Sulle declinazioni dell’ABITARE
Laurea in scienze dell’Architettura,Università degli studi di Roma 3 A.A 2012/2013
Daniele Burattini
Sulle declinazioni dell’ABITARE Portfolio_Daniele Burattini Tutor_Maurizio Gargano
Entri dentro una casa, l’arredi, metti il tuo nome sul campanello. E’ chiaro che l’abiti. Prendi la residenza in una città ed è altrettanto evidente che abiterai in quel luogo. Abitare, secondo il senso comune, è mettere radici. Piantare le proprie tende, riconoscersi in uno spazio delimitato di cui abbiamo il possesso provvisorio. Abitare è per lo più pensato come una relazione con la spazio. Una situazione che interessa carpentieri, agrimensori, architetti, costruttori e, da ultimo, i destinatari di quello spazio. Abitare è un voler proteggersi dalle insidie dell’aperto. Ma anche l’ aperto, in un certo senso, è abitato. Quando giriamo nella città, gli homeless, nei quali ci imbattiamo, la abitano a loro modo. Ne conoscono gli anfratti, i ripari dalle intemperie, i tetti provvisori, magari ricavati da un ponte, da un portico, da un cornicione. Si può abitare sontuosamente e poveramente. Abitare è una forma di riconoscimento sociale. Ma al tempo stesso può esserne la negazione. Si può provare il concetto di abitare in modi differenti. Si può abitare il linguaggio, oppure si può estendere l’abitare al mondo.L’ abitare è descrivere o è anche il suo contrario: un disabitare o semplicemente uno stare nella città. Insomma abitare non è affatto un gesto semplice e scontato e sono numerosi i modi di declinarlo. Riflettere su questo gesto e le sue declinazioni rappresenta la strada che unisce le varie tappe del mio percorso formativo. Esso è stato protagonista fin da subito,dapprima inconsciamente poi, nel tempo, una costante presenza in ogni atto individuale o collettivo svolto in questi anni. Inizialmente accostandomi al percorso di autoformazione proposto da AUTlab, laboratorio autonomo degli studenti, cercai di attraversare lo spazio universitario in maniera attiva e dinamica, dilatando e di-
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versificando i tempi della formazione e modificando gli spazi della comunicazione e del confronto. Nel 2009 il risultato di questi processi portò alla realizzazione e all’allestimento della mostra autonoma su GDC dal titolo “GDC partigiano dell’architettura”.Lo spazio del padiglione B2 venne modificato creando al suo interno un percorso dialettico tra l’architetto e l’avventore ,che culminava nello spazio (occhio) della libera consultazione delle riviste “Spazio e Società”.Successivamente il nostro lavoro di rilettura venne valutato da Joseph Grima ,curatore della prima biennale di architettura di Istanbul, come un valido argomento da essere inserito nel programma della biennale dal tema Adhocracy;termine che rappresenta un concetto fondamentalmente opposto a quello di burocrazia caratterizzato da gruppi e attività orizzontali e autonome. Era l’occasione per riflettere ancora su GDC ma in particolare sull’architettura e l’abitare. In questo caso la nostra attenzione ebbe come principale protagonista la vicenda della realizzazione del villaggio Matteotti a Terni del 1969 -1975 .Molto più che sull’aspetto formale ci soffermammo sul rapporto che si creò,volutamente, tra architetto e futuri abitanti e sulle dinamiche abitative nate una volta finito il complesso e su quelle che 60 anni dopo caratterizzano ora il villaggio Matteotti. Oltre ad indagare personalmente su come avvennero e come si svilupparono i famosi incontri tra futuri abitanti e l’architetto apprendemmo del forte sradicamento che maturò nei nuovi abitanti una volta entrati in possesso delle abitazioni. Si modificò completamente il modo di rapportarsi tra le persone,abituate a vivere in un ambiente rurale che si sviluppava su di un unico livello,quello terreno,e che portò a maturare profonde sensazioni di angoscia nei confronti delle proprie abitazioni. La capacità di abitare quel luogo andava ben oltre al fatto di possedere la casa. In merito a questo quando negli anni Cinquanta venne chiesto ad Heidegger che cosa un filosofo pensasse della crisi degli alloggi, problema che nel dopoguerra coinvolse
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numerose città europee, lui rispose con un articolo che metteva in stretta relazione tre elementi: “Costruire, abitare, pensare” e rammentava che non era rilevante il punto di vista comune secondo il quale abitiamo qualcosa (una casa) solo perché in precedenza qualcuno l’ha costruita. Ma in realtà costruiamo solo perché in qualche modo già abitiamo quello spazio. Agli occhi di Heidegger è questa la differenza fra il semplice abitare e l’ essenza dell’abitare. La quale è un aver cura del proprio spazio. Non c’ è lo spazio e poi arriva l’ uomo che lo abita. «Lo spazio non è qualcosa che sta di fronte all’uomo». La relazione tra l’ uomo e lo spazio «non è null’altro che l’abitare pensato nella sua essenza». Non c’ è per Heidegger un prima e un dopo, ma un “infra” uno stare nel rapporto, nella relazione. Ovvero il soggiornare presso le cose già da sempre. I laboratori finali del terzo anno rappresentano a pieno questa corrispondenza tra il “costruire” e l’abitare. In essi si è posti davanti ad un esercizio progettuale complesso che deve tentare non solo la progettazione dell’alloggio ma il disegno di spazi e luoghi dove un’ipotetica comunità potrebbe nascere e svilupparsi. Purtroppo non si tende a soffermarsi sulla responsabilità di un tale gesto progettuale e sulle conseguenze che esso potrebbe avere. Emerge un quadro dove si perde la relazione tra spazio e uomo inteso come concetto dell’abitare, e si elevano a unici termini di riflessione le esigenze.Esse assumono un ruolo strumentale,un ruolo legato all’ottenimento di un consenso per la propria soluzione ottimale e definitiva del problema abitazione,una soluzione, basata sulle esigenze minime dell’uomo spesso intese come minimi funzionali. Naturalmente sarebbe sciocco sottovalutare il ruolo delle esigenze, sopratutto di quelle minime. Da alcune di esse ,quella del poter comunicare,dialogare,protetti in uno spazio che si può definire proprio, nasce l’esperienza del Lab. di “Ex” falegnameria, laboratorio autonomo di auto-costruzione. Attraverso di esso si è cercato di staccarsi dalle logiche classiche dell’istituzione universitaria e dal comune rapporto studente insegnate basandosi totalmente sulla condivisione dei saperi ,su motivazioni incentrate sulla ricerca dell’autonomia e
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sulla volontà di uscire dal sistema commerciale. Il riuso dei materiali,la condivisione di un progetto reale,il mettersi alla prova tramite la pratica nell’allestimento di spazi o oggetti rappresentava quel “prendersi cura” ,un soggiornare presso le cose. L’opportunità di realizzare un prototipo nelle sue dimensioni effettive, è elemento di grande attrattiva per quanti partecipano ad un laboratorio di auto-costruzione , soprattutto per gli studenti di architettura da sempre costretti a misurarsi con le scale della rappresentazione. Il modello o il prototipo in dimensioni ridotte è sempre una astrazione convenzionale che si interpone tra progetto e architettura. La sintesi di queste esperienze non poteva che influenzare la mia attività progettuale, generando domande e dubbi su di essa. Il workshop “Nuove Potenzialità urbane” GRRM12 si è rivelata l’occasione giusta dove tentare questa sintesi, proponendo un’attività di recupero del Forte Portuense che non si basasse esclusivamente su intuizioni formali. Oltre che possibili opzioni di trasformazione degli spazi del Forte ,dei quali vi era un espressa richiesta, è stata ipotizzata una linea temporale flessibile dove vari attori intervenivano in queste modifiche. Associazioni di quartiere,as semblee,comitati,cooperative,cittadini dei quartieri limitrofi e della città; erano ipoteticamente invitati a prendersi cura del forte. Non solo nella gestione dei lavori ma anche nelle discussioni su come e cosa trasformare e con quali mezzi. La linea temporale scandisce una riappropriazione lenta da parte della comunità dell’oggetto forte,sia per dare la possibilità alle discussioni e alle tensioni di modificare il progetto ,sia per ricercare mezzi e finanziamenti per attivare le trasformazioni. Lo studente “architetto” non sarebbe rimasto estraneo ,ma avrebbe contribuito valutando le capacità disponibili del momento e la mole delle trasformazioni possibili.Divenendo un attore in costante relazione con le cose,non un viaggiatore di passaggio ma un tecnico attento a cogliera i cambiamenti e pronto a lasciarsi scivolare nel rapporto ,soggiornando presso le cose.
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Parigi
Urbino
Ascoli Pic
Terni Ladispoli
Alghero
Cagliari Granada
ROMA: 2006/2007- Lettura collettiva di”Spiriti dell’architettura” 2008/2009-Autunno caldo 2009/2010-Multivercity 2010-Prima biennale dello spazio pubblico a Roma “Tagga il tuo spazio” 2011-Workshop Roma3_Iowa State university “Abitazioni provvisorie al Mandrione” 2011-Tutoraggio corso di Urbanistica Architettura Roma3,prof. Cerasoli 2012-Partecipazione Kiui project “kit d’intervento urbano indipendente” proposta da Orizzontale 2012-Workshop GRRM12 “Nuove potenzialità urbane” 2013-Seconda biennale dello spazio pubblico aRoma, allestimento biennale TERNI: 2008-GDC’09 2012-GDC’12 URBINO: 2006-Visita collegi Lab. prog.1 2008-GDC ‘12
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Roma
Napo
Mappa “Biografica”
ceno Istanbul
oli
ALGHERO,ASCOLI,CAGLIARI,PARIGI,NAPOLI: 2011-Villard 13 laboratorio di progettazione itinerante LADISPOLI: 2012-Autocostruzione “Sbilanciamoci col Verde” di Cantieri comuni ISTANBUL: 2012-Biennale/Adhocracy GRANADA: 2013-Workshop “Cracking cities”
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GDC ‘09 GDC’12_Rereading DeCarlo
Architettura e Partecipazione
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AUTLab,il laboratorio autogestito dagli studenti di Architettura, propone, alla fine di un ciclo di studi iniziato nel 2008,una mostra sulle opere, il pensiero e la vita di Giancarlo De Carlo. Questo laboratorio, come gli altri percorsi di autoformazione già sperimentati nella nostra Facoltà, nasce dalla necessità di percorrere “sentieri altri”, svincolati dalla didattica ordinaria, autonomi nella gestione e critici nei contenuti,capaci di apportare elementi di riflessione e crescita individuale e collettiva, confrontandosi anche con le carenze e le contraddizioni del sistema universitario contemporaneo. Comunemente conosciuto come l’architetto della “partecipazione”, Giancarlo De Carlo, ha trascorso tutta la sua vita lasciando un’ infinità di articoli e testi che toccano tutti i temi della società e dell’architettura “dall’università ai buchi neri”. Fondamentali per noi, oltre alle sue opere architettoniche, sono le sue parole, atte ad evocare quegli “spiriti dell’architettura” che hanno animato, allora come oggi, il dibattito architettonico di sessant’anni di storia italiana. Dibattito a cui De Carlo ha sempre partecipato in maniera critica e attiva come forza resistente, memore della lezione che ha appreso quando era partigiano da ‘quel pagan di persona’.Prendendo spunto da uno scritto di De Carlo intitolato “E’ tempo di girare il cannocchiale” possiamo dire che il nostro lavoro non è stato quello di vedere la città, in questo caso l’architetto, “come insieme di manufatti e di sistemi di circolazione” (parole) in cui il paesaggio facesse da sfondo, ma di leggere la figura di De Carlo come un caso particolare dell’universo ambientale, del contesto in cui ha vissuto, nel quale ha lasciato una traccia profonda. Sentiamo inoltre la necessità di chiarire che le opere tendono ai suoi scritti allo stesso modo in cui lo stesso De Carlo definisce il suo essere anarchico “una tensione”: “l’anarchismo è un limite verso il quale ci si dirige con la consapevolezza che non lo si raggiunge mai, perchè si sposta mentre si cerca di avvicinarlo”. Noi studenti affascinati da questo grande architetto, ne abbiamo proposto una rilettura, come forse sarebbe piaciuto a lui,senza accettare le sue parole
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GDC ‘09 GDC partigiano dell’architettura di AUTlab Facoltà di architettura Roma3 padiglione B2
“Penso che dopotutto una porta viene eretta per la curiosità di guardare al di là, per spalancare un’apertura su un altro modo di vivere, per svelare la proiezione del proprio mondo verso l’esterno...” (GDC)
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come dogmi ma usandole come punti di partenza per una riflessione più ampia sulla complessità delle tematiche spaziali e sociali. Per la realizzazione di questa mostra siamo stati molto suggestionati da uno schizzo di GDC del 1990 che ritrae un occhio che ha al centro della pupilla il disegno di una città con i suoi palazzi, i suoi confini, le sue porte. Ciò a cui fa pensare l’occhio dello schizzo è l’atto di catturare la città nella sua essenza presente, quella città che ha una storia urbanistica-sociale-culturale-politica, quella città che è Urbino, che è Roma, che è Kalhesa... che è la ‘nostra’ città assieme a come la viviamo la percorriamo, la distruggiamo e la ricreiamo in armonia e contrasto con la complessità propria della ‘socializzazione’ delle nostre individualità. L’occhio è una porta
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1- La mostra aperta al pubblico nel locale B2 della facoltà di Architettura di Roma3. 2-Schizzo di GDC del 1990.
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Il testo proposto è quello originariamente inserito nella brochure della mostra.
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percettiva e sensibile.“Penso che dopotutto una porta viene eretta per la curiosità di guardare al di là, per spalancare un’apertura su un altro modo di vivere, per svelare la proiezione del proprio mondo verso l’esterno...” (GDC).E’ l’occhio lo strumento che studiando Architettura ci sentiamo di aver sviluppato di più, con esso noi misuriamo la realtà, notiamo sfumature e grazie all’elaborazione concettuale siamo in grado di stabilire delle relazioni, di definire la realtà. Nell’adattare questo disegno ad un evento tridimensionale l’operazione è stata quella di alzare i prospetti dei palazzi della città di Urbino a formare una metaforica retina con impressi i progetti di De Carlo sulla città e i collegi universitari e le foto del nostro viaggio.
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Al centro la pupilla che ha caratterizzato questo percorso: lo studio collettivo. La mostra è composta da tre sezioni: una serie di tavole critiche, un occhio centrale con il tavolo delle riviste e lo spazio delle proiezioni. 1_Le tavole critiche sono il frutto più diretto dei nostri studi. Lo spettatore è guidato in un percorso di rilettura critica e insieme racconto delle principali tematiche che hanno caratterizzato la vita di Giancarlo De Carlo. 2_L’occhio centrale rappresenta il momento di pausa della mostra. Lo spettatore è introdotto in uno spazio raccolto,uno studiolo in cui sedersi intorno ad un tavolo circolare, leggere e studiare individualmente e collettivamente i novanta numeri della rivista “Spazio e Società” in consultazione diretta, che compongono cromaticamente l’iride. 3_Lo spazio delle proiezioni riprende il nostro percorso critico. Lo spettatore è qui accompagnato in un viaggio attraverso i Collegi di Urbino. Camminando dietro ai nostri passi, si ripercorre la conoscenza “tentativa” di un luogo alla ricerca dei suoi significati fisici e della sua potenziale ricchezza umana. Lo spazio delle proiezioni comprenderà inoltre le registrazioni video delle interviste a Giancarlo De Carlo. I molteplici temi proposti, verranno dibattuti nel medesimo luogo: si spegne il video, si accende il dibattito.
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1-Realizzazione dell’”Occhio”. 2-Studenti intenti a sfogliare le riviste “Spazio e Società”. 3-retro della brochure della mostra.
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GDC ‘12 Rereading De Carlo di AUTlab Istanbul Design Biennal: ADHOCRACY Curatore: Joseph Grima
“I Processi odiano la burocrazia” (GDC)
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Il lavoro di rilettura di AUTlab su GDC del 2009 venne notato e successivamente valutato da Joseph Grima ,curatore della prima biennale di architettura di Istanbul, come un valido argomento da essere inserito nel programma della biennale dal tema Adhocracy. Termine, l’adhocrazia, che rappresenta un concetto fondamentalmente opposto a quello di burocrazia caratterizzato da gruppi e attività orizzontali e autonome. Principalmente ci occupammo della vicenda della realizzazione del villaggio Matteotti a Terni del 1969 -1975 .Molto più che sull’aspetto formale ci soffermammo sul rapporto che si creò,volutamente, tra architetto e futuri abitanti.
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1- Realizzazione del plastico dell’intero complesso del Matteotti 2-Il plastico terminato esposto alla biennale.
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Il testo proposto è quello inserito nell’elaborato presentato all’esame Storia dell’architettura 2B Prof.Raynaldo Perugini.
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“Furono realizzate 5 tipologie intercambiabili tra di loro. Le diverse aggregazioni delle stesse portano ad una differenziazione seppur minima della tipologia; nessuno degli edifici supera , volontariamente,i tre piani. La caratteristica comune in tutte le tipologie è quella di possedere o un terrazzo giardino o un tetto giardino . Questa particolarità fu espressamente richiesta dagli abitanti del Matteotti. Ognuno di questi giardini è posto ad una quota di 50 cm al di sopra del piano di calpestio dell’alloggio, per via del grande spessore di terreno che lo compone. Essi sono quindi tutti provvisti di una piccola rampa di scale , perfino al livello 0 il giardino è rialzato dal livello del terreno.
De Carlo riesce in questo caso a suddividere perfettamente gli spazi pubblici da quelli semi pubblici e da quelli privati; infatti l’avventore che s’incammina nei passaggi pedonali ha la possibilità di interagire con i vari abitanti direttamente dai giardini. Gli abitanti a loro volta risiedono sempre su di una posizione sopraelevata che gli da la possibilità di interagire ma anche di estraniarsi dal contesto qualora lo desiderino.De Carlo nel suo scritto “Sulla incontinente ascesa della tipologia” critica il relegare qualsiasi elemento o abitazione a dei tipi e quindi ad una loro descrizione e ripetizione infinita, propria degli architetti moderni e sopratutto della burocrazia che in questo modo controlla ogni diversificazione. Snaturandola, imponendola e rendendola perciò più controllabile. Per capire meglio il concetto possiamo fare riferimento al manuale dell’architetto come espressione dell’architettura che sotto la dittatura della burocrazia, propone una ripetizione ossessiva che non crea differenze. Come se si volesse tentare di sottomettere attraverso di questo o di altri manuali “ l’organizzazione dello spazio architettonico perché è l’unica congregazione sociale (e internazionale) che ancora crede nell’esistenza di interrelazioni tra la qualità dell’ambiente fisico e i comportamenti della società”. Per questo nel Matteotti ,la cellula base può ripetersi ma assume diverse caratteristiche a seconda degli elementi con cui si connette , per esempio altre cellule.”
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1-I futuri utenti osservano i plastici degli alloggi in scala 1:50. 2-Il Matteotti terminato. 3-Il plastico originale dello studio DeCarlo. 4-Schizzo dei percorsi pedonali, i corpi scala e i terrazzi-giardino.
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1-DeCarlo insieme ai futuri abitanti del villaggio Matteotti. 2-Planimetrie dei tre livelli realizzati. 3-Planimetria della cellula abitativa n째1. 4-Sezione della cellula n째1, a colori le aree pubbliche,private e semipubbliche.
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Lab. Prog. 3
Relazione spazio-uomo
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L’esperienza del laboratorio di progettazione 3 è stata quella che più si è avvicinata ad una completa riflessione sul modello abitativo a larga scala nel percorso del triennio.Abbandonati i progetti delle abitazioni monofamiliari e i complessi eterotopici quali musei o biblioteche lo studente è messo di fronte ad un esercizio progettuale complesso dove non solo la progettazione dell’alloggio o la relazione con il contesto erano elementi da valutare.l’allestire spazi e luoghi dell’abitare dove un ipotetica comunità poteva stabilirsi e creare dove possibile relazioni. Trasformare con il proprio segno un territorio, valutandone le conseguenze e ipotizzandone gli sviluppi sia in scala urbana che locale, soffermandosi sulle relazioni tra spazi pubblici, privati e comunitari.Almeno in parte questo sono stati i concetti cardine dello sviluppo del progetto da parte del nostro gruppo;cercando sempre di ipotizzare spazi che avrebbero soddisfatto esigenze reali di futuri e ipotetici abitanti e che avrebbero potuto generare incontri,scontri,relazioni e connessioni.
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Lab. Prog. 3 Progetto per un complesso residenziale in via della Magliana. Prof. Andrea Vidotto.
Daniele Burattini_ UniversitĂ degli Studi Roma3 Maria Pone_ UniversitĂ degli Studi Roma3
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Spesso accade che durante un’esercizio progettuale come un laboratorio si tenda a elaborare il proprio progetto partendo da uno già esistente o da un riferimento reputato interessante.Nel nostro caso il tutto nasce da caratteristiche originali personali e trova nel complesso residenziale per studenti a Bei Munchen di Fink+Jocher un ottima sintesi sia formale che spaziale.Il nostro obbiettivo era quello di non rinchiudere alloggi e abitanti in enormi volumi ma cercare di lasciare maggior respiro sia alle abitazioni sia alle persone. Gli enormi solai oltre ad accogliere gli alloggi , per la loro grande estensione, originano spazi pubblici di sosta e di passaggio, raddoppiando o anche triplicando l’area di suolo utilizzabile.L’edificio nasce dal terreno portando con se spazio e possibilità.
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1-Vista dalla piastra centrale. 2-Planivolumetrico. 3-Planimetria generale1째 livello. 1
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1-Vista dalla strada interna al complesso. 2-Vista aerea. 3-Piante degli alloggi. 4-Esploso assonometrico. 1
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Lab. EX Falegnameria
Auto-costruzione, il “prendersi cura�
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Per il Laboratorio di Ex Falegnameria il termine riuso non serve soltanto a definire un atto artistico volto a trasformare ciò che quotidianamente viene considerato rifiuto; ma un vero e proprio modello di vita e gestione delle risorse. In un periodo storico caratterizzato da un sistema economicopolitico-sociale dove il consumo la fa da padrone abbiamo deciso di fare del riuso e della trasformazione degli oggetti di scarto uno strumento di lotta. Vogliamo creare un modello di lavoro che parta dall’azione; dalla riscoperta consapevole delle tecniche manuali come strumento di riappropriazione della propria identità e dello spazio in cui viviamo. Vogliamo costruire un calderone di saperi teorico-pratici nel quale chiunque possa attingere e riempire al tempo stesso. Le tensioni che con questi oggetti cerchiamo di innescare nella quotidianeità di un luogo, ci portano a ragionare su cosa significhi attraversare e modificare uno spazio; su cosa voglia dire “abitare” per spingere al massimo il potenziale critico ,intrinseco in queste pratiche . Un elemento di grande attrattiva per quanti partecipano ad un laboratorio di auto-costruzione è l’opportunità di realizzare un prototipo nelle sue dimensioni effettive, soprattutto per gli studenti di architettura da sempre costretti a misurarsi con le scale della rappresentazione.Il modello o il prototipo in dimensioni ridotte è sempre una astrazione convenzionale che si interpone tra progetto e architettura. Nelle scuole di architettura (e prima ancora nelle botteghe artigiane del Medioevo e del Rinascimento), l’approccio centrato sul conoscere attraverso il fare ha antecedenti illustri a cominciare dal Bauhaus di Walter Gropius e Ludwig Mies van der Rohe in Germania e di Colin Ward in Inghilterra. Ma la tecnologia cui si faceva riferimento all’inizio del Novecento era inscindibile dall’industria, dalla concentrazione, dall’efficienza e, quindi, dall’inquinamento. Oggi in quelle istituzioni che cercano di sviluppare un programma formativo basato sull’auto-costruzione, ad esempio la Kunst Universitat di Linz con il suo programma BASEhabitat, si cerca di dare maggiore attenzione a principi etici quali il rispetto della natura , il recupero e il riutilizzo dei materiali, in particolare quelli reperibili in loco per l’allestimento e la progettazione di edifici. Il Lab. di EX Falegnameria cerca di staccarsi dall’istituzione e dal rapporto studente insegnate basandosi totalmente sulla condivisione dei saperi ,su motivazioni incentrate sulla ricerca dell’autonomia e sulla volontà di uscire dal sistema commerciale.
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Lab.EX Falegnameria Gazebo in canne gentili Parcheggio FacoltĂ di Architettuar Roma3
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Questo gazebo progettato e assemblato nello spazio maggiormente vissuto della facolta di Architettura di Roma 3,il parcheggio adiacente alle aulee, nasce da necessità ed esigenze che alcuni studenti avevano in comune di abitare in modo più diretto la facoltà.Esso doveva rappresentare uno spazio dove sostare,discutere,rilassarsi.La sua realizzazione rappresentava una sfida,un mettersi alla prova,un costruire per prendersi cura del luogo dove abitare; condividendo la sua progettazione e la sua realizzazione ,mettendo in comune conoscenze tecniche e pratiche che i singoli studenti possedevano.Il risultato durò un anno e fù protagonista ,non voluto, della prima biennale dello spazio pubblico poichè confuso come un elemento di arredo urbano.Il gazebo è stato abbattuto secondo indicazioni del preside.
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1-La disposizione dei pilastri 2-Panoramica del Gazebo
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I materiali utilizati per la struttura sono le comuni canne gentili del fiume Tevere adiacenti alla facoltà di architettura.Una volta raccolte e tagliate delle dimensioni utili sono state verniciate con della resina epossidica per proteggerle dalle intemperie.Per connettere tra di loro le canne è stato utilizzato dello spago da pacchi e le legature utilizzate sono state quelle quadre. Il “tetto” doveva assumere la forma di una quadrica rigata, il paraboliode iperbolico, formato da rette sghembe che ruotavano su uno stesso asse e si incontravano in una comune parallela al terreno.Per facilitare la sua relizzazione sono stati posizionati i quattro pilastri ad altezze a due a due differenti.Oltre ad un’eperimento di autocostruzione collettiva esso ha rappresentato la necessità degli studenti di trasformare secondo le proprie esigenze lo spazio che quotidianamente attraversavano e utilizzavano, riflettendo sull’atto stesso del costruire .Come atto politico rappresentava il volersi distaccare da una gestione degli spazi da parte dell’istituzione universitaria distante dalle attività degli studenti e sempre più elemento di controllo e repressione di qualsiasi attività autonoma.
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1-Particolare incastro PilastroTrave tramite legature quadre. 2-Fiori alle basi dei pilastri. 3-Lavoro Ultimato. 4-Schizzo del Gazebo.
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Workshop GRRM/12
Immergersi nella relazione
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Questo workshop denominato “Nuove potenzialità urbane” cerca di ragionare su di una possibile futura funzione del campo Trincerato di Roma e in particolare dei uno di questi forti ,costruiti per la difesa della capitale, il forte Portuense. Il Campo Trincerato mai utilizzato per il suo uso difensivo una volta terminato scomparse agli occhi nel tempo fagocitato dall’espansione della città; negli anni seguenti la sua realizzazione non venne mai utilizzato per il suo ruolo difensivo.Per anni abbandonati ,i forti, vennero utilizzati come rifugi durante i bombardamenti della seconda guerra mondiale e alcuni come caserme o magazzini dove tenere all’asciutto armi e munizioni. Attualmente i forti risultano per lo più abbandonati e sopratutto dimenticati anche dagli abitanti dei quartieri dove sono collocati,infatti sia per la loro caretteristica di mimetizzarsi nel paesaggio,un tempo rurale, e per essere stati circondati da palazzi limitrofi,sono scomparsi del tutto alla vista. Dei quindici forti esistenti alcuni sono attualmente di proprietà del demanio e quattro sono caserme.Solo uno è particolarmente noto, il Prenestino, per ospitare un occupazione abitativa,laboratori,festival etc. Anche se non condivisibile da alcuni il Forte Prenestino ora è l’unico di tutto il sistema forti ad essere attivo e in relazione con il suo quartiere e la città.Il Portuense da poco restaurato e salvato da qualsiasi speculazione edilizia è stato “adottato” dal municipio undicesimo che ne riconosce le potenzialità e lo utilizza per dare spazio ai giovani del quartiere tramite mostre, attività,ricreative,festival. Il workshop organizzato dal municipio e da Fabio Martellino e Vincenzo Paolini dello studio M28,rivolge la sua attenzione su due concetti fondamentali,quello del sistema dei forti e della dilatazione temporale delle attività di trasformazione del progetto sul Portuense.
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GRRM/12 Workshop “Nuove Potenzialità urbane” Coordinatori: Francecso Cellini Fabio Martellino Visiting Professor:
Francisco Javier Abarca-Alvarez
Daniele Burattini_ Università degli Studi Roma3 Dalila Palazzo_ Università degli Studi G. d’Annunzio Chieti e Pescara Gianfabio Mezzapesa_ Università degli Studi G. d’Annunzio Chieti e
Pescara
Isabelle Ruiz_ ETSA Granada Bea Silvia Marcias Vila_ ETSA Granada
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Secondo F. Nietzsche “Senza la musica la vita sarebbe un errore”, allo stesso modo negare la possibilità a ciascuno di ascolatre ,imparare,scoprire la musica è un danno nei confronti della vita. Ogni singolo individuo necessità di un luogo dove poter sperimentare se stesso e le proprie sensazioni, e quale luogo migliore del mistico e silenzioso Forte Portuense? Come ogni individuo può imparare a suonare uno strumento e unirsi ad altri a formare un orchestra, così la realizzazione di questo progetto poteva basarsi sulla messa in condivisione dei saperi tecnici e dell’aiuto da parte della collettività.Costruendo e allestendo il minimo indispensabile per dare via alla scintilla di vita per far risorgere il Forte Portuense.
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1-Fasi dell’intervento e attori principali.
Il testo proposto è quello originariamente inserito nella pubblicazione edita in colaborazione con lo studio M28 di Roma.
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La prima domanda che ci siamo posti approcciando questa sfida fu “cosa è veramente necessario e cosa no?”. Nel nostro lavoro, dovrei dire futuro lavoro, sempre più spesso ci troviamo di fronte a richieste di interevento su progetti che poco hanno del necessario e tanto del superfluo.La maggior parte del tempo siamo impegnati a trovare una giustificazione al progetto stesso. Anche in questa occasione non lo neghiamo abbiamo cercato e scovato un filo conduttore, una giustificazione agli interventi che avevamo ipotizzato. Un tema principale dove collocare e collegare il percorso di trasformazione del Forte Portuense che avevamo immaginato. Non volevamo ideare un progetto che si basasse su una committenza ipotetica e facoltosa ma schematizzare una serie di interventi minimi iniziali sui quali poggiare le basi di un intervento più massiccio.La prima fase, la fase zero, ipotizzata all’avvenuta apertura dei cancelli e sprovvisti di fondi, si basa sulla partecipazione di comitati di quartiere,coperative, collettivi o singoli individui alla riqualificazione degli ingressi esistenti. Successivamente sempre tendendo conto delle possibilità della collettività ,la realizzazione del nuovo fossato,compreso di arredi urbani autocostruiti e la sistemazione del verde. Ogni completamento di una fase doveva essere terminato attraverso attività di autofinanziamento.
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1-Stralcio planimetria fossato.
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2-Stralcio nuovo ingresso. 3-Planimetria generale. 4-Schemi fasi intervento. 5-Sezioni fossato.
Sedute
Bancos
Statue musicali
Estatua músical
B’
Verde
Verde
Percorso
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