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Daniele Cavagna
Il poeta con la chitarra
i fiori di campo
Collana i papaveri
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© 2006, Daniele Cavagna © 2006, Copertina: di Daniele Cavagna © 2006, I Fiori di campo snc via Rimembranze, 5 - 27015 Landriano - Pavia www.edizionifioridicampo.it - Tel. 0382614781
I edizione maggio 2006
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Ai veri protagonisti di questo romanzo
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PREFAZIONE DELL’AUTORE
Questa è una storia inventata. Non sono bravo a vivere nella realtà, figuriamoci a scriverne. Ma ogni mia fantasia nasconde dentro di sé un turbamento. Ciò che mi turba è il fatto che i bambini “usati” da me in questo libro esistono davvero. Le guerre che fanno da sfondo a questa storia esistono davvero. Sono sempre esistite ed esisteranno sempre, ma per me non cambia. Mi turbano ugualmente. Mi turba sapere che bambini e bambine, non solo in Africa, ma in tutto il mondo, subiscono violenze fisiche e psicologiche impensabili. Ogni giorno. I bambini sono la parte di noi non ancora corrotta, ingenua ed innocente. La stiamo rovinando. Peggio, la stiamo perdendo. È colpa di tutti noi. Questo è un argomento che meriterebbe pagine e pagine di riflessione, ma io non sono nessuno per dire cosa è giusto e cosa è sbagliato. A me piace scrivere e pensare. Tutto qui. Quello che avete tra le mani è un romanzo. Come tale va letto, ma sappiate che ho pensato molto per cercare di condividere con ogni lettore il turbamento di cui parlavo poc’anzi. Ho cercato di scrivere in modo da stimolare il pensiero di ognuno. Non ho la pretesa di esserci riuscito, ma ci ho provato e a me basta questo.
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CAPITOLO 1
Mentre camminavo tra il terriccio rossastro tempestato da folti cespugli e da erbacce alte più di mezzo metro sentii il suono di una voce calda e profonda accompagnato dal vibrare ondeggiante delle corde di una chitarra. Il fatto che fossi nell’Africa centrale, in una delle zone più selvagge del Rwanda, e che qui la chitarra, in pratica, era uno strumento quasi sconosciuto, non mi lasciò assolutamente perplesso. Rimasi affascinato da quei suoni che sembravano donare una nuova essenza al villaggio. In mezzo a quelle capanne di legno e paglia sembrava battere un cuore di musica. Un’anima fuggente tempestata di note, scale ed accordi. Quella che giungeva fino alle mie orecchie, distanti diverse centinaia di metri dal villaggio, nelle spianate calde e rigogliose del pomeriggio africano, non era una vera e propria canzone. Almeno non per come io avevo interpretato fino ad allora il concetto di canzone. No, quella era una musica semplice, anche se non banale, che non voleva essere altro che contorno alle parole.Quelle parole che, a loro volta, sembravano essere nate per venir dolcemente sottolineate da quella musica ed esser cantate da quella voce magica. Ero quasi entrato nel villaggio quando l’arte di quel cantastorie, come mi piace chiamarlo, cessò di librarsi nell’aria. Il relativo silenzio che ne conseguì mi fece ripiombare goffamente nel caldo e nella povertà che mi circondavano. Mi
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chiesi se ciò a cui avevo appena assistito fosse stato frutto della mia mente sconvolta dai raggi del sole. Quando mi trovai in mezzo alle capanne cercai di concentrarmi sul mio lavoro e tralasciare i miei pensieri vaganti. Il villaggio in cui ero si chiamava Awamakumba e i suoi abitanti non superavano le due, trecento unità. Molti erano i bambini e molte le donne che, per ragioni che tutti, bene o male, conoscono, morivano ogni giorno. Nell’Africa centrale c’erano diversi villaggi come questo, dove non arrivava l’acqua potabile e dove molte persone, soprattutto bambini, morivano per la fame e per alcune malattie che, su questo stesso pianeta, in altri paesi, venivano considerate soltanto come un gioco o un possibile pretesto per saltare qualche giorno di scuola. Awamakumba era uno degli antichi villaggi primitivi, il numero degli abitanti lo dimostrava. Questo agglomerato di rudimentali costruzioni in legno rinsecchito dai violenti raggi solari si trovava più o meno nel centro di un distretto del quale facevano parte altri villaggi. Un distretto era, in poche e semplici parole, una parte di terra nel quale si potevano raggruppare un insieme di villaggi. Formare ipotetiche province era il modo migliore che avevamo per organizzare meglio il nostro lavoro. In questo villaggio stavamo costruendo un pozzo per l’acqua potabile che sarebbe stato utilizzabile degli abitanti dell’intero distretto, per un raggio di circa 25 km. Io, allora, mi occupavo della supervisione dei lavori destinati all’aiuto della popolazione locale che la società edile di cui facevo parte coordinava. Arrivato nel villaggio vidi il solito movimento di persone indaffarate, anche se mi parve di percepire un qualcosa di diverso rispetto alle mie visite precedenti. Gli indigeni che lavoravano al pozzo erano diretti da due ingegneri spagnoli, anch’essi, come me, facenti parte della società. Era pomeriggio
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inoltrato e tutti avrebbero dovuto essere al lavoro, ma picconi e attrezzi del mestiere erano malinconicamente abbandonati sulle pietre non ancora posate. Mentre le donne lavoravano pelli e ossa per creare monili estremamente fantasiosi, i bambini si trovavano, cosa piuttosto insolita, raggruppati nel centro del villaggio e la loro espressione era quella un po’ intontita del momento del risveglio. Gli operai stavano riprendendo le loro rispettive posizioni e notai che i loro volti erano rilassati, a dispetto del caldo e della fatica patiti lungo l’arco della giornata. Non me ne resi subito conto, ma tra il trambusto crescente che sottolineava la ripresa delle attività, un nuovo arrivato parlava con dei giovani africani e sembrava che stesse insegnando loro qualcosa sulla disposizione dei sassi o sugli scavi, non so bene, perché la lingua che quell’uomo parlava non era né l’inglese né tantomeno il francese, le più diffuse nella zona. Potei, quindi, soltanto intuire dai gesti l’argomento di cui stava trattando quel giovanotto, sui trent’anni, alto più o meno un metro e settanta, con la pelle bianca. La lingua che parlava era il kinyarwanda, quella lingua che i nativi si erano tramandati attraverso l’era del colonialismo, ma che non aveva comunque saputo opporsi ai creoli che si erano radicati in quasi tutta la terra africana. Per questo motivo, sebbene la sua pelle color latte fosse evidente come una pala in una fabbrica di spilli, quell’uomo mi diede l’impressione di sentirsi a suo agio in mezzo ai neri aborigeni. Ciò di cui mi sorpresi ingenuamente, però, fu la chitarra che avevo sentito vibrare poco prima. Non ero ancora certo di ciò che avevo udito, così i bambini che si allontanavano per tornare ai loro giochi aprirono una finestra nella mia incerta realtà lasciando che i miei occhi si posassero sullo strumento
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silenzioso, abbandonato a se stesso con l’unica compagnia della capanna retrostante che lo sosteneva. Non mi resi pienamente conto di quanto la presenza di quella chitarra fosse insolita finchè non l’ebbi davanti agli occhi. Doveva essere stata una bella novità per gli abitanti. Mi rallegrai per la presenza dello strumento e del suo suonatore, perché pensai che con l’animo sereno anche il lavoro sarebbe risultato meno gravoso. Mi avvicinai allo scheletro della nuova opera in cantiere e salutai con un cenno del capo il nuovo aiutante che rispose con un sorriso tanto leggero quanto contagioso. Arrivai presso i due spagnoli, un po’isolati dal resto del gruppo e mi informai su come stavano procedendo i lavori. Mi risposero semplicemente, nel loro incerto inglese, che andava tutto secondo i piani e che ci sarebbe voluto ancora un mese. Visto che non c’era necessità di continuare su questo argomento chiesi loro in modo che nessun’altro mi sentisse: «Chi è il nuovo arrivato?» «Non lo sappiamo, è arrivato questa mattina con quella chitarra» rispose uno dei due indicandomi lo strumento in lontananza «e ha iniziato a parlare con gli indigeni nella loro lingua. Ha parlato anche con noi, in spagnolo, e ci ha chiesto se poteva darci una mano. Noi abbiamo accettato. Sembra che ci sappia fare.» «Bene, un aiuto in più non ci darà fastidio. » Mi recai di nuovo verso il misterioso chitarrista che stava posizionando delle pietre all’interno dello scavo in un modo che non compresi. Allora, intuendo le mie perplessità, interruppe il suo da fare e mi guardò. «L’ho imparato in Tibet.» disse in un perfetto inglese. «In questo modo non serve cemento, ci si impiega meno tempo e il risultato è più solido di quanto possa sembrare.»
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«Molto piacere di averla con noi, signor…» «Romeo, mi chiami Romeo, senza il Signor.» «D’accordo, Romeo.» Gli porsi la mano dall’alto presentandomi. «Sono curioso di vedere come farà rimanere in piedi quel muro, se è così che si chiama. Non ho mai visto nulla del genere.» Mi sorrise e mi disse: «Se ha qualche minuto da dedicarmi posso spiegarle tutto quanto.» Saltai nello scavo e rimasi accanto a lui ad ascoltare, allibito, le sue spiegazioni. Sembrava essere nato per insegnare. Mentre lavorava spiegava tutte le sue mosse e il suo modo di fare non lasciava spazio ad alcuna riserva sulla sua abilità. Era sicuro di sé, veloce e preciso, tranquillo e pragmatico, e mentre spiegava si preoccupava che anche gli indegeni, tutt’intorno a noi, capissero ciò che stava dicendo. In una settimana, con il metodo di Romeo, il pozzo fu praticamente concluso. Una settimana anziché un mese e il risultato, almeno all’apparenza, era veramente solido come speravamo. Gli abitanti di Awamakumba e dei villaggi vicini avrebbero avuto la loro benedetta acqua potabile tre settimane prima del previsto. In tre settimane, solo nel villaggio di Awamakumba, morivano in media sette persone. Contando anche gli altri villaggi del distretto le persone che pagavano il prezzo più caro della povertà erano più di un centinaio. Il pozzo non avrebbe fatto miracoli, ma, per i nativi, sarebbe stato sicuramente un aiuto in più.
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CAPITOLO 2
Dopo quella prima, piacevole avventura, il nostro Romeo ci lasciò per un lungo periodo. Vivere in Africa, per me, era un po’come stare in una grande famiglia, composta dai miei colleghi, dai nativi e da tutte le persone che conoscevo in città. Romeo mi aveva dato l’impressione di essere amico di tutti, allo stesso modo, così percepii la sua assenza come una mancanza a sfavore di tutti. La sua partenza non fu improvvisa come lo era stato il suo arrivo, ma non ci fu nessun grande addio, nessuna cerimonia. Solo un arrivederci sussurrato nelle ombre della sera. Questo incontro, comunque, per quanto breve, mi segnò molto in profondità. E, immagino, colpì allo stesso modo anche gli amici che avevano seduto intorno al fuoco con noi e avevano assistito alle nostre discussioni, oppure che avevano potuto farsi prendere dalla musica di quell’uomo, di cui nessuno sapeva nulla, che riusciva ad accompagnare allo stesso splendido modo i tamburi, le danze dell’Africa e le storie di lontani paesi che lui stesso raccontava, mentre decine di persone, ancora ansimanti per i balli sfrenati, prendevano posto intorno a lui come a formare una piccola arena, il cui centro era sempre la sua voce soave, rassicurante, coinvolgente. Pensavo che sarebbe potuto diventare un artista di fama mondiale. Era sicuramente un artista, questo era certo. Quella di Romeo era una dote straordinaria. Nessuno sapeva guidarti come lui nei sentieri assolati della musica, la
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sua musica. Avevo provato piacere, divertimento, anche gioia in certe occasioni, ascoltando canzoni che mi piacevano, ma con lui era un’altra cosa: mi sentivo parte di quello che ascoltavo, sentivo che quei suoni non erano solo votati al piacere altrui, ma anche alla cura dei mali dell’anima, era una musica capace di farti ritrovare coraggio ed energie perduti. La sua era un’arte che non era destinata alle persone felici, ma a quelli che vivevano nella sofferenza, come gli indigeni del luogo e come, forse, anche lui stesso. Romeo suonava per alleggerire il peso che gravava sulla sua anima e, di conseguenza, anche quello che schiacciava le spalle di quegli uomini infelici. Il peso della fame, delle malattie, della povertà e dell’ignoranza. E riusciva pienamente nel suo scopo, ve l’assicuro. Le piccole folle che si radunavano intorno a lui non se ne andavano mai com’erano arrivate, non con lo stesso viso stanco e spento. Ritrovavano in lui forza e serenità, come se il vero pozzo fosse lui, il poeta con la chitarra. Quando smetteva di suonare tutte le bocche che stavano intorno a lui erano piegate in un principio di sorriso, grazie alle sue parole e alle sue note. Erano momenti che non possono essere descritti, momenti in cui il tempo e lo spazio cambiavano forma. Tutto ciò che ci circondava diventava parte di uno splendido disegno che Romeo dipingeva con tristi e malinconiche pennellate di felicità. Allegria e tristezza sono molto più affini di quanto si creda. Anche questo imparai da lui. Una sera eravamo seduti vicino al fuoco scoppiettante. Tutti gli altri si erano ritirati all’interno dei loro rifugi di paglia. Era tardi e gli unici coraggiosi ancora in grado di sfidare il sonno eravamo noi due. In Africa la sera era come una droga per me: mi faceva sentire libero, spaventosamente libero, piccolo e fragile nell’im-
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mensità dei colori smorzati e dei rumori della natura che giungevano a migliaia fino alle mie orecchie in ascolto, confusi e, allo stesso tempo, coordinati in un’armonia divina, superiore. Sotto l’effetto di questa droga così ammaliante, in cui il mio cervello non era più in grado di filtrare i pensieri, di nascondere i sentimenti e le sensazioni, cominciai a parlare, perché in quel momento la mia profonda ammirazione per lui aveva bisogno di emergere. «Hai mai cantato in un locale, in un teatro, che ne so? Hai mai dato un concerto, qualcosa del genere? Hai mai suonato per un pubblico che abbia pagato un biglietto per vederti? No, perché credo di non aver mai sentito nessuno come te, hai qualche cosa in più, qualcosa che non riesco ad afferrare, ma che tu, evidentemente, sai usare a meraviglia, altrimenti non staremmo tutti intorno a te come ipnotizzati dalla tua voce. Quando canti, suoni, o anche soltanto parli, questa gente» indicai le capanne intorno a noi «sembra non soffrire più. Sembra che tu sappia trascinarli via da tutto questo schifo, da questo mondo infame. Tu sai trascinarli in un mondo migliore, il tuo mondo migliore, quel mondo che suoni con quella chitarra.» Rimase un poco in silenzio, imbarazzato dalle mie parole di apprezzamento, poi mi rispose. «Quando qualcuno apprezza quello che fai è sempre un piacere.» disse abbassandosi a raccogliere dei sassi vicino al fuoco. «Ho ricevuto proposte da parte di alcune case discografiche, ma non ho firmato mai nessun contratto. Non sono un cantante.» guardò le stelle nel cielo sopra di noi «Suono perchè mi fa sentire vivo. E lo condivido con queste persone, perché hanno bisogno di credere in una vita migliore per loro e per i
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loro figli. Hanno bisogno di speranza e di coraggio, proprio come me.» Tutto questo sprizzava da ogni nota, da ogni passaggio melodico, era così evidente che persino uno come me aveva potuto notarlo. «Sei un tipo strano, sai? Potresti essere ricco e aiutare queste persone con i soldi, oltre che con la musica, se è questo che vuoi.» Mi alzai indispettito. «Questa gente non può vivere dei propri sogni, nessuno può farlo. Nessuno si riempie la pancia con coraggio, speranza e buoni propositi. Hai la possibilità di aiutarli con qualcosa di cui hanno veramente bisogno e ti limiti a prolungare la loro agonia, ad illuderli che le cose cambieranno senza che nessuno muova un dito.» Rimase sorpreso dalle mie parole aggressive, e, forse, anche offeso dalle mie insinuazioni. Tutta colpa di quella droga. Il mio cervello non faceva più filtro e le parole uscivano a raffica, così com’erano nate. Romeo fissò gli occhi nel fuoco per qualche secondo, poi cominciò di nuovo a parlare: «Non hanno bisogno di altri ricchi. Ciò che veramente potrebbe aiutarli è di non sentirsi gli unici poveri.» «Parliamo della stessa cosa. Solo da punti di vista diversi.» Ridacchiò leggermente, sorseggiando la bevanda amara fatta con estratti di radici. «Non credo…» Mi guardò. «Il grande uomo con la chitarra…» lo schernii. Prese lo strumento che stava appoggiato al suo fianco, attaccò un motivetto complesso, lento ma straripante di contenuti emotivi. Si sentirono delle voci di bambini provenire da una delle capanne vicine. Una testolina si affacciò per assistere allo spettacolo infinito di Romeo. Lui non se ne accorse, stava con la testa china sopra la sua
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dea e mentre le sue mani correvano invisibili tra i tasti oscurati dalla notte alcune lacrime gli rigavano il viso. Mi commossi anch’io. Era tutto così reale, quelle note insanguinate, quei passi scarni e piegati dal dolore, quei suoni così simili ad un pianto. Era tutto così palpabile. «Perché?» gli chiesi dopo alcuni minuti, quando finì di suonare. «Perché piango?» mi chiese. «Già» «Non lo so.» Sistemò nuovamente la chitarra al suo fianco. Proprio in quel momento notai che sullo strumento c’era una scritta: “il giorno più bello della mia vita”. «Che significa?» domandai incuriosito. «Ho un rapporto speciale con questa chitarra, è una lunga storia. Significa che ogni giorno in cui potrò abbracciarla e farla fremere sotto le mie dita, quello sarà il giorno più bello della mia vita.» Restammo in silenzio per qualche minuto, a guardare nel fuoco e a sorseggiare il nostro rudimentale drink, poi Romeo cambiò discorso. «Bella vero?» Alzò gli occhi al cielo. «Che cosa?» «L’Africa. La prima volta sono rimasto impressionato dalla differenza tra la notte e il giorno. Il caldo, il sole che picchia sulla testa, lo sguardo che si perde tremolante nel calore che sale dal pavimento ruvido delle pianure, i versi degli animali in lontananza, il profumo della terra che cuoce sotto i raggi roventi… di sera tutto questo si trasforma in un soffio di magia. Il calore diventa accogliente tepore, lo sguardo che si offuscava per il caldo, ora, si perde nelle luci soffuse dei fuochi e delle stelle, gli animali feroci fanno sentire più forte
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le loro voci, la terra rilascia essenze acidule e intense di una storia senza fine alle spalle. Tutto quello che ci circonda, in questo momento, è una poesia scritta da Dio. » Aveva ragione, almeno per quanto mi riguardava. «Questo è un posto speciale. In fondo tutti i posti sono speciali, a modo loro, ma qui c’è magia nell’aria, è vero. Anche se sento nostalgia di casa non mi sento mai lontano, qui.» «Vorrei sentirmi veramente a casa in qualsiasi luogo. Adoro l’idea della libertà, di poter prendere una nave, attraccare dopo due mesi in chissà quale angolo della terra, scendere e sentire l’aria di casa, sentirmi padrone di me stesso. In fondo siamo come delle enormi chiocciole che si portano appresso il loro rifugio per potersene servire in ogni momento.» «Ci riesci veramente? Voglio dire, ti senti sul serio a casa in ogni luogo?» «No. » rispose. «Hai delle idee molto originali, credimi!.» Sorridemmo entrambi. Avevamo quasi finito le nostre bevande amare, la notte era ormai nel suo vigore più tenebroso e noi continuavamo imperterriti sui binari di un discorso che attraversava, come un treno che tocca col suo veloce tragitto le terre più diverse, argomenti e materie disparati. «Forse ti sembrerà stupido da parte mia chiederti dove vivi, ma è una cosa che mi incuriosisce molto.» Continuai. Sorrise di nuovo e poi rispose, conciso: «Dove capita. Dove mi sento a casa.» «Allora qui, se ti piace così tanto l’Africa.» «È da molto tempo che sto lontano da qui. Ho viaggiato e imparato tanti modi di vivere, tante lingue, tanti mestieri. Ho visto molte cose degne di essere ricordate. Sono fiero di averlo fatto, ma ora sono qui e non vorrei essere altrove.»
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«E la chitarra, la porti sempre con te, vero?» «Sempre. La musica è il modo migliore che ho per sdebitarmi dell’ospitalità che ricevo.» «Penso che potresti raccontarmi un sacco di storie interessanti.» Sembravo un bambino. «Non più di quante potresti raccontarne tu a me.» «La mia vita ha poco di interessante da dire. Sono nato in un paese di provincia nell’Italia del nord, ho studiato ingegneria fino a 25 anni, mi sono laureato appena prima di sposarmi. Mia moglie, l’unica storia veramente interessante che potrei raccontarti, se n’è andata per una disgrazia un anno dopo il nostro matrimonio e io, in cerca di chissache, mi sono trascinato fino a qui. Fine della storia. A proposito, tu invece dove sei nato?» La domanda che misi alla fine del mio intervento era sintomo della mia resistenza alla morte di mia moglie. Non riuscii mai a parlarne tranquillamente con nessuno, nemmeno a distanza di vent’anni. Senza volerlo, però, avevo toccato un tasto dolente anche per Romeo che non mi rispose. Rimase con la testa bassa sopra le fiamme, finchè non sentimmo un feroce ruggito provenire da chissà dove in mezzo alla savana. Sobbalzammo entrambi come svegliati di colpo da quel rumore inquietante. Poco dopo Romeo tornò con la testa bassa a fissare lo scintillio del fuoco assorto nei suoi malinconici pensieri che, probabilmente per colpa mia, erano tornati a infestargli la mente. Io, al contrario, ero in piedi a scrutare nel buio, preoccupato per quel ruggito così insolitamente vicino. «Ora è meglio se ce ne andiamo a dormire. Domani avremo un bel lavoro da fare, con un po’di fortuna potremmo finire quel benedetto pozzo.» dissi. La mia preoccupazione era così intensa che mi indusse quasi inconsapevolmente ad interrompere la nostra conversazione.
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Romeo acconsentì. Ci avviammo verso le nostre capanne, ma prima di congedarci sentii il bisogno di scusarmi con lui per averlo turbato con la mia domanda impertinente. «Mi dispiace di averti ferito con quella domanda. So che certe volte posso sembrare arrogante ed invadente, ma non avevo intenzione di ficcare il naso nel tuo passato. Non volevo, non sapevo…» «Non c’è nessun problema» mi interruppe «riprenderemo domani.» Mi sorrise, pur senza riuscire a nascondere la malinconia e la tristezza che gli coloravano il viso. Così, sollevato, mi allungai a stringergli la mano prima di ritirarmi nella mia capanna. La cipolla a molla che tenevo sempre nella valigetta dei progetti disse, interrogata dal mio sguardo, che erano le due e trentacinque.
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Il sole era stato veramente tremendo, quel giorno. Tanto tremendo che mi addormentai quasi subito. Ma era destino che quella notte non avrei potuto avere tempo da dedicare al riposo. Nel bel mezzo dei miei sogni idilliaci fui svegliato da un suono lieve lieve, lontanissimo, che però aveva saputo attirare la mia attenzione anche nella condizione in cui ero. Compresi subito di cosa si trattasse: era la chitarra di Romeo, ma i resti delle onde sonore che arrivavano fino a me erano talmente sottili e leggeri che, in un primo istante, pensai di averli sognati. Invece no, ero un po’intontito, ma sveglio. E quel mormorio musicale perdurava nella notte dolce costellata di profumi e versi selvaggi provenienti da ogniddove. Mi alzai e rimasi sull’uscio della capanna ad ascoltare. La melodia era malinconica, lenta, simile a quella che mi aveva commosso poco prima vicino al fuoco, ma più semplice. Un poeta non avrebbe saputo esprimere meglio, con l’aiuto delle parole, il sentimento, lo stato d’animo, che, invece, erano limpidi in quelle note lontane. In quella musica c’era molto di più che parole messe in rima o frasi ben strutturate. C’era la sensazione vera e propria, c’era il soggetto stesso, in persona. La malinconia non era soltanto richiamata, con allusioni grammaticali, era ospite d’onore delle vibrazioni che la trasportavano in ogni direzione. Era una musica pura, anche se, proprio perché la lingua è soltanto un’allusione a dei concet-
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ti, questo termine non può trasmettere il giusto significato. Per comprendere bisognava essere lì, accanto a me, a sentire e a capire. Mi preoccupai per Romeo, che doveva essere molto lontano, dato che non riuscivo a vederne nemmeno l’ombra in lontananza. Non potevo sapere esattamente dove si trovasse, ma intuivo la direzione dalla quale proveniva la musica e, indossati i pantaloni e caricato il fucile che sottrassi agli spagnoli senza svegliarli, mi inoltrai nel buio della savana verso quel suono poetico e commovente. Ero molto preoccupato, io avevo un fucile, ma Romeo? Non lo sapevo, ma mi promisi di dargli comunque una bella strigliata per la sua pazzia. Lasciare il villaggio, di notte, e per di più solo, era come invitare le bestie affamate ad un banchetto. Senza contare che quel pazzo aveva lasciato il villaggio senza nemmeno la protezione di una fiaccola. Ero arrabbiato, ma allo stesso modo, incuriosito da quella situazione che, per il sonno e il torpore che mi dovevano ancora abbandonare del tutto, mi appariva ancora più annebbiata e misteriosa di quanto già fosse. Ad un certo punto, mentre ero ancora immerso nei miei propositi di pseudo-genitore, potei scorgere l’ombra scura del chitarrista, seduto sopra un grosso masso con un albero spoglio a pochi metri di distanza sulla sinistra. Era ancora lontano, ma dal punto in cui ero potevo vedere e sentire quasi tutto. Le mie orecchie e il mio cervello, rapiti dalla musica, compresero con qualche secondo di ritardo il significato di un ruggito profondo, come uno sbadiglio, provenire dal masso su cui giaceva, immobile, Romeo. Lo sentii, certo, ma non ci feci subito caso, come mi era successo con la chitarra stessa pochi giorni prima, al mio arrivo nel villaggio. Quando compresi cominciai a correre verso il grande sas-
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so, sfilandomi dalle spalle la cinghia che sosteneva il fucile a tracolla. Il cuore mi rimbalzava in gola. Il terrore cresceva ad ogni passo finchè, ad un centinaio di metri dal masso su cui stava il temerario suonatore, non mi inchiodò al suolo, lasciandomi incapace di muovere un solo muscolo, per sfuggire o per sparare. Non riuscivo a parlare, a camminare, avrei voluto urlare ma, per fortuna, non potei fare nemmeno quello. Ero, insomma, paralizzato dal panico ed era la prima volta che mi trovavo in una condizione simile. Avevo sentito parlare di persone che, a causa di qualche situazione particolarmente emozionante, erano rimaste come bloccate, ma non avevo mai pensato che sarebbe potuto accadere anche a me. E invece, quella scena, aveva saputo farmi cambiare idea: tre leoni, disposti a triangolo, erano pigramente sdraiati ai piedi del masso. Erano quasi di fronte a me, per questo prima non li vedevo, perché erano nascosti alla mia vista dalla roccia. Guardavano praticamente in viso Romeo che si trovava a due o tre metri, praticamente un balzo, da loro. Mi avevano sentito arrivare, ne fui convinto quando uno di loro si alzò sulle possenti zampe anteriori. Avrebbero potuto fare di me un succulento ammasso di carne rosea in poco più di dieci secondi, se solo avessero voluto. Ma, Dio solo sa perché, dopo qualche istante la loro attenzione tornò a concentrarsi su Romeo e anche quello che si era scomodato, alzandosi a sedere, adagiò nuovamente la grossa testa sopra le zampe anteriori incrociate tra i ciuffi d’erba. Ogni cosa trovò il solido equilibrio che io con la mia corsa avevo quasi spezzato. Non so dire per quanto tempo rimasi lì, in piedi, immobile, ma posso dire che in quel periodo di panico vidi la mia vita passarmi davanti agli occhi, proprio come succede in certi film. Vidi la mia infanzia, i giochi, gli amici, le ragazze, mia
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moglie e poi vidi l’Africa e il mio lavoro, la povera gente, i bambini che morivano di fame e i villaggi che avevo visitato grazie al girovagare continuo. Rividi cose che non credevo nemmeno di ricordare, piccoli istanti, all’apparenza insignificanti, che mi avevano accompagnato per tutta la vita, quella vita che ora avrebbe potuto essere giunta al capolinea. Non mi ero mai trovato di fronte a una bestia feroce e di colpo ero fermo come un sasso in mezzo alla savana con tre leoni che potevano disporre di me a loro piacimento, perché anche se avevo tra le mani un fucile, ero oltremodo convinto di non poterlo usare. Tutti i miei pensieri, ed evidentemente anche il solido equilibrio di cui parlavo poc’anzi, furono spezzati dal cessare della musica. Non avevo considerato l’idea, per quanto ovvia fosse, che quella situazione, prima o poi, sarebbe dovuta cambiare. L’ipotesi non mi aveva neanche sfiorato. Era come se mi fossi convinto che avrei dovuto rimanere lì, incollato a terra ad ascoltare quella musica insieme ai leoni, per il resto della mia vita. Così, quando i giganteschi felini si alzarono, svogliati, e avanzarono verso di me, fui colto di sorpresa. Il panico, anche se non lo credevo possibile, si trasformò in qualcosa di ancora più travolgente. Tutti i muscoli mi si tirarono senza che io potessi impedirlo, i capelli mi si rizzarono in testa, probabilmente per la pelle d’oca che mi ricopriva tutto il corpo. Gli occhi mi si spalancarono, disubbidienti ad ogni mio altro ordine. Tutto quello che avrei voluto, ma che non potevo fare, sembrava svolgersi dentro di me: avrei voluto correre via, più veloce di quanto avessi mai fatto prima, e il mio cuore batteva come se stessi correndo veramente, avrei voluto gridare e il mio stomaco emetteva singulti simili a gemiti di dolore. I leoni procedevano in fila, il primo era ormai a pochi pas-
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si da me. La loro andatura calma, che avrebbe dovuto tranquillizzarmi, mi rendeva, in realtà, ancora più incapace di reagire. Mi passarono accanto, ignorandomi, tanto vicini che avrei potuto toccarli e, volendo, anche saltarci in groppa. Mentre mi oltrepassavano, tutto dentro di me si fermò. Non respirai, non mossi nemmeno le pupille. Se non sapessi che è impossibile giurerei che anche il cuore, per quella manciata di secondi, smise di battere il tempo. Provai una intensa sensazione di vuoto. Fu come quando si spegne il televisore, buio e silenzio. Allontanatisi i leoni di qualche decina di metri, tutto il chiasso che mi aveva abbandonato tornò più forte di prima. Stordito, trovai la forza e il coraggio di spostare lo sguardo verso quegli splendidi e terrificanti animali e compresi che se ne stavano andando per la loro strada. Non ce l’avevano né con me né con il villaggio. Pochi attimi e sparirono nella radura. Stramazzai al suolo, con crampi che mi attanagliavano in tutto il corpo, il respiro che ora poteva correre libero, ma che sembrava non essere mai sazio. Passai alcuni minuti lì, a terra, incredulo e confuso. «Un sogno» mi dissi. «È stato solo un sogno.» Scoppiai a ridere e mi rigirai nella polvere per la felicità di essere ancora vivo. Ora che ho la possibilità di pensare a quegli attimi di terrore, credo che la felicità non possa esistere senza il suo opposto, ossia la disperazione, la paura di perdere tutto ciò che abbiamo di più caro. Quando la paura e la minaccia che ci affliggevano scompaiono, allora subentra la felicità. È un processo necessario, senza il quale non si può provare quella sensazione di gioia intensa ed energica che mi contagiò dopo aver avuto salva la vita. Senza questo pericolo possiamo provare soltanto gioie effimere e leggere.
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Quando mi alzai, in preda a questa forte sensazione di benessere e felicità, vidi Romeo che era ancora là, sopra quel masso, seduto, immobile. Lo avevo completamente dimenticato. Lo chiamai, ma non si mosse né la prima, né la seconda, né tantomeno la terza volta. Allora mi avviai verso la grande roccia che lo sosteneva, vi girai intorno e rimasi a guardarlo da dove, poco prima, lo guardavano i leoni. Sul terreno potevo distinguere chiaramente le impronte che vi avevano lasciato. Romeo era seduto con le gambe incrociate, il busto eretto e la testa alta; la chitarra che gli giaceva tra le gambe, appesa a tracolla ad una spalla, sosteneva, a sua volta, le braccia, mentre le mani si muovevano all’inseguimento delle dita che sfioravano agilmente le corde a dar vita ad una musica che non era cessata, come credevo, ma che continuava quasi nel silenzio. Continuava tanto impercettibilmente che non l’avevo udita fino a quando non ne vidi la realizzazione pratica sopra lo strumento. Quando vidi che Romeo stava suonando, allora, e soltanto allora, sentii anche la musica. Pronunciai il suo nome, sottovoce, ma i suoi occhi chiusi non si mossero. Aumentai il volume e, al secondo tentativo, li aprì di colpo svegliato di soprassalto. Si guardò intorno, spaesato, mentre le sue mani, per conto loro, continuavano a pizzicare le corde. Non sono uno psicologo, uno psichiatra o uno studioso di psicologia, ma interpretai quel fatto come una specie di linea di continuità tra il sogno e la realtà. Romeo usava, penso inconsapevolmente, la sua chitarra, la sua musica, per rendere reale il mondo che aveva dentro. Scriveva i suoi desideri, le sue idee, le sue speranze, sulle corde di quello strumento, così che questi sogni continuassero ad esistere. Ogni nota rappresentava qualcosa, ogni pausa e ogni scala, ogni accordo, tutto,
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tutto quanto, compresi, aveva un significato preciso. La sua musica era così piacevole, così insolita e angelica, perché era la rappresentazione della sua anima. Solo allora, a 45 anni suonati, compresi la profondità dell’arte della musica. Fu come una folgorazione, tutto mi colpì in un istante, capii tutto questo in un attimo, il tempo di lasciare a Romeo la possibilità di svegliarsi. «Dove siamo?» chiese spaesato e confuso. «Mi piacerebbe che me lo spiegassi tu!» gli risposi sorridendo. Il mio intento di riprenderlo per la sua pazzia era, naturalmente, svanito nel nulla. «Andiamo, torniamo al villaggio, ti spiegherò per strada. Penso che per questa notte abbiamo già sfidato abbastanza la dea bendata, è meglio sbrigarci.» Romeo scese dal masso e mi si affiancò, come un bambino bisognoso di protezione, mentre io, sempre come un bambino, iniziai a raccontargli l’accaduto girandogli intorno eccitato, mimando movimenti ed espressioni di quei tre felini feroci. Sembravamo due giovanotti di ritorno dal campetto dell’oratorio che si raccontavano, dai loro rispettivi punti di vista, il gol più bello della giornata. Arrivati sani e salvi al villaggio ci sedemmo vicino alle braci che testimoniavano la tenace sopravvivenza del fuoco della sera. Romeo prese alcuni pezzi di legna secca e ravvivò le fiamme scoppiettanti in men che non si dica. Rimanemmo in silenzio, ognuno a combattere con le proprie domande, per qualche minuto, finchè Romeo mi disse: «Ora hai qualcosa di interessante da raccontare. » La tensione e le domande che mi assillavano svanirono di colpo, rimase soltanto la gioia di esserci ancora. Cominciai a ridere tanto forte da non poter più parlare, se-
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guito a ruota da Romeo, così, se prima sembravamo due bambini, ora eravamo più simili a due idioti che ridevano senza motivo. Tirammo mattina, in verità non mancava molto all’alba, seduti lì a parlare e a raccontarci quello che era successo. Io parlavo di ciò che avevo passato, mentre lui mi ripeteva continuamente la scena del suo risveglio. All’alba tutto il villaggio prese vita e molti si sorpresero nel trovarci dove ci avevano lasciati la sera prima, soprattutto i due spagnoli. Raccontammo loro ciò che era accaduto, lasciandoli, ovviamente, di stucco. Ma non ci perdemmo in chiacchiere, cominciammo subito a lavorare, dato che il pozzo avrebbe dovuto essere concluso entro sera. E così fu. Il pozzo fu finito nel tardo pomeriggio.
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CAPITOLO 4
Quello fu l’ultimo giorno che Romeo passò insieme a noi nel villaggio di Awamakumba. Le danze dell’ultima sera furono particolarmente vivaci e gioiose. Del resto bisognava festeggiare la realizzazzione del pozzo. Ci furono diversi riti propiziatori e di ringraziamento in stile africano. Le musiche scandite dai tamburi proseguirono fino a notte inoltrata e, sebbene stanchi per le molte ore sottratte al riposo, anch’io e Romeo rimanemmo intorno al fuoco ad onorare usi e costumi di quel popolo così vivo e selvaggio. Non ebbi la possibilità di parlare con il nostro chitarrista come la sera prima, un po’ perché era impegnato nel solito intrattenimento musicale, un po’, invece, perché non appena smetteva di suonare era circondato da uomini e donne che volevano salutarlo e ringraziarlo prima della partenza, annunciata per l’indomani. Riuscimmo a rivolgerci la parola soltanto sporadicamente nel via vai generale. Mi avvicinò e mi gridò nelle orecchie, in modo che lo sentissi nonostante il volume dei tamburi: «Domani me ne vado.» Gli risposi, sempre urlando: «Lo so, lo sanno tutti.» «Volevo ringraziarti!» «Per cosa?» «Per le belle parole che mi hai dedicato.» «È stato un piacere.» gli dissi prima che venisse trascinato via dal torrente umano immerso nelle danze. Lo guardai che si dimenava tra le bellissime giovani donne
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nere a seno scoperto che lo circondavano e lo portavano da una parte all’altra del villaggio. Sorrisi e mi portai alle labbra l’estratto di radici, sforzandomi di smettere di pensare a mia moglie. Quando vivevo momenti di gioia lei era sempre nei miei pensieri, avrei voluto che lei potesse essere felice insieme a me. E questo era un momento felice: avevamo finito il pozzo, avevo un amico con il quale mi intendevo a meraviglia e la sera prima avevo capito quanto fossi affezionato alla mia pelle rischiando di morire sbranato da tre leoni che, evidentemente, non dovevano essere stati poi molto affamati. Avrei voluto condividere con lei questa grande gioia di vivere, ma lei non c’era più e io mi dovevo rassegnare al suo sguardo che mi accompagnava dall’alto, mi dovevo rassegnare all’idea che lei, ora, fosse il mio angelo custode, mi dovevo convincere che lei fosse con me, più di quanto non lo fosse mai stata da viva. La gioia, per me, da quando lei se n’era andata, aveva sempre questa spruzzata di malinconia. La felicità che provavo in quel momento, comunque, non era attenuata dalla mancanza di una persona che avevo amato e che continuavo ad amare. Era arricchita dal ricordo di questo essere unico. La malinconia, spesso, non è un sentimento sgradevole. Ricordare degli attimi piacevoli che non ci sono più non è necessariamente sinonimo di tristezza. Sono grato alla vita per quello che mi ha dato e tra le tante cose belle c’è anche lei, comunque, anche se ora non c’è più. Ma non voglio annoiarvi con i miei sentimentalismi. Romeo stava danzando tra le donne e, durante il soggiorno tra noi, non si era mai lasciato andare a movimenti e azioni così scalmanati. Sembrava una persona diversa, forse a causa anche dell’alcol. In occasioni così importanti, noi bianchi non ci facevamo
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mancare qualche bottiglia di vino speciale, da accompagnare agli estratti di radici locali. Forse Romeo aveva esagerato un po’, o forse era semplicemente felice. Lo osservai mentre si dimenava tra quei corpi quasi completamente nudi. Pensai che eravamo così in sintonia perché eravamo simili in molte cose. Amavamo profondamente l’uomo e le sue culture, pensavamo entrambi che ogni tradizione, ogni usanza, in qualsiasi parte del mondo, avrebbe dovuto essere protetta.Ci piaceva confrontare le nostre idee, discutere e dire quello che pensavamo.Ci piaceva renderci utili e aiutare le persone che abbisognavano del nostro aiuto. Ma non era solo questo, non era soltanto qualcosa di così superficiale, c’era qualcosa che si nascondeva più in profondità, qualcosa di cui non avevamo mai parlato ma che veniva a galla ogni volta che pensavo a lui. Mi sforzai di capire cosa potessimo avere di così simile. Lo osservai e pensai ai momenti che avevamo trascorso insieme, alle sue parole, alle sue azioni. Fin dal nostro primo incontro mi era parso un uomo intelligente, oltre che colto, e acuto. L’ipotesi affiorò lentamente dentro di me finchè non ne fui pienamente convinto. Romeo, in ogni istante, aveva un velo, simile alla mia malinconia, che lo circondava. Era una cosa talmente caratteristica del suo modo di fare che non si poteva immaginare la sua persona senza quell’alone misterioso di chissà quale timore o ricordo. Ora ne ero convinto. Quel sentimento era dentro di lui, era parte di lui, per questo era stato così difficile individuarlo. Era mimetizzato nel suo essere. Ma ora che l’avevo scovato era chiaro come la luce del sole. Era chiaro come lo erano la sua intelligenza e la sua sensibilità che, allo stesso modo di quella malinconia cronica, erano caratteristiche inscindibili dall’uomo che avevo conosciuto.
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Mi accasciai vicino al fuoco, orgoglioso del mio acume, nella certezza di aver scoperto un altro aspetto che ci legava in un’amicizia al di là del tempo e dello spazio. Una volta terminate le musiche, i balli e tutto quello che riguardava i festeggiamenti, ci ritirammo ognuno nella propria capanna, ognuno stanco morto per il lavoro e per la festa. Mi addormentai senza nemmeno togliermi gli scarponi e quella notte non ci furono ostacoli per il mio riposo: dormii profondamente fino quasi a mezzogiorno e al mio risveglio Romeo era già partito, cosa che avrei dovuto fare anch’io in giornata. Mi misi subito al lavoro riempiendo le mie due sacche con i pochi abiti e i molti attrezzi da lavoro che portavo sempre con me. Lasciare il villaggio con la jeep era sempre un’impresa, perché i bambini, che si divertivano a sentire il rombo di quella macchina incredibile, circondavano il mezzo e me, ricoprendomi di domande, il più delle volte incomprensibili per la confusione. Era per questo motivo che avevo lasciato la jeep fuori dal villaggio: non mi piaceva essere al centro dell’attenzione e mi sembrava di offendere la dignità dei poveri che abitavano l’Africa attraversando i loro villaggi in automobile. Così salutai i due spagnoli, che sarebbero rimasti ancora per qualche tempo a controllare il funzionamento del pozzo, e gli abitanti del villaggio. Mi caricai le sacche a spalla e presi la strada sterrata che portava a nord, verso la mia jeep e verso la città di Mbarara, nel sud dell’Uganda, dalla quale sarei presto ripartito per un altro incarico. Avevo circa un chilometro da percorrere a piedi prima di raggiungere l’auto e lungo quel tratto inondato dai caldi raggi del sole mi fermai due volte per riposare dato che le sacche, nel complesso, pesavano una quarantina di chili.
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Raggiunsi il mezzo di trasporto e mi avviai canticchiando verso la città. Ad un certo punto vidi, a poca distanza dal bordo della strada, tre sagome che sembrava mi stessero aspettando. Erano tre leoni e il fatto che fossero vicini al bordo dello sterrato, ad una ventina di metri non di più, era piuttosto insolito visto che gli animali scappavano terrorizzati a distanza di sicurezza non appena udivano il suono metallico dei motori. Rallentai l’andatura, mi mossi a passo d’uomo, osservando gli animali che, a loro volta, avevano i loro occhi neri fissi su di me. Senza distogliere i loro sguardi iniziarono a trotterellare al fianco della macchina. Li osservai bene e rimasi intimorito, nonostante la mia posizione sicura, dalle loro zampe possenti, dagli artigli e dalle zanne bianche che sbucavano tra le labbra. Pensai alla notte che avevo passato, per così dire, in compagnia di qualche loro lontano parente ed ebbi giusto il tempo di considerare l’ipotesi che fosse stato tutto un sogno prima di sorprendermi a mugugnare lo stesso motivo che, quella notte, era uscito dalla chitarra di Romeo e che, con molte probabilità, mi aveva salvato la vita. Mi fermai improvvisamente con l’idea che quei tre potessero essere veramente gli stessi leoni che avevano assistito all’involontario spettacolo di due notti prima allestito nel sonno dal nostro cantastorie. Spensi il motore. Loro si fermarono subito dopo di me e rimasero fermi e attenti, pronti a scappare al primo segnale di pericolo. Cominciai a fischiettare, guardando fuori dal finestrino alla mia destra, dove le fiere rimanevano immobili, ma il risultato che ottenni non fu quello che avevo sperato. I leoni ripresero a camminare, stavolta allontanandosi dalla jeep, probabilmente intimoriti dal mio comportamento, e si
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inoltrarono ondeggianti nell’erba alta della savana, come scocciati dalla presenza innaturale che per loro dovevo rappresentare. Li guardai finchè non sparirono tra il giallo sbiadito della pianura, sorrisi e mi rimisi in marcia con il motivetto che continuava a girarmi nella testa.
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CAPITOLO 5
Lungo l’arco dei cinque anni che passarono tra i nostri primi due incontri continuai a girare per l’Africa centrale e a supervisionare lavori come ospedali, scuole, edifici in genere, pozzi, come quello di Awamakumba, e molto altro. Lavori che significavano la volontà dei paesi e soprattutto dei popoli, di lasciarsi alle spalle le atrocità delle guerre civili e dei conflitti tra i diversi stati. La tecnica che avevo imparato da Romeo fu la base per la costruzione di altri pozzi che erano sotto la mia supervisione, e, in seguito, fu adottata anche da altri ingegneri e da altre società come quella di cui facevo parte. Furono cinque anni di attività intense ed appaganti. Il mio lavoro mi piaceva già prima di venire ad esercitarlo in Africa, ma qui era ancora più soddisfacente. Innanzitutto perché le opere che costruivamo lasciavano spesso a bocca aperta gli abitanti che, talvolta, non conoscevano le meraviglie tecnologiche di cui eravamo capaci, e poi perché la maggior parte delle nostre fatiche andavano a migliorare le condizioni di vita di persone che ne avevano veramente bisogno. Una mattina mi trovavo in un villaggio poco distante da Mbarara, città dove sorgeva la sede della mia società e dove avevo un piccolo appartamento. Stavamo costruendo un edificio che sarebbe servito da emporio. I villaggi vicini alle città, infatti, godevano di privilegi impensabili per altri luoghi. Così Maribù, che era circa dieci volte Awamakumba, anno-
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verava tra questi privilegi un pronto soccorso che fungeva spesso da ambulatorio per le vaccinazioni, una strada non asfaltata ma molto ben mantenuta, un acquedotto e la chiesa. In questo villaggio, come quasi in tutti i grandi villaggi in prossimità dei grandi centri, le vittime di malattie e di carenze nutritive erano meno rispetto a quelle delle zone più selvagge, dove gli aiuti stentavano ad arrivare. Quella mattina si stavano alzando le travi per il tetto e il lavoro era gravoso per la mia schiena che, con il passare delle primavere, iniziava a scricchiolare un pochino. Mi presi una pausa, ristorandomi con un bicchier d’acqua all’ombra del gazebo allestito per permettere ai braccianti di passare il momento del pranzo al riparo dal sole cocente. Mi misi a sedere e cominciai a pensare, non so perché, a Romeo. Erano passati oramai cinque anni da quando ci eravamo conosciuti. Forse quello sarebbe rimasto il nostro unico incontro. Mi rallegrai pensando che avevo avuto la fortuna di conoscerlo. Persone così non si incontravano tutti i giorni ed io ero stato uno dei pochi eletti che avevano potuto farsi segnare dalla sua impronta. Romeo era passato su di me, con la sua musica, con le sue parole, con il suo modo di essere. Aveva lasciato una traccia composta da dolorose speranze. E quella traccia era un’opera d’arte. La sua arte. Romeo era un poeta e la sua poesia rimaneva anche quando lui non c’era. Non poteva scorrere via come l’acqua di un fiume. Si radicava nelle persone che l’avevano ascoltato con quella sua chitarra. Era una specie di creatura mitologica, mezzo uomo e mezzo chitarra. Una specie sconosciuta di centauro. Mezzo uomo e mezzo poesia. Non avevo mai conosciuto un poeta prima d’allora e avevo sempre creduto che sarebbe stato noioso conoscerne uno. Non avevo idea di quanto profondo sarebbe stato. Romeo suonava cose di cui io non sospettavo l’esistenza. Emozioni sco-
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nosciute, ma allo stesso tempo così intime da lasciarmi imbevuto di sconcerto. La sua musica narrava la verità che molti uomini cercano per una vita intera. Ma non era una musica buona per ogni occasione. Aveva ragione quando diceva di non essere un cantante. La sua era sempre una cornice per un preciso contesto. Era la chiave del contesto. Non avrebbe mai potuto esprimersi così sopra un palcoscenico. Il suo compito era quello di sparire, non di apparire. E quando suonava spariva dietro la realtà violata nel suo intimo, denudata e gettata in pasto al giudizio dei suoi ascoltatori. La sua non era una musica “facile” ed indolore. Sorseggiai lentamente quel che rimaneva nel bicchiere che avevo in mano e alzai lo sguardo sulle distese sterminate della savana. Mi chiesi dove avrebbe potuto essere in quel momento Romeo. Mi chiesi se l’avrei incontrato di nuovo e ad un tratto, all’orizzonte, scorsi un’ombra. Balzai in piedi, scrutai attraverso i raggi del sole e compresi che tutte le risposte che cercavo stavano camminando verso di me, con l’inseparabile e sinuosa chitarra appesa a tracolla che accompagnava la meravigliosa voce profonda. Mi diressi quasi correndo verso il cantastorie che avanzava sempre con la stessa, lenta andatura nell’erba alta fino alle ginocchia. Smise di suonare soltanto quando ci trovammo a meno di un metro di distanza, mi guardò con un largo sorriso e disse: «Ho atteso molto questo momento.» Gli misi una mano dietro la nuca e lo tirai verso di me in un abbraccio, poi, tenendogli il braccio sulla spalla mi girai e cominciai a camminare verso la tettoia, dicendo: «Anch’io l’ho aspettato tanto.» Ormai il pomeriggio stava lasciando spazio alla sera e decidemmo di tornare insieme in città, distante meno di un’ora. Non era invecchiato di un giorno. Aveva lo stesso viso, lo
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stesso portamento, gli stessi capelli. Era circondato dallo stesso alone di mistero, dallo stesso fascino, dalla stessa malinconia di cinque anni prima. Non trovai nulla di diverso e fu facile, per me, sentire nuovamente quel legame profondo che avevo provato al tempo del nostro primo incontro. Era una bella sensazione sentirsi in compagnia di un vecchio amico. Mi sembrava di conoscerlo da sempre, che fossimo cresciuti insieme e non che avessimo avuto a che fare l’uno con l’altro per una sola settimana. In vent’anni, in Africa, avevo conosciuto molte persone e molti godevano della mia stima e della mia fiducia, sia all’interno della società edile sia fuori, ma questa era un’altra cosa. Con Romeo si parlava di tutto con più passione. Soltanto con lui riuscivo ad essere così spontaneo e naturale, è una sensazione che chi ha avuto la fortuna di avere dei veri amici, comprende senz’altro. Arrivammo in città verso le diciannove e decidemmo di mangiare un boccone in un ristorante il cui padrone era un mio vecchio amico. Mauro, il ristoratore, ci fece accomodare ad un tavolo sulla terrazza, al riparo delle zanzariere. Durante la cena Romeo mi disse che aveva pensato spesso a me durante i suoi viaggi. Io risposi che anche lui mi aveva lasciato molto e che fare la sua conoscenza era stato più che interessante. Nè io, né lui, però, ci sentivamo a nostro agio nel ricevere complimenti. Così finimmo per parlare d’altro, finchè non lo invitai a stare da me per qualche giorno insistendo fino a quando non accettò. Il mio appartamento era al primo piano di una palazzina in una via non delle più chic, ma comunque vivibile. In questa zona c’erano molti locali e la gente che si affollava per le strade, soprattutto di sera, era molta. Decidemmo di entrare in un bar che a me piaceva molto
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perché mi ricordava i saloon di quei vecchi film western che guardavo quando avevo quindici anni. Ci sedemmo ad un tavolino d’angolo, nell’oscurità. Il locale era quasi completamente di legno scuro all’infuori del pavimento e del muro che stava dietro al bancone. Aspettammo il cameriere e ordinammo un paio di birre, prima di ricominciare a parlare delle nostre avventure. «Sembra un saloon.» Mi disse, cogliendo subito nel segno. «È per questo che mi piace. » Non c’era musica, ma il fruscio delle voci che si mescolavano, diventando incomprensibili, era molto rumoroso e ci obbligava quasi ad urlare per poterci capire. «Abiti nelle vicinanze?» mi chiese. Feci su e giù con il capo e lui rispose con una smorfia che mi fece comprendere la sua disapprovazione per tutto quel baccano. «È solo questione di abitudine. Questa sera, però, c’è più chiasso del solito» Arrivarono le birre. Avvicinai il mio boccale al suo e bevemmo il primo sorso insieme. Rimanemmo seduti per una buona mezz’ora, parlando sempre di quello che ci era accaduto nei cinque anni precedenti, finchè non decidemmo di uscire a fare una passeggiata, per smaltire la copiosa mangiata e la birra che era caduta sopra il fondo di vino che ci eravamo fatti al ristorante. Una volta usciti ci rendemmo conto di quanto fosse gradevole quella serata africana. La strada era spazzata da una fresca brezza che sottolineava a meraviglia la temperatura notturna. La luna, dall’alto della sua posizione, emanava riflessi rossastri che coloravano ogni particolare. Come se non bastasse l’allegria alcolica che ci rendeva piacevolmente gioiosi, rendeva quest’atmosfera ancora più godibile.
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Non appena uscito dal locale, pensai che il mondo era un posto magnifico se poteva esistere una sera come quella. Anche Romeo sembrava della mia stessa idea; non parlò per un po’, ma dal suo viso trapelava benessere. Sembrava addirittura diverso dal solito. Penso che una volta ogni tanto una piccola trasgressione, sempre nei limiti dell’umanità, possa essere un rimedio per tanti mali. Romeo appariva molto più rilassato, spensierato, sembrava addirittura ringiovanito. Il peso delle sue idee, per quella sera, gli aveva dato pace e dimenticare tutti i problemi, ogni tanto, non è solo piacevole, ma anche necessario. È l’unico modo che abbiamo, tante volte, per andare avanti sul nostro sentiero del destino. Camminammo per le strade deserte della periferia, ora nessuno dei due aveva voglia di tornare a casa, perché stavamo troppo bene all’aria aperta della sera. Il falso silenzio che regnava tra tutte quelle palazzine era assecondato dall’oscurità, interrotta soltanto dai lampioni malandati, a duecento metri l’uno dall’altro, e dalla luna che filtrava con i suoi raggi in ogni possibile varco. Ad un tratto il silenzio del riposo notturno fu interrotto bruscamente da un grido. Si trattava di una voce di donna e sembrava non essere molto distante da noi, forse dietro a qualche caseggiato che si vedeva lungo la strada principale. Io e Romeo, che stavamo ridacchiando su non ricordo cosa, ci facemmo subito seri in viso. Lui cominciò a correre e io cercai di non farmi seminare. Dopo il primo urlo se ne sentirono altri, più deboli e soffocati. Arrivammo all’angolo di una palazzina il cui colore doveva essere un rosa pallido, ma che la luce dei lampioni trasformava in una specie di bianco sbiadito. Proprio mentre ci voltavamo per guardare nel vicolo tra questo edificio e quello adiacente, sentimmo una nuova voce,
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questa volta maschile, che ordinava alla donna di tacere. Il vicolo era buio, l’unica luce che lo rischiarava debolmente proveniva da uno dei due palazzi e si trattava di una lampadina appesa al muro sopra l’entrata secondaria. Ai piedi della porta stava la donna circondata da quattro uomini. Non si accorsero subito della nostra presenza, impegnati com’erano nel cercare di avvicinare quella povera donna inferocita che, da terra, scalciava come una dannata. Ora la sua voce non era più soffocata e le sue urla erano chiare e limpide nel buio notturno. Probabilmente era riuscita a liberarsi dalla stretta di uno di quei bestioni un istante prima che noi arrivassimo in suo soccorso. Romeo ordinò di lasciarla stare mentre ci avvicinavamo alla scena con passo deciso. I quattro si voltarono verso di noi, sorpresi dalla nostra presenza e dal nostro incedere risoluto. Uno di loro, resosi conto della situazione, se la diede a gambe verso l’oscurità del vicolo. Gli altri tre si disinteressarono della donna che ansimava a terra e si misero in bella posa proprio di fronte a noi. Eravamo a pochi metri, ormai, e Romeo, che mi trascinava verso di loro con la sua andatura sicura, non sembrava avere intenzione di fermarsi. Uno dei tre omoni neri che ci stavano ad aspettare ci ammonì: «Vi conviene andarvene finchè potete. Questi non sono affari vostri.» Romeo sembrò non sentire la voce dal tono minaccioso che ci intimava di andarcene e continuò a camminare, impassibile, la testa alta, verso di loro. Io ero un metro dietro di lui quando arrivò a un passo dall’uomo che aveva parlato e gli si parò davanti, con il naso a pochi centimetri dal mento del grande uomo nero. Lo guardò fisso negli occhi e gli disse con voce piena di rabbia, quasi un sussurro proveniente dalle profondità del suo
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stomaco gorgogliante per l’irritazione che lo stava invadendo: «Questi sono anche affari nostri.» «Ti conviene sloggiare.» Ribadì l’omone. Passarono alcuni interminabili secondi in cui Romeo restò con gli occhi fissi in quelli del suo avversario, mentre gli altri due uomini neri, anch’essi grandi e grossi, si spostarono un po’ più avanti, quasi a formare un semicerchio intorno al fiero ragazzo pallido. Li imitai, avvicinandomi al mio socio, cercando di mantenere la calma e un’espressione sicura sul volto, pur sapendo che non avrei potuto far altro che prendere un sacco di botte. L’omone di fronte a Romeo diede il via alle danze: sferrò un pugno a sorpresa diretto al volto del mio amico che, però, riuscì a schivare, a prendere il polso dell’uomo e a girarglielo dietro alla schiena. Mi corsero brividi freddi lungo tutta la schiena quando sentii lo sricchiolio delle ossa del braccio che si rompevano. Le urla dell’uomo,però, fecero subito sparire questa sensazione. Tutto si era svolto in un attimo, i due amici del malcapitato non ebbero il tempo di difenderlo. Indocilito il suo uomo, Romeo lo spinse a terra, rimanendo poi immobile davanti ai due che lo guardavano con un’espressione di stupore sul viso. I suoi occhi si spostavano da quelli di uno a quelli dell’altro, finchè i due non decisero che sarebbe stato più saggio lasciar perdere, aiutare il proprio compagno e andarsene. Romeo non disse una parola, rimase a guardare i tre grandi neri che si allontanavano tra i gemiti di dolore e le imprecazioni infinite che gli piovvero addosso. La donna, che nel frattempo si era alzata, era rimasta in disparte a guardare la scena. Romeo le si avvicinò e le chiese come si sentisse. Bianca, alta come lui, sul metro e settanta, con dei lunghi capelli neri raccolti in un nodo sulla nuca, mol-
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to carina, rispose con la sua voce sottile che andava tutto bene. La bella ragazza spiegò che stava rincasando dopo il lavoro. Faceva la cameriera in un locale e alla fine della serata, per strada, si era trovata davanti quei quattro uomini neri. Era stata portata in quel vicolo con una mano sulla bocca, per impedirle di chiedere aiuto, poi era riuscita a divincolarsi e a farsi sentire da noi prima che iniziassero a strapparle i vestiti di dosso. Ripensando alla scena, la poveretta, si fece trasportare dall’emozione e cominciò a piangere sulla spalla del suo salvatore. Romeo, dal canto suo, prese tra le braccia la povera donna e la lasciò sfogare finchè non riprese il controllo. Ci avviammo verso la strada principale per riaccompagnare a casa la ragazza che non abitava molto lontano da lì. Lungo il tragitto la interrogammo sul suo lavoro, con l’intenzione di andare a trovarla qualche volta, e scoprimmo che lavorava in uno dei locali della via dove avevo il mio spartano alloggio. Ci congedammo con un caldo arrivederci. Quando ci trovammo da soli, in mezzo alla strada, diedi sfogo a tutte le mie domande. Mi trasformai in una comare curiosa e iniziai a parlare, accavallando le parole. «Che diavolo ti è successo in quel vicolo? Sembravi l’angelo vendicatore dei giusti! Dove…Come accidenti hai fatto a spaccare il braccio a quell’armadio?» Il mio era il tono di chi è rimasto piacevolmente sorpreso da un avvenimento o da una situazione inattesa e Romeo sembrò molto divertito per questo. Lo sguardo serio e minaccioso che aveva sfoggiato nel vicolo era scomparso, lasciando il posto ai soliti occhi malinconici e tranquilli. «Ho imparato a difendermi.» «Tu non…» Non sapevo bene cosa dire, poi, sospirando
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finii: «Hai imparato a difenderti?! Oh beh, niente male, ragazzo! Io, se ti può interessare, penso di aver perso dieci anni di vita. Quei tre erano enormi!» Mi ero preso davvero un bello spavento. Arrivammo a casa e gli mostrai l’appartamento, anche se non c’era molto da scoprire. Ci mettemmo a dormire, io in camera mia e lui in salotto, sul divano. Era molto tardi e la camminata aveva notevolmente conciliato il sonno così ci ritrovammo entrambi addormentati in pochi attimi.
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CAPITOLO 6
La mattina seguente ci svegliammo sul tardi. Le emozioni della giornata passata insieme erano state intense e avevano influito notevolmente sul nostro riposo. Facemmo una veloce colazione e lasciammo il forte. Mi feci accompagnare da Romeo alla sede della società edile dove avvertii i miei superiori che mi sarei preso un giorno di vacanza da passare con il mio gradito ospite. Tornammo a passeggiare nuovamente per le strade della città che sembravano incuriosire molto Romeo. Gli mostrai le diverse zone, i posti in cui avevo lavorato, i locali più carini, le vie con i negozi, le strade più trafficate e quelle meno popolose. Non parlammo molto e quel poco di cui si discusse fu incentrato sulla visita improvvisata di cui io ero l’improbabile guida. Romeo era attento ad ogni particolare, non esitava a farmi domande, anche se spesso non sapevo rispondere. Si guardava attorno con negli occhi una grande voglia di comprendere. Molte nazioni dell’Africa, tra le quali anche l’Uganda, erano tormentate da guerre che spesso duravano da più di vent’anni, e Romeo lo sapeva bene. La città in cui ci trovavamo era relativamente tranquilla, i conflitti interni che dissanguavano l’Uganda erano al nord, non molto lontani da noi, ma comunque abbastanza distanti da concedere una vita tranquilla agli abitanti di Mbarara. Spiegai tutto ciò di cui ero a conoscenza, ma la sua curiosità era insaziabile.
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La sera giunse alla svelta, l’unica pausa era stata quella che ci eravamo concessi per il pranzo in un piccolo ristorante malandato. Avevamo visitato ogni angolo della città e pensammo che non ci sarebbe stato modo migliore per concludere la nostra gita di una tappa nel locale dove lavorava la graziosa ragazza che avevamo salvato. Che Romeo aveva salvato. Il locale era sulla strada, vicino a casa, non distante dal “saloon”. Il legno la faceva da padrone, come nella maggior parte dei locali pubblici della città, ma a differenza della maggior parte di questi, era rifinito meglio, i particolari erano più curati, o forse erano soltanto meno datati. Le luci basse, inoltre, contribuivano a rendere l’atmosfera, già cupa a causa del legno molto scuro, ancora più misteriosa. I tavoli erano di metallo grigio, a differenza dei più comuni tavolini in legno imbarcati per l’età che si trovavano dappertutto, ed erano ricoperti con delle tovagliette nere con al centro lo stemma di una birra irlandese. Le sedie, sempre in metallo, erano ben ordinate e seguivano la disposizione dei tavoli fin sul rialzo che stava al di là del bancone, sovrastato da quattro lampade bianche simili a quelle che illuminano le sale da biliardo. Il locale era molto più grande rispetto alla media e c’era addirittura il lusso del gabinetto, cosa pressochè inesistente da altre parti. Trent’anni di vita nel campo edile mi avevano trasformato in un essere che non poteva più separarsi dal proprio lavoro. Esaminare luoghi e costruzioni, ormai, era una funzione vitale. La ragazza ci vide entrare e ci riconobbe all’istante. Si allargò in un sorriso dai denti limpidi come il sole invernale e ci si fece incontro, lasciando lo straccio che aveva tra le mani sul bordo del lavandino dietro al banco. Era veramente bella, ora più della sera prima, e si muoveva in modo molto elegante dentro al vestito bianco che le ar-
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rivava appena sopra le ginocchia mettendo in risalto tutte le rigogliose forme della sua invidiabile gioventù. Ci raggiunse districandosi tra i corpi ammassati gli uni agli altri e ci salutò chiedendoci che cosa potesse offrirci. Noi ricambiammo il saluto con un cenno del capo e con un sorriso. «Siamo passati a trovarla.» dissi. «Ieri sera abbiamo dimenticato di presentarci.». Rise di gusto e per la seconda volta in pochi istanti mi trovai ad ammirare il suo splendido sorriso. Aveva le labbra di un lucido rosso acceso che facevano risaltare i bianchissimi denti ordinati. Il suo volto diventava raggiante e i suoi occhi verdi si stringevano in modo così ammaliante da non poter passare inosservati. Era un sorriso assolutamente illuminante. «Mi chiamo Mireja.» disse accompagnandoci al banco. «Non diamoci del lei, è così freddo…non vi pare? E poi mi fate sentire una vecchietta.» continuò. Ci presentammo anche noi, prendemmo le birre che ci porse la nostra simpatica barista e ci sedemmo ad un tavolo aspettando che il locale si svuotasse un po’ per scambiare qualche parola con l’avvenente ragazza. Passarono un paio d’ore, durante le quali io e Romeo parlammo della visita alla città che ci eravamo ormai lasciati alle spalle. Finchè Mireja non prese posto al nostro tavolo. Sollecitata appena dalla nostra curiosità ci raccontò la storia che l’aveva portata fino a lì. Era nata in Spagna, nella vivace Catalogna, in un paese vicino a Barcellona, terza figlia di un grande imprenditore che le aveva dato un’infanzia ricca di oggetti ma, come spesso succede, povera di compagnia. Il lavoro del padre lo teneva lontano da lei, facendole soffrire la mancanza di quella figura paterna di cui lei sentiva tanto bisogno. Crescendo aveva cominciato quasi per gioco a fare del vo-
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lontariato in un’associazione che raccoglieva denaro, vestiti, giocattoli, e quant’altro per i popoli dell’Africa. Nonostante tutti i suoi viaggi al fianco del padre non aveva mai calcato il suolo africano, ma le belle parole che si spendevano a questo proposito all’interno del gruppo di volontariato, la convinsero a scoprire di persona le meraviglie che tanto si lodavano. Compiuti diciotto anni seguì alcune amiche in un viaggio che la fece innamorare della terra che ora ci sosteneva. Tornata a casa aveva annunciato al padre di voler vivere per un po’ in questo continente, ma il buon signore, che aveva ben altri progetti per la sua amata figlia, non volle sentirne parlare. Mireja insistè a lungo, finchè il padre dovette accondiscendere, negandole, però, qualsiasi aiuto economico. I due si erano lasciati a muso duro, ma questo non impedì a Mireja di partire e di farsi una vita qui, dove ora lavorava e poteva continuare ad aiutare i poveri con nuove attività di volontariato. Con i soldi che guadagnava era riuscita a comprarsi un piccolo appartamento. Aveva ventitre anni, ormai, ed era in Africa da due. Dopo aver concluso il suo racconto interrogò noi due che dovemmo raccontare a grandi linee la storia della nostra vita sotto la minaccia della sua simpatica insistenza. Quando fu il turno di Romeo, che per altro rimase chiuso come un riccio sul suo passato remoto, notai che Mireja lo guardava affascinata, quasi rapita dalla storia recente di quella vita così avventurosa e solitaria. Romeo, a sua volta, non esitava a tuffarsi nei grandi occhi verdi della bella spagnola. Pensai che per me fosse giunto il momento di andarmene. Largo ai giovani. «Vi lascio alle vostre chiacchiere,» dissi «la mia schiena ha bisogno di riposo.»
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Mi alzai e prima di andarmene dissi a Romeo che gli avrei lasciato la porta di casa aperta. Presi a camminare verso l’uscita con un lieve sorriso sulle labbra sotto lo sguardo dei due un po’ sorpresi, ma, in fondo, ne sono certo, felici di essere rimasti soli. La ragazza era attratta da Romeo e lo stesso valeva per lui. “Beata gioventù” mi dissero i miei nonni paterni quando presentai loro quella che sarebbe poi diventata mia moglie. “Beata gioventù” mi ripetevo ora, pensando ai due ragazzi e al mio angelo custode che mi accompagnava da lassù. A dire la verità la mia schiena era in perfetta forma, quindi puntai dritto verso il mio fidato saloon sperando di trovare qualche conoscente per fare quattro chiacchiere. Il locale era ancora pieno di vita. Mi avvicinai al bancone e, guardandomi attorno, i miei occhi si inchiodarono su un volto che mi era familiare. Impiegai un poco a capire. Si trattava del gigante che avevamo incontrato la sera prima nel vicolo. A rafforzare la mia certezza che si trattasse proprio di lui c’era quel braccio che giaceva inerme appeso al collo dentro un’ingombrante ingessatura. Ordinai una birra al barista, pagai e presi la mia bottiglia da 33 avviandomi velocemente verso l’uscita. Cercai ancora il bestione con lo sguardo, ma non lo vidi e mi rassicurai un poco. Appena fuori dal locale, però, pensai che se mi avesse riconosciuto e mi stesse seguendo non potevo di certo andare dritto a casa. Se avesse scoperto dove abitavo non avrei potuto più stare tranquillo nemmeno a casa mia. Mi avviai di nuovo verso il bar dove avevo lasciato i due ragazzi. All’improvviso, tra le correnti di persone che camminavano nella stretta via, sentii una voce sul collo e, quasi contem-
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poraneamente, un oggetto appuntito solleticarmi la schiena. «Continua a camminare e non fare stronzate. » Voltai la testa: il grosso mascalzone era in compagnia di altri tre grossi giovani africani. Il terzo, pensai, doveva essere il coniglio che la sera prima era fuggito nell’oscurità. Il sangue mi si raggelò nelle vene. Camminai sotto le loro indicazioni fino in fondo alla via principale, dove un incrocio obbligava a scegliere se tenere la destra o optare per la sinistra. La voce mi disse di prendere a sinistra. Camminammo per altri cinque o seicento metri, muovendoci verso zone molto più tranquille. La confusione di pochi istanti prima sembrava essere lontana chilometri. Ora chi ci incontrava poteva vedere chiaramente che il gruppetto di omoni alle mie spalle mi stava guidando con un coltello o un cacciavite, ma nessuno si azzardò a fiatare e non potei non capire il perché. Mi fecero svoltare in un vicolo deserto e, arrivati in fondo, mi fecero fermare. Il punteruolo che avevo alle spalle si allontanò dalla mia schiena e mi fu ordinato di voltarmi. Non avevo mai affrontato nessuno in vita mia e non sapevo come ci si può difendere da quattro giganti affamati di vendetta come quelli che avevo davanti. Mi misi spalle al muro e alzai i pugli serrati in una guardia che fece divertire i quattro ragazzoni. Uno di loro mi si avvicinò, con la leggerezza di un sorriso quasi infantile. Fece partire un pugno che mi colpì al volto. Se avessi potuto ringraziarlo l’avrei fatto, perché quello fu l’unico colpo che sentii. Un dolore fulminante mi pervase in tutto il corpo. Poi più nulla.
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CAPITOLO 7
Ricordo che poco prima del mio risveglio credetti di essere in piedi in una stanza vuota e illuminata da una luce debole e fiacca. Intorno a me aleggiava nell’aria una musica dolce, celestiale, un suono così toccante, così profondo e così vivo che mi fece venir voglia di piangere. Mi mossi fino all’uscio della stanza e mi fermai ad ascoltare. La melodia arrivava sempre più chiara e limpida fino alla mia mente, finchè, oltre alla musica, potei distinguere anche una voce. I secondi continuavano a passare e io rimanevo fermo, sempre sull’uscio di quella stanza, come incantato da quella musica che mi chiamava, che diventava sempre più forte, come se mi si stesse avvicinando. La sentivo così vicina che pensai di poterla toccare. Protesi in avanti un braccio, cercando di afferrarla ed ecco che, all’improvviso, non ero più in quella benedetta stanza con la luce fioca. La musica era scomparsa, come in fuga dal mio gesto inopportuno. Aprii gli occhi ma li richiusi immediatamente per via dei raggi che penetravano dalla finestra. Ora tutto era chiaro, ero in un letto d’ospedale, ricordai i quattro giganti neri che mi conducevano nel vicolo e il pugno che mi faceva crollare a terra. Pensai che quella musica doveva essere opera del mio amico. Quasi a voler sigillare la mia idea, Romeo parlò. «Buongiorno!» Piegai le labbra in un impercettibile sorriso, ma durò sol-
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tanto un’istante, il tempo di rendermi conto che quel piccolo movimento mi aveva provocato dolori in tutto il corpo. Dopo le parole di Romeo sentii anche una sottile risata femminile. Cercai di nuovo di aprire gli occhi e questa volta, nonostante il dolore per la luce e per i muscoli indolenziti, mi costrinsi a tenerli aperti. Mireja era seduta su una sedia a pochi passi dal letto e Romeo stava su di una poltroncina di fronte a lei imbracciando la sua chitarra. Si alzarono e si portarono ognuno su uno dei lati lunghi del letto. Mireja mi prese la mano, provocandomi dolori inauditi, mentre Romeo mi guardava dall’alto con un sorriso infinito. «I medici hanno detto che una volta sveglio saresti stato fuori pericolo.» Mi disse il poeta in tono fin troppo serio. Avrei voluto parlare, ma non riuscii ad emettere altro che suoni incomprensibili. Mireja scoppiò a piangere, non so se per la felicità o a causa dei sensi di colpa. Forse per entrambi. Romeo tornò di nuovo a sedere e ricominciò a suonare. Passai un pomeriggio pieno di dolori immensi in tutto il corpo. La musica mi aiutava a non pensarci. Mireja, invece, mi riportava alla realtà ad ogni minimo movimento. Ma quel contatto, seppur doloroso, era molto confortante. Il giorno seguente mi raccontarono quanto era accaduto, anche se avevo potuto intuirlo da me. Ero stato trovato mezzo morto nel vicolo dove mi avevano pestato, qualcuno aveva chiamato l’ospedale e un’auto medica era venuta a raccogliermi trovandomi ancora dove ero stato lasciato, senza nessuno vicino. Chiunque avesse chiamato i soccorsi se l’era data a gambe, ben sapendo che già con quel gesto aveva rischiato di finire, come me, in fondo a un vicolo con le ossa rotte.
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Arrivato in ospedale mi avevano portato urgentemente in sala operatoria per ricompormi una frattura alla gamba e per fermare le molte, piccole emorraggie provocate da un punteruolo che mi aveva infilzato una quindicina di volte. Fortunatamente quei buchi non avevano leso nessun organo vitale, altrimenti non mi sarei mai risvegliato dal coma. Avrei comunque potuto morire dissanguato. Ero rimasto in coma per due settimane. Romeo, non trovandomi a casa, mi aveva cercato per tutta la notte, finchè mi trovò in ospedale, dove ero stato identificato grazie al portafoglio con la patente e i documenti che avevo ancora addosso quando mi avevano trovato. Da allora e fino al mio risveglio non ero mai più rimasto solo. Passai due mesi tra la stanza d’ospedale e la palestra per la riabilitazione della gamba. Romeo mi era sempre vicino, mi accompagnava alle faticose sedute e poi mi riportava nella mia stanza. Anche Mireja, appena possibile, mi veniva a trovare. Lei e Romeo erano diventati inseparabili. Erano perdutamente innamorati l’uno dell’altra ed era un piacere vederli insieme. Era come rinascere e rivivere una storia che non tornerà mai più. Ero loro grato per questa possibilità che mi regalavano ogni giorno. Dopo due mesi lasciai l’ospedale. La gamba mi faceva ancora male se le chiedevo certi sforzi ancora troppo pretenziosi, ma tuttosommato mi ero rimesso in sesto. Tornato a casa trovai tutto come l’avevo lasciato, pulito e in ordine, come se non fossi mai stato assente. Aveva pensato a tutto la mia giovane amica che, oltre a occuparsi di casa mia, si era anche preoccupata del mio ospite, invitandolo a stare da lei.
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Romeo, a sua volta, aveva cominciato a cantare e suonare nel locale dove lei lavorava. Se in quel periodo foste stati in città, avreste senz’altro sentito parlare di quel bar e dell’uomo con la chitarra. Romeo accompagnava al lavoro Mireja e quando sentiva l’ispirazione giusta attaccava a suonare. Tutta la città conosceva il suonatore, il poeta con la chitarra, e, per la felicità del padrone del locale, tutta la città lo voleva ascoltare. La mia esistenza riprese lentamente quella piega che aveva lasciato mio malgrado quasi tre mesi prima. Ricominciai a girare di nuovo per l’Africa centrale, a lavorare e a studiare carte, mappe e territori e, come conseguenza di tutto ciò, ad assentarmi dalla città per periodi che variavano da pochi giorni a diversi mesi. Nel frattempo Romeo e Mireja continuavano a vivere insieme. Penso che era passato molto tempo dall’ultima volta che era rimasto nella stessa zona così a lungo. Mireja era diventata fondamentale per lui. Quando tornavo in città Romeo aveva sempre molte cose da dirmi, da chiedermi, dei consigli di cui, diceva lui, aveva un disperato bisogno. Notai che la sua malinconia era lievitata. Gliene parlai, ma non ci fu modo di cavarne qualcosa, e ne parlai anche alla ragazza, ma neppure lei aveva saputo sciogliere le fitte maglie di quella mente misteriosa. L’amava e non pretendeva che le desse spiegazioni che non voleva dare. Era una ragazza molto discreta. La libertà che gli lasciava era il motivo per cui erano così affiatati. Romeo aveva bisogno di essere libero, anche nell’immenso amore che provava per Mireja.
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CAPITOLO 8
Era mattina presto quando la graziosa ragazza bussò alla porta del mio appartamento. «Chi è?» mi informai. «Sono Mireja.» rispose con la sua voce inconfondibile. Mi avvicinai alla porta e la feci entrare. Si guardò intorno e mi interrogò. «Non è qui?» mi chiese con lo sguardo impaurito. «Non lo vedo dall’altroieri.» risposi, intuendo che stava parlando di Romeo. «Se n’è andato. Sapevo che sarebbe successo, me lo sentivo, anche se non volevo crederci.» Cominciò a piangere prima ancora di raggiungere le mie spalle. La strinsi forte a me cercando di consolarla dicendole che sarebbe tornato, che lui non l’avrebbe mai abbandonata in quel modo. Passarono alcuni minuti e Mireja si calmò un poco. La feci accomodare sul divano e le preparai la colazione. Le chiesi se fosse accaduto qualche cosa di strano nei giorni precedenti, ma lei mi disse che era stato tutto normale. Cercammo di capire il motivo di quell’improvvisa scoparsa, ma il suonatore non aveva lasciato dietro di sé nessun indizio, sempre che se ne fosse andato per conto suo. Per un istante prendemmo in considerazione pure l’ipotesi della vendetta. Quella stessa vendetta che mi aveva ridotto in un letto d’ospedale. Ma era passato troppo tempo dalla lezione che Romeo aveva impartito a quei ragazzoni e accantonammo l’idea.
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Quel giorno avevo del lavoro importante da svolgere, così Mireja rimase a casa mia fino al momento in cui dovette prendere servizio al bar. Era sicura, come io lo ero del contrario, che se Romeo fosse tornato sarebbe passato da me, prima che da lei. Ma tutte le sue speranze si spensero quando lasciò il mio appartamento per andare al bar. Ero appena tornato dall’ufficio di un collega, erano quasi le otto, e vederla uscire fu più doloroso che vederla entrare. «Questa sera ti vengo a trovare, ok? Torniamo a casa insieme, se vuoi puoi dormire qui, così chiacchieriamo un po’.» Le accarezzai il viso e le asciugai alcune lacrime che le bagnavano le guance. Lei sembrò riprendere un poco di controllo e di coraggio. Quanto bastava per affrontare la strada. Rimasto solo in casa ebbi la possibilità di pensare. Durante il giorno mi ero preoccupato più per Mireja che per il mio amico. Sapevo che Romeo era in grado di cavarsela da solo. Ma le domande che mi tormentavano erano molte. Di una cosa soltanto ero certo: sarebbe tornato. Non so nemmeno oggi per quale motivo ne fossi così sicuro. Lo sentivo nel più profondo del cuore e tanto bastava a convincere la mia mente. Dopo circa un paio d’ore raggiunsi la mia amica al bar e rimasi a parlare con gente che conoscevo appena fino al termine del turno. Erano le due e mezza passate. Ci avviammo insieme verso casa. Il sorriso professionale che Mireja aveva sfoggiato con i clienti, ora, era un miraggio. Cominciò a stringersi a me appena fuori dal locale e capii che non riusciva più a contenere le lacrime, le passai un braccio intorno al collo e la nascosi agli sguardi curiosi dei pochi superstiti all’attacco della notte. Arrivati a casa la feci sdraiare nel mio letto e le rimasi accanto finchè non fu sopraffatta dalla stanchezza.
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Mi abbandonai sulla poltrona del salotto. Perché non aveva avvisato nessuno della sua partenza? Forse se n’era soltanto andato per la sua strada. Aveva ripreso a vagare per il mondo, come aveva sempre fatto. Aveva evitato i saluti per non affrontare i sentimenti. Poteva essere una spiegazione, ma non mi convinceva affatto, perché sapevo quanto Romeo amasse Mireja. Non se ne sarebbe mai andato in quel modo. No, doveva esserci un altro motivo. Continuai a pensare, finchè il tranquillo ed inesorabile potere del sonno non sconfisse anche me. Passò una settimana senza che avessimo notizie di Romeo. Mireja rimase da me per un altro paio di giorni, poi tornò a stare nel suo appartamento, cercando di superare tutte le emozioni che la attanagliavano per riconquistare i bastioni della propria esistenza. Un giorno, però, dopo che mi ero quasi rassegnato all’idea che Romeo avesse ripreso il largo, arrivarono buone notizie inaspettate. Mi stavo occupando di un ospedale che stavamo costruendo ai margini del tessuto urbano per far fronte ad una grave epidemia di epatite e all’altrettanto grave avanzamento della guerra civile. Mi fu annunciata una persona. Scesi dal ponteggio sul quale stavo lavorando e mi avvicinai al ragazzo che mi stava cercando. Non doveva avere più di dodici o tredici anni, anche se ne dimostrava qualcuno in più per via dell’espressione adulta che aveva in volto. Sembrava abbastanza in salute, era alto poco meno di me e aveva dei corti capelli foltissimi e neri. Il suo viso era innocente e ingenuo, ma disilluso, il viso di un bambino con troppa esperienza. «Io amico Romeo. Lui dice che tu aiutarmi.» mi disse.
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«Certo.» risposi. « Dove hai visto Romeo?» Cercai di mantenere la calma e di limitare le mille domande che mi corsero in mente per non impaurire il piccolo con la mia agitazione. «È nella foresta con soldati. Lui posto mio. Ha detto posso fidarmi. Ha detto che tu sicuro aiuti.» La sua voce era piena di timore e mentre parlava fissava il terreno polveroso ai suoi piedi. «Certo, ti aiuterò. Non hai un posto dove andare, non è così?» Lui fece cenno di si con la testa, sempre con lo sguardo fisso a terra. «Non c’è problema. Verrai a stare da me. Ora dimmi, come hai fatto a trovarmi?» «Amico mi ha spiegato dove tu lavori. Quello» indicò un mio collega che stava camminando verso un’automobile «portato qui.» «Bene, sei stato molto bravo ragazzino, ora mi vuoi dire il tuo nome?» «Kuma.» Alzò gli occhi verso i miei per un istante in una fiammata d’orgoglio per quel nome che lo rappresentava, poi li abbassò di nuovo. «Va bene Kuma, ora ti porto in un posto dove potrai riposare e mangiare qualcosa. Hai fame?» Sorrise soltanto. Presi il ragazzino per mano e lo accompagnai alla jeep. Avrei voluto chiedergli di Romeo, ma pensai che ne avrebbe parlato più tardi, con Mireja. Prima di prendere posto sul sedile del passeggero volle scrutare ogni angolo di quella macchina strabiliante che stuzzicava la sua fantasia di bambino. Mentre lui scopriva i dettagli affascinanti dell’auto, io avvisai i miei colleghi che avevo una fac-
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cenda importante da sbrigare e che dovevo lasciare il cantiere. Viaggiando tra le strade affollate e confuse della città, Kuma ammirava le meraviglie che lo sovrastavano. Si metteva in piedi sul sedile per guardarsi alle spalle, si spostava nella parte posteriore della jeep e metteva la testa fuori dal finestrino. Era una piccola, simpatica peste. Arrivammo a casa di Mireja, presi Kuma per mano e lo accompagnai su per le scale, fino al primo piano. Bussai alla porta e la ragazza venne ad aprire. «Buone notizie.» le dissi. I suoi occhi cominciarono subito a brillare. «Dimmi, ti prego!» esclamò facendoci entrare e guardando il bambino che tenevo per mano. «Questo è Kuma. L’ha mandato Romeo. Ora dovremo farci spiegare tutto quello che è successo.» «Dio sia lodato!» Mireja scoppiò in un pianto liberatorio e si mise in ginocchio ad abbracciare il bimbo. Kuma, non sapendo come comportarsi, rimase immobile guardandomi da sopra la spalla della ragazza con un’espressione impaurita. «Sta bene? Ti ha detto perché non torna? Dov’è ora?» le chiese lei, con la sete micidiale dell’amore e della speranza. «Tu Mireja. Lui ha detto tu sei bella, sei buona e vuole abbracciarti. Questo ha detto. Ha detto forse arriva presto. Questo a lui» indicò me «Di prepararsi per lavoro.» «Ma dov’è ora? Non sai spiegarlo?» chiese Mireja al povero ragazzo preso d’assalto dai nostri sguardi e dalle nostre domande. «Certo. Lui è giungla, al mio posto, con soldati.» «Quali soldati?» incalzò la ragazza. «Soldati contro Museveni. Museveni è male, cattivo. Loro combattono contro di lui.»
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Museveni era il dittatore dell’Uganda e i soldati di cui parlava il ragazzo erano probabilmente i ribelli che dissanguavano il nord del paese. Mireja cominciò a camminare su e giù per la stanza, inquieta e spaventata per quella notizia così imprevedibile. «Hai qualcosa da mangiare da dare al ragazzo?» le chiesi per distrarla un poco. Lei si portò verso la cucina senza dire una parola. Feci sedere Kuma e aiutai Mireja a portargli acqua e cibo. Mentre il giovane africano si sfamava voracemente, Mireja mi disse che voleva raggiungere Romeo nelle foreste del nord. Non le importava niente del lavoro, della città, nemmeno della sua stessa vita. Doveva raggiungere Romeo a qualunque costo. «Devi avere fiducia, ha detto che tornerà presto. Non puoi partire così e andare incontro a qualcosa che non conosci minimamente. Dove andresti, anche ammesso che Kuma ti possa portare da lui? In un covo di soldati? Hai idea della fine che faresti? Quelli stuprano ogni donna di ogni villaggio che saccheggiano e tu vuoi andare da Romeo, in mezzo a loro!» Esclamai tra l’arrabbiato e il preoccupato. «Non importa, lui saprà tenermi al sicuro.» cominciò di nuovo a piangere. Riflettei un istante. «Facciamo un patto. Aspettiamo un’altra settimana, poi, se non sarà ancora tornato, partiremo insieme.» Non seppi mai per quale motivo le concessi questa speranza. Non avevo nessuna intenzione di andare allo sbaraglio verso l’ignoto, ma non sopportavo di vederla piangere. Fortunatamente di lì a quattro o cinque giorni le mie preghiere furono esaudite e Romeo tornò in città. Kuma rimase con me e si trovò così bene che iniziò ben
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presto a seguirmi in ogni luogo, anche al lavoro. Era un ragazzo sveglio, curioso e dinamico. Era un uomo, perché era questo che aveva dovuto diventare per sopravvivere, ma la sua età, qualche volta, riusciva ad emergere dalla fredda corazza di adulto che gli era stata costruita intorno. Mi abbracciava quando gli facevo dei complimenti o quando lo facevo ridere. Una sera si addormentò appoggiato alla mia coscia mentre leggevo il giornale seduto in poltrona. Si era inginocchiato per terra,cercando di decifrare le figure della prima pagina, ma aveva desistito dopo pochi secondi e aveva appoggiato la piccola testa sulla mia gamba addormentandosi lentamente. Si trattava di residui di un’infanzia rubata, di necessità che non erano state soddisfatte e che avrebbero segnato la sua vita. Mi commossi e rimasi immobile finchè lui si svegliò e mi guardò con quel suo sorriso carico di dolore e di paura. Romeo tornò di mattina, mentre io e Kuma eravamo in cantiere. Lo incontrammo soltanto al ritorno a casa, per cena. Lui e Mireja ci stavano aspettando seduti sulle scale uno di fianco all’altra, vicini e innamorati come non mai. La ragazza era raggiante, sorridente e piena di vita. Abbracciava il suo principe come se temesse di perderlo di nuovo da un momento all’altro. Kuma corse incontro al suonatore non appena lo vide e gli saltò al collo. Io lo salutai con meno veemenza, ma con altrettanta felicità. Entrammo in casa e cenammo tutti insieme, come se fossimo una variegata, insolita e variopinta famiglia.
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Romeo cominciò a spiegare ciò che l’aveva portato a scomparire per quel breve periodo senza che nessuno chiedesse nulla. Mireja era troppo felice di vederlo per chiedergli subito delle inutili spiegazioni e io non avevo il coraggio di farlo per lei, correndo il rischio di rovinare quel momento speciale. «Sapete che ho viaggiato molto,» disse «ma amo l’Africa più di ogni altro continente.» Fino a qui non c’era niente di preoccupante e rimasi quasi deluso da questa introduzione, dopo essermi aspettato chissà quali sorprese. «Questo amore nasce dal fatto che l’Africa è stata la meta dell’ultimo viaggio compiuto con mio padre.» Guardò negli occhi Mireja e pensai che quello sguardo fosse un modo per chiederle scusa di non avergliene mai parlato prima. Ma non ne ero sicuro. «Avevo quindici anni. Lui era un artista con la passione per la poesia e per la musica. Mi insegnò a suonare la chitarra quando avevo quattro anni. Questo strumento è il ricordo più caro che ho.» Si voltò verso la poltrona, dove l’imputato giaceva immobile, fissandoci. Guardò quel cimelio così pieno di ricordi e così impregnato di significati. Io avevo sempre considerato la sua chitarra come un semplice assemblamento di pezzi di legno e corde. Ora, invece, mi rendevo conto che era molto di più, qualcosa di molto più profondo e importante. Mi sentii in colpa.
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Romeo sospirò e si voltò di nuovo verso il centro del tavolo. «Mio padre era legato a questa terra. Amava i sottomessi, si sentiva uno di loro, credo. Per questo scriveva delle ingiustizie e dei soprusi che i poveri subiscono. L’Africa rappresentava tutto ciò che lui voleva cambiare. Non ho mai conosciuto mia madre, non so perché se ne andò e non m’importa più, ormai. Vivevo con mio padre e quando ebbi dieci o undici anni cominciammo a viaggiare. Era una vita che piaceva ad entrambi. Ci trovammo a passare per il nord dell’Uganda proprio quando scoppiò la rivolta dell’LRA, lord’s resistence army, nel 1987» Museveni aveva preso il potere con la forza in quell’anno. I soldati dell’LRA, a lui ostili, si nascondevano nelle foreste e nei luoghi meno accessibili nel sud del Sudan. Museveni dava la caccia a questi ribelli che volevano istituire un governo basato sui dieci comandamenti biblici, ma non poteva oltrepassare i confini con il Sudan, anche perché questo paese, a sua volta, aveva perso il controllo della situazione interna, a causa delle discordanze, poi diventate guerra civile, tra i mussulmani arabi del nord e i cristiani neri del sud. Questi cristiani proteggevano e nascondevano i ribelli dell’Uganda, perché, in qualche modo, la loro era una causa comune. «Arrivammo nel nord-Uganda passando per il Congo.» continuò Romeo «Eravamo diretti in Kenia. L’Uganda era solo un passaggio obbligato. Viaggiavamo a piedi, perché, diceva lui, questo è il modo migliore per conoscere a fondo un paese. Arrivammo in un villaggio isolato di pastori poco prima che l’LRA lo attaccasse. È cambiato poco da allora. I ribelli uccidevano gli adulti, stupravano le donne, rapivano i bambini. Un copione collaudato e recitato centinaia di volte.
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I piccoli venivano addestrati e obbligati a combattere per la resistenza, mentre le ragazzine venivano usate come schiave sessuali, passatempo per i ribelli nascosti nelle foreste. I pastori del villaggio vennero trucidati. Mio padre ed io ci trovammo in mezzo a quell’inferno senza avere il tempo di fuggire o di capire. Ed eravamo bianchi. Io venni trascinato nel cuore della foresta insieme agli altri ragazzini, verso il confine. Mio padre non fu così fortunato. Arrivati nel fitto della giungla cominciai a urlare il mio dolore e la mia paura. Uno degli uomini che ci stavano guidando verso il confine mi diete una botta sulla nuca con il calcio del fucile, facendomi svenire. Per il tempo che rimasi incosciente sentii nelle orecchie il mio stesso grido, che tornava a cadenza regolare, ogni volta più atroce, ogni volta più doloroso. Poi mi svegliai sulle spalle di uno dei ribelli. Venni appoggiato a terra per tornare con gli altri, ma cominciai a correre non appena i miei piedi toccarono il terriccio umido della foresta. Riuscii a sgusciare fuori dal gruppo e a nascondermi tra gli alberi. Due o tre uomini mi cercarono per qualche minuto, poi raggiunsero il gruppo, mandandomi al diavolo. Cominciai a correre verso il villaggio dove oramai non c’erano altro che cadaveri. Trovai il corpo di papà e mi ci sdraiai sopra sconvolto dal dolore.» Si fermò, come ad onorare il ricordo del padre. Non sapevo che dire. In certe situazioni si cerca in tutti i modi di trovare qualcosa da dire, qualcosa che non sia banale o scontato, e non ci si rende conto che l’unica cosa non banale è il silenzio. «Mi dispiace. » Gli dissi commosso. Lui mi guardò, carico di un dolore che non avrebbe mai potuto superare completamente.
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«È passato molto tempo.» rispose cercando di non pensarci. «Kuma era un bambino soldato.» riprese «Ce ne sono molti come lui.» Kuma sorrise, sentendosi chiamato in causa, e Romeo gli accarezzò la testa riccioluta. «È per loro che sono dovuto partire all’improvviso. I ribelli hanno bisogno di denaro e qualche volta vendono libertà in cambio di un riscatto. Mi è capitato di scoprirlo per caso da una delle loro spie che vivono in città. Ho fatto un’offerta e mi è stato detto che nessuno doveva venire a saperlo fino a che la cosa non si sarebbe conclusa. Mi avrebbero trovato loro, disse la spia, e così è stato. Mi hanno trovato e mi hanno costretto a partire subito per lo scambio.» «Non ti sei fidato di me?» chiese Mireja con un filo di voce. «Ho cercato di tenerti lontana dal pericolo.» rispose Romeo. Ci fu un attimo di pausa prima che ponessi anch’io una domanda al poeta: «Perché sei stato via così a lungo? Sono passate quasi due settimane.» «All’andata non avevamo mezzi di trasporto. E poi ho chiesto di liberare Kuma prima di consegnare il denaro. Quando ho visto con i miei occhi il ragazzo vicino a te, libero, siamo tornati al nord per risolvere la questione.» Mireja, a quel punto, dovette lasciarci. Romeo rimase ancora un po’con me e Kuma prima di raggiungere la sua fidanzata. Fu allora che mi confessò di voler liberare altri bambini. «Non puoi abbandonare quella povera ragazza così un’altra volta. Devi parlarne anche con lei.» Gli dissi quasi fossi un genitore ferito. «Non voglio sparire, voglio portarla con me. E vorrei che venissi anche tu.» mi rispose con una leggerezza disarmante.
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«A che ti servo io? » domandai sorpreso e con un filo di ironia. «Tu sei la mia merce di scambio.» sorrise. Non capii. «Quelli vivono in baracche che cadono a pezzi per un temporale. Ho visto dove stanno e tu puoi fare di quel posto una fortezza.» «Per contribuire al massacro?» «Per salvare degli innocenti.» «E condannarne degli altri.» esclamai. Romeo prese Kuma per un braccio, lo guardò e gli chiese: «Hai mai visto i tuoi genitori? Sai dove ti hanno rapito?» Niente. «Hai fratelli o sorelle?» Nulla. «Questi sono bambini senza sorriso. Non hanno mai avuto un’infanzia. Non sanno cosa voglia dire essere bambini.» alzò il tono della voce. «Crescono nella convinzione che non esiste nessuna alternativa alla strada che i ribelli hanno tracciato per loro. Crescono ammazzando persone che potrebbero essere i loro genitori e devono farlo per non essere ammazzati loro stessi!» Lasciò il braccio di Kuma che tornò a sedersi con il viso impaurito. Rimanemmo occhi negli occhi per alcuni istanti, finchè Romeo continuò: «Per loro c’è un’alternativa.» la sua voce ora era un miscuglio di rabbia e speranza. Si alzò, accarezzò il piccolo per rassicurarlo e uscì per raggiungere Mireja dicendomi: «Pensaci, non avrai mai più un’opportunità come questa.» Non trovai modo per rispondergli. Non credevo che aves-
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se ragione, ma quei bambini, forse, potevano essere salvati. Forse non era giusto dare un aiuto ai ribelli, ma era più giusto lasciare che quei piccoli soldati rimanessero dove stavano? Fu una delle scelte più difficili della mia esistenza. Non si trattava di scegliere tra giusto o sbagliato. Non avevo idea di cosa fosse giusto. Romeo mi aveva messo in una condizione per cui anche non scegliere voleva dire schierarsi. In una situazione simile sono molti i problemi che ci si pone. Innanzitutto, se non avessi accettato, avrei potuto continuare a vivere senza rimorsi? E se invece avessi accettato, a cosa sarei andato incontro? Avrei dovuto lasciare il lavoro, perché per costruire qualsiasi cosa è necessario del tempo. E Romeo parlava di costruire un forte. In un caso e nell’altro la mia vita doveva subire dei cambiamenti importanti. Kuma propose di uscire. Era ciò di cui avevo bisogno anch’io. Com’era prevedibile, la sera calda e profumata mi convinse che Romeo aveva ragione. Avrei perso il lavoro e la mia vita sarebbe stata cambiata radicalmente. Ma avevo l’opportunità di fare qualcosa di cui sarei andato fiero per il resto dei miei giorni. E non volevo avere rimpianti. Kuma, che era rimasto turbato dal tono di Romeo, mi convinse a raggiungere gli altri al bar. Il nostro vagare ci aveva portati piuttosto fuori rotta, perciò impiegammo più di mezz’ora per raggiungere Romeo e Mireja. Salutai il mio amico che si trovava in un angolo buio con un cenno del capo. Al suo fianco stava la chitarra, silenziosa. «Mi dispiace.» disse prima ancora che potessi fiatare. «Avevi ragione.» risposi altrettanto prontamente. Sorrise. Invitò Kuma a sedersi al suo fianco. Gli diede due colpet-
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ti sulla spalla e poi si mise in guardia. Il sorriso del povero ragazzo esplose come un vulcano. Ingenuo e infantile. Cominciò a colpire a sua volta le spalle del suo eroe che ad ogni colpo rispondeva con smorfie di dolore. Al termine dell’improvvisata colluttazione Romeo afferrò Kuma per il collo e lo tirò verso di sé sfregandogli il pugno sui folti capelli neri. E il piccolo cominciò a ridere fragorosamente e a implorare pietà. Quella risata mi spezzò il cuore. Aveva racchiusi dentro di sé significati immensi. Era la felicità spensierata di un bambino che vede i genitori fare la pace dopo un litigio. Tutta la preoccupazione che prima lo stringeva in una morsa era crollata di colpo. Era un disperato grido di gioia, una richiesta d’amore. Era approvazione per quel contatto amichevole che forse, prima d’allora, prima di incontrare Romeo, non l’aveva mai sfiorato. Ed ecco che, all’improvviso, sotto quel rude contatto, il piccolo Kuma tornava ad essere bambino. Non più uomo e non più soldato. Soltanto quello che era e che non aveva mai potuto essere. Un bambino di dodici o tredici anni. Come avevo potuto pensare di non aiutare quei ragazzini? Kuma rideva mentre io mi sentivo sporco e volgare. «Quando partiremo?» gli chiesi dopo aver preso posto accanto a lui. «Devo parlarne a Mireja. Il più presto possibile, comunque.» Sorrise di nuovo. Prese la chitarra e cominciò a pizzicarne le corde con la sua consueta grazia ed eleganza. Il locale si zittì all’improvviso. Kuma guardava affascinato il suo grande amico e lui, il poeta, chiuse gli occhi lasciando che le sue mani rincorressero la fantasia. La musica si dilatò in una lenta progressione sempre più violenta che durò alcuni minuti, fino all’apice delle capacità
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tecniche di Romeo. Le note scomparvero insieme alle dita che le producevano. Rimase la musica. Intensa, fitta, vivace, eppure aggraziata, sobria, equilibrata. Chiusi gli occhi e mi concentrai su ciò che stava sgorgando generosamente dalla fantasia di Romeo. Tutto il resto scomparve. Durò alcuni secondi, forse un minuto. Poi tutto rallentò, le note tornarono ad essere distinte, il motivo tornò ad essere rintracciabile. Riaprii gli occhi, emozionato, e cercai quelli di Romeo. Li teneva ancora chiusi, mentre la musica rallentava gradualmente. La sua bocca era piegata in un sorriso di soddisfazione profonda, quasi estatica. Anche Mireja stava osservando il suo amato, rapita da quell’arte incredibile che lui sapeva giostrare a meraviglia.
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Capitolo 10
Una decina di giorni dopo io, Romeo e Kuma ci mettemmo in marcia. Decidemmo quasi all’unanimità di rinviare la partenza di Mireja. L’unica contraria a questa scelta, ovviamente, era stata lei. Ma con qualche buona parola riuscimmo a convincerla ad assecondarci. Non conoscevamo esattamente ciò che ci aspettava, e prima che Mireja ci raggiungesse, dovevamo fare la nostra proposta ai ribelli. Avrebbero potuto ucciderci senza pensarci un istante. Anzi, col passare del tempo, mi convincevo sempre di più che quella sarebbe stata proprio la nostra fine. Ma ormai ero imbarcato e non potevo saltare in mare. Ci dirigemmo verso nord e in meno di quattro ore, attraverso strade sterrate simili a sentieri, raggiungemmo il confine con il Sudan. Kuma ci consigliò di lasciare la jeep in un luogo piuttosto isolato anche se, disse, probabilmente i ribelli avrebbero trovato il modo per portarsela via. Ma non avevamo scelta, dovevamo proseguire a piedi poiché strade percorribili in auto, non ce n’erano più. Ci stavamo addentrando nel regno dei ribelli dell’LRA. E a loro le strade non facevano comodo. Vivevano nascosti nelle foreste, al riparo di quella natura incontaminata che fioriva rigogliosa nell’umidità equatoriale. Ci incamminammo nel tardo pomeriggio e Kuma ci faceva da guida con passo sicuro e deciso. Aveva passato la sua
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infanzia tra quei sentieri. Ora il bambino era di nuovo tornato a rifugiarsi nelle profondità più recondite del suo io e aveva lasciato posto al soldato, all’uomo pragmatico e determinato. L’avanzata procedeva lentamente a causa degli zaini che contenevano tutto ciò di cui avremmo potuto avere bisogno. Al calare del sole Kuma ci fermò in riva ad un fiume. Disse che si chiamava Nilo Alberto. Io lo trovai un nome buffo, ma non ne feci parola con nessuno. Smise lo zaino e ci disse che dovevamo accamparci lì, per quella notte, perché non avremmo potuto raggiungere il campo dei ribelli prima di un paio d’ore. Camminare nel buio era troppo pericoloso, le sentinelle ci avrebbero freddati lungo il cammino. Montammo la tenda e accendemmo il fuoco. Le fiamme avrebbero tenuto lontano gli animali, ma avrebbero anche potuto attirare i ribelli. In fondo non eravamo molto lontani da loro e Kuma sostenne che spesso i soldati compivano ispezioni notturne nella foresta per anticipare eventuali spedizioni militari governative. Ma dopo aver discusso un poco, ci rendemmo tutti conto di non avere scelta. Le bestie feroci ci avrebbero sbranato, mentre con i ribelli avremmo almeno potuto avere la certezza che, se non ascoltati, saremmo comunque stati capiti. Dovevamo scegliere tra la speranza di essere ascoltati dai soldati o quella di non essere scovati da qualche animale feroce. Scegliemmo di fidarci degli esseri umani, pur conoscendo gli innumerevoli rischi che ciò comportava. Gli uomini avrebbero potuto essere molto più feroci delle tigri. La luna piena rischiarava quasi a giorno lo spiazzo incantato che si affacciava sul lento deflusso del fiume. La giungla era distante pochi metri dalla nostra tenda e i fitti rami degli
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alberi proiettavano le loro sinistre ombre sul prato che ci ospitava. Ciononostante sembrava che il luogo intorno a noi fosse un’isola estranea alla natura prepotente che dominava la foresta. Era come se gli alberi, le piante grasse, e il terriccio umido, avessero incontrato una barriera invalicabile oltre la quale non erano riusciti ad espandersi. L’erba dello spiazzo in cui ci accampammo era delicata, non più alta di qualche centimetro e di un verde vivo che concedeva pace e sicurezza ai suoi miseri ospiti. Il sole aveva ormai lasciato il posto ad una notte chiara, anche se la luna, magica sorgente di quella luce fatata, si nascondeva al di sotto della vegetazione. Kuma si addormentò vicino al fuoco in capo ad una mezz’ora, mentre io e Romeo rimanemmo svegli per molto tempo ancora. Lui soddisfaceva le sue prioritarie necessità di poeta creando i suoi soliti quadri musicali, mentre io non riuscivo a prendere sonno a causa di tutti i pensieri e le preoccupazioni che mi rendevano nervoso. Gli chiesi se non avesse nemmeno un po’ di timore. «Ho paura di fallire.» mi rispose facendomi sentire un volgare egoista che si preoccupava soltanto della propria pelle. Lo interrogai su alcune questioni che ancora non mi erano chiare, mentre lui continuava a dipingere l’aria intorno a noi con le sue pennellate di colori sonori. «Come faremo a costruire un forte? Servono un sacco di soldi.» Mi aveva assicurato di avere dei risparmi, ma non avevo idea di quanto fossero sostanziosi. «Non ora, ti prego…» mi disse con un filo di voce. Serrò gli occhi lucidi e sognanti piegando la testa verso il cielo, mentre la chitarra vibrava e si muoveva sotto le sue mani come posseduta dal desiderio irrefrenabile di lui che cresceva verso il cielo, insieme al suono, insieme al fuoco scop-
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piettante, insieme a noi, avvolti da quel pastrano di note indescrivibili. Cercai di lasciarmi trasportare da lui e da ciò che stava forgiando con le sue mani, ma la preoccupazione che mi stringeva il cuore era troppo intensa per concedermi la leggerezza necessaria. Lo scrutai affascinato per quel suo potere sensazionale di essere al di sopra del mondo e della realtà. La musica rallentò lentamente, fino a spegnersi nelle sue mani. Aprì nuovamente gli occhi. «Ho dei risparmi e so come procurarmi del denaro. Non preoccuparti.» rispose alla mia domanda che ormai sembrava essere caduta nel nulla. Ci ritirammo nella tenda per ripararci dalle zanzare. Attraverso il tessuto sottile del nostro magro riparo, scorgevamo le ombre dei rami degli alberi mossi dalla brezza che soffiava in riva al fiume. Erano movimenti veloci, talvolta, quando una folata più energica rispetto alle altre faceva sentire il suo sibilo, sembrava che quelle ombre avessero una voce, un’anima, una realtà diversa dal loro banale gioco di luce. La tensione che avevo covato vicino al fuoco e nei giorni precedenti mi impedì di prendere sonno, ora che eravamo quasi arrivati alla svolta. Mi sdraiai con la testa appoggiata sulle mani incrociate, vagando nei miei pensieri. Romeo, invece, si addormentò di colpo e accompagnava il leggero russare di Kuma con il suo respiro profondo. Rimasi immobile per un po’, finchè sentii un rumore poco distante, come se un passo silenzioso avesse rotto un ramoscello rinsecchito per terra. Mi alzai di colpo, mettendomi a sedere, cercando di scrutare attraverso la tenda per capire, tramite le ombre, se la mia preoccupazione fosse fondata. Romeo si svegliò.
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«Che c’è?» mi chiese con la voce contratta dal sonno. «Ho sentito il rumore di un passo.» Risposi. «Sarà stato qualche animale selvatico.» «Non è che questo mi tranquillizzi.» risposi offeso come un bambino, rimettendomi nella mia posizione riflessiva. Si alzò e uscì per ravvivare la fiamma. «Hai bisogno di riposo. Dovresti dormire.» Mi sussurrò rientrando. Prese di nuovo posto sulla sua stuoia, mentre io rimasi a pensare per qualche minuto. «Pensi che ci ammazzeranno come se niente fosse?» Gli chiesi. Non mi rispose. Alzai un poco la testa per guardarlo e vidi il movimento del suo corpo che si gonfiava e sgonfiava al ritmo di un profondo respiro fin troppo indicativo. «Accidenti!» pensai ad alta voce. Appoggiai di nuovo la testa sulle mani intrecciate e cercai di imitare il mio compagno, ma senza successo. Ogni piccolo rumore mi faceva sobbalzare. Rimasi con gli occhi spalancati per molto tempo senza avere altro da fare che seguire la lenta, inutile corrente dei miei pensieri. Avevamo il diritto di fare ciò che stavamo facendo? Forse quegli uomini, quei ribelli, come troppo spesso li chiamavamo, non erano peggiori degli studenti che negli anni sessanta e settanta del XX secolo avevano rivoluzionato il concetto di libertà. Forse non erano peggiori di Gandhi, che aveva lottato per l’indipendenza del suo paese. La storia non esisterebbe senza rivoluzioni. Se non ci fossero state battaglie o proteste il nostro mondo non esisterebbe neppure. Le battaglie del passato avevano portato una buona parte degli uomini ad essere padroni della propria vita. Forse quei ragazzini che tanto volevamo salvare non avevano bisogno di noi. Era possibile che
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fossero felici della loro vita. Una vita fatta di sofferenza e di crudeli realtà, ma anche di ideali, di speranze. Sentii un rumore diverso da quello che provocava il vento soffiando tra i rami degli alberi vicini. Era un passo. Un’impercettibile camminata tra l’erba della riva, ne ero sicuro. Alzai lentamente la testa per vedere con l’aiuto del riflesso lunare se ci fosse qualcosa o qualcuno vicino a noi. Mi guardai intorno senza poter notare nulla di strano. Rimasi ad ascoltare attentamente, trattenendo il respiro, ma non udii più nulla, nè passi silenziosi né ramoscelli spezzati. Mi accomodai nuovamente con le mani dietro la nuca e ripresi il filo dei pensieri che avevo perso poco prima. In fondo noi non volevamo arrestare una rivoluzione che avrebbe potuto avere anche effetti ammirevoli. Avevamo una proposta da fare e i diretti interessati avrebbero scelto se considerarla oppure no. Romeo voleva soltanto dar loro nuovi spunti di riflessione. Non eravamo lì per discutere la giustizia di nessuna causa, solo per far riflettere sui metodi. All’improvviso compresi l’inutilità di tutti quei pensieri. Di li a poche ore, addirittura a pochi minuti, sarei potuto essere morto. Paradossale, ma mi tranquillizzai. A pochi metri da un’alba che già iniziava a colorare il cielo notturno, la stanchezza prese il sopravvento e mi addormentai profondamente sollevato. Fui svegliato da Romeo poco dopo. Avevo perso completamente la cognizione del tempo, ma il sole non era ancora sorto completamente, così potei dedurre di aver dormito poco più di un’ora. Romeo mi scosse lentamente, cercando di strapparmi al dolce sonno che mi aveva fatto dimenticare tutte le preoccupazioni. Gli furono necessari alcuni secondi e alla fine, un po’ intontito, compresi di essere sveglio.
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«È il momento della verità.»Mi disse. Subito dopo mi indicò delle figure che si muovevano intorno alla tenda, contro luce. Mi guardò e si mise in ginocchio ad aprire la lampo che ci separava da quegli uomini. Il rumore della cerniera attirò l’attenzione di tutto il gruppo, cinque o sei persone, che si concentrò sull’apertura della tenda. Romeo si affacciò e trovò quattro fucili puntati sul suo naso, pronunciò alcune parole in una lingua che non conoscevo e venne trascinato fuori da due uomini vestiti con abiti militari strappati in una dozzina di punti. Subito dopo toccò a me, e poi a Kuma. La presenza del ragazzo li colse di sorpresa. Evidente che lo conoscessero, perché gli rivolsero alcune parole che non compresi. Romeo continuava a parlare in quella lingua sconosciuta, ma sembrava tranquillo. Il tono della sua voce non si era nemmeno alzato, pronunciava le parole con calma e fissava negli occhi quello che sembrava essere il capo del gruppo. I due uomini che lo tenevano per le braccia stavano per zittirlo, ma l’uomo a cui si rivolgeva Romeo ordinò loro di lasciarlo continuare. Il chitarrista finì, e il capo scoppiò a ridere. Romeo pronunciò ancora alcune parole, pretendendo con il suo tono fermo l’attenzione dell’uomo, che smise di ridere e rispose con un cenno della mano, come a invitare il mio amico a fare ciò di cui stava parlando. I due neri che gli reggevano le braccia guardarono il loro capo con un po’ di stupore in volto e poi sorrisero, lasciando andare il mio compagno e mettendosi di fronte a lui. Nel frattempo i miei due carcerieri si dissero qualcosa e scoppiarono anch’essi in una risata. Romeo cominciò a muoversi in tondo,
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spostandosi verso il fiume, mentre i suoi due avversari rimasero immobili, spostando soltanto il capo per non perderlo di vista. All’improvviso uno di loro scattò verso il mio amico sfoggiando una rapidità impensabile per un uomo della sua stazza. Romeo lo fermò, opponendo le sue spalle a quelle possenti dell’avversario. Subito dopo il nero fece partire un pugno che avrebbe dovuto colpire allo stomaco il chitarrista, ma quest’ultimo aveva già preso il largo e con un balzo leggero si era portato a un paio di metri di distanza, riprendendo, in un solo istante, anche il suo girotondo intorno ai due ribelli e al loro capo. Kuma pronunciò altre sconosciute parole senza avere un destinatario preciso. Romeo, rispose con la sua voce tranquilla e la sua espressione rilassata e sicura. Il capo rimase a guardare, incuriosito dalla scena che gli si svolgeva davanti agli occhi, finchè il chitarrista sorprese tutti voltando le spalle e camminando verso la tenda. I miei occhi andarono subito a cercare l’espressione dell’uomo che, seduto sopra un sasso,aveva assistito alla pessima prova dei suoi bravi. Sembrava divertito. I due ragazzoni, però, non accettando il rifiuto del poeta lo attaccarono alle spalle. Romeo si voltò appena prima di essere raggiunto dai corpi lanciati dei due neri e, per non so quale diavoleria, quando il groviglio di corpi si fermò nell’erba, Romeo era impegnato nel piegare un braccio per ogni avversario tra le sue gambe in un modo che non capii, ma che doveva essere parecchio doloroso. I due neri si contorcevano al suolo gridando parole incomprensibili e Romeo tirava ogni secondo più forte, facendo seguire ogni secondo urla più dolorose.
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L’uomo seduto sopra il sasso, ora, guardava con la bocca aperta, visibilmente sorpreso. Romeo abbandonò la presa, per il sollievo delle sue vittime, e si alzò, dirigendosi nuovamente verso la tenda, disinteressandosi di tutto il resto. Anche l’uomo che stava sul sasso si alzò. Gli si fece accanto. Romeo chiese all’uomo che aveva di fianco, questa volta in inglese, di ordinare ai suoi di lasciarmi andare, poi cominciò a smontare il nostro rifugio notturno. Il capo fece un cenno agli uomini che mi tenevano e venni liberato. Smontammo la tenda e ci preparammo per partire mentre Romeo chiedeva ai soldati di accompagnarci nel loro nascondiglio. Il loro capo sorrise, ma prima che potesse pronunziare anche una sola parola, Kuma intervenne: «Lui dice costruisce un forte se lasciate stare bambini.» Il capo si tolse il sorriso dalle labbra e guardò il chitarrista che annuì silenziosamente. «Allora potete venire. Se avete armi datele a noi.» disse il soldato. «Non armati.» intervenne di nuovo Kuma. Il soldato ordinò ai suoi uomini di controllare gli zaini per accertarsi che Kuma avesse detto la verità. Finita la perquisizione i neri si incamminarono nella foresta e noi li seguimmo a distanza ravvicinata.
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CAPITOLO 11
In poco più di un’ora giungemmo al loro nascondiglio. Vi si accedeva attraverso un sentiero che vagava tortuoso nella foresta e conduceva ad una specie di rilievo collinare. Tutto si presentava alla vista in un solo istante, quell’istante che separava il cammino faticoso tra i rami degli alberi e il dispiegarsi di quell’agglomerato di capanne cadenti. Rimasi sorpreso nel vedere tanto movimento in un luogo così isolato e così piccolo. Una trentina di capanne erano ammucchiate nel piccolo spazio di fronte a noi che i ribelli erano riusciti a sottrarre alla natura. Tra quelle brulicavano decine e decine di uomini, ognuno con una propria arma bene in vista, ognuno indaffarato. C’era qualcuno che trasportava assi e attrezzi vicino alla foresta, sulla nostra sinistra, dove altri uomini stavano tagliando degli alberi per far posto a nuove dimore. Alcuni soldati erano radunati vicino a quello che sembrava una specie di deposito, proprio di fronte a noi. Ricevevano dalle mani del piccolo africano che stava sulla porta di quella baracca un po’ più grande rispetto alle altre delle munizioni, per quanto avevo potuto vedere e intuire. Qualcuno dormiva, o così sembrava, fuori dalle capanne, qualcun altro affilava coltelli e sciabole, altri ancora pulivano i fucili. Ognuno sembrava avere un compito preciso all’interno di quella piccola comunità. Vidi molti che si scambiavano battute e che ridevano, altri che semplicemente parlavano
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tranquillamente tra di loro. Qualcuno era intento nel proprio lavoro e fischiettava. Circa un terzo dei soldati che vidi erano bambini. Passammo di fianco al deposito di munizioni e fummo condotti in una capanna che rimaneva un po’ isolata rispetto alle altre che sorgevano a non più di due metri l’una dall’altra. Il capo del gruppo che avevamo incontrato ci disse di aspettare fuori, poi entrò aprendo una piccola porticina che sembrava dovesse cadere a pezzi da un momento all’altro. Per non picchiare la testa, il nero, dovette abbassarsi ed entrare quasi in ginocchio. Rimanemmo fuori, soli, mentre i soldati con i quali eravamo arrivati si mescolavano agli altri abitanti di quello strano, piccolo villaggio. L’uomo uscì dal capanno seguito da un altro nero, ancora più grande di lui.Quest’ultimo esordì in tono seccato, con una voce molto profonda e bassa, chiedendoci il motivo per cui eravamo lì. Si esprimeva in un inglese discreto. «Vogliamo farvi una proposta.» disse Romeo. «Che genere di proposta?» chiese l’uomo. «Uno scambio.» rispose Romeo, semplicemente e seriamente. «Sei misterioso, piccolo uomo bianco.» Il gigantesco ragazzo, che non doveva avere più di trent’anni, sfoggiò un sorriso fatto di buchi neri e denti ancora più neri. «Seguitemi.» concluse. Ci trovammo nell’oscura capanna da dove prima erano usciti i due soldati. L’uomo che qui ci aveva condotto, sembrava sentirsi a proprio agio, molto più che all’aperto. Si sedette su di una sedia senza preoccuparsi di noi tre che rimanemmo in piedi con gli zaini sulle spalle. «Come va Kuma? Che fai qui?» esordì il nero.
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«Bene capo. Lui è uomo che ha pagato per me.» indicò Romeo «Portato qui loro perché vogliono aiutarvi.». «Ne sei sicuro?» «Sicuro.» Kuma si tolse lo zaino dalla schiena e lo appoggiò sul pavimento, dopodichè ci invitò a fare lo stesso. «Non ho avuto a che fare con te, l’altra volta. Come ti chiami?» esordì Romeo. «Che t’importa?» rispose il ragazzone che sembrava diverso rispetto a prima, quando eravamo all’esterno. Appariva meno sicuro di sè in quel momento. Nella sua resistenza inutile, insensata e disperata nel rivelare il suo nome, mi aveva molto colpito. Mi parve un uomo solo e stanco. «Andiamo,» riprese il mio amico «cosa pensi di ottenere nascondendoci il tuo nome?» «I ragazzi mi chiamano Momo.» disse con aria dimessa. «Bene Momo, io sono Romeo.» replicò il chitarrista. Subito dopo mi presentai anch’io. «Allora, questa proposta?» andò immediatamente al sodo, forse perché non voleva dover rivelare altro di sé. «Vogliamo che i bambini soldati vengano allontanati da questa guerra.» disse Romeo, non meno diretto del nostro ospite. «Tutto qui?» chiese Momo sarcastico. «Tutto qui.» rispose il mio amico seriamente. «E cosa ci guadagno io?» «In cambio dei bambini costruiremo case e magazzini al posto di queste baracche.» Momo si fece serio improvvisamente. Si alzò in piedi e avvicinò i suoi occhi a quelli di Romeo. «Cos’è, uno scherzo? » «No.»
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Il grande uomo di colore voltò le spalle e si diresse di nuovo verso la sedia che lo aspettava vuota e triste a pochi passi da noi. «Lui costruisce case in città.» disse Kuma alludendo a me, cercando di dare un aiuto a Romeo. Momo mi scrutò da capo a piedi. I suoi occhi erano seri, ma non mi parvero cattivi. «E come farete a costruire case e magazzini qui?» «Con l’aiuto dei tuoi uomini.» disse il chitarrista. «Costruisce case in città…» mormorò Momo riflettendo. «Non mi convince.» concluse. Romeo si spostò verso la piccola porta che ci separava dall’esterno, l’aprì e si affacciò sul rifugio dei soldati. «Avete bisogno di un riparo sicuro. Queste baracche non lo sono e noi ti offriamo la possibilità di sostituirle con muri di pietra.» «Le nostre baracche sono più che sufficienti. Siamo in Sudan, non abbiamo nemici qui.» sbottò il capo, che si stava scaldando. «Allora costruiremo da un’altra parte. In un luogo più comodo per voi e per la vostra resistenza.» insistè Romeo. «Non vogliamo andare da un’altra parte.» tuonò Momo rimanendo seduto su quella sedia scricchiolante. Romeo fece una pausa, richiuse lo sportello e si portò vicino al nero. Questi lo fissava con furore. «Cosa vuoi?» chiese infine il musicista. «Cosa volete voi?» Momo si alzò in piedi, sovrastando il mio amico che non indietreggiò di un millimetro. «I bambini.» «Loro vogliono restare.» «Questa non è la loro guerra. » «E non è nemmeno la tua.» esclamò Momo che, adirato da
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quella discussione che sembrava toccarlo nel vivo dei suoi sentimenti, estrasse la pistola che portava infilata nei pantaloni e la puntò alla fronte di Romeo. «Non lo farai.» disse questi con un leggero sorriso spensierato sulla bocca. Io cominciai a sudare freddo, mentre Kuma cercò di convincere il suo vecchio capo a mettere via l’arma, ma senza successo. «Perché non dovrei?» chiese Momo divertito. «Perché hai bisogno di noi. E sei stanco di uccidere.» Il ragazzone scoppiò in una fragorosa risata e abbassò la canna della pistola. Sembrava cambiare umore in pochi istanti. Ora sembrava di nuovo tranquillo, mentre qualche secondo prima era stato gonfio di rabbia. «E tu che ne sai? » chiese tornando a sedersi sulla fidata sedia di legno scuro dopo aver infilato l’arma nei pantaloni. «Sei forte e coraggioso, ma non sei cattivo. E nemmeno stupido, altrimenti non saresti il capo.» «E tu sei un tipo interessante.» sbiascicò sorridendo. «Allora, cosa vuoi per lasciarci i bambini?» Momo rimase per un po’ in silenzio. «Non lo so, devo chiedere ai miei compagni e decidere con loro.» rispose infine. Si alzò nuovamente e ci chiese di seguirlo fuori dalla baracca. Ci accompagnò alle nuove costruzioni che stavano sorgendo sul limitare della foresta e ci spiegò che ogni giorno le file dei ribelli si ingrossavano. La loro causa riceveva nuova linfa vitale da giovani che provenivano dall’Uganda e credevano nella causa dei nostri ospiti. Credevano in uno stato fondato sulle verità e sulle regole dei dieci comandamenti. Io dal canto mio pensai molte volte a come avrebbe potuto essere uno stato così costruito. Era una bella utopia, per la
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pace che prometteva di far fiorire, ma non riuscii mai a credere in un progetto così in contrasto con la natura intrinseca dell’animale umano. Vagammo per l’agglomerato disordinao di capanne per il resto della giornata, mentre Momo ci spiegava come si svolgeva la loro vita, quali erano i compiti delle persone che ci presentava e in che modo ognuno di loro contribuisse alla causa. Giunse rapidamente la sera. Io Romeo e Kuma, che aveva visto e salutato molti dei suoi ex compagni di battaglia, ci sedemmo intorno al fuoco dove alcuni uomini stavano a discutere. Momo ci invitò tra loro. Non sempre i ribelli si potevano permettere pasti come quello che offrimmo noi quella sera intorno al grande falò con le nostre provviste. Eravamo in una ventina, forse di più, e non potemmo fare altro che condividere il nostro cibo con tutti gli altri. Se non altro, in questo modo, ci conquistammo un briciolo di simpatia in mezzo al mare di ostilità che ci sentivamo addosso. Accasciati insieme ai soldati ai piedi del giorno potemmo assistere ad una specie di consiglio militare. Momo radunava intorno a sé dei sottufficiali che comandavano ognuno un gruppo più o meno esteso di uomini. Una sorta di gerarchia militare, insomma, anche se molto più elastica e malleabile rispetto a quella degli eserciti regolari. Tutti questi capi ci accolsero con disprezzo dipinto sul volto. Soltanto l’indiscutibile autorità di Momo ci permise di prendere parte a quel circolo privato. «Non abbiamo bisogno di loro.» disse un piccolo uomo con una vistosa cicatrice sulla guancia destra. «Io dico di cacciarli dopo una buona lezione.» «Noi non cacceremo nessuno.» proruppe Momo, imperio-
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so. «Questi uomini sono venuti in pace e in pace se ne andranno.» «Dobbiamo solo decidere se accettare o no la loro proposta.» continuò un altro giovane soldato che sedeva vicino al capo supremo e che sembrava essere della sua stessa opinione. Romeo mi sussurrò che quest’ultimo era il soldato con il quale aveva trattato per la liberazione di Kuma «La loro proposta non vale niente, visto che nessuno vuole andarsene.» insistè l’uomo con la cicatrice. «Sentite,» intervenì Romeo «lasciamo che i ragazzi restino qui.» I volti di quasi tutti i presenti si lasciarono andare in un’espressione di sorpresa sdegnata. «Ma rimarremo anche noi.» continuò il musico. «Vi aiuteremo con i lavori del villaggio e voi, in cambio, ci concederete del tempo da passare con loro. Insegneremo loro ad essere veramente bambini.» Gli uomini intorno a noi tornarono ad esprimere disprezzo profondo nei nostri confronti. Il consiglio fu attraversato da un brusio di ferma disapprovazione. Solo Momo, a giudicare dall’espressione del suo viso, sembrava non esserci così ostile. Anzi, credetti, forse a torto, ingannato dalla luce ballerina del fuoco, di notare un leggero sorriso sulle sue labbra carnose. Romeo si portò alla bocca la borraccia dell’acqua, sorseggiò per alcuni brevi istanti e infine concluse dicendo: «E anche a voi, se lo vorrete.» Il vociare sommesso si interruppe e vivemmo nel silenzio per alcuni lunghissimi secondi, finchè uno dei più anziani del gruppo, che sedeva vicino all’uomo con la cicatrice, rese pubblico il pensiero della maggioranza del consiglio: «Io credo voi bianchi pazzi.»
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«Cacciamoli via!» riattaccò lo sfregiato cogliendo l’assist al volo. «Non cacceremo nessuno!» ribadì Momo che aveva preso in simpatia il mio amico. Egli intanto, che non aveva certo bisogno di avvocati difensori, riprese la parola: «Potete fidarvi. Nessuno di noi vuole questa guerra, ma non vi ostacoleremo in nessun modo. Diventeremo amici, ve l’assicuro. Non vi aiuteremo soltanto nei lavori manuali. Saremo di conforto anche per le vostre anime.» Romeo sapeva adattarsi ad ogni occasione nel migliore dei modi. Arrivò a scomodare le anime dei ribelli, in quell’occasione, ben sapendo che la loro religiosità ai limiti del fanatico li avrebbe cosretti almeno a riflettere. «Come pensi di essere d’aiuto alle nostre anime?» chiese scettico e allo stesso tempo incuriosito uno dei più giovani del gruppo che non aveva aperto bocca prima d’allora. Romeo, senza por tempo in mezzo, prese il suo strumento e se lo posizionò in grembo. I commensali rimasero ad osservare incuriositi. «Chiudete gli occhi, per favore, e poi seguite la musica. Lasciatevi guidare da lei.» Non tutti ascoltarono la voce calda di Romeo, ma ciò non gli impedì di cominciare a suonare. Lo sfregiato si alzò e si diresse verso il chitarrista per interrompere il suo tentativo di convincere il consiglio in merito alla bontà delle sue intenzioni. Momo, perentorio, lo domò con il solo ausilio della voce. L’uomo se ne andò stizzito, con occhi fiammanti che minacciavano un Romeo completamente incurante di quanto era accaduto. Il poeta aveva chiuso gli occhi e si era tuffato tra le braccia della dea della musica che lo estraniava dalla realtà con la sua dolce voce fatata. Durò pochi minuti. Aprii gli
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occhi pensando che quella volta Romeo non era riuscito ad esprimersi al meglio ed ebbi timore che la situazione gli stesse sfuggendo di mano. Molti degli ascoltatori avevano dipinto sul volto lo stesso disprezzo dell’uomo che se n’era andato. «Questo è il presente, è la vostra esistenza di oggi, piena di paura e allo stesso tempo di coraggio indomito.» disse il mio amico. «Amate la vostra vita, perché è una lotta dedicata a ciò in cui credete. Ma è una vita che non potete vivere fino in fondo, perché nel profondo dei vostri cuori temete di non essere interamente nel giusto. Non potete vivere perché il rimorso è sempre alla vostra porta, pronto ad entrare al primo segno di cedimento della vostra anima. Ora ascoltatemi, vi prego. Dovete lasciare che la musica entri nel vostro sangue, nella vostra testa. Sarà lei a preparare la vostra anima ad accogliere la verità. Se ascolterete col cuore capirete in cosa credete veramente. Io credo che la musica possa cambiare tante cose. Questo è il mio vangelo. Voi trovate il vostro.» Alla fine di questo vero e proprio sermone, Romeo ricominciò a solleticare le sue amate corde, questa volta con tutta la passione di cui era capace, con tutta l’espressività, con tutto l’amore che la sua anima poteva sviluppare. Era come un motore che girava a pieno ritmo, una macchina nel culmine della sua potenza, un cavallo nell’apice della sua velocità. Un poeta, nell’esplosione dei suoi sentimenti. Ero orgoglioso di lui. Ed ero felice di aver scelto di aiutarlo. Liberò nell’aria centinaia e centinaia di suoni che volavano come colombe impazzite alla ricerca della libertà. Suoni vivi, note librate nelle fiamme scoppiettanti e guidate da un mastro burattinaio senza eguali. Rimanemmo di nuovo in silenzio ad ascoltare quella mu-
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sica meno ritmica, meno spasmodica della precedente, ma più ricca e più forte. Momo rimase visibilmente perplesso di fronte allo strumento e al suo suonatore. Lo osservai mentre fissava Romeo intento nella sua attività vitale e lessi sul suo volto la sorpresa, quasi accompagnata da una sorta di timore reverenziale. Avevo sempre saputo che Romeo era un essere speciale e forse, in quel momento, intorno a quel fuoco, non ero più l’unico. «Potete fidarvi.» concluse l’artista dopo la dimostrazione che voleva dare al gruppo. Momo sorrise, credendo ciecamente in quelle parole, ma era uno dei pochi. L’uomo che sedeva vicino al posto lasciato vuoto dalla sfregiato si alzò di scatto e aggredì Romeo, facendolo capitolare a terra con la sua chitarra. Momo, altrettanto velocemente si alzò in piedi per fermare la colluttazione e fu imitato da tutti i presenti. Romeo riuscì a volgere la situazione a suo favore, allontanando con un calcio il malintenzionato e rimettendosi saldamente sulle gambe. «Lascia che venga.» disse rivolgendosi a Momo che era corso in suo aiuto. Ci trovammo a formare un cerchio tutti intorno ai due contendenti. Qualcuno incitava Romeo, ma la maggior parte degli uomini parteggiavano, ovviamente, per il loro compagno. Questi sfoderò un coltello che suscitò un sorriso sulle labbra del chitarrista, come sempre, estremamente sicuro di sé. «Ora ti tappo quella bocca.» tuonò il nero gettandosi addosso a Romeo. Kuma si lasciò sfuggire un grido di terrore, mentre la folla da strada, che andava sempre aumentando a causa del trambusto, gridava tutta la sua rabbia.
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Il mio amico schivò l’affondo dell’avversario e riprese le distanze. «Ora non parli più, uomo bianco?» chiese ironico il soldato. «Di che vuoi parlare?» ribattè tranquillo Romeo. «Non voglio parlare, voglio darti una buona lezione.» L’uomo non fece a tempo a scandire l’ultima parola che Romeo era partito all’attacco. Sferrò un calcio alla mano che sosteneva la lama, facendola volare a distanza di sicurezza, poi afferrò il collo dell’uomo e lo tirò verso di sé, sferrandogli una tremenda testata proprio in mezzo agli occhi. Il nero cominciò ad urlare prima ancora che il suo naso cominciasse a perdere sangue. Guardai prima in mezzo al folto gruppo di spettatori, cercando di capire se qualcuno avesse intenzione di attaccare Romeo a tradimento. Nessuno mi diede l’impressione di essere sul punto di correre in aiuto del ribelle ferito, così mi soffermai su Momo, che si era lasciato andare in un sospiro liberatorio. Si raddrizzò sulle gambe e lasciò che il sorriso che gli correva dentro si diffondesse anche sulla sua bocca. Provai pena per lui. Mi diede l’impressione di essere come Kuma, un bambino che aveva bisogno di essere uomo. La sua espressione era eloquente. Guardava Romeo proprio come lo guardava Kuma. Con occhi sognanti e sgorganti di ammirazione e di devozione profonda. In quel momento mi resi conto che Romeo era già all’opera. Forse il suo intento era quello di avvicinarsi i ribelli, di coinvolgerli e di invitarli nel suo mondo,fatato e maledetto allo stesso tempo, da artista. Forse i bambini erano un pretesto. Non ne potevo essere sicuro, ma una cosa certa stava accadendo lì, proprio sotto i miei occhi: l’artista stava conquistando delle pedine fondamentali per il suo gioco. Mentre mi dilungavo tra questi pensieri, Romeo si avvici-
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nava al suo, ormai sconfitto, avversario. Gli mise una mano dietro al collo, come prima, e appoggiò l’altra sul volto sanguinante dell’uomo. «Ora ti farò male.» sbottò a bassa voce. Subito dopo fece scricchiolare le ossa rotte del soldato che riprese ad urlare a causa dell’intenso dolore che doveva aver provato. Il fiotto di sangue che sgorgava dal naso rallentò sensibilmente, fino quasi a fermarsi. Un brivido percorse tutto il cerchio di uomini che stavano a guardare, ma nessuno si mosse per cercare di aggredire Romeo. Molti avevano capito, e quelli che non ci erano arrivati da soli, si erano lasciati convincere dal branco. Romeo aveva raddrizzato il setto nasale al suo avversario. Fu un gesto che colse di sorpresa tutti quanti, compreso me. «Mi dispiace.» chiese perdono all’uomo che ora si era calmato. Sembrava non provare più tanto dolore, sebbene continuasse a tenersi una mano sopra la parte ferita del volto. Nel giro di pochi minuti la folla si disperse e rimanemmo nuovamente in mezzo ai comandanti capeggiati da Momo. Riprendemmo posto intorno al fuoco. Il primo a prendere la parola fu proprio il ragazzone che ormai simpatizzava apertamente per il chitarrista e coloro che lo accompagnavano. «Io credo che possono restare.» disse semplicemente rivolgendosi ai suoi subalterni. «A noi non piacciono gli scherzi. Rigate dritto e andremo d’accordo.» continuò rivolgendosi a noi. «Per il fatto dei ragazzi ne riparleremo.» La decisione era presa. Non importava che molti dei presenti non fossero concordi. Momo era il capo, e come tale aveva il potere di decidere.
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CAPITOLO 12
Ci fu assegnata una capanna ancora in costruzione in prossimità degli alberi della giungla. Kuma passò la notte insieme ai suoi vecchi compagni, così rimanemmo soltanto io e Romeo. Momo ci ordinò di non lasciare la capanna per nessun motivo fino al giorno seguente. Non compresi se si trattasse di protezione o di prigionia. «I bambini non sono il vero motivo per cui siamo qui, vero?» chiesi dall’amaca su cui avevo preso posto per dormire quando ci fummo sistemati per la notte. «Cosa te lo fa pensare?» mi domandò lui a sua volta. «La tua scenetta di questa sera. Tu vuoi loro, non i bambini.» dissi piuttosto sicuro di ciò che avevo intuito. «Non so per chi sono qui esattamente. Non sono bravo a programmare la mia vita. Nessuno vuole questa guerra, nemmeno loro credo.» disse alludendo ai ribelli che ci ospitavano. Ci furono alcuni istanti di silenzio in cui entrambi tentammo di riordinarci le idee. «Io vorrei poter aiutare chi soffre. Ora non sono più tanto sicuro che chi soffra di più siano i ragazzini.» Rimasi sorpreso. Le sue parole avevano un valore molto profondo. Non aveva intenzione di aiutare una categoria di persone, ma voleva alleviare la sofferenza, di chiunque essa fosse. Era l’assenza di pregiudizi. Era la profondità d’animo di un poeta. Compresi quanto la mia mente fosse banale ed inquadrata
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e sorrisi all’indirizzo di Romeo cercando di esprimergli la mia gratitudine. Era un piacere essere al suo fianco, parlare con lui, prendere parte ai suoi pensieri e camminare dietro di lui nel grande mondo dell’intelligenza e della sensibilità d’animo. Il mattino seguente fummo svegliati prima dell’alba dal rumore che tutti gli uomini all’esterno producevano. Romeo si affacciò alla porta che ci separava dal resto del villaggio, ma il soldato che stava di guardia gli impedì di lasciare il rifugio che ci era stato assegnato. Rimanemmo affacciati all’ingresso, incuriositi. L’oscurità rendeva tutti gemelli. Adulti e bambini, in quel frangente, non si potevano distinguere. Si sentivano voci che impartivano ordini e si vedevano ombre che eseguivano diligentemente. Tutto qui. Il tutto durò poco più di venti minuti, credo, poi il frastuono si ridusse sensibilmente. L’armata di fantasmi si addentrò disordinatamente nella foresta, lasciando il villaggio nelle mani obbedienti di un pugno di sentinelle. In pochi istanti passammo dal frastuono dei preparativi al silenzio naturale e tranquillo della giungla. L’obiettivo di quell’armata ribelle era facilmente immaginabile. Tornammo nel nostro rifugio senza avere nulla da dire l’un l’atro. Romeo era visibilmente turbato, lo si notava dal modo in cui stava sdraiato sulla sua amaca. Si muoveva di continuo e sospirava ogni pochi secondi. Tutto era calmo già da alcuni minuti, quando il poeta si alzò di scatto e si avvicinò a me, sussurrandomi all’orecchio di seguirlo. Mi alzai a mia volta e rimasi vicino a lui che si portò vicino all’uscio semi aperto, attraverso il quale si poteva vedere la sentinella a cui eravamo stati affidati. Romeo la chiamò. «Dobbiamo uscire di qui.» le spiaccicò sul volto, terra terra. La sua voce era ferma e sicura.
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Il soldato gli chiese il motivo con un cenno del capo. Il sole non era ancora sorto, ma iniziava già a colorare di verde e d’azzurro il paesaggio intorno a noi, sottraendo al sequestro della notte tutti i colori via via più intensi. «Lasciaci uscire, ti prego.» insistè Romeo. «Dobbiamo parlare con Momo.» «Momo non c’è.» rispose seccamente l’uomo. «Lo sappiamo, ma dobbiamo raggiungerlo.» continuò il chitarrista, inarrestabile nella sua insistenza come del resto nella vita. «Basta. Tornate dentro. Quando ci sarà il sole potrete uscire.» «D’accordo.» concluse il mio amico apparentemente rassegnato. Ci allontanammo dalla porta e aspettammo pochi secondi, il tempo di concedere al poveretto la certezza che tutto fosse sotto il suo attento controllo. Io e il mio giovane artista ci intendemmo con uno sguardo e passammo subito all’azione. Con il passare delle ore credevo sempre di più in ciò che stavamo facendo, forse trascinato dalla grande forza persuasiva di Romeo, forse no. Non pensai a niente, agii in sintonia perfetta con il mio amico. Mi affacciai all’uscio e ne uscii camminando con passo deciso. Il soldato mi guardò con sorpresa, poi ordinò di fermarmi. Non obbedii, continuai con il mio passo costante costringendo l’uomo ad allontanarsi dalla capanna e a concentrarsi su di me. Mi puntò contro il fucile che teneva a tracolla e mise il colpo in canna producendo un rumore sinistro che mi svegliò da una specie di sonno tranquillo. Mi resi conto di ciò che stavo facendo e del pericolo che correvo. Non ebbi tempo per riflettere oltre. Romeo si buttò silenzioso come un felino sul povero guardiano, portandogli una
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mano davanti alla bocca per attutire il grido di disappunto che proruppe spontaneo dalle sue labbra. Mi avvicinai velocemente ai due e strappai il fucile dalle mani del soldato prima che potesse sparare. Glielo puntai contro. Non avevo mai impugnato un’arma. Era una sensazione strana, mi dava energia. Un’energia che prendeva forza da se stessa e che nasceva forse nella paura, e forse nella solidità che mi trasmetteva quell’aggeggio. Non lo sapevo. Romeo ordinò al nero di tacere, e poi a me di abbassare il fucile. Obbedimmo entrambi. Gli occhi del soldato erano un misto tra sorpresa e paura. Dovevano assomigliare molto, in questo, ai miei. Romeo intimò all’uomo di entrare nella capanna che prima aveva sorvegliato. Noi lo seguimmo, assicurandoci che nessuno avesse assistito alla scena. Lo legammo e imbavagliammo con i suoi stessi vestiti prima di allontanarci, furtivi, verso il punto in cui i ribelli si erano addentrati nella foresta. Fortunatamente non incontrammo altre sentinelle. Non appena ci trovammo nel fitto degli alberi cominciammo a correre seguendo le chiare tracce che avevano lasciato gli uomini davanti a noi. Romeo era veloce, nonostante l’inseparabile chitarra che gli ondeggiava appesa dietro la schiena. Io, invece, facevo molta fatica per via delle primavere che mi pendevano sul capo. Lo persi di vista nel giro di pochi minuti e continuai da solo a seguire le tracce con il mio passo. Camminai più velocemente possibile per circa un paio d’ore, quando cominciai a sentire urla e spari in lontananza. Mi rattristai, perché sapevo bene cosa stava accadendo poco lontano. Nemmeno Romeo era riuscito ad impedirlo. Questi pensieri gravarono sul mio fisico già spossato dalla marcia forzata, rendendomi stanco e più lento di quanto già non fossi.
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Pochi minuti e la scena della razzia mi si parò davanti agli occhi. Giunsi sulla sommità di una piccola altura e potei scorgere, attraverso i rami, il piccolo villaggio che era stato attaccato. Si trattava di una ventina di capanne malconce, ai piedi del rialzo su cui stavo, circondate da alcuni campi coltivati dentro i quali risaltavano le scie lasciate dall’attacco ribelle. Le urla e gli spari, ora, erano molto vicini. Mi fermai per osservare la scena e per cercare il mio amico nel mezzo di quell’inferno. Individuai subito Momo che guidava i suoi compagni in quell’attacco infame e dietro di lui intravidi anche l’uomo con la cicatrice insieme a molti altri che avevano cenato insieme a noi la sera prima. Romeo non c’era. Rimasi fermo con gli occhi fissi su quella scena crudele pensando a cosa avrei potuto fare. Mi sentii piccolo ed inutile di fronte a tanto orrore. Avrei voluto fermare lo scempio che si stava consumando sotto i miei occhi, ma ero solo un uomo. Mi resi conto di quanto possa essere insignificante un piccolo, solo e vecchio uomo. Momo, in testa al folto gruppo di ribelli, uccise due uomini che gli si pararono davanti timidamente, più incuriositi che ostili, infilzandoli con la sua spada argentata che brillava nel sole del mattino. Dietro di lui l’orda si aprì a ventaglio consentendo ad ogni uomo di rastrellare il proprio spazio. La corsa dei ribelli era coordinata e implacabile. Gli indigeni che, resisi conto dell’attacco, cercavano di opporvisi con fruste e bastoni, venivano falciati via dalla foga assatanata dei soldati ribelli. Cominciai a correre verso l’impari battaglia, pronto a sacrificare la mia vita pur di fermare quella barbara esecuzione di innocenti. Giunsi urlando tra gli uomini armati, mentre l’attacco si stava già spegnendo, fulmineo. Momo si voltò verso di me e
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mi si mosse incontro, ordinando ai suoi di stare calmi e di non farmi del male. In quel momento arrivò anche Romeo. Lo vidi correre verso il villaggio dalla mia destra. Si diresse verso i soldati che stavano ancora combattendo e Momo, conoscendo bene l’odio che i suoi uomini nutrivano verso il chitarrista, cambiò direzione e si tuffò nel suo inseguimento. Avevo capito che il ragazzone covava della simpatia per Romeo, ma non pensavo che per lui si sarebbe messo contro i suoi compagni. Tutta l’attenzione era sull’ultimo focolaio di battaglia che si stava svolgendo tra le capanne che già cominciavano a bruciare. Romeo correva verso questo residuo d’odio violento da una direzione, Momo faceva lo stesso da un’ altra e così pure facevo io. Gli uomini che avevano già compiuto il loro lavoro rimasero ad osservare. Romeo fu il primo ad arrivare nella lotta che si era quasi placata con la morte di ogni abitante del villaggio. Soltanto uno, solo e patetico, opponeva ancora resistenza con le spalle appoggiate ad una capanna ed un bastone inutile tra le mani. L’uomo con la cicatrice gli si stava facendo incontro con il fucile mitragliatore puntato, pregustando ferocemente la sua falsa vittoria con un sorriso inumano stampato sulle labbra. Proprio in quell’istante sopraggiunse il mio amico che si piazzò tra l’uno e l’altro, rivolto verso lo sfregiato. Rallentai la mia corsa affannata. Romeo fissava l’uomo negli occhi e questi, felice per l’occasione inaspettata, allargò il suo diabolico sorriso e si fermò. Non accadde niente per alcuni istanti, fino a quando Romeo non si sfilò la chitarra dalle spalle e si voltò verso l’impaurito e indifeso abitante del luogo cominciando a pizzicare tristemente le corde. L’uomo con la cicatrice, prendendo questo
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gesto come un affronto, alzò il fucile sulla spalla destra per prendere la mira. Momo, a pochi metri di distanza, gli gridò di non farlo, ma lo sfregiato sembrò non avere orecchi. Si svolse tutto in un istante. Il capo dei ribelli si gettò sul suo subalterno, facendolo rotolare a terra. Romeo, attratto dal tonfo dei duellanti, si voltò. Smise di suonare e si avvicinò rapidamente ai soldati che ora erano immersi in una vera e propria lotta. Le divergenze della sera prima, ora, emersero violente. Romeo lasciò cadere la chitarra e si gettò sui due corpi stretti l’uno all’altro nella morsa dell’inimicizia cercando di separarli. Si udì uno sparo. Sussultai e rimasi ad osservare incredulo. Il trio convulso si fermò nella polvere. Si sentirono dei grugniti fin troppo eloquenti. Qualcuno era stato colpito, così mi affrettai per raggiungere il mio amico che non era distante più di una ventina di metri. Romeo perdeva sangue da un braccio, ma era cosciente e sembrava non provare molto dolore. Momo, invece, giaceva riverso al suolo con un filo di sangue che gli usciva dalla bocca per andare poi ad ingrassare il terreno. Aveva gli occhi aperti, immobili e fissi verso il vuoto che ormai si era impossessato di lui. L’uomo con la cicatrice si divincolò dal groviglio di gambe e braccia che lo limitavano nei movimenti e si alzò in piedi. Afferrò il suo fucile ancora fumante e lo puntò su Romeo dicendo con la voce esaltata della battaglia: «Ci hai portato solo guai.» Si udì un’altro sparo. Chiusi gli occhi per non vedere il volto del poeta deformarsi sotto la spinta del proiettile. Li riaprii soltanto quando sentii il tonfo del corpo che cadeva privo di energie vitali.
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Con mia grande sorpresa Romeo era ancora seduto vicino a Momo. Sentii un’ondata di gioia pervadermi in tutto il corpo per il mio amico ritrovato. Voltai lo sguardo verso lo sfregiato che giaceva a terra con un buco in mezzo alla fronte. Mi guardai intorno cercando il cecchino e notai che l’unico che imbracciava un fucile era l’uomo che la sera prima aveva appoggiato noi e Momo nelle nostre proposte. Tutti gli altri non tenevano le loro armi in mano, ma stavano guardando, come me, il loro compagno. Molti occhi carichi di odio e di disappunto si puntarono contro il tiratore, ma altrettanti gli erano quasi grati per quel gesto. Alcuni ribelli provavano simpatia per Romeo, proprio come ne aveva provata il loro capo giacente sul campo di battaglia. L’uomo che aveva sparato rispose al mio cenno del capo in un linguaggio non verbale che esprimeva tutta la mia gratitudine e tutto il suo dispiacere per ciò che aveva fatto. Si avvicinò a me e mi diede un colpetto con la mano sulla spalla, poi mi oltrepassò e si accasciò vicino a Momo. Romeo fece lo stesso. I due cominciarono a sollevare il capo defunto. Altri sette o otto soldati si portarono intorno al corpo del povero vecchio ragazzone per trasportarlo al loro campo. Anche lo sfregiato ricevette lo stesso trattamento. Romeo, con il braccio soltanto sfiorato dalla pallottola che aveva perforato il corpo del suo primo sostenitore ribelle, accompagnò Momo con la sua chitarra per tutto il tragitto fino al piccolo villaggio di capanne. Suonò musiche che avrebbero potuto accompagnare gli antichi elogi funebri di greci e romani che avevo studiato al liceo. Suonò pezzi che avevano sapore di antico, di passato, di malinconica storia lontana. Quella fu l’impressione che ebbi della sua musica funesta. Una musica antica e profonda quanto il dolore stesso.
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CAPITOLO 13
Quello stesso pomeriggio si svolsero le esequie per i due caduti. Momo e l’uomo che lo aveva ucciso, forse volontariamente, forse no, erano stati seppelliti l’uno vicino all’altro. Le cristiane celebrazioni erano state impeccabili. Non c’era stata nessuna distinzione tra i due feretri, si era parlato di loro come di due eroi indistintamente. Carità o ipocrisia. Furono i sobri funerali di due semplici uomini. I ribelli dimostrarono una solida coerenza religiosa riunendosi tutti sotto la bandiera del loro Dio, tralasciando opinioni e convinzioni sugli uomini che avevano perso la vita. Ma tutto ciò emerse comunque, quando i corpi dei due contendenti furono seppelliti. Romeo aveva lanciato il sasso nello stagno. Ora le acque marce stavano venendo a galla. Aveva provocato una reazione che sotto i nostri occhi si stava slegando e agitando, cercando di trovare un nuovo equilibrio diverso da quello rotto dal mio amico. Ci furono degli accesi dibattiti su chi dovesse prendere il posto di Momo. I soldati si divisero tra i sostenitori di Romeo, continuando così sulla linea tracciata dal capo defunto, e gli oppositori, seguendo le tracce dello sfregiato. L’uomo che aveva ucciso quest’ultimo si chiamava Abeba ed era, diciamo così, il candidato al posto di capo dei nostalgici del povero Momo. Non doveva avere più di trent’anni, ma aveva dimostrato quanto fosse carismatico e fermo.
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Dopo accesi dibattiti che sorpresero sia me che Romeo per la loro organizzazione di fondo, la maggior parte dei soldati decise che Abeba avrebbe dovuto occupare il trono vacante di quell’organizzazione di disperati. Molte opinioni furono espresse liberamente sotto le fronde mosse dal vento di quella foresta che sembrava avere della vita nascosta nelle sue profondità. Uomini e uomini ebbero la possibilità di parlare, talvolta circondati dalla confusione. Mi sorprese molto il fatto che tutti i ribelli presero parte a quella decisione importante. Io e il mio amico non potevamo assistere al consiglio, anche se in realtà, relegati nella nostra capanna poco distante, non ci perdemmo una virgola. Tutto si svolse nel giro di alcuni giorni. All’inizio dei dibattiti chiunque avesse qualcosa da dire espose la propria idea. L’argomento che teneva banco, anche perché era il motivo scatenante delle contese, era la nostra presenza. Qualcuno insisteva perché Romeo restasse per fare ciò che aveva promesso, qualcun’altro giurava di volerlo ammazzare, altri volevano semplicemente cacciarlo. Anche Kuma si espresse, elogiando il poeta, la sua bontà e la sua musica con le semplici ed innocenti parole fiduciose di un bambino. Dopo questa fase iniziale emersero i due contendenti che sembravano essere i più adatti al ruolo di capo. Fu un emergere lento dei due soldati che avevano il seguito maggiore di compagni. Abeba, da una parte, appoggiava e sosteneva la permanenza nel villaggio di me e Romeo, e, dall’altra, un uomo di nome Casha. Questi era un anziano signore, credo il più anziano tra i soldati, ma dal suo ardore dimotrava di avere un animo vitale e giovane. Casha predicava a gran voce di “cacciare i bianchi maledetti che avevano portato la punzione divina tra il popolo li-
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beratore di Gesù Cristo”, così, almeno, mi tradusse il poeta. Ma Romeo aveva già conquistato molti uomini con la sua musica, più di quanti in realtà mi aspettassi. Alla fine dei dibattiti, Abeba venne eletto capo con una specie di cerimonia intorno ad un fuoco. Rimasi molto colpito da quella sorta di elezione. Non mi aspettavo certo di trovare in mezzo alla foresta la realizzazione pratica di una democrazia piccola, ma a quanto pareva, funzionante. A questo punto venimmo liberati. Non sapevo se questo fosse un bene. Sapevo che molti ribelli non avrebbero pianto vedendoci appesi ad un albero per il collo, ma mi rassegnai alla libertà cercando di concentrarmi su ciò ce eravamo venuti per fare. In realtà, non ero a conoscenza nemmeno di quello. Passammo alcuni giorni durante i quali Kuma ci fece conoscere molti dei suoi vecchi compagni di battaglia. Furono giorni in cui coloro che non gradivano la nostra presenza dimostrarono tutto il loro disprezzo. Ma poi, lentamente, i ribelli cominciarono ad assimilarci. Un dì Romeo mi chiese di tornare in città per dare nostre notizie a Mireja e per pregarla di avere ancora un po’ di pazienza. Non era sicuro per lei raggiungere Romeo al piccolo villaggio nella foresta. Non potei far altro che sottostare alla volontà insistente del mio amico. Non che raggiungere Mireja fosse un peso. E nemmeno l’idea di poter dormire almeno una notte nel mio comodo letto mi dava noia. Ma mi dispiaceva lasciare il campo ribelle, perché sentivo che tra noi e i soldati stava nascendo un legame. Un legame obbligato, forse, dalla nostra presenza, ma pur sempre un legame. E con la mia partenza avrei potuto allontanarmi dagli uomini che ci ospitavano. Ciononostante mi feci accompagnare da Kuma fino al luo-
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go dove avevamo lasciato la mia jeep poco più di tre settimane prima. Con nostra grande sorpresa la trovammo illesa. Saltai sul sedile del guidatore e presi quella che nel mio animo era, in qualche modo, la strada di casa. Kuma mi salutò con il suo profondo sguardo ferito. Mi affezionai molto a quel ragazzo. Rappresentava nella mia mente il prototipo dei giovani che avevamo intenzione di aiutare. Senza alcun diritto, forse. Pensai molto lungo il tragitto che mi portò fino alla bella ragazza in città. Aiutare qualcuno non è sempre e solo una buona azione. Provai a vedere ciò che stavamo compiendo da un altro punto di vista. Che diritto avevamo di fermare una rivoluzione, una battaglia? Forse i ribelli avevano ragione: quei ragazzi non avevano bisogno del nostro aiuto. Stavano combattendo per un ideale. Qualunque esso fosse, era un’azione che poteva benissimo riempire un’esistenza. In fondo la vita di ognuno si snoda tra battaglie e combattimenti. Quei giovani soldati combattevano una battaglia più vera e più profonda di molti altri uomini. Perché chiedere loro di fermarsi? Per diventare come noi? Schiavi del lavoro e di una vita frenetica sempre più priva di ideali umani e filosofici? Probabilmente io più di loro necessitavo dell’aiuto di qualcuno. Probabilmente mi ero gettato in quell’avventura perché essa era l’aiuto che avevo inconsciamente aspettato per chissà quanto tempo. Un sostegno, una nuova motivazione, qualcosa di indefinito che mi dava nuovi stimoli, nuovi spunti per cambiare, per migliorarmi. E alla base di tutto, come un fuoco geometrico, c’era Romeo, che con la sua chitarra, con la sua poesia, mi aveva portato fino a lì. Insegnandomi a credere in qualcosa come non facevo ormai da un’eternità. Il sedicenne che ero stato aveva creduto fermamente nella propria filosofia, ma quel tempo profondamente spensierato era passato da un pezzo. Crescendo la mia anima
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era diventata adulta, arida. Invecchiata con il mio corpo. Il mio cuore, in seguito alle prime sconfitte, si era armato di un coriaceo riparo, grazie al quale ogni emozione, ogni paura, ogni sensazione, veniva filtrata ed attutita prima di raggiungere il centro pulsante e sanguinolento del mio spirito. Ora quel riparo, quella dura corazza che mi aveva impedito di vivere appieno la mia vita, si era intaccata. La vita pulsante che vi si nascondeva all’interno cominciava a fuoriuscire e a diffondersi in tutto me stesso. Ero di nuovo privo di protezione, di nuovo innocente, di nuovo ingenuo e fiducioso nel mondo, nell’uomo, in me stesso. Arrivai in città nel primo pomeriggio e raggiunsi subito la mia cara Mireja. Mi accolse con un abbraccio degno di una figlia verso il padre. La figlia che non avevo mai avuto. Rimase delusa dalle notizie che le portavo, ma non tanto quanto avrei creduto. Forse si rendeva conto del pericolo dal quale volevamo proteggerla. Mi accompagnò al mio appartamento dove rimanemmo a parlare di Romeo fino a sera. Lei mi chiese come lo avessero accolto e io le raccontai la vicenda del nostro arrivo, di Momo e di tutto ciò che successe fino al giorno precedente. Era preoccupata per il suo giovane spasimante, ma sapeva che era un uomo da lasciare libero. Lei meglio di chiunque altro lo sapeva. Romeo aveva bisogno di essere padrone di se stesso, doveva sentirsi in grado di correre da solo sulla sua strada. Era un poeta. E i poeti sono liberi, con tutto ciò che questo comporta. Grazie a lui compresi che la libertà non è un dono gratuito. La libertà porta spesso con sé paura e turbamento. Ma quell’uomo straordinario navigava nel suo libero mare con la sicurezza di un marinaio di vecchissima data. Paure e timori erano invisibili agli occhi degli uomini che con
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lui avevano a che fare. Il suo mondo si sviluppava nel profondo del suo cuore, lasciando a noi soltanto le briciole. Quelle briciole musicali che erano splendidi brandelli della sua libertà. Accompagai Mireja al lavoro, sebbene il viaggio mi avesse spossato e la voglia di saggiare il mio materasso fosse alle stelle. Rimasi un altro po’ con lei bevendo una birra al bancone del bar. La sua bellezza e la sua simpatia erano ragioni più che sufficienti per fare attendere il letto e il sonno. Guardarla al lavoro e sentirla parlare era di per sé una terapia riposante. Ci sono cose, nella vita, che si amano per la loro obiettiva bellezza. Alla fine non potei far altro che arrendermi alla stanchezza. Presi commiato, dicendole che l’indomani sarei ripartito all’alba. Mi abbracciò commossa dicendomi che avrei dovuto tornare presto a darle notizie del suo amato chitarrista. Le promisi che se non fossi riuscito a mandare lui in persona, mi sarei occupato personalmente di questa faccenda. Salutai e lasciai il locale sulle ali dell’ebbrezza mista a stanchezza che mi irradiava dentro. Tutto ciò di cui avevo bisogno in quel momento era di poter stare da solo con me stesso. Mi incamminai per le strade, immerso nei miei pensieri, senza sapere dove andare. Avevo visto con i miei occhi ciò che prima di allora avevo soltanto conosciuto per sentito dire. I ragazzini che affollavano il campo dei nostri ospiti erano molti. Pensai che ce ne dovevano essere almeno una trentina. E chissà quanti altri ce n’erano in altri villaggi sparsi per la zona. Non sembravano infelici, questo era vero. Si erano integrati nell’organizzazione che li aveva privati dell’infanzia e quella, per loro, era la vita normale. Non si aspettavano nient’altro. Ciò che mi sorprese fu l’assenza delle bambine. Sapevo bene il motivo per cui le piccole venivano rapite, ma in quel
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villaggio non ne avevo vista nemmeno una. Non sapevo se considerarla una fortuna oppure no. La loro assenza poteva significare molte cose. Poteva voler dire che le bambine non erano lì perché erano merce di un vero e proprio mercato di esportazione. C’erano centinaia di altre possibili ipotesi, molte delle quali mi davano i brividi. Tentai di scacciare il terribile pensiero che stava radicandosi nella mia mente. A volte i nostri stessi pensieri possono essere molto scomodi e fastidiosi. Tutti i miei sforzi furono invani. Non riuscii a distaccarmi da quelle idee infami, da quelle orribili immagini che si susseguivano lentamente nella mia testa. Bambine ancora più rapite, ancora più private di innocenza dei loro piccoli coetanei. Bambine che non avevano voce e non avevano vita. Strumenti, come una caffettiera, come una biro, come un libro. Dove erano finite? Camminai per un tempo indefinito e ad ogni passo che strisciai stanco sull’asfalto polveroso era un nuovo interrogativo, una nuova domanda. Ebbi un’idea improvvisa, come un’esplosione. Le bambine non erano lontane. La mia mente doveva aver avuto degli indizi che mi erano rimasti ignoti. Indizi inconsci che mi rendevano sicuro della mia intuizione. Era istinto quello che mi dava le certezze. Era qualcosa che Romeo aveva saputo risvegliare in me con la sua musica e con la sua poesia. Era una certezza priva di dimostrazione, una sensazione, che pur mi convinceva appieno. Priva di regole, fuori dal tempo, al di là della comprensione.
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Arrivai a casa correndo, raccolsi il mio zaino e presi subito la strada verso nord, in direzione del Sudan. All’alba stavo lasciandomi alle spalle la jeep e iniziando a camminare lungo il sentiero che portava al villaggio. Lungo il tragitto decisi di abbandonare il percorso battuto per inoltrarmi nella foresta alla ricerca dei fantasmi della mia mente. Nel sottobosco umido lontano dal sentiero si inseguivano centinaia e centinaia di tracce confuse. Segno che molte persone passavano di lì abbastanza regolarmente. Era naturale. Riuscii ad individuare una traccia più consistente delle altre che si allontanava perpendicolarmente dal sentiero che portava al villaggio. La seguii guardingo. Camminai molto lentamente per alcuni interminabili minuti seguendo quella scia nel terreno che diventava sempre più ampia, ingrossata da sentierini affluenti. Ad ogni minimo rumore sussultavo e mi fermavo, guardando in tutte le direzioni. Sembrava che nulla ci fosse in quella foresta, all’infuori di me e della vegetazione imponente. Avrei voluto che fosse realmente così. Proseguii sulla mia traccia e il timore, ingrassato dai rumori sempre più selvaggi della foresta e dei suoi abitanti, divenne vera e propria paura. Continuando a camminare mi trovai di fronte, a distanza di poche centinaia di metri, qualcosa di strano. Vidi un’ombra, una figura sfuocata dai rami folti degli alberi. Sembrava una capanna, ma non ne ero certo. Una
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piccola capanna isolata nel cuore della giungla. Si trattava sicuramente di una costruzione umana, perché la sua forma regolare cozzava visibilmente con la libera spensieratezza degli alberi indistinti. Rallentai ulteriormente il passo e mi abbassai procedendo gobbo sul terreno. Quando mi trovai a breve distanza vidi confermarsi la mia ipotesi. Si trattava proprio di una piccola capanna. Non c’erano finestre per quanto potevo vedere e l’entrata era sbarrata con una catena ed un grosso lucchetto. Rimasi a pensare. Dovevo vedere cosa si nascondeva all’interno di quello strano rifugio isolato. Girai attorno alla capanna tenendomi a distanza per controllare che non ci fosse nessuno nei dintorni. Ero solo, ma non avevo potuto vedere al di là delle quattro pareti di legno, poiché finestre non ce n’erano, su nessun lato. Mi avvicinai con un pessimo presentimento, ma la curiosità era tanto forte da spingermi avanti. Mi accostai alla porta e prima di dare uno strattone alla catena per provarne la resistenza mi guardai attorno per un’ultima volta. Nessuno. Tirai con forza. Udii dei sussulti provenire dall’interno, come se qualcuno si fosse trascinato sul terreno con un gemito. Mi allontanai correndo, impaurito senza motivo, dato che chi era dentro a quella trappola doveva essere più impaurito di me. Rimasi ad osservare. Nulla si mosse, non una voce, non un rumore. Passarono secondi, poi minuti, ma tutto rimase così, cristallizzato ed immobile. Ripresi coraggio e mi avvicinai di nuovo alla porta. Armato di un bastone feci leva sul lucchetto mandandolo in pezzi. Aspettai alcuni istanti, poi trovai la forza per affacciarmi. Quello fu il punto di non ritorno. Oltrepassato quel frangente non avrei più potuto riprendere la mia vita come se niente fosse. Non potevo ignorare che i miei giorni residui li
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avrei trascorsi combattendo quel male putrido che avevo davanti. I miei occhi impiegarono poco ad abituarsi all’oscurità della capanna inondata dal fascio di luce che avevo provocato. Una dozzina di piccole bambine africane erano ammucchiate contro la parete più lontana, con gli occhi gonfi che mi guardavano. Erano nude. Nude e sporche, ammassate le une sulle altre per sfuggire alla minaccia, alla paura che avevano nel cuore. Per terra c’erano delle ciotole sporche e vuote, probabilmente le usavano per mangiare. In un angolo un secchio d’acqua emanava riflessi spenti sulla parete di fronte. Rimasi sconvolto, e per alcuni istanti non ebbi la forza di muovermi, di parlare. Indugiai immobile sull’ingresso a guardare le poverette che dovevano avere dai quattro ai dieci anni, sicuramente non di più. Forse, anzi, di meno. Non c’era un pavimento e dovevano stare sulla terra umida. Non avevano nemmeno spazio sufficiente per coricarsi tutte insieme. Dissi qualcosa che non ricordo più, cercando di riprendere il controllo della mia volontà. Cercai di sorridere alle bimbe che mi guardavano terrorizzate, ma il mio ghigno le percosse come una frusta e furono attraversate da sussulti misti a lacrime. Dissi loro che le avrei portate via da lì, ma non potevano capire l’inglese. Forse non sapevano nemmeno parlare. Entrai e mi richiusi la porta alle spalle, lasciando penetrare un sottile fascio di luce in modo che mi vedessero. Cercai di spiegarmi a gesti e ottenni almeno di alleggerire la tensione sui loro volti. Non riuscivo a farmi capire, così feci segno di fare silenzio, anche se forse nessuna di loro capì. Uscii dalla capanna, guardandomi intorno, facendo segno di seguirmi. Una di loro, coraggiosa come solo un bambino può essere, si avvicinò a me. Un’emozione indescrivibile mi allagò tutto il corpo. Sorrisi all’indirizzo della bimba, questa
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volta non forzatamente. Questo era un sorriso incontenibile, di gioia. La presi in braccio. Lei si ritrasse, impaurita, inconsapevole delle mie buone intenzioni. Ma si rese subito conto che la mia non era una presa violenta. Mi guardò, inespressiva in volto. Feci di nuovo segno di seguirmi alle altre che, grazie al buon esempio della loro compagna, si alzarono e si avvicinarono a me. Cominciai a camminare verso il sentiero che portava alla mia jeep tenendo d’occhio le bimbe che correvano a piccoli passi con le loro gambine sporche. I miei occhi cominciarono a lacrimare per il misto esplosivo di emozioni che mi surriscaldava. La gioia di liberare quelle creature innocenti e la rabbia, lo sconforto, la delusione, per come le avevo trovate. Ingabbiate, rinchiuse, denutrite e violate nella loro fanciullezza scomparsa. Corremmo per una ventina di minuti e per qualche assurdo motivo non incontrammo ribelli. Forse era un buon segno, o forse significava che eravamo stati del tutto abbandonati da Dio. Arrivammo alla jeep e le bambine, che avevano preso coraggio, obbedirono immediatamente al mio gesto che le invitava a salire. Erano in tredici. Si strinsero le une sulle altre per poter salire tutte, ma quello spazio ristretto, per loro, non era una novità. Girai attorno al mezzo per prendere posto sul sedile del guidatore. La mia soddisfazione, che stava lievitando, venne bruscamente sgonfiata da uno sparo alle mie spalle. Il proiettile mi mancò per un soffio, andando a infrangersi sul cofano dell’auto. Mi gettai al posto di guida e avviai il motore imprecando e pregando che non avesse riportato danni. Vidi i tre ribelli che mi avevano scovato proprio di fronte a me, a non più di cento metri. Uno di loro stava prendendo la mira con il suo
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fucile appoggiato alla spalla. Feci sgommare le ruote del mio fuoristrada per sfuggire al proiettile che, nonostante tutto, mi raggiunse ad una spalla perforando il parabrezza. Sentii il dolore per alcuni istanti, subito dopo lo sparo, ma fu soltanto un breve attimo di paura, poiché la volontà di portare in salvo quelle bimbe era troppo forte. Ripresi il controllo del mio corpo e della jeep poco dopo l’urlo di dolore che mi sovvenne spontaneo e riuscii a dirigermi verso la strada che portava in Uganda. Eravamo salvi, l’unico ferito ero io. O almeno ero l’unico ferito nel corpo. Non ero certamente il più grave su quella macchina sovraffollata. Guidando lungo la strada sterrata i miei pensieri mi condussero velocemente nel panico. Quello che avevo fatto poteva costare la vita a Romeo. I ribelli mi avevano sicuramente riconosciuto. Avevano visto ciò che avevo fatto e avevano un pretesto chiaro e limpido per ammazzare il poeta, dopo averlo civilmente accusato di essere mio complice nella faccenda. Cominciai a sudare, mentre le bambine, tutto intorno a me, mi osservavano silenziose e con un’espressione sul volto a metà tra la paura e la sorpresa. Non potevo abbandonare così il mio amico. Ero stato uno stupido. Con la mia fretta, avevo mandato a monte tutti i suoi piani, tutto il suo lavoro. Ma ormai era fatta. Era inutile rammaricarsi. L’unica cosa da fare era non abbandonarlo. Dovevo assolutamente trovare un posto sicuro dove lasciare le bambine e tornare indietro per salvarlo. Oppure per farmi ammazzare nel tentativo. Mi arrestai alla prima stazione di servizio che incrociai dopo un’ora di cammino forzato. Mi precipitai verso il telefono a gettoni e chiamai Mireja sul mio cellulare che le avevo lasciato, dal momento che a me non serviva più. Le dissi freneticamente che avevo bisogno del suo aiuto per portare in sal-
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vo le bambine. Nel giro di un’ora e mezza ci eravamo incontrati a metà strada, io con la mia jeep malandata e lei con un pulmino preso a noleggio in città. Le dissi di occuparsi delle bimbe e scappai in tutta fretta rimettendomi sulla strada che portava a nord, verso il Sudan, verso il villaggio dei ribelli. Verso Romeo. Ripercorsi tutto il tracciato che avevo fatto poco prima, a tavoletta. Raggiunsi il luogo dove avevo lasciato la jeep e lo feci di nuovo. Cominciai a correre con tutte le energie che avevo in corpo addentrandomi nella foresta selvaggia seguendo il sentiero che i ribelli avevano segnato con il loro continuo passaggio. Chissà quanti sentieri come quello esistevano che univano il Sudan e l’Uganda? Quanti sentieri di morte e di dolore aggiunto al dolore. Quanta miseria correva per quei percorsi inventati dall’uomo. E chissà quante capanne come quella che avevo trovato io, poco fuori dai sentieri.
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Ero senza fiato, ormai, quando incrociai la prima sentinella proprio di fronte a me. Udii una voce ferma, come se stesse dando un ordine. O almeno così interpretai quella specie di urlo e mi arrestai di colpo, abbassandomi con le mani sulle ginocchia per riprendere fiato. Il soldato uscì dal suo nascondiglio tra gli alberi. Era un bambino. Mi guardò e sorrise, perfido, dicendomi con un inglese stentato che mi stavano aspettando. Io ricambiai lo sguardo e fui invaso da un’enorme tristezza, perché quel ragazzino aveva già subito la trasformazione che lo aveva fatto diventare uomo. Probabilmente anche Kuma, al suo posto, avrebbe avuto quello sguardo assetato di vendetta. Mi rattristai e sentii che tutte le forze mi abbandonavano. La ferita alla spalla, i viaggi e la notte in bianco tornarono dolorosamente a farsi sentire. Da lì al villaggio camminai strisciando i piedi, come privato di ogni motivazione, svuotato di ogni volontà. Sfinito e sconfitto. Il ragazzino mi spinse con la canna del fucile per tutto il sentiero e quando arrivammo fummo accolti da un’ovazione. Sembrava che tutti stessero aspettando me per placare la loro sete di vendetta. Abeba, scuro in volto, mi si fece incontro, ordinando al ragazzo alle mie spalle di lasciare che proseguissi da solo. Ci trovammo faccia a faccia per alcuni istanti, finchè egli lasciò partire un manrovescio che mi colpì in
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pieno viso. Forse aspettava una mia reazione per potermi massacrare senza risentimenti, ma io non mi mossi più di quanto il suo colpo mi costrinse a fare. Pensai che quello schiaffo fosse più che meritato. Avevo messo in pericolo la vita del mio amico per un’azione impulsiva. Forse Abeba mi aveva colpito proprio per quel motivo, e non per aver sottratto ai suoi soldati le bambine. Sperai che fosse così. Rimanemmo occhi negli occhi per altri brevi istanti, poi venni condotto in quella che era stata la cella mia e del poeta solo pochi giorni prima. Il tramonto stava colorando di arancione e di rosso le cime degli alberi e i riflessi caldi che inondavano il villaggio mi rendevano fiducioso. I colori del mondo avevano sempre avuto importanza per il mio animo. L’ottimismo era arancione nella mia scala cromatica dei sentimenti e quella era una sera dipinta d’arancione come ne avevo viste poche in vita mia. Mentre mi dirigevo verso la capanna in cui avrei dovuto stare in attesa di chissà quale punizione, tutta la tensione che mi aveva offuscato la mente nelle ore precedenti si disciolse come nebbia nel sole. Oramai ciò che sarebbe stato non dipendeva più da me. Ero nelle mani del destino, nella migliore delle ipotesi. Nella peggiore, invece, ero nelle mani dei ribelli. Preferii pensare di essere nei caldi e vellutati guantoni di un destino incerto, piuttosto che negli artigli freddi e feroci dei soldati. Mi rilassai pensando alle bimbe che ora erano al sicuro insieme a Mireja. Ero fiero di averlo fatto, ora. Romeo sarebbe stato d’accordo con me, ne ero sicuro. Mi trovai nella capanna semi buia e mentre i miei occhi si abituavano alla diversa intensità della luce potei constatare che nulla era cambiato dall’ultima volta. C’erano le due amache e nient’altro. Su una di queste
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stava Romeo, la chitarra in grembo, che si dondolava in silenzio. La porta venne chiusa alle mie spalle e io mi sentii, per qualche assurdo motivo, a casa. «Vorrei sentirmi a casa in ogni luogo del mondo.» sussurrai tra me e me ripensando a quello che mi aveva detto il poeta molto tempo prima. Fu una sensazione molto intensa che mi fece riprendere coraggio e forza perduti. «Come stai?» chiesi. «Ti hanno fatto del male? Mi dispiace. Non so perché l’ho fatto, io non…» «Sono al sicuro ora?» mi interruppe. «Si, con Mireja. » «Allora ne è valsa la pena.» disse a bassa voce. Nel frattempo i miei occhi si erano abituati e riuscirono a vedere il viso gonfio e tumefatto di Romeo immerso nella penombra. Non seppi più che dire, ma lui si accorse del mio sconforto e cercò di consolarmi immediatamente: «È per questo che siamo qui. Sapevamo di correre dei rischi, quindi non preoccuparti. Devi essere orgoglioso di quello che hai fatto.» «Lo sono.» risposi semplicemente. In certe occasioni una cosa giusta da fare non esiste. Avevo passato la maggior parte della mia esistenza senza saperlo e ne ero contento. Avrei dovuto lasciare le bambine dov’erano salvaguardando l’incolumità del mio amico, o avevo fatto bene a sottrarle a quello che sarebbe stato il loro incubo per il resto della loro vita? In un caso e nell’altro avrei sbagliato e fatto bene allo stesso tempo. Mi sentivo diviso. Una parte di me era felice per quello che avevo fatto, mentre un’altra si vergognava per aver messo nei guai un uomo come Romeo. Mi addormentai cullato dai miei pensieri e dormii di un sonno pesante e rigenerante fino a tarda notte.
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Al mio risveglio vidi che Romeo era ancora sveglio, sulla sua amaca. «Che succederà, ora?» gli chiesi. «Probabilmente ci uccideranno dopo averci torturati. Adorano la vendetta e non si lasceranno sfuggire l’occasione di farci soffrire.» Quelle parole non mi scossero come, forse, avrebbero dovuto. Rimasi freddamente a pensare alle bambine. «Possiamo provare a scappare.» dissi quasi per gioco. Mi sorpresi per la leggerezza di quella risposta. Lui rimase un poco a pensare, poi i suoi occhi brillarono. «Possiamo provare, ma ad una condizione.» «Quale?» domandai incuriosito. «Sai scrivere?» «Certo che so scrivere.» risposi immediatamente tentando di scherzare, sebbene avessi intuito cosa avesse voluto dire. «Allora dovrai raccontare ciò che succede qui.» proseguì serio. «Perché non lo fai tu? » chiesi. «Io ho bisogno di tornare alla mia vita da vagabondo.» sorrise. «Non ti posso promettere niente, ma ci proverò.» cedetti infine. «Bene, allora pensiamo a come andarcene.» Cercammo entrambi di elaborare un piano, ma rimanemmo senza spunti per un po’, finchè Romeo, scrutando attentamente le assi che ci circondavano non si lasciò sfuggire un appena accennato “eccolo”. Prese la sua amata chitarra e sciolse una delle corde. La fece passare dietro ad un sottile traliccio che sosteneva altre quattro o cinque assi. In quel momento capii. Se fosse riuscito a tagliare quel pezzo di legno avremmo potuto uscire attra-
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verso una piccola apertura quadrata di una quarantina di centimetri. Quella “pezza” nelle pareti doveva essere stata una finestra. Si attorcigliò i due capi della corda di nilon alle mani e cominciò a farla scorrere velocemente avanti e indietro. Impiegammo un paio d’ore circa prima di riuscire nel nostro intento. Ci alternammo al lavoro e ci tagliammo le mani in diversi punti, ma quella era la nostra unica salvezza e le mani insanguinate non bastavano a farci desistere dalla nostra impresa. Compiuta l’opera Romeo si affacciò all’esterno e constatò che non c’erano sentinelle vicino alla capanna, da quella parte. Uscimmo cercando di fare meno rumore possibile e ci avviammo verso la foresta, tenendoci al riparo per quanto possibile. Romeo faceva strada e io lo seguivo, quando all’improvviso mi sentii una mano sulla spalla. Mi voltai di scatto con il terrore in volto, pronto a vendere cara la pelle. Nel chiarore della luna alta nel cielo riconobbi Kuma. Mi accasciai al suolo, sopraffatto dall’emozione con il cuore che mi batteva in gola. Romeo udì qualcosa di strano dietro di sé e si voltò con il volto teso. Vedendo Kuma, però, anch’egli si rilassò un poco. «Che fai qui?» sussurrò Romeo, che ancora aveva la forza di parlare, al giovane africano. «Liberare voi.» rispose il buon Kuma. «Stai rischiando la vita, va via.» esclamò il poeta alzando un pelo la voce. «Io no via. Io con voi.» disse il ragazzino gesticolando. Romeo, pur non essendo d’accordo, dovette accondiscendere per evitare che venissimo scoperti. Riprese a camminare verso la foresta e noi lo seguivamo. Ad un tratto Kuma prese la testa del gruppo dicendo semplicemente al chitarrista:
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«Di qua.». Sotto la guida sicura del giovane riuscimmo a lasciare il villaggio senza essere visti, ma per arrivare alla macchina avevamo ancora più di due ore di cammino. La luna rischiarava anche il sentiero al di sotto dei rami degli alberi e qualsiasi sentinella avrebbe potuto vederci se avessimo percorso la strada usuale. Decidemmo di rimanere al riparo delle fronde folte della giungla. Ad un tratto udimmo alle nostre spalle una voce che squarciò il monotono e rumoroso silenzio della giungla. Una voce lontana, alla quale se ne assecondarono altre ancora più distanti, più flebili. Ci stavano già cercando. Avevano scoperto in fretta la nostra fuga. Probabilmente era stata una delle guardie che passando di lì aveva visto l’apertura praticata da Romeo. Ci fermammo e cercammo di scomparire dietro ai tronchi degli alberi. Le voci si avvicinavano nel buio, ma non si vedevano luci e questo mi diede coraggio. I ribelli non avevano vantaggi dalla loro. Vagavano nel buio proprio come noi. Dal mio nascondiglio potevo vedere Romeo, le spalle appoggiate ad un tronco con la chitarra appoggiata a terra. Improvvisamente un soldato gli si affiancò, silenzioso, senza notarlo. Il poeta lo vide prima di essere scoperto e gli saltò al collo con la corda della chitarra ancora tra le mani salvando la nostra fuga. Il soldato non riuscì ad emettere suoni abbastanza forti da essere uditi dai suoi compagni, ma si battè come un leone prima di cadere a terra, non seppi se svenuto o morto strangolato. Pensai che anche lui, in fondo, era solo un uomo. Si era salvato la pelle, forse ammazzando uno di quegli uomini che voleva aiutare. Non potevamo rimanere lì. Avrebbero potuto scoprirci da
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un momento all’altro, così, quando Kuma ci ordinò di seguirlo, non esitammo un istante. Ci dirigemmo il più silenziosamente possibile verso la parte opposta dalla quale sembravano provenire le voci. Non incontrammo nessuno, ma ci imbattemmo, con mia grande sorpresa, in un’altra capanna come quella che avevo scovato poche ore prima e in cui avevo trovato le bimbe. Una costruzione poco più grande, ma come l’altra chiusa da ogni lato e silenziosa. Tremendamente silenziosa, di un silenzio sinistro, pieno di terrore e di sofferenza. Indicai a Romeo la casupola facendogli capire che avremmo dovto forzarne l’ingresso. Romeo si avvicinò a me insieme a Kuma. «Che c’è? » mi chiese sottovoce. «Le bimbe,» risposi sempre con un tono molto basso «erano in una capanna come questa quando le ho trovate.» «Vero.» intervenì Kuma. «Le femmine qui. Tanti posti come qui nella foresta.» Trasalii al pensiero che anche Kuma, come tutti i soldati, doveva aver abusato di quelle povere creature indifese chissà quante volte. Romeo non spiccicò parola, ma fu il primo a passare all’azione, sotto i miei occhi affascinati e quelli sorpresi di Kuma, che in quelle bambine ignobilmente sfruttate non ci trovava nulla di male. L’uscio fu forzato in pochi istanti e ciò che trovammo dimostrò la fondatezza delle mie ipotesi. Altre bambine, forse una ventina, erano rannicchiate nell’umidità buia e tremenda della foresta. Abbandonate alla notte e ai loro stessi incubi. Il poeta ci ordinò gesticolando di seguirlo e noi obbedimmo senza batter ciglio. Entrammo nella casupola facendo retrocedere ulteriormente le bambine impaurite. Dopodichè ac-
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costammo la porta in modo che sembrasse chiusa come l’avevano lasciata i ribelli. Kuma sembrava non comprendere ciò che stavamo facendo. Chiese sussurrando, preso dalla paura di finire nelle mani dei suoi vecchi amici: «Perché noi non via. Qui loro trovano noi sicuro.» Romeo rispose in tono tranquillo che non ce ne saremmo andati senza quelle bambine. In quell’istante Kuma comprese che io e il mio amico avevamo una grande tristezza dipinta sul volto e la collegò immediatamente a quelle bambine sole e abbandonate. Capì che quelle piccoline trattate in quel modo suscitavano la nostra rabbia e il nostro sconforto. Abbassò la testa senza dire niente. Si era così affezionato a noi che credeva ciecamente nelle nostre convinzioni. Se noi eravamo sconfortati, lo era anche lui. Il nostro minimo disappunto provocava in lui immani battaglie tra passato e presente. In quel momento, pensai, si vergognò ripensando a come aveva trattato quelle bambine indifese. E ciò solo in base al nostro modo di vedere le cose. Tutto quello che aveva imparato con i ribelli sembrava svanire sotto l’effetto del nostro esempio. Avrei voluto abbracciarlo per fargli capire che noi non lo avremmo abbandonato a se stesso. Egli non era colpevole, per noi. Era vittima, esattamente come quelle piccole fanciulle che tremavano per la nostra insolita presenza. Con l’unica differenza che Kuma, ora, poteva fare qualcosa per difendere se stesso, mentre le bimbe restavano comunque degli esseri indifesi e innocui. Ma resistetti alla tentazione di stringerlo tra le braccia, pensando che quel senso di colpa che lo attanagliava avrebbe potuto convincerlo di quanto fosse stato miserabile il trattamento riservato alla sua vita e a quella delle giovinette.
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Ad un tratto udimmo dei passi fuori dalla capanna. Ci ritirammo ognuno nella propria silenziosa solitudine, cercando di trattenere il respiro e di scomparire contro le pareti. Romeo, proprio di fronte a me, prese la chitarra tra le mani ed iniziò a muovere le dita sulle cinque corde rimanenti. All’inizio non sentii nessun suono, ma poi, concentrandomi, incredulo, su di lui, udii la sua musica. Ero spaesato di fronte a quelle note pronunziate nel silenzio delle nostre menti bloccate dalla paura. Ci dovevamo nascondere e Romeo cominciava a suonare. Kuma, come me, rimase allibito di fronte a questa ingenua azione irresponsabile. Mi staccai dalla parete per avvicinarmi al poeta e farlo smettere fintanto che il volume era così lieve da non poter, forse, essere udito all’esterno. Ma compresi di botto, avvicinandomi a lui, che quelle note, quelle scale, quella poesia in musica non mi era nuova. Con quei rapidi movimenti delle dita sulle corde Romeo non produceva soltanto suoni, ma una realtà, un mondo, una campana di vetro dentro la quale tutto assumeva il colore della sua anima. Noi eravamo dentro la sua campana ed eravamo immersi nell’atmosfera che lui stava creando. Quella stessa atmosfera che avevo respirato in una notte lontana, insieme a Romeo. La notte in cui avevo rischiato di perdere la vita. La notte dei leoni. Non posso essere sicuro che quelle fossero le stesse note, ma l’aria che respirai era la stessa di quella notte. La stessa paura, lo stesso silenzio nel mio cuore. E poi la stessa sorpresa nel vedere Romeo, impavido e temerario, a sfidare la sorte. Lui, solo con la sua chitarra. Non ebbi il coraggio di fermarlo. Quello avrebbe potuto essere l’ultimo minuto della nostra vita, ma forse valeva la pena di viverlo così, come ci stava obbligando a fare Romeo. Una vita di una densità tale che la morte non avrebbe potuto
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annullarla di colpo. Una vita che avrebbe resistito, noi morti, nell’aria, nel vento e nei ricordi dei nostri carnefici. Perché quella non era soltanto una musica improvvisata. Quella era la vita stessa in trasposizione materiale. Tutte le domande cosmiche ed esistenziali di un uomo, in quei suoni sussurrati, potevano trovare soddisfazione. Ogni sfioro, ogni salto di corda del poeta, era un occhiolino all’esistenza, una sfida alla banalità dell’uomo, un elogio alla sua fragilità. Il tempo che passai tra la paura e il fascino irresistibile di quelle note fu lungo quanto intenso. Minuti, secondi, ore, non ebbero più significato per me. Non potrei mai dire quanto rimanemmo intrappolati in quella tagliola temporale. La mia persona dovette allungare il tempo, ampliarlo e strapazzarlo, per farci entrare tutte le emozioni del momento. Credo che quella fosse la relatività di cui mi parlavano i professori a scuola, quando ero ragazzo. Ma mai un professore aveva saputo spiegarmi tanto. Mai mi sentii vivo come in quei frangenti, paradossalmente quando la morte sembrava volersi impossessare di me. Romeo, persistendo nella sua pittura, mi rese meno timoroso e più tranquillo. Ero pronto ad affrontare i proiettili che ci sarebbero piombati addosso, perché ero felice di essere vivo e di aver scoperto di esserlo stato per tutta la mia vita. Meglio tardi che mai. E in quel momento tutta la mia esistenza assumeva un senso. La vita bastava a se stessa se la si poteva incontrare come avevo fatto io. Essere vivi era motivo di felicità. Non sapevo se questo dipendesse da noi, da qualcosa di superiore o da nulla. Non lo so tuttora. Ma sono vivo, come allora, e sono felice di esserlo. I soldati all’esterno non udirono nulla. Non poterono partecipare al mio sconvolgimento interiore, perché non avevano potuto sentire la musica che l’aveva provocato.
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Rimanemmo tutti immobili ad ascoltare. Non più passi. Niente più rumori di vestiti che sfregavano sulla pelle nera dei ribelli. Guardai Romeo e nella penombra rigata di fasci irregolari di luce notturna riuscii a scorgere la frase sulla sua chitarra. “Il giorno più bello della mia vita”. Atri pensieri, altre convinzioni si susseguirono nella mia mente. Romeo aveva cominciato a suonare per rendere l’ora della sua morte anche quella più bella della sua vita. Poetico, come sempre. Quando ci sentimmo un poco più al sicuro, quel pazzo artista si inginocchiò vicino alle bambine e cominciò a parlar loro nella lingua che avevo sentito utilizzare dai ribelli. Esse trovarono in lui sicurezza e bontà e si distesero un po’. Subito dopo decidemmo che saremmo rimasti lì fino all’alba, che non doveva essere lontana, e poi saremmo fuggiti con le bambine e Kuma, che giaceva in silenzio in un angolo appoggiato con la schiena alla parete. Romeo gli chiese come stava e lui disse con le lacrime agli occhi: «Voi credete che mia è brutta vita. Voi odiate me per quello che ho fatto. Io come loro. E loro cattivi.» disse indicando l’esterno. «Se sei cattivo, perché piangi?» chiese il poeta con un tono paterno che non gli avevo mai sentito usare. Poi prese Kuma per un braccio e lo tirò su, facendolo alzare. «Sei libero. Puoi andartene anche subito se vuoi.» continuò Romeo. Kuma si fece duro in volto ed esclamò tralasciando la prudenza: «No andare! Io aiuto miei amici!» Romeo sorridendo lo invitò ad abbassare il tono di voce. «Kuma è buono.» disse poi rivolgendosi a me, anche se il vero destinatario di quelle parole era il povero ragazzo.
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«Lo so bene.» risposi continuando quel dialogo fasullo volto a consolare il nostro giovane amico. Accennammo entrambi un sorriso e Kuma cercò di fare altrettanto. «Quanto è distante la tua jeep?» mi chiese poi Romeo, considerando chiuso l’argomento precedente. «Non saprei con esattezza.» risposi. Avevamo lasciato il campo di notte con la paura di essere acciuffati e la mia ultima preoccupazione era stata quella di mantenere vigile il senso dell’orientamento. Non avevo idea di quanto fossimo distanti dal campo, o dal sentiero, o dall’automobile. «È dove era altra volta?» mi interrogò Kuma. Annuii. «Allora poco lontano, io so.» concluse trionfale. «No. Dobbiamo andare dalla parte opposta.» continuò Romeo. «I soldati si aspettano sicuramente che cercheremo di raggiungere il mezzo.» «Io conosco sentiero per arrivare Uganda senza passare vicino loro.» insistette Kuma, con la sua grande voglia di rendersi utile.
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CAPITOLO 16
Aspettammo l’alba che non si fece attendere più di un paio d’ore, poi lasciammo furtivamente la capanna e seguimmo Kuma che ci guidò abilmente tra i labirintici sentieri della foresta. Camminammo per tutta la mattinata, senza soste, fino a quando il sole non raggiunse il punto più alto nel cielo. Kuma tracciava la rotta, in testa, insieme a Romeo, mentre io li seguivo con lo sguardo da dietro le bambine che camminavano stancamente senza sapere ciò che le stava aspettando, abbandonate alla volontà di tre sconosciuti. Giungemmo ad una strada sterrata che tagliava dolcemente in due la foresta e da lì piegammo verso sud, in direzione dell’Uganda. Kuma ci assicurò che in quel luogo i ribelli non ci avrebbero scovato. Ci trovavamo vicino al confine e i soldati regolari dell’esercito perlustravano spesso quella zona. Camminammo più rilassati per un altro paio d’ore, finchè la strada non divenne asfaltata e in lontananza, nella tavola piatta della savana, si intravidero delle case che dovevano formare una piccola cittadina. La foresta aveva lasciato spazio ad una vegetazione più rada e mi sentii in pericolo senza la benigna protezione dei folti rami degli alberi. Non ero ancora convinto di essere in salvo. C’era qualcosa dentro di me che mi ordinava di non abbassare la guardia e di non rallentare il passo. Era di nuovo quell’istinto grazie al quale avevo potuto scovare le bambine.
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I miei timori si dimostrarono fondati quando alle nostre spalle sopraggiunsero una decina di soldati. Avevano seguito le nostre tracce dopo aver scoperto il nostro nascondiglio, pensai. Ci voltammo tutti a guardare quegli uomini armati che camminavano verso di noi, minacciosi. Sentii in me lo sconforto di chi è a un passo dalla propria meta e sa di non poterla raggiungere. L’unica arma in nostro possesso era la chitarra del poeta. Proprio quando quest’ultimo si stava per dirigere verso i soldati, con la chitarra in grembo, Kuma cominciò a correre in direzione dei suoi vecchi compagni. Romeo si fermò in silenzio e rimase a guardare. Io feci lo stesso. In pochi secondi vedemmo il ragazzo raggiungere i ribelli e arrestare la loro avanzata. Erano troppo lontani per poterne sentire le voci, ma sembrò che Kuma parlasse molto decisamente e che i ragazzoni davanti a lui lo ascoltassero senza opporre resistenza. Pochi minuti e i soldati avanzavano verso di noi con il nostro amico in testa. Quando ci raggiunsero il primo a parlare fu proprio Kuma che disse con la sua voce da adolescente: «Loro no inseguirci. Loro con noi. Vogliono andare via da foresta, fare come me.» Romeo si allargò in un enorme sorriso che manifestava tutta la sua gioia per aver, almeno in parte, portato a termine la sua missione. Insieme a noi c’erano le bambine e più di dieci soldati-fanciulli dell’LRA. Qualche vita l’avevamo strappata a quella sporca guerra infinita. Tutto grazie a Romeo e alla sua chitarra con la quale aveva saputo convincere quei dieci ragazzi che una vita diversa, per loro, era possibile. Fu un’emozione che non potrei mai descrivere. Fortissima, da far tremar le gambe. Una gioia talmente profonda da rendermi incapace di esprimerla. Qualsiasi cosa avessi potu-
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to dire sarebbe stata una riduzione distorta dei miei veri sentimenti. Se avessi saputo suonare uno strumento come Romeo, forse, avrei saputo spiegare meglio, ma a parole era impossibile. Ci rimettemmo in marcia e in breve raggiungemmo la cittadina che sorgeva davanti a noi con un passo vivo più che mai. Trovammo un telefono e avvisammo Mireja della nostra situazione. La sua felicità, nel sentire la voce del suo amato al telefono, trapelò dagli occhi lucidi del cantastorie che cercarono i miei come per condividere un’emozione ed una gioia troppo grandi da contenere. Fu la prima volta che vidi Romeo così emozionato. Mentre Mireja ci veniva a prendere, ci informammo sull’esistenza di posti di polizia, o di associazioni umanitarie, ma nella cittadina non c’erano né gli uni, né gli altri, così ci limitammo ad aspettare l’arrivo della ragazza che non si fece aspettare a lungo. Il suo arrivo meriterebbe uno spazio a sé, un’altra storia, interamente dedicata a quegli sguardi, a quel lungo abbraccio, a quei baci e a quelle parole sussurrate. Ma questa non è una storia d’amore tra un uomo e una donna. Questa è soltanto una storia d’amore. Romeo riprese a viaggiare. Non poteva fare diversamente. Quella era la sua vita. La regolarità, la normalità, per lui era quella. Mireja lo seguì. Ovviamente. Non so dove siano, né quando li rivedrò. Non ci siamo mai più sentiti da quando loro se ne sono andati. So soltanto che stanno insieme, dovunque essi siano. Io ho adottato il piccolo Kuma, che oramai non è più tanto piccolo, e insieme a lui ho costruito una scuola nel sud dell’Uganda. La mia vecchia azienda mi ha dato un grosso aiuto in questo, ma non è stata l’unica. Abbiamo ricevuto consensi
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e offerte da molte organizzazioni, governative e non. La nostra non è una scuola normale. Insegnamo a leggere e scrivere, naturalmente, ma anche e soprattutto a suonare diversi strumenti musicali. Maestri volontari, anche prestigiosi, arrivano qui da tutto il mondo per insegnare a questi ragazzini quanto sia importante lasciar vivere l’arista che si nasconde in ciascuno di loro. I bambini e le bambine che salvammo dalla guerra furono i nostri primi studenti e formarono un gruppo che oggi si esibisce in tutto il mondo. Forse perché loro ebbero la fortuna di avere il maestro migliore. Uno di loro, oggi è tornato a trovarci. Camminando verso il grande ingresso accogliente si è lasciato sfuggire una lacrima leggendo la scritta che diffonde nei dintorni la nostra filosofia. “Il giorno più bello della mia vita” ha sussurrato piangendo.
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NOTE BIOGRAFICHE
Daniele Cavagna è nato a Bergamo nel 1983. È studente in Scienze delle Arti Figurative, Musica e Spettacolo. Unisce in questo suo secondo romanzo la passione per la scrittura con quella per la chitarra. Ha pubblicato con “I fiori di campo” anche il suo primo romanzo: “La verità nella vittoria”
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Finito di stampare maggio 2006 presso Digital Print Service Srl – Segrate (Mi)