LORENZO 窶、MADUZZI DANIELE LISI
PASTA DI ROMAGNA
Impronte di fabbrica.
Istituto per i Beni Artistici Culturali e Naturali della Regione Emilia Romagna / Comune di Cattolica - Assessorato alla Cultura - Galleria Comunale S. Croce
LORENZO 窶、MADUZZI DANIELE LISI
PASTA DI ROMAGNA Impronte di fabbrica. testo introduttivo di PIERO ORLANDI
Comune di Cattolica Assessorato alla Cultura Galleria Comunale S.Croce
catalogo pubblicato in occasione delle mostra "Pasta di Romagna, impronte di fabbrica" di Lorenzo Amaduzzi e Daniele Lisi Cattolica (Galleria S. Croce) 13 marzo - 2 maggio 2011 Morciano (Biblioteca G. Mariotti) 4 marzo - 30 aprile 2011
si ringraziano per la gentile collaborazione: Pier Giorgio Avanzolini, Marta Amadei, Claudio Battazza, Antonietta Agnoletti, Corrado Montanari, Filippo Ghigi, Corrado Bernardi, Maria Rosa Filippucci, Rosanna Grassi Ghigi, Michelangelo Monti, Massimo Tosello, Annamaria Piccari, Guerrino Pentucci, Marco Miscia, Piero Delucca, Daniele Casalboni, Diego Giusti.
fotografie di Lorenzo Amaduzzi e Daniele Lisi copyright 2011 ogni riproduzione anche parziale è vietata coordinamento e cura del catalogo Annamaria Bernucci testi di Piero Orlandi, Annamaria Bernucci, Lorenzo Amaduzzi, Ettore Tommasoli grafica e impaginazione Gianni Donati in collaborazione con Daniele Lisi stampa e impianti Grapho 5 - Fano copyright © 2011 Banca Popolare Valconca, Morciano di Romagna
L'immagine a pagina 4 è tratta dall’opuscolo Premiato pastificio Elettrico Nicola Ghigi fu Stefano, Cattolica di Romagna, Bologna, Tipografia La Rapida, 1933. La ricerca fotografica di Amaduzzi e Lisi ha coinciso con la rilevazione del pastificio Nicola Ghigi nel centro storico di Cattolica il cui stabile nel 2009 è stato riconvertito ad uso di civile abitazione. Dopo la separazione nel 1923 dai fratelli, Emilio e Angelo e conseguente liquidazione, Nicola Ghigi, omonimo del fondatore del pastificio morcianese scomparso nel 1894, aprì un proprio pastificio in via Corridoni a Cattolica attivo sino ai primi anni ‘50. Rimangono superstiti documenti materiali una grande macchina molinatrice del primo Novecento preservata dal Museo della Regina del Comune di Cattolica e l’opuscolo pubblicitario dei prodotti in commercio (1933).
Al viaggiatore che da San Clemente scende verso Morciano, dopo qualche curva della strada, si apre la visione della valle e del paese: ben strano paese dominato da quello che, a prima vista, sembra un antico maniero. Lo sguardo, poi, avvicinandosi a Morciano, si affina e vede chiaramente di cosa si tratti: quello che appare alla vista non è una Chiesa imponente, non è un Castello Malatestiano bensì uno stabilimento industriale, un pastificio. Ecco: Morciano è dominata da questa presenza che ne determina lo spazio urbano e lo caratterizza. Non solo: non si tratta di un edificio industriale ai margini della città, in quelle periferie dimenticate ed anonime. Il pastificio Ghigi si erge nel bel mezzo del paese nella centralissima via Roma. Forse aveva ragione Egidio Belisardi a definire Morciano “un paese con le ali e le scarpe”, un miscuglio di fantasia e concretezza, di slancio ideale ma con i piedi saldamente piantati per terra. Queste caratteristiche meriterebbero, probabilmente, un approfondimento anche dal punto di vista architettonico ed urbanistico. A noi (che non siamo né architetti e neppure urbanisti) rimane la bellezza di queste foto “rubate” all’interno del “Castello” di Morciano prima della definitiva chiusura.
Avv. Massimo Lazzarini
Presidente Banca Popolare Valconca
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Passaggi in fabbrica. ANNAMARIA BERNUCCI GALLERIA S. CROCE
È stato poco prima dello sgombero dei macchinari della ex Ghigi di Morciano di Romagna nel 2010 che Lorenzo Amaduzzi e Daniele Lisi, fotografi, hanno posato uno sguardo diffuso sugli interni della fabbrica. La loro azione ha acceso il valore culturale della fotografia e la virtuosa attitudine ad uno sguardo ampio, capace di traslare diversi piani di significato. Una dilatazione visiva che diviene ontologica. La macchina fotografica ha ancora una volta contribuito a ridefinire la realtà, anzi è la stessa realtà ad esserne ampliata o sostituita dalla ‘scrittura paradossale’ e accesa dell’immagine fotografica. Perché la fotografia ha il dono di documentare e agire come story telling. La Ghigi che Amaduzzi e Lisi consegnano appartiene ad un nuovo confine visivo, di insoluta indefinitezza, nel valore insospettabile della sospensione che precede il riuso o l’abbattimento di un sito industriale. Prima di essere archeologia, dopo essere stato un luogo dismesso. La loro ricerca pone al centro la libertà dello sguardo e una riflessione di ordine estetico, dove il concetto di scarto, di relitto diviene seducente ‘perturbazione’ in grado di assorbire nuove valenze. La coscienza dei luoghi apre spesso ad una molteplicità di passati, allude ad una funzionalità perduta e a un presente che possiede tutte le tracce temporali: è il “tempo senza storia” cui allude Marc Augè. Da quando l’invenzione estetica del paesaggio è divenuta fondante nella riflessione contemporanea, il paesaggio è scoperto come ‘qualità’ generale del territorio, determinata dalla natura o dall’insediamento e dalle attività umane. Ma soprattutto rappresenta una presenza continua nello scorrere del tempo naturale. Lo stabilimento Ghigi, con elefantiaca, incombente mole costruttiva, cresciuto nel cuore del paese, è di-
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ventato il suo monumento, a lungo è stato il suo baluardo economico, la sua cattedrale. E per quanto ogni reliquato industriale determini complesse ipotesi tutelari o di preservazione o di reimpiego l’insieme della struttura Ghigi si svela come un esempio ricco e complesso di stratificazioni morfologiche, fortemente caratterizzate, dotate anche di un potenziale simbolico elevato. La Ghigi è dunque un’area artificiale, frutto di un progetto cresciuto informalmente ma che ha definito topograficamente lo spazio urbano. Come molta architettura destinata all’industria non si è concessa divagazioni, ma ha corrisposto prestazioni codificate in base alle necessità produttive, quelle dell’uso e della economia. La crescita dello stabilimento e le sue addizioni spesso spontanee, assemblative, quasi pittoresche, è avvenuta secondo un processo graduale, relazionale alla produzione e al mercato. Connessa con quel lungimirante piano regolatore d’inizio secolo che Diomede Forlani formulò sui principi dell’ampiezza, dotando la città di una coerente scacchiera infrastrutturale che guarda con anticipo una nuova ‘civiltà delle macchine’. La storia del Pastificio Ghigi si lega ad una lunga tradizione molitoria cresciuta sul fiume Conca e inizia a Morciano di Romagna, paese dell’entroterra di Rimini al centro della Valconca, nel 1870 quando l’artigiano Nicola Ghigi, pastaio e fornaio, diede il nome di famiglia al suo mulino. Nicola Ghigi ‘impasta la semola di scelte farine di grano duro italiano all’acqua dei vicini Appennini’. Nasce allora il pastificio. Per oltre un secolo il Pastificio Ghigi ha prodotto pasta secondo quell’antica ricetta. Un marchio da sempre legato alla tradizione, alla cultura della cucina italiana, come recitavano gli slogan commerciali. La pasta Ghigi è stata ai vertici della produzione negli anni ‘60. Poi sono venuti i tempi dello scioglimento, della divisione degli opifici, della liquidazione coatta. Le voci e gli echi delle attività, dei turni di lavoro, delle tracce annidate tra le pareti o negli armadietti degli operai, tutto partecipa al nuovo silenzio di spazi, divenuti labirinti vuoti ma capaci di conservare l’essenza del tempo. Con la scorrevolezza di un racconto, le fotografie di Amaduzzi e di Lisi restituiscono al sito e alle cose quei significati che sono stati erosi dall’allentamento della memoria.
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La farina, ancestrale nutrimento, e poi la pasta, nel metaforico viaggio verso la sua trasformazione in un alimento divenuto espressione di cultura, è, con le macchine, il filo conduttore di questa esplorazione nel
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luogo che fu della sua fabbricazione, oggi orfano delle sue funzioni. Il transito è stato documentato nella percezione delle tracce antropiche, nel respiro sospeso, nelle ombre dei vari corpi di fabbrica, disfatti, nella salita o nella discesa ai reparti di produzione e alle sezioni; nell’attraversamento di spazi inorganici, tra i segni dell’abbandono, tra le cicatrici della passata attività e il colore residuo delle esistenze che qui hanno contribuito con il loro lavoro a dare identità all’economia del paese. Contemplare l’architettura, che ha già il germe e il sapore di rovina, equivale a un viaggio non solo nella storia, ma nel tempo.
Etiam capillus unus habet umbram suam. Lo sguardo posato dai due fotografi sullo stabilimento Ghigi esprime una diversa temporalità, che non è più l’attuale, né solo il passato, ma il sospeso. Lorenzo Amaduzzi e Daniele Lisi con il loro obiettivo digitale sono entrati in questa porzione di paesaggio urbano, in questa possente cellula un tempo produttiva, ne hanno letto il sistema, hanno osservato i suoi ingranaggi, le sue arterie di grande corpo ora inerte. Un corpo relazionale che si misura ancora con la vita di una comunità, con la stessa identità del paese. I segni costruttivi della fabbrica, come palinsesti letti dai fotografi, disgiuntamente e autonomamente, attraverso una lingua attrezzata sulla fotografia contemporanea, acquistano la irresistibile evidenza formale di tutte le necessità che furono funzionali. Gli elementi della fabbrica scorrono nelle immagini, dagli scarichi delle granaglie con l’imboccatura per le aspirazioni, ai nastri trasportatori, i silos, i camini. Ritmati e chiaroscurati emergono per il potere che ha la fotografia di non ‘riprodurre’ il visibile ma di contemplare territori inesplorati, il particolare e l’estensione, le fughe e le simmetrie, e le ombre. Come protesi e estensioni della memoria cui un intero paese stenta a staccarsene.
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Un relitto moderno. PIERO ORLANDI
Morciano di Romagna è una piccola città. È proprio la percezione di questa sua dimensione ridotta e familiare, amichevole, che rende poi arduo avvicinarsi alla gran mole dell’ex pastificio Ghigi senza esser presi da un brivido di fantasticheria romantica, colpiti come siamo dai muri spogli e dalle finestre aperte come occhi ciechi, i segni inequivocabili dell’abbandono, come ce lo ha descritto nei suoi celebri racconti Edgar Allan Poe. Questo enorme edificio oggi è come le case morte, visionate (dal diavolo), di cui ha scritto Victor Hugo, con l’ingresso barricato o murato; come quelle, è un’immagine sinistra, che causa timore più che terrore, e corrisponde piuttosto bene a quel concetto di perturbante, uncanny, che il critico e storico dell’architettura Anthony Vidler ci ha descritto, ricostruendone le lontane ascendenze e arrivando fino a Freud, che di questo tipo di disagio ha analizzato la percezione profonda che ognuno di noi ha, di fronte a qualcuno – o qualcosa, architettura compresa – che ci fa perdere l’orientamento, un estraneo, un invasore. L’ex pastificio, così verticale e possente, così anni cinquanta nel suo disinteresse pragmatico – forse anche rozzo – nei confronti di ogni apparenza, è davvero un alieno, un fuori scala minaccioso rispetto al piccolo paese, placido, orizzontale e indifeso. Dopo gli anni felici della produzione e del successo di mercato, oggi per questo edificio sono arrivati quelli duri: sta diventando – è già diventato, da quando è rimasto vuoto di persone e di attività – una rovina. E ci affascina anche per questo. La cultura contemporanea sente con molta intensità queste presenze architettoniche private della funzione originaria e in attesa di qualcosa di incerto, di un futuro appeso al filo di decisioni urbanistiche che cercano un equilibrio precario con quelle economiche, imprenditoriali e immobiliari, ma da esse conseguono. La gente attende
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di sapere cosa avverrà di questi spazi, un tempo pieni di parole, rumori, ricchezza, tecnologia, saperi, oggi polverosi e solitari, e soprattutto portatori di problemi, come il corpo di un anziano. La gente è divisa tra timore e nostalgia, tra voglia di sbarazzarsene e senso di colpa, tra l’abbraccio dolce-amaro della nostalgia e la necessità inevitabile di un futuro da immaginare prima e da disegnare poi. La vera rovina è ciò che ci proviene dall’antichità classica, non è certo questo il caso. Anche se ormai siamo pieni di rovine del moderno: resti di architetture incompiute, o finite e mai fruite, dismesse o in via di demolizione, sono tante le fattispecie, e comprendono anche gli ecomostri di cui tanto spesso si parla, con il rischio sempre in agguato di confonderli con certi capolavori della produzione architettonica italiana, soprattutto degli anni tra i Sessanta e gli Ottanta, architetture-manifesto firmate da progettistiintellettuali, mai amate dalla gente comune. Ma il vecchio pastificio Ghigi non è un capolavoro dell’architettura del Novecento, e non è nemmeno una rovina, non ne ha la dignità archeologica. Se lo fosse, sapremmo già che è da preservare, per definizione. E allora, se non è una rovina, cos’è? Scarto? Rifiuto? Qualcosa che buttiamo quando non serve più. L’arte contemporanea apprezza i rifiuti, ne fa uso spesso, in funzione prevalentemente critica. La spazzatura è il volto tragico della merce, dice Lea Vergine. Futurismo e Dada, Surrealismo e Pop Art hanno usato le spoglie della società opulenta e consumistica creando favole cupe o racconti teneri, o ironici, o sarcastici, con mille toni e sfumature diversi. Anche la città usa gli scarti, li ricicla, li riconverte: gli antichi conventi dopo l’Unità d’Italia divennero scuole e caserme, i palazzi nobiliari diventarono prefetture e uffici pubblici. Oggi ex colonie e vecchi complessi industriali dismessi si metamorfizzano in musei, supermercati, auditorium. Dunque, gli scarti possono diventare ricchezza. Accadrà anche per l’ex pastificio di Morciano? Ce lo chiediamo, guardando le fotografie di Lorenzo Amaduzzi e Daniele Lisi. Quelle del primo sono colme delle tracce degli uomini che qui sono stati. Ricordo in proposito quel che ha scritto Ugo Mulas, in un suo celebre libro del 1973, La fotografia: “Credo ci sia un modo di fotografare la catapecchia dove una donna vive con i suoi bambini senza metterci dentro né la donna né i bambini, e arrivare comunque a
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un’immagine eloquente della loro condizione, un’immagine che è obiettiva e al tempo stesso è evocativa di quella gente assente dalla fotografia”. La gente qui è assente, ma è più presente che se ci fosse.
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Sembra impossibile che queste stanze possano diventare altro da quel che sono state. Lisi invece si dedica con ordine e geometria a descrivere l’edificio, come in un disegno dal vero, in un’atmosfera rarefatta e limpida, e ci fa retrocedere dal luogo allo spazio, con precisione matematica. Il luogo è lo spazio che il corpo può occupare. Sottraendo i corpi, che sono così evidenti pur se assenti nelle foto di Amaduzzi, otteniamo lo spazio misurabile, e misurato in effetti da Lisi, comprese le verifiche rispetto agli oggetti che possono esservi contenuti, impilati, affiancati, sovrapposti. Lo spazio – architettonico e urbano – è una realtà fisica cangiante, che può essere descritta in modi diversi, e con diversi dettagli. L’uomo, animale simbolico, tende a costruire gerarchie dello spazio, attribuendogli valori che poi la società utilizza. C’è una dimensione dell’immateriale che ha effetti sul mondo materiale, e la rappresentazione sociale ha una funzione determinante nell’orientare i comportamenti collettivi. Nel nostro tempo, e ormai da qualche decennio, il fotografo è tra gli intellettuali – visto il successo di mercato, sarebbe meglio dire: tra gli artisti – il più capace di partecipare alla formazione del paesaggio urbano come immagine simbolica della città, e di condensare nel suo sguardo la sensibilità collettiva attuale. La fotografia costituisce oggi l’esempio più preciso di pensiero di immagini – il denkbild di cui ha parlato Benjamin – e transita per i centri decisionali delle pubbliche amministrazioni, orienta la loro produzione, sia normativa che regolativa dello spazio. Spesso, anzi, raggiunge i luoghi che sono al centro delle domande di trasformazione fisica, prima di altri esperti: urbanisti, filosofi, sociologi, scrittori. Il lavoro dei fotografi è tanto più importante quando ci si occupa di processi di trasformazione urbana complessi, come quelli derivanti dalla dismissione delle attività industriali. La fotografia, se il fotografo è disponibile a farlo, può assumere forti connotati progettuali, può indicare punti di vista, relazioni, priorità, tutti elementi utili a orientare il progetto architettonico di recupero, di riqualificazione, e a facilitare scelte spesso chirurgiche, di amputazione, resezione (in tempi di linguaggio più truce, o esplicito, o meno ipocrita, si sarebbe parlato anche di sventramento). La città mentale, che la fotografia può contribuire a elaborare, evolve insieme con la trasformazione della città fisica, in modi difficilmente preventivabili, ma di cui è necessario tener conto, perché l’individuo, dopo le trasformazioni urbanistiche, ha comunque bisogno di ritrovare un equilibrio, di riconoscere una continuità di senso che gli permetta di percepire la nuova città senza esserne disorientato. Uno
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dei caratteri del post-moderno in campo architettonico è la riscoperta del senso, che ha comportato un complementare e progressivo allontanamento dal funzionalismo. Le foto di questo libro possiamo leggerle anche come ricerca di un equilibrio tra funzionalità e sensibilità , si potrebbe anche dire tra esprit
de geometrie ed esprit de finesse.
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Pasta di Romagna, impronte di fabbrica. Pre-testo per una breve riflessione sull’atto fotografico. LORENZO AMADUZZI
Scrivere con la luce – fotografare – nell’era digitale comporta una profonda revisione dello statuto ontologico della fotografia, qui intesa nella sua complessità di fenomeno tecno-sociale. Possiamo, infatti, affermare che il nostro rapporto con lo strumento, tra questo ed il proprio soggetto-mondo siano rimasti i medesimi tra il prima analogico e il dopo digitale? Certamente no. La svolta, nel mutamento di paradigma, risale a non molti anni fa e la trasformazione indotta nel sistema di produzione dell’immagine meccanica è definitiva ed irreversibile, nonostante le resistenze dei puristi, dei nostalgici e dei neo-luddisti. Con ciò, non si vuole misconoscere il valore culturale ed economico espresso dalla estinta filiera della fotografia analogica che, peraltro, prosegue ancora le sue manifestazioni, ma confinata in una nicchia sempre più esigua di aristocratici cultori, quasi sempre spalleggiati da una pervicace astuzia mercantile. Anzi, se ne vorrebbero valorizzare ancor più le potenzialità espressive, le contaminazioni e le declinazioni che il linguaggio fotografico ha assunto e fatto propri nei tempi più recenti. Il come non ha nulla di arcano od esoterico, semplicemente riconosce il portato innovativo e liquido della materia digitale, di cui sono composte ormai tutte le cose che – dalle più semplici alle più complesse – abitano e fanno vivere il nostro Mondo. È indicativo, a tal proposito, il fenomeno della virtualizzazione generalizzata o globale che, in un flusso ininterrotto di bit, avvolge e stravolge l’assetto identitario di Sistemi, Organizzazioni, di relazioni e di azioni individuali. La fotografia analogica e le regole che ne governarono la diffusione oltre la pratica ritrattistica, non è più attivabile, se non in ambiti di conservazione degli archivi o nel ristretto ed elitario nucleo di attivisti della stampa di Fine-Art ai sali d’argento. Un nuovo Mondo di immagini senza materia, senza tempo e senza memoria occupa il presente di chiunque produca gesti di comunicazione. L’occhio che registra con un click si trova
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nelle tasche di tutti. Una protesi necessaria per stare nel mondo: il telefono cellulare; è proprio dalle sue più evolute performances che si srotolano volumi di incommensurabile materia digitale, per lo più di consistenza fotografica. L’alto grado di connettività reticolare tra le applicazioni software – è evidente che ci troviamo nel dominio dell’Information Technology – e di interconnessione tra ricetrasmettitori hardware, produce quell’illusione di ubiquità cui spesso siamo incapaci di sottrarci, subendone il fascino subliminale. Fatto sta, comunque, che lo scenario entro cui agisce la socialità contemporanea è quello della comunicazione diffusa e permanente rappresentata, con sempre maggiore influenza regolatrice, dai cosiddetti Social Networks. Lo si voglia o meno, la condizione antropologica dell’umanità “globale” – financo o, forse, soprattutto ai margini più estremi del mondo – avrà un carattere ibrido e neutro, derivato dalla simbiosi con lo strumentario tecnologico. In questo quadro, la nuova fotografia, quella che ha cambiato pelle e sostanza, passando dal trattamento chimico delle emulsioni sensibili in camera oscura, al trattamento computerizzato delle informazioni raccolte dal sensore della fotocamera, sperimenterà potenzialità linguistiche inimmaginabili in epoca antecedente. La materia dell’immagine è ora composta da entità immateriali, segnate da codici illeggibili alla mente comune, ma eseguibili da un processore. Trasformate in apparenze, cioè rese visibili sulla superficie retroilluminata di un monitor, accendono infinite possibilità d’uso o, quantomeno, tante quante corrispondano alla volontà poietica di chi si cimentasse nella elaborazione digitale di un’immagine sintetica, attraverso la sofisticata dotazione software oggi disponibile. Tutto ciò rafforzerebbe, non soltanto la teorizzazione di un “prima analogico” ed un “dopo digitale”, ma escluderebbe per l’universo fotografico – sistema di tecnologie, linguaggi, relazioni sociali e culture – ogni possibilità di ritorno al passato pre-numerico. E se, per la funzione pubblica della fotografia tradizionale, si parlava già di falsi e menzogne in rapporto ad una o molteplici idee di verità, l’atto fotografico – sempre più comune, diffuso e frequente perché relativamente costoso – acquista, con l’opzione post-produttiva, un marcato valore manipolatorio. Dalla rappresentazione alla simulazione, il passo è stato breve.
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La pasta Ghigi dal 1870. ETTORE TOMMASOLI
Il pastificio Ghigi è uno dei più antichi d’Italia, fondato nel 1870 dal fornaio e commerciante Nicola Ghigi. In quell’anno si realizzò il ponte sul fiume Conca, che significò per Morciano un potenziamento della sua vocazione commerciale e di mercato e centro di collegamento tra Rimini, il Montefeltro e l’alta val Conca. Nicola Ghigi decide di ampliare la propria attività iniziando a produrre pasta secca per minestre. Il suo forno in via Ronci diviene un piccolo laboratorio artigianale: con macchinari rudimentali si produce pasta per Morciano e per i paesi limitrofi. Nicola muore nel 1894 e l’attività economica è ereditata dal figlio Stefano. Nel 1911 la Fabbrica di pane e pasta-salsamenteria è gestita dalla moglie di Nicola, Margherita, con l’aiuto del figlio maggiore di Stefano che si chiama come il nonno, Nicola. Nel 1922 gli altri fratelli, Angelo e Emilio, decidono di estromettere dall’azienda il fratello maggiore Nicola, comincia così la loro avventura nel mondo della pasta seguendo le orme paterne. I due fratelli acquistano nuove macchine e incrementano la produzione: dai cinque quintali di pasta al giorno si passa ai venti e poi quaranta. Il mercato della pasta aumenta in tutta la Romagna: la bottega artigianale diventa una piccola industria. L’attività si sposta in via Roma, dove nel 1950 è costruito il nuovo Molino a cilindri e successivamente il Mangimificio per la fabbricazione degli alimenti zootecnici. Ancora oggi a Morciano non c’è famiglia che non abbia qualche parente che abbia lavorato in ‘Ghigi’. In questo periodo l’azienda raggiunge il massimo splendore: è un pastificio al pari della Barilla e della Buitoni. Ricordiamo tutti la squadra ciclistica che in quel periodo rappresenta il pastificio Ghigi e il rapporto di collaborazione con Fausto Coppi, la presenza di campioni come Aldo Moser, fratello maggiore di Francesco, Bariviera, Trapè, Baffi, lo spagnolo Suarez e il direttore sportivo Luciano Pezzi che divenne direttore sportivo della Squadra Nazionale di Ciclismo. La
pasta Ghigi è pubblicizzata sui giornali e in televisione con uno spot in cui un omino di nome Gigi lancia uno slogan abbastanza noto in quesi tempi, “Da Gigi un consiglio nostrano, Pasta Ghigi di Morciano”. Nel 1961 i due fratelli Angelo ed Emilio si separano. Nel 1964 Angelo inaugura il nuovo stabilimento a Rimini che si chiama Angelo Ghigi. Nello stesso anno muore il fratello Emilio che ha continuato a gestire la casa madre. A Emilio subentra il figlio Giorgio. La fabbrica ben presto si trova di fronte a grandi difficoltà che portano l’azienda alla fine degli anni ‘60 sull’orlo del fallimento. Sono anni di grave crisi in tutto il settore pastario: nel ventennio tra il 1960 e il 1980 il numero dei pastifici in Italia scende dai 730 a poco più di 200. Nel 1972 interviene GEPI, la finanziaria pubblica di salvataggio delle aziende in crisi, che attraverso la controllata GEAL consente la ripresa della produzione e la salvaguardia dell’occupazione. Nel 1979 la Geal Ghigi è acquisita dal CON.SV.AGRI, un consorzio di nove cooperative agricole di Marche e Romagna che rileva l’intero pacchetto (Molino, Pastificio e Mangimificio) e dà avvio a un processo di ristrutturazione e adeguamento degli impianti. Le vendite e il fatturato aumentano e il marchio Ghigi riconquista un proprio prestigio a livello nazionale e internazionale. Agli inizi del 2000 il CON.SV.AGRI entra in una irreversibile e profonda crisi. Gli interventi di sostegno della Pubblica Amministrazione e il tentativo di costruzione di un nuovo stabilimento produttivo a San Clemente non sono efficaci a impedire la Liquidazione coatta Amministrativa della Cooperativa che avviene nel dicembre del 2007. Oggi grazie alle azioni combinate delle due amministrazioni di San Clemente e di Morciano la produzione di pasta riprende con la nuova società, Ghigi Industria Agroalimentare srl.
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Postfazione degli autori. a cura di LORENZO AMADUZZI
Un soggetto, due visioni. Una coppia autoriale fuori dal comune, quella tra me e Daniele Lisi. Ci incontrammo nell’aula di Progettazione Multimediale dell’Accademia di Belle Arti di Urbino, qualche anno fa. Dalle rispettive sponde anagrafiche – assai lontane tra loro, tanto che potrebbero alludere ad una relazione genitoriale – abbiamo da subito condiviso, ciascuno nel proprio ambito poietico, un metodo di ispirazione antropologica nella indagine visiva delle forme architettoniche in disuso. Lo strumento più flessibile utilizzato per questo genere di ricerca è stato quello fotografico poiché consente di fissare, con totale fedeltà meccanica, le impronte prodotte dall’azione del tempo sul mondo delle cose. Le prime aree che esplorammo insieme furono quelle occupate da alcune Colonie a mare della Riviera, per poi passare sulle tracce lasciate dal lavoro di escavazione lungo il corso del fiume Valmarecchia. Lo Stabilimento ex Ghigi di Morciano rappresenta la più recente opera di mappatura fotografica compiuta in comune, secondo criteri tanto documentaristici che estetici. Sì, estetici, poiché assai spesso l’esito cui può condurre un occhio sensibile e colto nell’attraversare i luoghi in abbandono è proprio quello di porne in risalto aspetti formali e visioni altrimenti non percepite. Dichiarazione di intenti In un’epoca di profonde mutazioni – economiche, sociali, culturali, etiche e tecnologiche –, pure accompagnate da crescenti complessità di struttura l’idea di rappresentare, all’interno di una cornice rettangolare, la forma immobile del degrado – o, comunque, i mutamenti morfologici del paesaggio contemporaneo 78
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– restituendone una testimonianza diretta e partecipata, costituisce il cuore poietico di questo lavoro,
per il quale ci si è avvalsi quasi esclusivamente dello strumento fotografico. I luoghi e le cose che fungono da protagonisti della scena – mai messa in scena, seppure in molti casi l’apparenza potrebbe richiamare il progetto installativo – escludono la presenza dell’umano, inequivocabilmente evocato, però, dalle tracce prodotte da passaggi consumati. Pasta di Romagna Quando viene interrotta un’attività di produzione per essere trasferita in altro sito e ne viene chiuso lo stabilimento, l’area in cui sorge viene resa disponibile a sviluppi urbanistici alternativi. È come se morisse una porzione di territorio e si alterasse l’equilibrio sociale di una Comunità. Non sappiamo in che modo la dismissione del Pastificio Ghigi di Morciano, cresciuto in simbiosi con il centro cittadino, avrà influito sulla coscienza identitaria dei suoi abitanti. È certo, tuttavia, che il lavoro di ricognizione fotografica durante la fase di rimozione dei macchinari dall’edificio, abbia portato sulle tracce di una memoria recente e passata, a cui si sono delicatamente prese le impronte. Oltre averne preservata la testimonianza, se ne è colta l’espressione antropologica, il senso materiale e la portata estetica.
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LORENZO AMADUZZI Nato a Fano nel 1946, si è laureato in Storia dell’Arte all’Università di Urbino nel 1972, in Sociologia nel 1983 e nel 2008 in Fotografia al Corso di Progettazione Multimediale dell’ AABB di Urbino. Sino al 2000 si è occupato di Comunicazione d’Impresa, prima nel Veneto (Padova) poi in Romagna (Rimini). Lasciata l’attività professionale, ha ripreso l’utilizzo del mezzo fotografico che, già negli anni ‘70, gli valse riconoscimenti in ambito amatoriale (Padova, 1974, 1975, 1976). Oggi, dopo un’utile quanto matura esperienza formativa, si dedica a tempo pieno allo studio, alla ricerca ed alla sperimentazione narrativa in campo fotografico. Tra le mostre recenti: Silos. Materiali per un’Estetica delle Rovine, Fano (Pu), Saletta Nolfi, 2008 e Ruggine, l’anima delle cose, Cesena, Centro Culturale S. Biagio, 2010.
DANIELE LISI È nato a Rimini nel 1982 e vive a Riccione. Nel 2003 si iscrive al corso di Progettazione Multimediale presso l’Accademia di Belle Arti di Urbino dove si laurea nel 2007 presentando la tesi: Architettura-Informale Colonie a Mare Rimini. Appassionato di architettura e storia dell’arte moderna, si interessa principalmente di Fotografia e Visual Design. Nel 2003 partecipa al Festival del Cinema di Pesaro all’interno dell’evento: Contatto per personal computer, azione
+ contatto, l’anno seguente partecipa all’evento/mostra Dislocazioni, Accademia di Belle Arti di Urbino, presentando il redesign title del film Insider di Michael Mann. Nel 2008 partecipa ad una personale presso la Galleria dell’Immagine, Rimini, con il progetto: Architettura-Informale,
identità e mappatura fotografica delle ex Colonie a Mare. Nell’estate del 2008 partecipa alla collettiva Turismi presso Villa Mussolini, Riccione. Dal 2008 lavora come fotografo freelance e Web Designer. Attualmente porta avanti progetti di carattere fotografico, 80
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volti a tracciare l’identità del paesaggio attraverso i suoi elementi costitutivi, utilizzando la fotografia e i media come supporto di analisi e documentazione.