mersey per le fondamenta.
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4° elemento chiave: buona progettazione e buona realizzazione “… il senso di un luogo, spazi verdi piacevoli, una sufficiente gamma di edilizia accessibile, costruzioni eccellenti, layout appropriati, densità equilibrata e disegno; costruzioni e spazi pubblici salubri e sicuri, servizi e posti di lavoro accessibili con i mezzi pubblici, a piedi o in bicicletta” Gli Eldonians si assicurarono finanziamenti per i servizi necessari a costruire “un luogo identitario” – il centro sportivo, il club sociale, campi da bowling, campetti sintetici da calcio e piacevoli spazi aperti verdi, servizi ben integrati alle residenze, la sorveglianza per diminuire i crimini all’interno del quartiere. 5° elemento chiave: buone connessioni “… servizi di trasporto che riducono la dipendenza dalle auto, marciapiedi e piste ciclabili protette, appropriati parcheggi locali, telecomunicazioni disponibili e buon accesso alle reti regionali, nazionali e internazionali” Il Villaggio è localizzato nelle immediate vicinanze della Vauxhall Road, una delle strade principali del centro della città (che dista 10 minuti a piedi); per ogni casa e per i visitatori del club e degli altri servizi è stato previsto un adeguato parcheggio. La seconda fase di incremento del progetto ha permesso la riqualificazione e il riuso del canale Leeds/Liverpool, infrastruttura centrale ed attrattiva del villaggio, un luogo sicuro per passeggiare e andare in bicicletta. Nel 2007 il British Waterways, responsabile del sistema dei canali in Gran Bretagna, ha iniziato l’estensione del canale verso il centro città. 6° elemento chiave: prosperità “… un’ampia scelta di posti di lavoro e opportunità di apprendistato, sufficienti terreni e costruzioni per sup-
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storie di housing sociale
portare attività economiche, lavori dinamici e creatività lavorativa, una forte comunità lavorativa, un centro cittadino economicamente vivo e attraente” All’interno dell’Eldonian Village, gli abitanti hanno un diverso numero di attività di successo che danno lavoro alle persone locali; queste includono l’Associazione edile, la squadra di manutenzione, i custodi per l’ambiente e il canale, l’asilo, il club sociale e le case per anziani. Nel Vauxhall grazie al successo finanziario del Villaggio, si sono concentrati diversi investimenti privati che hanno generato un incremento del valore dei terreni e la riqualificazione del centro di Liverpool. Gli Eldonians sono inoltre partner attivi del settore privato per l’ulteriore sviluppo dell’area che comprende abitazioni, centri d’affari, uffici e negozi. Tuttavia la comunità non può rappresentare il soggetto unico responsabile della rigenerazione urbana ed economica del territorio, che viceversa deve essere accompagnata in parte da investimenti da parte del settore privato e da soggetti pubblici. 7° elemento chiave: servizi “… buone scuole, collages e università e opportunità per un’educazione completa, alta qualità dei servizi sanitari, sociali e familiari, un’ampia scelta di servizi pubblici sostenibili, volontariato e servizi privati, fornitori di servizi che pensano e agiscono a lungo termine e oltre la situazione immediata” Oggi l’area del Vauxhall è dotata di un’ampia offerta di servizi educativi, incluso un asilo nido da 50 posti, un club fuori dalla scuola, una scuola per l’infanzia con 500 posti, una scuola comprensoriale raggiungibile in autobus, ed un nuovo College inserito nel quartiere grazie alla volontà degli abitanti; Liverpool inoltre ha tre eccellenti università (l’Università Liverpool John Moores parte della quale è localizzata ai margini del
foto di Alfredo Farina - Eldonian Village, Liverpool (UK) 2008
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Vauxhall, l’Università di Liverpool e l’Università Liverpool Hope). I servizi sanitari presenti nell’area includono un centro sanitario ed una ampia scelta di cliniche; oggi è in previsione anche un nuovo centro sanitario per bambini. 8° elemento chiave: Equità “… riconoscere i diritti e le responsabilità degli individui, rispettare i diritti e le aspirazioni degli altri, valutare le esigenze delle nuove generazioni nelle azioni e decisioni di oggi” Gli Eldonians sono un’organizzazione democratica fondata sulla partecipazione, sono consapevoli che la risorsa più preziosa sia data dagli abitanti e, naturalmente, da tutti coloro che hanno deciso di vivere lì. Riconoscono infine la necessità di fare di più per assicurare prosperità a lungo termine al loro quartiere. Conclusioni Coloro che vivono nell’Eldonian Village hanno un radicato senso del “luogo” perché lo hanno creato loro stessi; il villaggio riflette la qualità che gli stessi abitanti hanno progettato e le sue caratteristiche sono scaturite in modo naturale anche grazie all’ottimo rapporto instaurato con i progettisti. Il villaggio ha un forte e positivo impatto sociale ed economico su tutta l’area del Vauxhall, dove le persone stanno tornando a vivere ed investire per il futuro. Il Villaggio è percepito anche da chi non vi abita come un bel posto in cui vivere, il suo successo e la sua popolarità sono tali che da Liverpool la gente è propensa a trasferirsi lì. Da una posizione di degrado ed imminente demolizione alla fine degli anni ’70, gli abitanti dell’Eldonian Village sono stati in grado di creare una Comunità riconosciuta e premiata in quanto sostenibile; il villaggio è un quartiere modello, posseduto e gestito dalle persone foto di Alfredo Farina - Eldonian Village, Liverpool (UK) 2008
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storie di housing sociale
che lo abitano, che offre una dimostrazione pratica del potere dell’innovazione sociale e dell’azione positiva di una comunità ben costruita e ben condotta. Oggi gli abitanti dell’Eldonian Village non sono soli, in quanto hanno costruito un’ampia rete di relazioni e collaborazioni con il settore pubblico e privato; il loro ruolo in questa cooperazione, tuttavia, è quello di un investitore con una grande e lunga esperienza e non solo quello di una comunità che lotta per avere maggior controllo sul proprio futuro.
NOTE 1 Questo contributo è tratto – con alcuni adattamenti - da: McBain J. (2008), The rebirth of Liverpool, The Eldonian way, Liverpool Univesity Press, Liverpool.
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biografie Alejandro Aravena
Giovanni Franceschelli
Si è laureato in Architettura all’Universidad Católica de Chile nel 1992.
Ha partecipato alla fondazione, nel gennaio 2000, dello studio di architetti
Ha ricevuto numerosi premi e riconoscimenti, tra cui, nel 1991, la menzione
[w+4], poi city-lab, osservatorio sui fenomeni di trasformazione urbano-
speciale alla Biennale di Architettura di Venezia e nel 2000 la nomina di
sociale. Utilizzando strumenti non convenzionali [esposizioni, pubblicazioni,
Miglior Architetto Cileno under 40. Nel 2004 l’Università di Harvard gli ha de-
conferenze, progetti, performances urbane, workshop] il laboratorio urbano
dicato una retrospettiva e nel 2008 è stato fra i 5 candidati dei Global Awards
sviluppa ricerche sulla “città”, compenetrando contributi provenienti da
for Sustainable Architecture 2008 di Parigi. Dal 2000 al 2005 è stato Visiting
differenti discipline. Dalla riqualificazione urbana all’allestimento espositivo,
Professor all’Harvard University, successivamente ha insegnato all’ Universi-
la materia prima della ricerca è dunque la città: le sue molteplici identità, le
dad Católica. È autore di diversi testi e i suoi libri sono stati pubblicati in oltre
mutazioni più o meno pianificate, come quelle del tutto spontanee e tempo-
50 Paesi. Il suo lavoro è stato presentato in diverse mostre nazionali e interna-
rali. Le ricerche ed i progetti di city-lab sono stati esposti a Bologna, Parma,
zionali e tiene con assidua frequenza lezioni e convegni in tutto il mondo.
Firenze, Mantova, Nova Gorica, Skopje, Barcelona, Madrid, Bruxelles e sono
www.alejandroaravena.com
stati pubblicati in libri e riviste internazionali. www.city-lab.net
Stefano Boeri E` docente di Progettazione Urbanistica presso il Politecnico di Milano e
Joseph Grima
visiting professor al GSD di Harvard. Da Settembre 2007 dirige la rivista
Architetto, svolge la sua attività a New York. E` inoltre scrittore e ricercatore.
internazionale Abitare. Dal 2004 all’Aprile 2007 è stato direttore della rivista
Direttore della Storefront for Art and Architecture, una galleria all’avanguardia
internazionale Domus. E` fondatore dell’agenzia di ricerca multiplicity (www.
e anche spazio eventi nella città di New York che incentiva la promozione di
multiplicity.it) con la quale ha realizzato, nel 2002, “U.S.E. Uncertain states
posizioni innovative in architettura, arte, design e pratiche territoriali. Ha
of Europe”, una ricerca sul futuro dell’Europa.Nei suoi studi sulla condizione
lavorato come redattore e corrispondente internazionale per la rivista Domus.
urbana contemporanea, ha in particolare osservato e cercato di descrivere
Autore di “Instant Asia” (Skira, 2007), una rassegna critica dei recenti esiti di
in forma tassonomica le dinamiche di mutamento “in tempo reale” dei fatti
pratiche architettoniche nuove e d’avanguardia in tutto il continente asiatico;
urbani. Redigendo degli “atlanti eclettici” della trasformazione urbana, relativi
co-curatore di “Shift” (Lars Mueller, 2008). E` inviato speciale della rivista
sia alla regione urbana milanese (multiplicity.lab, Milano: Cronache Dell’abi-
Abitare e ha contribuito a un ampio novero di riviste internazionali tra cui,
tare, Bruno Mondadori, Milano 2007), che ad altre aree del territorio europeo
Domus, AD, Tank, Volume e Urban China.
(S.Boeri, R.Koolhaas, S.Kwinter, Mutations, Actar, Barcelona, 2000).
www.storefrontnews.org
www.stefanoboeri.net Marco Guerzoni Giovanni Caudo
Urbanista. Per la Provincia di Bologna si occupa di pianificazione delle attività
E’ ricercatore di urbanistica presso l’Università degli studi Roma Tre, dove
commerciali e di divulgazione. E’ stato collaboratore alla didattica all’univer-
svolge attività didattica nel corso di laurea e nel dottorato di Politiche terri-
sità IUAV di Venezia e al Master Mapaus dell’Università di Ferrara; professore
toriali e progetto locale. E` impegnato in ricerche sulle politiche locali nelle
incaricato di “Urbanistica” all’Università di Bologna; consulente per diversi enti
trasformazioni delle città e sulle pratiche di autorganizzazione comunitaria e
territoriali per la redazione di studi e di strumenti di governo del territorio. E’
di economia solidale nella costruzione dei beni pubblici.
autore e curatore di diverse pubblicazioni in materia di urbanistica e pianifi-
Ha collaborato alla pubblicazione ‘Territori d’Europa’ (ed. Alinea Firenze,
cazione; membro del comitato di corrispondenti della rivista “Archivio di Studi
2004).
Urbani e Regionali” e del comitato tecnico di Urban Center Bologna. Scrive per la pagina “Infrastrutture e Territorio” de “Il Giornale dell’Architettura”.
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biografie
Jack McBane
de e agenzie governative di tutto il mondo. Dal 1° luglio al 31 dicembre 2008
Ha lavorato per 35 anni nell’ambito della rigenerazione urbana ed è stato
Rifkin è stato consigliere del governo francese durante la Presidenza dell’Unio-
nominato membro dell’MBE dalla Regina d’Inghilterra per i servizi resi nell’am-
ne Europea. Il “Sustainable Development Team” di Rifkin consiglia governi e
bito della sua professione. I suoi lavori spaziano dall’attività di supporto nei
società globali sulle più recenti tecnologie e pratiche volte ad affrontare le
confronti di comunità interessate al cambiamento, a posizioni di dirigenza
sfide del cambiamento climatico e l’emergenza energetica. Rifkin è laureato
in organizzazioni impegnate nel cambiamento. L’ Eldonian Village – per il
in Economia presso la Wharton School dell’Università della Pennsylvania e in
quale ha lavorato come progettista - ha vinto il World Habitat Award insignito
International Business presso la Tufts University. Ha insegnato nelle università
dall’ ONU nel 2004. Per tredici anni ha lavorato inoltre per Groundwork,
di 30 paesi diversi negli ultimi 30 anni.
l’organizzazione principale nel Regno Unito di rigenerazione ambientale. Nel
www.foet.org
2007 accetta l’incarico dagli Eldonians di scrivere la loro storia: “The Rebirth of Liverpool: The Eldonian way”, pubblicato nel giugno 2008 dalla Liverpool
Gualtiero Tamburini
University Press.
Professore di economia applicata all’Università di Urbino. Dopo essersi laureato in Scienze Statistiche ed Economiche all’Università di Bologna con
Christer Nordström
il massimo dei voti, si è specializzato in Economia regionale presso l’Univer-
Architetto, fondatore e capo dello studio di architettura “CNA Architects”.
sità di Montpellier, in Francia. E’ stato ricercatore presso la London School of
Ha più di venticinque anni di esperienza nel campo del design consapevole
Economics, nel Regno Unito.
e dell’energia solare, del design ecologico ambientale, del design sociale,
Attualmente è Presidente di Assoimmobiliare - Associazione dell’Industria
della ventilazione naturale e dell’integrazione di tecnologie innovative negli
Immobiliare Italiana aderente a Confindustria - e Presidente di Nomisma
edifici. Lo studio di architettura CNA Architects è autore di diversi e impor-
SpA, dov’è responsabile scientifico dell’Osservatorio sul Mercato Immobiliare
tanti progetti, tra cui il “Solar Housing Renovation in Gardsten-Sweden”, per il
che ha fondato nel 1988. Come consulente ha assistito, con pareri e analisi
quale CNA ha ricevuto il premio “World Habitat Award 2005” dalla fondazione
economiche, specie su argomenti attinenti l’economia urbana, immobiliare e
Building and Social Housing in cooperazione con UN-Habitat.
industriale (valutazione di progetti, pianificazione territoriale, studi settoriali) primarie Imprese, Associazioni di Categoria, Enti ed Organizzazioni pubbliche,
Rolf Pendall
sia in Italia che all’estero. È autore di numerose pubblicazioni scientifiche con
E’ professore associato della Cornell University (USA). Tiene corsi sulla
editori italiani e stranieri e interviene frequentemente sui media con articoli
pianificazione territoriale, sulla pianificazione ambientale, sull’architettura re-
e interviste partecipando al dibattito di politica economica, con riguardo, in
sidenziale a basso costo, sulla pianificazione delle infrastrutture e sui metodi
particolare, ad argomenti di economia urbana e territoriale.
di pianificazione. La sua ricerca sulle destinazioni urbanistiche dei suoli affronta, in un ottica
Lucia Tozzi
geografica, le differenze interne agli Stati Uniti, e gli impatti delle politiche
Lucia Tozzi è laureata in storia dell’arte, si occupa di arte contemporanea,
abitative in relazione alla discriminazione etnica e razziale.
architettura e studi urbani, con particolare attenzione alle dinamiche del real estate. È autrice di ‘Microrealities’ (ed.Skira, 2006). Scrive sul Manifesto e
Jeremy Rifkin
collabora con diverse riviste tra cui Domus, Abitare e Architectural Design. E`
E’ il fondatore e presidente della Foundation on Economic Trends a Bethesda,
stata curatrice di Torino Geodesign.
MD. La Fondazione esamina gli aspetti degli impatti economici, ambientali, sociali e culturali delle nuove tecnologie introdotte nell’economia globale. E` autore di numerosi libri sull’impatto dei cambiamenti scientifici e tecnologici sull’economia, la forza lavoro, la società e l’ambiente. I suoi testi sono stati tradotti in più di trenta lingue e sono utilizzati in centinaia di università, azien113
finito di stampare nel mese di ottobre 2009 presso gli stabilimenti di Grafiche Damiani a Bologna
foto di Alfredo Farina - GĂĽrdsten, GĂśteborg (Svezia) 2008
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La salubrità degli spazi Scarsi sistemi di ventilazione. Spazi aperti sotto gli edifici creavano un ambiente esterno molto ventilato
Negli edifici a tre piani il sistema di ventilazione è stato rinnovato e dotato di un sistema di rigenerazione del calore che ha portato ad una riduzione del consumo energetico ed ha migliorato il confort all’interno. Nei condomini a sei piani la ventilazione è pre riscaldata nelle verande prima di entrare negli appartamenti.
Dintorni non adeguati alle esigenze dei bambini
I cortili sono stati rinnovati con nuovi giochi all’aperto e piante. Gli appartamenti al piano terra hanno nuovi giardini privati direttamente collegati con l’abitazione.
Gli spazi comuni Prima del recupero, le lavanderie pubbliche (una per ogni cortile) si trovavano in spazi bui, nei seminterrati degli edifici a sei piani. Non erano usate spesso perché gli abitanti le trovavano spaventose.
Nello spazio aperto sotto gli edifici a 6 piani, lungo le facciate a sud dei balconi, sono state realizzate ampie serre comuni per gli abitanti. Nelle serre (in totale 3, una per ogni blocco di edifici) ogni appartamento ha il suo piccolo orto. Ogni serra appartiene ad un preciso cortile e solo gli abitanti di quel cortile vi possono accedere. Il principale obiettivo della serra è la coltivazione, ma serve anche come spazio per incontri informali e la collaborazione fra vicini.
Stanze vuote al piano terra dei condomini a 6 piani sono state costruite per ospitare attività su iniziativa degli abitanti.
Le vecchie lavanderie sono state sostituite con lavanderie piacevoli e illuminate al piano terra comunicanti con le serre. Il progetto è stato portato avanti in collaborazione con gli abitanti. Lo spazio vuoto nel seminterrato ospita i contenitori per lo stoccaggio dell’acqua calda prodotta dal riscaldamento solare.
prima dell’intervento dopo l’intervento
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storie di housing sociale
L’efficienza energetica Consumo di energia: 270 kWh/mq all’anno
Consumo di energia: 170 Kwh/mq all’anno (Riduzione energetica: 37%).
Alti tassi di consumo di energia (riscaldamento 270 kWh/mq)
Sul tetto dei condomini a sei piani, sono stati costruiti 220 mq di collettori per il riscaldamento solare dell’acqua. L’acqua riscaldata è stoccata in contenitori di 20 metri cubi negli interrati ed è usata per il preriscaldamento dell’acqua calda domestica distribuita in tutti gli appartamenti del blocco. I pannelli solari sono stati integrati in tetti modulari prefabbricati e montati in tempi molto brevi.
Ponti termici freddi nelle intersezioni tra gli elementi delle facciate, in particolare nelle facciate esposte a forti venti
In uno degli edifici a tre piani i muri esterni sono stati isolati con un’intercapedine d’aria tra il materiale isolante e il muro. L’aria riscaldata nei collettori solari, che sono presenti nella facciata a sud, circola attraverso l’intercapedine e il calore è mantenuto negli spessi muri di calcestruzzo. La temperatura dei muri esterni è aumentata e questo riduce il consumo per il riscaldamento offrendo maggior confort. Il sistema è chiamato “sistema di doppio sviluppo di riscaldamento solare”.
Tetti e muri esterni poco isolanti. Le finestre non avevano misure standard. Sistemi di riscaldamento a ventilazione inefficienti e a forte consumo di energia
In tutti gli edifici i tetti sono stati isolati e dotati di materiale impermeabilizzante. Le facciate esterne degli edifici a 6 piani sono state isolate. Le finestre sono state sostituite con infissi a basso consumo energetico o ristrutturate cambiando il vetro interno.
Illuminazione e apparecchi elettrici non sufficienti
E’ stato installato un sistema avanzato di gestione dell’energia ed un’efficiente sistema di illuminazione.
Comportamenti dispendiosi di energia
È stato installato un sistema di contatori individuali dell’elettricità, riscaldamento, acqua calda e fredda per ogni appartamento, consentendo un miglior risparmio energetico e un minor consumo.
prima dell’intervento dopo l’intervento
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Problemi ambientali Sistemi obsoleti di raccolta rifiuti senza possibilità di riciclaggio
Il sistema tradizionale di raccolta dei rifiuti è stato sostituito da tre unità di compostaggio, una per ogni cortile, localizzate all’ingresso della serra comune. L’unità di compostaggio trasforma i rifiuti organici in concime che può essere usato per l’orto. I restanti rifiuti sono suddivisi i 6 contenitori di riciclaggio presenti fuori dall’area.
Utilizzo di sigillante contenente PCB
Tutti i nuovi materiali degli edifici sono stati selezionati in base a parametri sanitari e ambientali. Il sigillante contenente PCB è stato rimosso e trattato nel rispetto delle specifiche normative.
Elementi architettonici ed estetici Muri grigi con conseguente sensazione di buio, Molto calcestruzzo e materiali di scarsa qualità specialmente al piano terra
È stato realizzato un nuovo sistema di colori per tutte le facciate al fine di modificare l’impressione grigia e tetra degli edifici. Le facciate esterne sono state rese più luminose con l’uso di colori uniformi mentre la parte interna ai cortili è stata dipinta con colori diversi e più forti. Sono state realizzate nuove facciate con legno duraturo per creare un ambiente esterno più gradevole. Gli appartamenti sono stati rinnovati e migliorati con nuove tinteggiature, finiture e dispositivi tecnologici. Nella facciata a sud degli edifici a 6 piani i balconi sono stati coperti con un sistema a vetro che può essere aperto durante l’estate. Le verande, durante la primavera e l’autunno, creano un piacevole spazio al sole per gli abitanti.
Nessun beneficio di qualità architettonica a causa della cattiva manutenzione
La dimensione, la forma ed i dettagli degli edifici sono stati mantenuti e rinnovati nel rispetto dell’originale architettura. Tuttavia, durante il progetto, il benessere degli abitanti e l’ambizione di creare un ambiente piacevole e amichevole sono sempre stati considerati più importanti rispetto al preservare gli aspetti originali. Sono stati realizzati nuovi accorgimenti in piccoli ma importanti dettagli, come le rastrelliere sui tetti per montare le antenne paraboliche.
prima dell’intervento dopo l’intervento
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storie di housing sociale
foto di Alfredo Farina - GĂĽrdsten, GĂśteborg (Svezia) 2008
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L’Eldonian Village a Liverpool Jack McBane
L’Eldonian Village è nel Vauxhall, vicino a Liverpool, a circa un quarto di miglio dal centro della città e vicino al porto. Nel 1989, quando la prima parte del villaggio è stata completata, l’area si presentava come un’oasi circondata da terreni abbandonati e case pericolanti da riqualificare; oggi, il contesto presenta caratteristiche molto differenti, al punto che l’intera area del Vauxhall sta vivendo un continuo processo di riqualificazione generato da investimenti pubblici, privati e delle comunità che vi abitano. L’organizzazione della comunità è caratterizzata da elementi gestionali peculiari, ovvero: • è un consorzio gestito da persone locali elette, le quali dirigono tutti gli aspetti organizzativi; • il gruppo Eldonian gestisce progetti di diversa natura (fisica, economica e formativa) per aiutare la sostenibilità economica della comunità; • la Community Based Housing Association (CBHA), associata con la Corporazione Edile in qualità di proprietario sociale, offre un’edilizia sociale sostenibile per la comunità, facilitazioni per persone anziane e la gestione di contratti di affitto per coloro che hanno comprato appartamenti nel centro della città; • i residenti gestiscono tutti gli aspetti relativi all’organizzazione della comunità: in totale, più di cento persone, la maggior parte delle quali provenienti dall’area stessa, sono impegnate nei molteplici aspetti organizzativi del quartiere. La Community Trust (il consorzio) è il braccio forte dell’organizzazione e rappresenta l’intera comunità composta da oltre 2.500 persone. E’ stata fondata nel 1987 con l’obiettivo di aumentare la formazione, attivare servizi per il tempo libero e fornire alloggi alle persone anziane della comunità. L’Eldonian Group è una parte della comunità, costituita da più di 50 persone guidate da un capo esecutivo; offre ai residenti dell’area e agli abitanti di altre parti della Gran Bretagna una serie di servizi incluso il sostegno economico a piccole aziende ed imprese di natura sociale, la consulenza alle organizzazioni di gestione dei servizi pubblici; gestisce inoltre un certo numero di imprese sociali (centri sportivi, manutenzione del verde, installazione e gestione dei caldaie centralizzate) ed è attualmente coinvolto in nuovo progetto di sviluppo dal valore di 90 milioni di sterline. La CBHA ha iniziato la propria attività come Cooperativa Edile per Eldonian
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storie di housing sociale
Village nel 1984, sviluppando e gestendo la prima fase di progettazione e costruzione del villaggio nell’area di dismissione dello Zuccherificio Tate & Line, negli anni ’90 la cooperativa si è trasformata in Associazione Edile per poter lavorare su un’area più ampia ed avviare una collaborazione con i privati. Il Consiglio di Amministrazione è rappresentato al 75% dai proprietari ed è eletto ogni anno dai membri dell’Assemblea Generale; delle 523 proprietà, di cui è responsabile il direttore dell’associazione, la CBHA ne possiede 367 e ne gestisce 147 per conto dei proprietari. Nel 2007 l’Associazione ha avuto un movimento annuale pari a un milione e mezzo di sterline ed un patrimonio di 10 milioni di sterline. L’associazione ha inoltre finanziato un progetto pilota di vigilanza in collaborazione con i residenti dell’Eldonian Village, esempio che ha portato il Governo a prevedere un servizio di vigilanza esteso in tutta la Gran Bretagna; fino a quando il Governo non ha stanziato i fondi nazionali per la sicurezza della comunità, il progetto all’interno del villaggio è stato gestito dal gruppo Eldonian che ha garantito anche servizi di giardinaggio, rimozione dei graffiti e altri lavori di assistenza all’interno dell’intera area. Nell’ultimo progetto, denominato “guardiani del Canale”, sempre di responsabilità del Gruppo, sono stati previsti per gli abitanti servizi aggiuntivi di giardinaggio lungo i sentieri e le zone circostanti del villaggio. L’Associazione Edile, considerata un’organizzazione a “basso rischio”, ha conseguito negli anni tre premi “green lights”, dimostrando la capacità di gestire in maniera efficiente molteplici aspetti legati al tema della viabilità, del governo e della gestione dei servizi. Il villaggio oggi è un insieme di abitazioni e servizi destinati ad ogni membro della comunità, dal momento della nascita e fino alla morte. Lo scopo iniziale
del progetto era quello di mantenere legati e coesi gli abitanti, dando loro fiducia nel futuro e garantendo abitazioni nuove, dignitose e sostenibili sotto il profilo economico; successivamente con il crescere delle aspirazioni e della capacità di spesa, per la comunità è stato necessario evolvere il propri obiettivo facendo in modo che tutti gli abitanti (di ogni età) rimanessero all’interno del Villaggio per lungo tempo, cominciando così a ricercare e sviluppare nuove forme di edilizia e servizi pubblici. La storia del progetto Eldonian Village A seguito della chiusura del Zuccherificio Tate & Line nel 1981, le prime abitazioni ad essere costruite nelle aree della dismissione furono completate nel 1989: 145 case, bungalows, e alloggi per persone anziane o disabili furono destinate a coloro che abitavano nelle immediate vicinanze dell’area. La comunità insediata chiese al Governo un finanziamento per poter acquistare parte restante dell’area dello Zuccherificio e realizzare nuove costruzioni. Ogni casa con giardino fu progettata sulla base delle richieste dei futuri abitanti, realizzando un quartiere con 28 diversi tipi di abitazioni. Questa prima fase rappresenta il primo progetto (ma non il solo) ad aver prodotto abitazioni di proprietà e gestite dalla comunità. Le nuove case, completate nel 1990 e gestite dalla CBHA, sostituirono il blocco di appartamenti semi distrutti, Sheehan Heights, a nord del villaggio. Nel 1994 furono costruite altre 150 abitazioni di diverse tipologie attorno e di fronte al canale Leeds/Liverpool, case oggi abitate prevalentemente da persone giovani. Il canale fu decontaminato, riqualificato e riportato al suo uso originale grazie all’aiuto del British Waterways, che contribuì alla bonifica dei precedenti 100 anni di uso industriale, inquinamento e mancata manutenzione. Tale sviluppo, che contribuì a garantire la sosteni-
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foto di Alfredo Farina - Eldonian Village, Liverpool (UK) 2008
foto di Alfredo Farina - Case abbandonate, Liverpool (UK) 2008
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bilità e l’intero futuro della comunità, fu ottenuto dagli abitanti mediante l’acquisto della rimanente parte dello zuccherificio Tate & Line nel 1991, grazie a 5,5 milioni di sterline della Corporazione Edile e 1,5 milioni di sterline prestati dalla Banca Cooperativa. In questa fase del progetto emergono due ulteriori elementi che hanno garantito lo sviluppo del Villaggio, ovvero ”l’Eldonian Home”: casa residenziale composta da 30 stanze, costruita nel 1991 con l’aiuto della società edile Merseyside Improved Houses per l’assistenza degli anziani; la casa, approvata dal Consiglio Comunale di Liverpool per l’Assistenza alle Persone Anziane, è stata recentemente trasformata prevedendo che 15 stanze vengano utilizzate da persone anziane inferme di mente o che soffrono di Alzheimer. Il secondo importante progetto è rappresentato dalla “Robert Lynch House”, completata nel 2006, nella quale furono previsti 36 appartamenti per persone anziane assistite 24 ore su 24. Oltre a questi due edifici anche l’ambiente ed il paesaggio circostante hanno rappresentato un elemento chiave per il successo del progetto, gli spazi aperti di alta qualità sono stati infatti progettati in maniera fantasiosa e la presenza del canale ha contribuito a creare un senso di benessere e di liberazione dall’alta densità della vita urbana. La fase successiva, ovvero il futuro del Villaggio, è centrata tutta sui giovani abitanti presenti nell’area, che rappresentano un’ulteriore elemento di forza; nel 2007 è stata prevista, insieme alla Liverpool Housing Trust, la realizzazione di 36 nuovi appartamenti da mettere in vendita nel villaggio e nuove abitazioni nell’area adiacente destinati a giovani Eldonians. Gli abitanti dell’Eldonian Village hanno una visione a lungo termine rispetto al tema della riqualificazione dell’intero quartiere, mentre nella fase iniziale la priori-