Limax - Slow Thinking #1

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NUMERO

Storie caotiche

e identità precarie ATELIER DIBLU LUOGO ED ESPERIENZA Uno sguardo aperto sul mondo di chi crea

Art Magazine

LIMAX Slow Thinking

Testi di

GIORGIO BEDONI MARIA LUISA CONSERVA MARCELLO FRANCOLINI LINDA KAISER ANTE ŽAJA

MAGGIO 2017 NUMERO UNO



Insider e Outsider Art Per colpa di un piatto di lumache “Fu il 15 di giugno del 1767 che Cosimo Piovasco di Rondò, mio fratello, sedette per l’ultima volta in mezzo a noi. Ricordo come fosse oggi. Eravamo nella sala da pranzo della nostra villa d’Ombrosa, le finestre inquadravano i folti rami del grande elce del parco. Era mezzogiorno, e la nostra famiglia per vecchia tradizione sedeva a tavola a quell’ora, nonostante fosse già invalsa tra i nobili la moda, venuta dalla poco mattiniera Corte di Francia, d’andare a desinare a metà del pomeriggio. Tirava vento dal mare, ricordo, e si muovevano le foglie. Cosimo disse: – Ho detto che non voglio e non voglio! – e respinse il piatto di lumache. Mai s’era vista disubbidienza più grave”. Italo Calvino, Il barone rampante, 1957 Cosimo è l’eroe adolescente che, appena dodicenne, si ribella alla sua famiglia, alla società del passato, a chi rimane a terra – gli insider –, per arrampicarsi sugli alberi, salendo più in alto che si poteva. Il personaggio creato da Italo Calvino (Santiago de Las Vegas de La Habana, Cuba, 1923-Siena, 1985) nel secondo capitolo della sua trilogia araldica su I nostri antenati, dopo Il visconte dimezzato (1952) e prima de Il cavaliere inesistente (1959), si sottrae simbolicamente agli imperativi paterni, alle costrizioni sociali, ai preconcetti del suo mondo ristretto. Cosimo non fugge, ma libera la mente, partecipa alla vita attiva da un “sopra” e da un “fuori” di ricche valenze cognitive – da vero outsider –, indica la via della separatezza come una modalità di avanzamento, una vocazione creativa, che sta a metà tra l’esplorazione e la rivoluzione. E tutto accade, nell’azione del fantasy dello scrittore che visse anche a Sanremo, a causa di un piatto di lumache, quelle di fronte al quale Cosimo matura il suo gesto estremo e pronuncia quel no dal quale non recederà mai: – “E io non scenderò più! – E mantenne la parola”. Ecco, dunque, che chi “Visse sempre sugli alberi – Amò sempre la terra” diventa metafora di qualcos’altro. Come Calvino stesso scrisse in una nota, il racconto nasce dall’immagine, che si sviluppa in una storia la quale, a sua volta, prende dei “significati che restano sempre un po’ fluttuanti, senza imporsi in un’interpretazione unica e obbligatoria”. Negli anni ‘80 del XX secolo viene addirittura elaborata una “teoria insider / outsider” da due economisti, lo svedese Assar Lindbeck (Umeå, 1930) e l’americano Dennis J. Snower (Vienna, 1950). La loro teoria considera come gli “insider”, cioè i lavoratori occupati, protetti dalla propria privilegiata rendita di posizione, detengano il potere del mercato, e come le loro attività influenzino gli “outsider”. Questi, disoccupati o inseriti nel settore informale, non vengono favoriti in un eventuale turnover e hanno, di conseguenza, un potere contrattuale inferiore, che li rende meno competitivi e anche sempre meno produttivi a causa dell’inattività. LIMAX - MAG. 2017 #1

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Nell’arte si possono usare gli stessi termini, perché anche in questo settore ci sono gli insider, cioè gli artisti integrati e leader di mercato – quelli che fanno tendenza, che si vendono, che le gallerie si contendono –, e gli outsider, che vivono nell’ombra, che non pensano a vendere, che spesso neppure cercano un luogo in cui espor(si). Il filosofo Mario Perniola (Asti, 1941) parla oggi di “arte espansa”, con un felice calco terminologico dell’“expanded cinema”, coniato dal massmediologo americano Gene Youngblood (Little Rock, Arkansas, 1942), che fu il primo a considerare il video come forma d’arte. Anche Perniola valuta i meccanismi di inclusione ed esclusione, dato che sono sempre più labili i limiti tra ciò che viene considerato arte e ciò che ne viene escluso. Giustamente ci si chiede chi possa operare questa scelta di appartenenza. Si può credere che tutti possano fare arte, a partire dalla diffusione della Pop Art negli anni ‘60, così come tutti si sentono fotografi con uno smartphone in mano o scrittori con i canali social a disposizione. Questa illusione è alimentata dall’espansione dell’arte garantita dai media. La follia, oggi, si trova all’apice di un lungo iter critico, che ne ha giudicato i prodotti artistici vuoi come “attività plastica” priva di consapevolezza – secondo lo psichiatra tedesco Hans Prinzhorn, (Hemer, 1886-München, 1933) –, vuoi come pura creatività e assoluta spontaneità libera dai condizionamenti di qualsiasi mandatario – l’Art Brut teorizzata da Jean Dubuffet (Le Havre, 1901-Parigi, 1985). Gli opposti hanno finito per convergere e annullarsi a vicenda: l’arte “colta” e l’arte “selvaggia” – quest’ultima nel frattempo confluita, dagli anni ’70 in poi, nella più ampia categoria dell’Outsider Art – infrangono entrambe gli stessi codici che ne avevano segnato lo spartiacque. I criteri di inclusione ed esclusione, dell’essere insider o outsider, al di qua o al di là di un confine forse sono definitivamente saltati. Le classificazioni – orizzontali – non hanno più alcun senso, se non quello di affermare se stesse. Gli scambi non antagonistici – verticali – potrebbero portare a punti di vista migliori e differenziati. Anche noi potremmo, come Cosimo, salire sull’elce e “trovare bei posti dove fermarci a guardare il mondo laggiù”, con l’equilibrio e la vertigine concessi dall’altezza e dalla distanza. Linda Kaiser 23 giugno 2017

Riferimenti bibliografici in ordine di citazione - Italo Calvino, Il barone rampante, Torino, Einaudi, 1957 - Italo Calvino, Il visconte dimezzato, Torino, Einaudi, 1952 - Italo Calvino, Il cavaliere inesistente, Torino, Einaudi, 1959 - Dennis Snower and Assar Lindbeck, The Insider-Outsider Theory of Employment and Unemployment, Cambridge (MA), MIT Press, 1988 - Mario Perniola, L’arte espansa, Torino, Einaudi, 2015 - Gene Yougblood, Expanded Cinema, New York, E. P. Dutton & Co., Inc., 1970 - Hans Prinzhorn, Bildnerei der Geisteskranken. Ein Beitrag zur Psychologie und Psychopathologie der Gestaltung, Berlin, Springer, 1922 - Jean Dubuffet, Prospectus et tous écrits suivants, Paris, Gallimard, vol. 1-2, 1967; vol. 3-4, 1995

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Edizioni LIMAX Editor Linda Kaiser Segreteria di redazione Daria Moldovan

Le opinioni espresse negli articoli appartengono ai singoli autori, dei quali viene rispettata la libertà di giudizio. La collaborazione alla rivista avviene soltanto su invito. La riproduzione totale o parziale degli articoli non è vietata, purchÊ siano citati la fonte e gli autori.


Indice Insider e Outsider Art 1 Per colpa di un piatto di lumache Linda Kaiser

Zoom - variazioni di focale L’Art Brut oggi 6 Maria Luisa Conserva

Ri-orientare i contorni 9 Sulla disposizione delle linee delimitanti Marcello Francolini

Viaggiatori d’Occidente 11 Outsiders, l’oro del tempo Giorgio Bedoni

Tele - distanze ridotte L’umanità offesa plasmata da Umberto Gervasi I mondi e i modi espressivi dell’artista

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Linda Kaiser

Su di un modo, tutto particolare, 16 di paesare il mondo. Adonai Sebhatu Marcello Francolini

Matija Skurjeni: Miner of Dreams. Between Dreams 18 and Waking, between the Naïve and Surrealism Ante Žaja

Camera - riprese in diretta 11.02.2017 - Bibesco a Pavia 22 02.03.2017 - Stefano Codega a Genova 24 16.03.2017 - Artisti francesi a Genova 26 06.04.2017 - Artisti italiani a Marsiglia 28 13.04.2017 - Maria Luisa Conserva a Monza 30 17.04.2017 - Mauro Marcenaro a Genova 32 20.04.2017 - Kuffjca Cozma a Chișinău 34 21.04.2017 - Matija Skurjeni Museum a Zagabria 36 08.05.2017 - Istituto per le Materie e le Forme Inconsapevoli a Genova 38 11.05.2017 - Judith Scott e Dan Miller alla 57. Biennale di Venezia 40

Primo piano - inquadrature particolari Tre opere inedite di Rocco Borella

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Kuffjca Cozma, Si am trait si am simtit / si cu una stiam (E ho vissuto e sentito / e sapevo), 2014, pennarello e penna su carta, 100 x 70 cm (Londra, Collezione privata)

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Zoom - variazioni di focale L’Art Brut oggi Maria Luisa Conserva C’è una domanda fondamentale che accompagna gran parte della riflessione psicoanalitica, in particolare quella lacaniana: che cos’è un soggetto e, soprattutto, come si diventa un soggetto? C’è un motivo, se parto dalla psicoanalisi per parlare di Art Brut o Outsider Art, ma per capirlo bisogna iniziare dagli albori. In principio era l’Altro. L’Altro da cui ognuno nasce innanzi tutto, madre, padre, famiglia, società, cultura. L’Altro che incide marchi sul corpo nascente di ciascuno di noi. E ciascuno di noi nella vita ripropone questi marchi in varie forme, a volte patologiche, anzi sempre patologiche se non accadesse un’altra cosa, che accade, ma non sempre, non a tutti. Agli artisti sì. Che cosa accade? Accade che, a un certo punto, ci si rende conto, più o meno consciamente, che quell’Altro che ci ha marchiato è lui stesso marchiato da qualcun’Altro e via così all’infinito. Allora le opzioni sono due: rimanere schiacciati passivamente in un determinismo acefalo, oppure prendere atto che in questo processo infinito vi è tuttavia un margine di libertà, che è quello che ci rende umani e non animali. Del marchio che ci ha marchiato, dunque, se ne può fare qualcosa, e ognuno lo fa a modo suo, non c’è una regola, ma una libertà alla quale siamo condannati. Separarsi dall’Altro significa, quindi, diventare un soggetto. Rimanere completamente soli, realmente soli, con quel marchio e con il proprio corpo immersi in un linguaggio che sembra non parlare di noi, sembra che non ci sia niente che possa dire di quella solitudine.

Se ci si limitasse a separarsi, però, si rimarrebbe soli e senza scampo: si è soli, ma non senza scampo. E non è dalla solitudine che si scappa ma dal grigiore che questa porterebbe con sé, se non ci fosse l’invenzione. L’invenzione. È qui il punto. L’invenzione non è qualcosa che accade e basta. È un atto. E chi meglio dell’artista incarna la figura di colui che inventa, di colui che se ne fa qualcosa della traccia che l’ha scritto, che dimostra la potenza della libertà che germoglia in ogni vita umana? L’arte non è una consolazione, non è un sogno a occhi aperti, non è un delirio né una credenza: queste sono soluzioni, quelle patologiche di cui dicevo prima, basate sulla certezza, adottate dalla maggioranza delle persone di fronte all’inesorabile solitudine data dalla morte dell’Altro. L’arte, al contrario, è una forma di soggettivazione basata sulla potenza e sulla volontà di cercare una risposta, pur sapendo che non esiste, è una ricerca infinita mossa dalla passione, come lo dovrebbe essere ogni ricerca che si muova verso un “sapere” vero, è come trasformare l’odio in amore.Un certo genere di arte dimostra tutto questo in modo lampante e l’Art Brut fa parte di questo genere di arte. Mi ha sempre affascinato pensare che, nel tetro silenzio alternato alle grida di un luogo come l’ospedale psichiatrico, ci siano stati soggetti che hanno deciso di compiere l’atto di disegnare, di creare qualcosa. Vedo, in questa operazione, l’immenso sforzo di trovare qualcosa che possa far dire, a chi la compie, “esisto, sono qualcuno, aldilà di tutto quello che avete fatto di me”, vedo l’eterna scintilla che alimenta il desiderio più nascosto che nell’opera nasce, prende vita. LIMAX - MAG. 2017 #1

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Così è nata l’Art Brut. Ma oggi, nel 2017, che cos’è l’Art Brut? Quando l’ho scoperta ero un po’ ingenua e animata da un forte entusiasmo, proprio di chi si avvicina per la prima volta a qualcosa. E quando c’è una grande passione a muoverci, allora si va a fondo delle cose. E così ho scoperto che esiste il mercato dell’arte, o meglio, sapevo già molto bene che esisteva il mercato dell’arte, ma non avevo messo in conto che l’Art Brut potesse averci a che fare, le due cose nella mia testa erano separate, non le avevo neanche mai accostate. Ho fatto un viaggio di un mese in Europa, Germania, Francia, Austria e Svizzera, a visitare tutti i Musei e le Gallerie di Art Brut, Outsider Art, arte marginale, arte irregolare, arte degenerata, arte naïf, arte di qua arte di là, e più vedevo e più viaggiavo e più il mio entusiasmo si spegneva. Allora è soltanto un innamoramento che nel giro di qualche mese lascerà il posto alla disillusione? Mi chiedevo. La risposta è No. Mi è venuto in aiuto Hegel nel dare una risposta alla questione. Tesi: c’è l’Art Brut, genuina, pura, immediata. Antitesi: c’è il mercato dell’arte che snatura tutto quanto. Sintesi: il mondo è molto più complesso di così e non è fatto di opposti che si annullano l’uno nell’altro, ma di una rete intricata di eventi e agenti che insieme contribuiscono a formare un sistema, un linguaggio e, volenti o nolenti, in questo linguaggio ci siamo sempre immersi. Il mercato non uccide l’Art Brut e l’Art Brut continua a esistere anche se c’è il mercato. Non ci sono il buono e il cattivo e poi il cattivo muore e vince il bene. Questa è una favola, una credenza, una certezza consolante e patologica. L’Art Brut non è purezza senza macchia e il mercato non è un oscuro giogo che la

sporca. È da ingenui, appunto, vederla così. Wölfli, per esempio, come spiega Bianca Tosatti in un’intervista, chiamava “opere per il pane” i dipinti che sapeva di poter cedere in vendita ai medici e al personale dell’ospedale psichiatrico in cui era recluso. Sapeva dunque come piacere, che cosa volevano i suoi fruitori. Il mercato, un certo tipo di mercato, c’è bisogno di dirlo, d’altro canto, non vuole sopprimere la genuinità degli artisti, quanto piuttosto dare loro una possibilità e un posto nel mondo. Come fuggire allora da quel tipo di mercato che, invece, sembra appiattire la potenza generativa dell’arte a un mero scambio di oggetti o, ancor peggio, usarla per elevare la potenza di chi lavora all’interno di esso? È molto semplice, e qui è stato Lacan a venirmi in aiuto: c’è qualcosa di irriducibile nel desiderio rispetto alla domanda. Per quanto riguarda la psicoanalisi, questo significa che quando il bambino piange (per fare un esempio, ma questo vale per tutti i soggetti e per tutte le domande oltre al pianto), non sta chiedendo solo il cibo, non ha solo un bisogno che deve essere soddisfatto, ma sta chiedendo di essere riconosciuto come un soggetto dalla madre o da chi al suo posto, sta chiedendo di essere il desiderio del suo Altro, e dunque in quest’ottica il desiderio più che a una soddisfazione è legato a una mancanza, una mancanza strutturale, non una mancanza di qualcosa. Traslato nel mondo dell’arte questo significa che, rispetto alla domanda del mercato, ci sarà sempre qualcosa di irriducibile e che rimarrà libero da interferenze nell’opera d’arte, e che la mancanza che il mercato vorrebbe colmare, così come fa ogni sistema capitalistico, non verrà mai colmata, ed è proprio da questa mancanza che scaturisce la ricerca infinita di una risposta, pur sapendo che non c’è, la potenza generativa del desiderio che vediamo materializzata nell’opera d’arte, l’invenzione che nasce dalla libertà. È attraverso questa mancanza che si diventa un soggetto. Adolf Wölfli (1864-1930), Wardrobe (Guardaroba dipinti), Stiftung Psychiatrie -Museum Bern, Universitäre Psychiatrische Dienste Bern (Waldau), Ostermundigen, Canton Berna, Svizzera - © LK

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Ri-orientare i contorni Sulla disposizione delle linee delimitanti Marcello Francolini “Certo lo smarrirsi è piacevole e atroce”. Filippo Tommaso Marinetti, Venezianella e Studentaccio, 1944 (Milano, Mondadori, 2013)

Ogni opera è un giudizio ontologico sul mondo, ogni artista esprime così un pensiero sul mondo. Proprio per questo ogni artista formalizza un mondo proprio. Esiste tuttavia tra questi mondi un mondo più vasto, sentito da più individui, ospitato da visitazioni che similano nel loro modo di incedere. Potremmo parlare in questo senso di un mondo proprio del “noi”. Se analizziamo tutte quelle opere degli artisti che rientrano nel cosiddetto “mondo” dell’Outsider art, sembrano essere legate da una linea continua, da un ordito invisibile, che le rafferma tutte indistintamente. È possibile, dunque, individuare un minimo comune denominatore che è: la linea di contorno. Il segnare, l’incidere, il chiudere figure, è il modo più genuino e diretto per questi artisti autodidatti e spesso costretti ai margini della società di trasformare la loro sofferenza in un impatto immediato. Il Disegno ne è la costante. Esso corrisponde alla diretta traduzione dell’idea, ma non si può considerare come pura espressione immediata. Ciò ne svela la duplice consistenza: da un lato rappresenta l’aspetto più profondamente meditativo del processo creativo, dall’altro per il suo stesso costituirsi attraverso la linea appare, tra i linguaggi artistici, il più immediato. Di conseguenza rappresenta un forte e deciso strumento di chiarificazione della realtà. La punta stessa della matita è potente allegoria dello scavo psicologico che l’artista esegue prelevando e sezionando la realtà sensibile. Ciò che ci apprestiamo a presentare non è il disegno preparatorio, inteso come abbozzo, o schizzo per cui sarebbe necessario collegarlo all’opera finale, bensì il disegno inteso come valore autonomo, concluso in sé. Questi artisti sono accomunati da un medesimo sentire spirituale, rappresentato dalla pratica del disegno, inteso come scavo psicologico verso le cose e gli uomini della

Paul Cézanne, Les grand arbres (I grandi alberi), pennello e acquerello su grafite su carta, 47 x 58 cm (Parigi, Collezione Prat)

società contemporanea. Questi disegni indagano senza pudore e senza velature le malattie dell’uomo presente, la cui anima sembra esaurita, sfinita, in cui l’oblio dell’individualità lo fa scivolare verso una depressione irrefrenabile. Il fil rouge che lega questo modus operandi è l’attenzione preminente nei confronti dell’essere colto nei meandri dell’interiorità fin dentro le viscere, oltrepassando la materialità della carne, nel fondo dov’è posata la più intima essenza. La turbolenta cosmologia d’immagini, descritta da questi artisti, racconta il tragico processo di penetrazione e colonizzazione dell’inconscio nella Realtà. Individui che consumano se stessi sotto forma d’immagini e astrazioni, attraverso cui vengono replicati desideri, senso di identità e ricordi personali, confluiscono in forme radicalmente nuove in grado di rispondere alla complessità e all’intreccio del nostro momento storico. Siamo entità multiformi e complesse, in cui istinto, ragione, colpa, ataviche tare genetiche si mescolano in modo confuso; ma anche esseri incompleti e fallaci. Dovremmo chiamare in causa Merleau-Ponty, per parlare del corpo, perché esiste un corpo della pittura così come esiste un corpo della malattia, e attraverso la pittura LIMAX - MAG. 2017 #1

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noi possiamo giungere alla malattia, così come attraverso la malattia si può giungere alla pittura: non è in effetti tramite il corpo che lo facciamo? Mi piacerebbe qui aprire una parentesi quadra sulla funzione strutturale della linea di contorno che emerge a livello teorico con chiarezza, forse per la prima volta, in un testo medievale: nei Commentarii Sententiarum di Bonaventura da Bagnoregio. Egli definisce la figura come “Dispositio ex clausione linearum”, vale a dire come ordine che deriva da linee delimitanti, e questa definizione coglie il valore paradigmatico che la linea di contorno riveste per l’immagine. Ma importante è la sua chiusura, clausione per l’appunto, ovvero il confinare della forma. Il fatto è che le linee di contorno non esistono in natura e sono invece il prodotto del processo di astrazione proprio, come si è detto prima, di ogni rappresentazione. La linea di contorno non appartiene né allo sfondo né alla figura, ma è il pre-requisito logico perché vengano generati questi due elementi. Così inteso, una linea di contorno sarebbe l’elemento generatore di ogni forma di cosa. Ma proprio perché nella realtà gli oggetti

Stefano Codega, La ragazza, 2016, pastello a olio su tela, 45 x 35 cm, particolare (Genova, Collezione privata) - © LK

artistico nel momento in cui individua la linea di contorno come costante dell’immagine, e quindi ciò per cui essa è, ovvero qualcosa che si differenzia dal tutto. Ma in più ciò determina che la forma è propria all’immagine dell’oggetto e non all’oggetto reale, quindi la linea di contorno è il modo genuino dell’artista di mettere sotto forma gli oggetti del mondo, che solo qui nel mondo dell’arte trovano una collocazione capace di farceli vedere in modo unico e chiaro. Dunque, un’arte in questo senso, quello profondo, quello originario è ciò che precisa l’imprecisato. Come è, ciò a cui allude la definizione di linea di contorno, che può ora essere meglio compresa intendendola come: un immettere dentro un confine ciò che nella realtà è in-confinato. Come chiudere un ché di aperto. Diceva Heidegger a proposito dell’opera d’arte che: “Il confine, nel senso greco della parola, non sbarra, ma, in quanto esso stesso portato alla luce, rende finalmente nitido ciò che ci adstanzia”. Martin Heidegger, L’origine dell’opera d’arte, 1935-36 (Milano, Christian Marinotti Edizioni, 2000)

Gustav Klimt, Die Braut (La sposa, opera incompiuta), 1917-18, olio su tela, 165 x 191 cm (Wien, Österreichische Galerie Belvedere - Creditline: Leihgabe der Gustav Klimt l Wien 1900 - Privatstiftung)

sono sempre mischiati tra loro, questo chiuderli in un contorno è il modo proprio di conoscerli fuori dalla realtà, di formarli entro un’immagine. Di conseguenza tale definizione si attesta intorno a un discorso 10

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Viaggiatori d’occidente Outsiders, l’oro del tempo Giorgio Bedoni Nella storia d’occidente il viaggio, talvolta, è leggerezza, passaggio di stato che allontana il tempo: non più conoscenza ma sospensione, dove leggerezza è sottrarre peso e il possesso di sé precisione, figlia del molteplice. Una piuma per gli antichi egizi, da porre sul piatto della bilancia dove si pesano le anime. Nel suo grande saggio dedicato al Mediterraneo Predrag Matvejević scrive che poco sappiamo dei cartografi, come pure dei viaggiatori: il Novecento, tuttavia, ci ha lasciato una cartografia dell’immaginario come genere artistico e figure di viaggiatori entrati ormai di diritto in un dizionario dell’irrequietezza. Vicende che raccontano come il viaggio, talvolta, è necessario, poco importa se intrapreso tra carte o nella vita di paesaggi reali: viaggi sul filo del paradosso e del gioco, come “l’oro del tempo” che un Breton ultimo e veggente cercava nei greti dei fiumi, sulle rive del Lot a Saint-Cirq-Lapopie. Viaggi compiuti, per ironia, in abiti da camera, come racconta una lunga tradizione di confine nella cultura d’occidente, negli esotismi del “doganiere” Henri Rousseau e del postino Ferdinand Cheval come nelle mirabolanti avventure di Emilio Salgari: tutti figli di un dio minore, che nella disarmante malizia del simbolo diretto comprendono che l’altrove è già qui. Quell’esotico che Gauguin cerca nelle isole del Pacifico, trovando, lui che si sentiva in Francia un indiano in esilio, i suoi “Tristi tropici” a Tahiti, Rousseau lo vede nel Jardin des Plantes di Parigi e Cheval lo costruisce nei labirinti fantastici del Palais Ideal. Nelle pieghe di questa tradizione, l’outsider è un viaggiatore per necessità: viaggiatore circolare, omerico, che dopo l’esplorazione rivolge lo sguardo sempre verso casa, come un cartografo che cerca coordinate a un io che sfugge. Nomadismo frequente nelle stanze dei classici “brut”, luoghi di pratiche artistiche identitarie, lontane, nonostante le varie suggestioni, dai volontari spaesamenti di molta avanguardia: follie ben temperate e

possibili derive che solo le linee di mappe immaginarie possono contenere. “Lasciate la preda per l’ombra”, scriveva infatti André Breton nel 1922, invitando al viaggio come spaesamento e conoscenza vera tra le righe della ragione. Così Wölfli, che era “nessuno”, si affida all’arte per divenire “uno” e molti, come i narratori della tradizione, inventandosi una identità nuova e insieme fittizia, e un sistema espressivo totale e sinestesico: se il Surrealismo cercava nel viaggio l’anima del veggente, Wölfli troverà, invece, nella sua geografia un metodo e nelle sue note forme a mandala un centro ordinatore, costruendo mappe analitiche della città di Berna, cuore pulsante della sua parabola biografica. Allo stesso modo di Carlo Zinelli, che compirà nella sua vicenda artistica un viaggio a ritroso, nei meandri di esperienze spezzate, ma sempre verso casa, come nell’“Heinrich von Ofterdingen”, il romanzo incompiuto di Novalis, che narra la leggenda di un trovatore medioevale alla ricerca di un fiore blu comparso nel sogno. Un filo rosso collega questi autori con parabole artistiche contemporanee, dove il viaggio “interno” prende forma nutrendosi di scenari antropologici e di mitologie personali, di geografie e di realtà collettive: viaggi che scendono in profondità, come quello compiuto da Umberto Gervasi nell’intensità del colore e nel cavo di radici originarie, tra primitivismi e memorie di una Sicilia terra di storici visionari dell’arte, di un fantastico che già nel Settecento trova il suo dominio nella Villa Palagonia di Bagheria, ricca di mostri e di figure antropomorfe, come nel giardino incantato di Filippo Bentivegna. In anni di silenzioso lavoro Gervasi ha fatto propria un’arte che sfugge a canoni prestabiliti, prevalendo invece fantasia ed empirismo, realismo ed estro individuale, quei caratteri che Guido Piovene aveva incontrato in Sicilia nel suo ancor nitido e attuale viaggio degli anni Cinquanta. LIMAX - MAG. 2017 #1

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Un percorso che sfugge a bisogni sospetti di omologazione, piegati a strategie dove l’outsider sia, ma non troppo: arte che celebra nella vitalità del segno libertà, pensiero, umanità, lontana da cliché ben noti, buoni per turismi da centri commerciali. Viaggi dal fascino più che mai intatto, anima profonda di quella che ancora oggi è l’Outsider Art: nelle mappe mentali di Kuffjca Cozma, dove linee e scrittura sono sinuose come anse di fiume, circolari, anch’esse sempre verso casa come vicende di viaggiatori omerici. Nelle linee di Maurizio “Zap” Zappon, a disegnare le tensioni immobili dei vulcani, fissati con il metodo del classificatore: un mondo magico e reale, dove affini ai vulcani, nell’immaginario di Zap, sono le mappe, che appartengono ai miti e a leggende d’infanzia: Camelot, Atlantide e “piante” del tesoro, che la linea di Zap disegna guidata dai sogni esotici e d’avventura di Emilio Salgari e di Giulio Verne, veri e propri eroi personali, a conferma di come il fantastico sia inquietudine e rottura dell’ordine costituito. Come i vulcani, le mappe di Zap costruiscono una cartografia identitaria e fondativa, dando vita a un suo esclusivo e privato “Dreamtime”, sintesi insieme di esperienze e di visioni del mondo, concezione dello spazio, conoscenza e memoria.

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Questa, credo, sia l’Outsider Art che amiamo, figlia di una storia che scorre lungo le varie frontiere dell’arte: un mondo che richiede sguardi appassionati e una poetica della sospensione. Un mondo lontano da un “demi-brut” buono per amori frettolosi, altrettanto estraneo a chi lo pretende ben educato e leggermente mosso, come acqua minerale pret-à-porter.

François Vertadier, direttore della Galerie Polysémie di Marsiglia, al vernissage della mostra “Viaggiatori francesi: labirinti dell’immaginario”, 16 marzo 2017, Genova, M&M Gallery

Kuffjca Cozma, Si cerem, cerem dar nu tot / ne ajunge mama zicea ca nu tot / trebuie dar toti suntem (E chiediamo, chiediamo però non tutto / basta mamma diceva che non tutto / serve però tutti esistiamo), 2014, pennarello su carta, 60 x 80 cm LIMAX - MAG. 2017 #1


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Tele - distanze ridotte L’umanità offesa plasmata da Umberto Gervasi I mondi e i modi espressivi dell’artista Linda Kaiser A Macherio, nella provincia di Monza e della Brianza, Umberto Gervasi ha il suo studio, quello in cui d’estate lavora alle sculture. Si tratta di un luogo un po’ nascosto, un piano terra con un cortile e un altro piano sottotetto, dove la struttura architettonica è precaria, dove la luce filtra a sprazzi, dove il freddo, ora che è gennaio, è pungente. Più che un atelier sembra un deposito di opere, che spesso non si vedono, se non in qualche riproduzione fotografica incollata malamente sui contenitori. Nelle prime stanze senza porte, in tante casse di legno, impilate in disordine fino al soffitto, sono imballate parti di sculture in terracotta e le scritte parlano di un “Missile” e di una “Sedia elettrica”. Le pareti sono coperte di pannelli con le grate: i “carcerati” vi si schiacciano contro e ti guardano. Qua e là sono appoggiati rotoli di pluriball, scatole di cartone, telai, aste di acciaio e anche una bambola. Alcune “macchinine” di terracotta grezza o dipinta, ricoperte di polvere, mostrano personaggi un po’ goffi che si baciano. Sembrano immagini di repertorio, che richiamano la tradizione siciliana. Le figure di Gervasi non hanno certo la leggerezza materica dei paladini di legno dell’Opera dei Pupi, sviluppata nel XIX secolo, ma nel tono buffo e favolistico, gergale, sembrano avere la stessa matrice regionale delle marionette. Quanto al gesto plastico di per sé, l’artista racconta di averlo provato sin da bambino, manipolando il torrone che la sua famiglia produceva in Sicilia per venderlo alle feste e ai mercati. Più tardi, farà lo stesso con gli

scarti di gesso dei solai, modellando animaletti e figure, sempre poi da lui distrutti. Se si sale al piano sottotetto, la caotica disposizione delle opere non migliora di certo la loro lettura. Appoggiate sul pavimento o su tavolini con e senza ruote, su pensiline e rientranze nei muri, le sculture di dimensioni minori, come i portaombrelli totemici, si accompagnano a ragnatele, bottiglie di alcool detergente, pozze d’acqua, lenzuoli che ricoprono i dipinti su carta e cartone.

Umberto Gervasi prima del vernissage della sua personale “La materia inquieta di un realista visionario”, con la sua scultura Sedia elettrica, 2000, terracotta policroma, 272 x 156 x 120 cm, e opere ad acrilico su carta, 26 gennaio 2017, Genova, M&M Gallery - © LK

Alcuni di questi sono appesi sulla parete più grande, in parte strappati, accartocciati agli angoli, con colori ancora vivi, nonostante la poca cura nella loro conservazione. Gervasi ne mostra diversi, nel formato 100 x 70 cm, che giacciono impilati: li sfoglia come fossero un gigantesco libro illustrato. Lui è di poLIMAX - MAG. 2017 #1

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esempio di figura “fluttuante” tra insider e outsider art, ma rimane indefinibile – e in ciò sta il paradossale carattere del suo lavoro –, perché non appartiene completamente a nessuna delle due modalità.

Umberto Gervasi, Sedia elettrica, 2000, terracotta policroma, 272 x 156 x 120 cm, e opere del 2016 ad acrilico su carta, esposte nella sua personale “La materia inquieta di un realista visionario”, 26 gennaio-25 febbraio 2017, Genova, M&M Gallery - © LK

Dall’alto dell’atelier già si vedono le sculture all’aperto ma, quando si scende nel cortile, appaiono davvero come le sue opere di maggiore forza. In terracotta policroma e a scala umana, ci sono i Mangiatori di fichi d’india (2014), espressione del paesaggio del sud Italia. Viene in mente la descrizione di Elio Vittorini – scrittore che Gervasi non conosce –, in Conversazione in Sicilia (1941). Qui il protagonista, in viaggio in treno verso i luoghi natii, parla della “selva dei fichidindia (…) alti come forche”, dove un ragazzo coglieva “i frutti coronati di spine”.

che parole e così commenta in minima parte i suoi soggetti ricorrenti.

Il senso della spina in Gervasi c’è sempre: è il segno del “mondo offeso”, che lo por-

L’uomo con il maglione giallo seduto su una panchina (2017) è l’artista che guarda la vita, che appare divisa per settori, in riquadri singoli. Ci sono animali e personaggi, soli o solitari, in compagnia o con la famiglia, che attraversano apparenti strisce pedonali. I colori sono vivaci e acidi; la pittura è brut, rozza; lo sfondo è uniforme. Le storie, se di queste si tratta – e Gervasi ne racconta molte, di cui non possiamo verificare le fonti –, si svolgono in maniera paratattica, sullo stesso piano e senza prospettiva. L’ipotassi sembra a lui sconosciuta: il passato è, allo stesso tempo, presente e futuro. L’autoritratto mostra l’artista più anziano, con un bastone tra le mani, ma forse ne proietta anche i ricordi di infanzia nello sguardo fisso verso il basso, nel bambino che era quando andava in giro con la mamma e il carretto tirato dal “ciuccio” sulle strade della Sicilia. Su altre pagine del suo diario pittorico, Gervasi ha impresso grandi visi frontali, una sorta di mascheroni spezzati a metà, dove le parti non combaciano. Possiamo leggere le identità spaccate con una profondità di significati di cui l’artista non pare avere piena consapevolezza. In questo senso, un autodidatta, a volte, mantiene il suo carattere naïf, anche quando viene inserito nel sistema “mercantile” dell’arte. Gervasi è un tipico 14

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Umberto Gervasi, terracotta policroma, 43 x 55 x 48 cm; sullo sfondo, opera senza titolo, 2016, acrilico su carta, 70 x 50 cm (Genova, Collezione privata) - © LK

terà da Aidone in provincia di Enna a Sesto San Giovanni vicino a Milano, dall’ambiente contadino e arcaico delle sue origini a quello operaio e della fabbrica, alla ricerca dell’utopia politica e sociale. Il suo desiderio di “correre appresso alla Rivoluzione” lo avvicina ancora ai personaggi di Vittorini. Nel cortile c’è anche un altro carretto in terracotta. Qui non sono impilate cassette di frutti carnosi e succulenti, ma piccoli cadaveri. Il titolo dell’opera è esplicativo: Guardare per non dimenticare. Omaggio a tutti i bambini


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uccisi dal nazismo (2012). Spinge il semplice mezzo a due ruote un uomo che indossa la divisa a righe bianche e nere dei campi di concentramento. Il suo volto è scavato, il naso e la bocca semiaperta sono pronunciati; gli occhi dipinti di verde, spalancati, sembrano esprimere un agghiacciante sguardo di incomprensione per l’orrore di cui è parte; le sue braccia, protese a spingere il carico, paiono prolungare il suo abito in un sudario che raccolga i piccoli morti. La traduzione in figura della storia contemporanea non è per nulla retorica in Gervasi, ma avviene con uno stile particolare, frutto della contaminazione tra generi diversi. Si va da un “antigrazioso” bozzettistico sino al grottesco, dai dettagli ingranditi di sapore medievale sino alla fisicità caricaturale. Sulla forza espressiva prevale poi l’intento etico e, nella rappresentazione del male, la celebrazione della vita attraverso l’arte. I “vinti” di verghiana memoria potrebbero, forse, oggi non farsi più travolgere dalla “fiumana del progresso”.

Il piano superiore dell’atelier di scultura di Umberto Gervasi, Macherio (MB), 15 gennaio 2017 - © LK

Umberto Gervasi nel cortile del suo atelier, tra le sue sculture Guardare per non dimenticare. Omaggio a tutti i bambini uccisi dal nazismo, 2012, terracotta policroma, e Mangiatori di fichi d’india, 2014, terracotta policroma, Macherio (MB), 15 gennaio 2017 - © LK LIMAX - MAG. 2017 #1

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Adonai Sebhatu, Collage 08, collage di circuiti pcb applicati su acetato, 50 x 60 cm

Adonai Sebhatu, Collage 02, collage di circuiti pcb applicati su acetato, 50 x 70 cm

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Su di un modo, tutto particolare, di paesare il mondo. Adonai Sebhatu Marcello Francolini A trovarsi davanti alle opere di Adonai Sebhatu, si avverte subito un certo senso, che disorienta o meglio svia il nostro approccio cognitivo. Il nostro sguardo si rallenta interdetto tra la concretezza sicura dei contorni di una città e l’assenza materiale di tracce segnate. Non v’è matita che ha spuntato alcunché, non v’è segno pervenuto dal fondo, eppur in tutta la nitidezza, com’è quella dell’acqua corrente, c’è un chiaro paesaggio. Come tutti i paesaggi esso è visto dal quadro, che è come una finestra, costruito dai materiali di risulta dei computer, raccolti tra le lande delle schede madri, le componenti in pcb, quasi in allegoria con le “windows” dei palazzi elettronici da dove sempre più ci affacciamo fuori. Parti assemblate entro un nuovo contorno, come in un intervento di cesellamento mosaicale. Il materiale scompare sotto la parvenza di un’immagine quieta, posata, come nei paesaggi autunnali dell’Emilia; o evidenzia la propria materia nella plasticità di architetture urbane, di città evacuate dal tempo. Qui sembra dominare indisturbato un silenzio interrogante. La vuotità di questi spazi è come un urlo muto che vibra su timbriche inafferrabili. Bisogna tener presente, sembrano avvertire, dello statuto dei nostri luoghi, della necessità del prendercene cura. Questa linearità che confonde, che è poi la stessa linearità strutturale del materiale elettronico, è anche un modo di vedere il paesaggio collettivo come una rete relazionale. Intendere lo spazio pubblico come risultante dagli scambi e dagli incontri tra gli esseri. Un gioco finemente concettuale. Le ultime prove di Adonai sembrano spingere ancor di più verso questa considerazione. I paesaggi sono qui distesi come mappe territoriali, i lineamenti combinano l’allusione cartografica con il linguaggio infografico, in cui appunto i concetti, i pensieri trascendono in immagine. Non dico che era ora, ma di sicuro si sentiva il bisogno di “richiudere il quadro”. Localizzare geograficamente l’immagine fuori dalla realtà. Tornare al quadro equivale

a tornare al lavorio serrato e irrequieto e mai definito di una ricerca possibile della forma del vero, nel modo proprio dell’opera, ovvero tornando a intenderla come uno specchio della realtà. Questo modo dell’agire artistico si muove all’opposto dei linguaggi d’arte ufficiali, consolidati su un processo di ibridazione dell’opera che è ormai giunta a un alto livello di saturazione, per cui il suo linguaggio frammentato si mescola con la frammentazione stessa dell’apparato sociale, strutturando cosi un modo d’assimilazione ambiguo dell’opera d’arte, che spesso ridiscende sul livello dell’intrattenimento puramente estetico. Riportare il discorso sull’evidenza dell’immagine sino alla sua scarnificazione e deformazione è un atto che ci costringe a tornare di fronte allo specchio, a riconoscerci; in questo senso non pensiamo certo a un’innovazione in termini di novità di linguaggio, intendiamo per innovazione un procedimento artistico che rinnova quell’impulso a riflettere dell’uomo: l’opera d’arte è intesa qui come un’apertura dentro se stessi.

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Matija Skurjeni, Gipsy St George’s Day, 1960, olio su tela, 70 x 90 cm (Matija Skurjeni Museum, Zaprešić, Croazia)

Matija Skurjeni alla Maison Picassiette, Chartres, 1962

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Matija Skurjeni: Miner of Dreams. Between Dreams and Waking, between the Naïve and Surrealism Ante Žaja* 1. Matija Skurjeni was a very prolific painter and a remarkably imaginative naïve¹ artist, although he devoted himself “in any serious way” to painting only after he took his pension in 1956.² From his first collective shows his unique style and motifs were noticed and appreciated by the reviewers³ and by the general public. In the local setting he was “helped” by association with the Gallery of Primitive Art in Zagreb (a pioneering and unique institution of its kind in world terms) that with its contacts enabled self taught artists (Generalić, Rabuzin and Lacković) to have their first collective exhibitions in the Western Europe of that time.⁴

Matija Skurjeni, Third World War, 1969, olio su tela, 94 x 138 cm (Matija Skurjeni Museum), particolare

Matija Skurjeni was born in 1898 in Veternica, by Zlatar, in the Hrvatsko Zagorje region (Republic of Croatia), the seventh child in the family. His father died when he was still very young. Poverty prevented him from going to school and he minded the animals instead. He learned to read and write from his older brothers and continued later on during military service. His first attempts at painting were wall paintings done in a village tavern. He was mobilised and took part in World War I in Galicia, on the eastern front, and then in the Tyrol, where he was wounded. These traumatic and chaotic events left a mark on him that lasted the whole of his life.⁵

After demobilisation he did hard physical labour as a miner (mines, as well as trains, were some of his favourite and most frequent motifs). He learned the trade of house painting and got employed painting the interiors of railway coaches. His restless spirit led him to move often and change jobs. He got employed in the railways, and there he did an art course in a railwaymen’s cultural and art association. He took part in their first collective shows in the 1940s. In 1958 he had his first one-man exhibition in the Gallery of Primitive Art in Zagreb (today called the Croatian Museum of Naïve Art). Then came individual exhibitions in the big cities of Europe. In 1960 he showed in Rome, the La Nuova Pesa Gallery (together with Ivan Generalić and M. Virius); in 1962 in the Mona Lisa Gallery in Paris; in 1963 in Cologne (Zwirner Gallery); in 1968, in Zurich, at Bruno Bischofberger’s Galerie für Naive Kunst. He joined in collective shows with other naïve or primitive artists in Belgrade, Bologna, Munich, Prague, Sao Paolo, London, Basel Edinburgh, Vienna, Venice, New York, Salzburg, Milan, Amsterdam, Laval and elsewhere all around the world.6 He was featured in the important 1970 exhibition in Stockholm (Surrealism?). He won a number of prizes for painting: 1st Prize for painting at the 4th Internationale Kunstausstellung der Eisenbahner in Munich, and a prize at the Zagreb Salon in 1974. That same year, however, he fell seriously ill, which resulted in his right arm becoming incapable of using the brush and his giving up painting altogether. In 1984 he donated numerous paintings, drawings and prints for the foundation of the Skurjeni Museum in Zaprešić (15 km distant from the capital of the Republic of Croatia, Zagreb). He died in 1990. 2. His meteoric international career started when the distinguished poet, playwright and LIMAX - MAG. 2017 #1

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secretary of the Surrealist movement Radovan Ivšić saw Skurjeni’s work and published an article about him with reproductions in the Parisian Surrealist magazine La Brèche in 1962.⁷ The surrealists of the André Bret-

Matija Skurjeni, Nude, 1973, olio su tela, 65 x 85 cm (donazione di Milka Kobeščak al Matija Skurjeni Museum), particolare

on group “were enthralled”⁸ and his first Parisian show was produced, to unheard of approbation. “The father of Surrealism” then wrote in the visitors’ book the celebrated remark “la peinture enchantée”.9 The catalogue preface was written by Radovan Ivšić (Avanture) and another member of the movement, José Pierre wrote a critical review (“Skurjeni or state of grace”), published in the celebrated journal Combat-Art, no 95 of December 3, 1962. Skurjeni’s paintings were eagerly sought by French collectors (the greatest number of his works are still in France). A year later, a friend of the Surrealist painter Konrad Klapheck, Rudolf Zwirner, organised a one-man show in Cologne and thus got German collectors, too, interested in Matija’s work.10 The whole of this international success, the informal membership in and friendships with some of the major artists of the Surrealist movement led to his pictures being included in the Surrealism? exhibition in 1970 in the Moderna Museet in Stockholm (created by Ragnar Von Holten and José Pierre). 3. Matija Skurjeni worked in that turbulent time after the terrible experience of destruction and violence of World War II, during the Cold War division of Europe into two parts. It was a time of great poverty and fear, in which the former Yugoslavia had an ambiguous position in the divided continent. After his 20

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lost youth and his wounding in World War I, the leaden period decided him on a genuine pacifism (Dove of Peace, 1959; Evil Angel of War, 1959) and “a search for the light of dreams”.¹¹ In those fraught times, filled with all shades of grey, he turned to light, nature and the roughness of waking drove him to the totally subconscious, the dreamy and the oneiric. In order for the impression of light in the paintings to be unrealistically strong, he inventively elaborated a special technique of Divisionism, his own “needle Impressionism”.¹² 4. The Matija Skurjeni Museum is housed in the historical complex, important for its architecture and cultural associations, of Novi Dvori, once owned by the celebrated Croatian Ban (governor) Josip Jelačić. The building of the museum is listed in the highest category of immovable cultural properties. It was originally built at the end of the 18th century and has an exterior that is unusual for its yellow ochre facade. The then dilapidated four-storey building was authentically restored in 1987 to house the Matija Skurjeni Donation. The museum has some 400 objects, and it collects and documents all the available and relevant artistic, archival and biographical material about the life and work of Matija Skurjeni from public (museum) and private collections at home and abroad. * Director, Matija Skurjeni Museum 1 “It is an important fact that the life’s work of a naïve painter does not show development. He is born completely finished” (J. W. Sandberg). 2 “In 1953 Matija Skurjeni arrived in Zaprešić, where he bought a house and settled down for good. (...) His winter studio was in the kitchen, the wood shed in the course of time becoming his summer studio”. Mario Lenković, San i java; fantastični svijet Matije Skurjenija, Zaprešić, 2010. 3 “In his paintings, metaphorical scenes started to prevail: there were often ruins of old castles, secret passages, labyrinths, viaducts, little railroads, mystical caverns, various wild animals, terrifying reptiles, fish and insects”. Vladimir Crnković, Studije i eseji, recenzije i zapisi, interpretacije, Zagreb, CMNA and Association of Art Historians of Croatia, 2002. 4 “The three of them don’t learn. They haven’t. They don’t run. Towards a goal. For they don’t have one. A goal. The three of them. Like a bird sings. Painting without a goal. For they don’t have one... The grass? Grass too has no goal. For their painting begun is ready art. They are already at the goal”. I. Mangelos “About Generalić as grass, about Virius, about Skurjeni, as birds”. Preface to exhibition catalogue, Generalić, Virius, Skurjeni, Rome, Galleria La Nuova Pesa, 1960. 5 “The painter knows the ugly face of hatred and murder in uniform that brings man down to the level of dog”. José Pierrre, “Skurjeni or a state of grace”, Combat-Art, no. 95, December 3, 1962. 6 All told, Skurjeni had 19 solo and 136 collective exhibitions. 7 Radovan Ivšić wrote: “Skurjeni’s paintings were featured in the same issue of the journal as works of the painter Toyen, Konrad Klapheck, René Magritte and Mimi Parent”, My great friend Skurjeni, Miner of Dreams, CMNA, 2007. 8 Radovan Ivšić wrote: “Breton and other friends – including the critic José Pierre and the Surrealist painters Toyen, Jean Benoit and Mimi Parent – were enraptured”. Ibidem. 9 Radovan Ivšić wrote: “The gallery was soon packed, and among the first was André Breton. When he looked around the show he was so pleased that in the visitors’ book he wrote in his characteristic handwriting ‘a big welcome to Skurjeni: enchanted painting. André Breton’”. Ibidem. 10 Museum Charlotte Zander in Bonnigheim near Stuttgart has some classic paintings of Matija Skurjeni. Mrs Zander regularly came to Zaprešić and managed to buy some of the paintings that Skurjeni was loath to part with (Evil Angel of War, 1959; The Boy who Loves Pigeons, 1960). 11 Radovan Ivšić wrote: “Matija Skurjeni was one of the few who went in search of the light of the dream, to open our eyes”. My great friend Skurjeni, Miner of Dreams, CMNA, 2007. 12 The term “Needle” – like Impressionism was coined by Vladimir Maleković, in Skurjeni (SN Liber, Zagreb, 1982).


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Matija Skurjeni, I dreamed of waking naked in front of Meštrović’s studio, 1974, olio su tela, 95 x 137 cm (Matija Skurjeni Museum), particolare

Ante Žaja, direttore del Matija Skurjeni Museum, illustra l’opera dell’artista, Third World War, 1969, olio su tela, 94 x 138 cm LIMAX - MAG. 2017 #1

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Linda Kaiser presenta il video di Bibesco, Assonance, 2017 (00:17:00), proiettato in anteprima mondiale in occasione della personale “Bibesco. Il gioco si fa serio�, 11 febbraio 2017, Ex chiesa di S. Maria Gualtieri, Pavia

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Camera - riprese in diretta 11.02.2017 – Bibesco. Il gioco si fa serio Ex chiesa di S. Maria Gualtieri – Piazza della Vittoria, Pavia – 11 febbraio 2017 L’opera “Unaffected”, la grande tela a tecnica mista di 6 x 2 m, di Francesco Maria Bibesco è il background della proiezione del filmato realizzato dall’artista: “Assonance”, 2017 (00:17:00). Si tratta di “immagini del tempo” autobiografiche, relative a incontri, corrispondenze, passaggi, giochi che diventano tragedia. In occasione della giornata-evento, Bibesco ha realizzato un’opera a tiratura limitata con un intervento a mano (stampa a colori su carta avorio usomano da 90 gr, 70 copie numerate da 1 a 70, più altre 10 copie in numeri romani e 10 copie con dedica), che viene presentata al fine di raccogliere fondi per l’Associazione Onlus Amici di Teo, nata a Stradella (PV) con l’obiettivo di costruire una residenza per persone autistiche.

Alessio e Caterina Menesini con Francesco Maria Bibesco davanti all’opera dell’artista Unaffected, 2017, tecnica mista su tela, 6 x 2 m, esposta l’11 febbraio 2017, Ex chiesa di S. Maria Gualtieri, Pavia LIMAX - MAG. 2017 #1

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Da sinistra: Simona Olivieri, Alessio Menesini, Giorgio Bedoni, Daria Moldovan, Stefano Codega e Linda Kaiser al vernissage della personale “Stefano Codega. Lo sguardo e l’incanto”, 2 marzo 2017, Genova, M&M Gallery

Stefano Codega con due delle sue opere più recenti esposte a Genova, M&M Gallery - © LK

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02.03.2017 – Stefano Codega. Lo sguardo e l’incanto M&M Gallery – Via Lorenzo Perosi 13/c, Genova – 2-15 marzo 2017 È questa la prima personale di Stefano Codega, un artista autodidatta, che rappresenta nella sua opera la semplicità e l’immediatezza della realtà che lo circonda. Il suo lavoro, particolarmente interessante, è caratterizzato dalla ripetizione seriale di figure iconiche, come le ragazze bionde, il mare toscano, il castello di Melegnano e i santi guerrieri: ogni soggetto è sempre diverso e le sue variazioni sono dettate da un’emozione spontanea e poetica. La mostra è curata da Giorgio Bedoni e Simona Olivieri, in collaborazione con l’Atelier Diblu dell’ASST di Melegnano e della Martesana (Milano).

Stefano Codega con la sua opera La ragazza, 2016, pastello a olio su tela, 45 x 35 cm, esposta a Genova, M&M Gallery - © LK LIMAX - MAG. 2017 #1

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Vernissage della mostra “Viaggiatori francesi: labirinti dell’immaginario”, 16 marzo 2017, Genova, M&M Gallery

Evelyne Postic, Les pointes serrés, 2016, inchiostro di china su carta, 65 x 50 cm

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Izabella Ortiz, Série Water Memories, 2016, tecnica mista su carta, 75 x 50 cm (Genova, Collezione Privata)


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16.03.2017 – Viaggiatori francesi: labirinti dell’immaginario. David Abisror, Philippe Azema, Jean-Pierre Nadau, Izabella Ortiz ed Evelyne Postic M&M Gallery – Via Lorenzo Perosi 13/c, Genova 16 marzo-17 maggio 2017 La mostra collettiva dei cinque artisti francesi – di cui tre per la prima volta esposti in Italia – è realizzata in collaborazione con la Galerie Polysémie di Marsiglia e viene introdotta da Linda Kaiser. David Abisror (Parigi, 1957), autodidatta, crea a matita labirinti di segni e di silhouette buddiste con un’energia e uno stile unico, traendo ispirazione dai suoi viaggi in India e Tibet. Philippe Azema (Francia, 1956) vive nella campagna meridionale francese e, servendosi di bastoncini e pennelli, crea mitologie arcaiche accompagnate da parole e poesie, immagini dal sapore preistorico, gremite di figure sognanti e grottesche. Jean-Pierre Nadau (Melun, 1963) vive sulle Alpi francesi e sviluppa labirinti, da quando ha iniziato a dipingere con la china, che si sono espansi da un foglio A4 a tele lunghe quasi 12 metri. Una delle sue opere fa parte della collezione del Museum of Folk Art di New York. Izabella Ortiz (L’Hay-les-Roses, 1964), di origine australo-franco-colombiana, ha vissuto in Australia e Alaska. Nelle sue opere segue una scrittura automatica frenetica e fluida, dove le immagini sinusoidali dei suoi sogni sono impregnate di miti, racconti e leggende Inuit e Indiani. Evelyne Postic (nata Mazaloubaud, Lione,1951), per sfuggire alle problematiche della propria vita, inventa un mondo parallelo e dipinge soggetti caratterizzati da forme umane, animali e vegetali, rappresentate graficamente e con linee flessuose.

Linda Kaiser, Alessio Menesini, Daria Moldovan e François Vertadier al vernissage della mostra “Viaggiatori francesi: labirinti dell’immaginario”, 16 marzo 2017, Genova, M&M Gallery LIMAX - MAG. 2017 #1

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Vernissage della mostra “Les labyrinthes de l’imaginaire. Les outsiders italiens aujourd’hui”, 6 aprile 2017, Galerie Polysémie, Marsiglia - © LK

Daria Moldovan, Teodora Redemagni, Linda Kaiser, Umberto Gervasi, Francesco Maria Bibesco, Simona Olivieri, Giorgio Bedoni e Alessandro Pratelli

La sede della Galerie Polysémie, Marsiglia

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06.04.2017 – Les labyrinthes de l’imaginaire. Les outsiders italiens aujourd’hui. Stefano Codega, Davide Cicolani, Andrea Bolzoni, Germana Dragna, Umberto Gervasi, Giovanni Galli, Kikko, Fabio Negri, Maurizio Zappon Galerie Polysémie – 12 Rue de la Cathédrale, Marseille, Francia 6 aprile-20 maggio 2017 La mostra collettiva dei nove artisti italiani è realizzata in collaborazione con la M&M Gallery di Genova, l’Atelier Diblu dell’ASST di Melegnano e della Martesana (Milano) condotto da Giorgio Bedoni, l’Osservatorio Outsider Art di Palermo diretto da Eva Di Stefano. Stefano Codega (Milano, 1987) è un artista autodidatta, che ama rappresentare poeticamente santi guerrieri e ragazze-bambine, iconiche e sospese in un mondo che pare senza tempo. Davide Cicolani (Roma, 1978) trascorre un’infanzia difficile e durante lunghi periodi di ricovero in ospedale inizia a disegnare. Nel 2006, licenziato dal lavoro, lascia l’Italia per stabilirsi a Parigi. Sovrappone forti segni labirintici a china su mappe François Vertadier, direttore e pagine di vecchi registri, quasi a raccontare la della Galerie Polysémie, Marsiglia - © LK storia di percorsi abbandonati. Andrea Bolzoni (Vizzolo Predabissi / Milano, 1971) esplora, tra l’altro, volti e figure femminili, dando forma a un universo personale caratterizzato da segni e gesti intensi. Germana Dragna (Palermo, 1954) lavora la carta secondo un processo automatico, in cui le macchie di inchiostro prodotte da una penna d’oca danno vita a visioni e mondi fantastici. Umberto Gervasi (Catania, 1939) è un artista autodidatta tra i maggiori outsider italiani, il cui realismo visionario, pieno di vita e ricco di colore e di figure sorprendenti, è legato a riti e miti di una Sicilia arcaica. Giovanni Galli (Firenze, 1954) vive dal 1993 in una casa di cura e partecipa alla studio creativo de “La Tinaia”. In quest’ambito scopre il disegno, attraverso il quale mette in scena donne, aerei e personaggi dei cartoni animati, simboli della sua sessualità. Francesco “Kikko” Giannuzzi (Biella, 1967) trascorre l’infanzia tra Livorno, Venezia e l’isola d’Elba. Incomincia a praticare la pittura da autodidatta nel 1989 a Milano, poi si trasferisce a Parigi, dove lavora e dipinge. Dopo un periodo “on the road”, va a vivere all’Isola d’Elba, dove Andrea, Anna, e suo fratello Gigi, anch’essi artisti, diventano i riferimenti della sua pittura. Fabio Negri (Milano, 1956) costruisce negli anni una solida espressività, che si manifesta nel suo mondo pittorico e poetico, popolato da figure anonime, di strada e personaggi celebri. Maurizio “Zap” Zappon (Melegnano / Milano, 1962) lavora nell’Atelier Diblu dell’ASST di Melegnano e della Martesana (Milano). Costruttore di mondi visionari sospesi tra magia e scienza, è caratterizzato da una linea sintetica – come i profili di vulcani –, che lo ha portato a creare un repertorio iconografico vitale ed enciclopedico. LIMAX - MAG. 2017 #1

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Maria Luisa Conserva durante la sua performance live al Micro Museo Monza, mentre disegna con il gesso e con il pennarello migliaia di omini intrecciati in un’orgia mortale - Š PV

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13.04.2017 – Maria Luisa Conserva. Il y a de l’Un… Il y a de l’autre Mimumo, Micro Museo Monza, Casa della luna rossa – Via Lambro 1, Monza 13-26 aprile 2017 “Un rito di passaggio è un rituale che segna il cambiamento di un individuo da uno status socio-culturale a un altro oppure concerne un mutamento nel corso del ciclo della vita; al Mimumo si è verificato il secondo caso. Ho disegnato omini intrecciati in questa orgia mortale per anni e ora finalmente mi è stata data la possibilità di realizzarli su un muro nero con il gesso e di riempire tutta una stanza”. Sono questi gli ultimi omini della Terra. Questa stanza è la loro bara e questa performance il loro funerale.

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Mauro Marcenaro nel suo atelier in piazza della Maddalena, nel centro storico di Genova

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17.04.2017 – Mauro Marcenaro. Incontro con l’artista Atelier Mauro Marcenaro – Piazza della Maddalena 9, Genova (…) “più ci si approssima al tuo lavoro più ci si avvicina a te?” “Per rispondere, una metafora della meccanica quantistica: una moneta cade nell’imbottitura di una poltrona, per recuperare la moneta l’unico modo è inserire due dita nella fessura, lo squarcio si allarga e la moneta si allontana. Chi osserva un’installazione, un quadro, un lavoro, può conoscere l’artista attraverso quell’opera in quell’esatto momento in cui il lavoro è stato firmato, ma non può pretendere di entrare in contatto con l’artista che come la monetina è già altrove. Cosi l’artista ha bisogno di un amore incondizionato anche quando non appone la data su se stesso… ma tu sai che tutto è immaginazione”. (11 novembre 2015, da un’intervista con Ivano Sossella)

Caterina Menesini e Mauro Marcenaro nell’atelier dell’artista LIMAX - MAG. 2017 #1

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Kuffjca Cozma, Si sunt fericita / si sunt foarte sunete (E sono molto felice / e ci sono forti suoni), 2016, pennarello su carta, 29,7 x 21 cm (Genova, Collezione privata)

Kuffjca Cozma, Cred ca ofacem impreuna si / nimeni nu o sa poate afla (E penso che potremmo farlo insieme / e nessuno può saperlo), 2016, carboncino colorato su carta, 29,7 x 21 cm (Genova, Collezione privata)

Kuffjca Cozma, Si nimeni / nu are tot ce / crede // si toti avem (E nessuno / ha tutto quello che / crede / e tutti abbiamo), 2016, pennarello su carta, 29,7 x 21 cm (Genova, Collezione privata)

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20.04.2017 – Kuffjca Cozma. Incontro con l’artista Aeroporto di Chișinău, Moldavia Kuffjca Cozma non vorrebbe neppure scendere dall’auto dell’amico che l’ha accompagnata in aeroporto. In realtà non crede che qualcuno abbia davvero compiuto un viaggio così lungo per lei. E poi non è abituata a luoghi così affollati, a spazi così grandi, dove la gente va e viene. Non ama mostrarsi, vive sola nella sua stanza, dove non vede quasi nessuno. Così, adesso, ha comunque apprestato delle difese per l’incontro con qualcosa di ignoto, temuto e forse sognato allo stesso tempo. Kuffjca indossa un velo, che le copre in buona parte il viso, cela il più possibile la sua identità, forse si vergogna dei segni dell’incidente che ha subito da giovane. Ma le sue mani sono scoperte e quelle mani parlano per lei. Kuffjca stringe un album da disegno tra le dita, che sono un po’ gonfie, un po’ timide anche loro e sembrano ritrarsi. Poi alza il blocco di fogli spiegazzati e la sua opera appare. È come fosse il suo ritratto: quello che va a sostituirsi al viso che non si lascia riprendere. E il suo gesto non è certo un muro, né una barriera. I segni vorticosi a penna che corrono sulla superficie e scavano il materiale cartaceo parlano di un girasole e di affetti famigliari, forse di un dolce risveglio o di un passaggio a un’altra dimensione.

Kuffjca Cozma, all’aeroporto di Chișinău, Moldavia, mentre mostra il suo album di disegni, con l’opera in primo piano Si am trait / si cu floarea soarelui / si bunica si mama // si cu drag am fost / la pamant (E ho vissuto / e con il girasole / e nonna e mamma // e volentieri sono andata / a terra), s.d., penna su carta, 17 x 24 cm LIMAX - MAG. 2017 #1

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Due inchiostri di Matija Skurjeni nel museo a lui dedicato a Zaprešić, Croazia

Ante Žaja, direttore del Matija Skurjeni Museum, nella sala con le ultime opere dell’artista; in primo piano, Nude (opera incompiuta), 1975, olio su tela, 140 x 78 cm

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21.04.2017 – Matija Skurjeni Museum. Incontro con il direttore Muzej Matija Skurjeni – Novi Dvori bb, 10290, Zaprešić (Regione di Zagabria), Croazia Ante Žaja, nato nel 1966 a Sinj (Croazia), si è laureato in Pittura all’Accademia di Belle Arti dell’Università di Zagabria nel 1994. È membro dell’Associazione croata degli artisti (HDLU) di Zagabria e dell’Associazione degli artisti croati freelance. Ha vissuto e lavorato a Praga e a Londra. Ha esposto sinora in tredici mostre indipendenti in Croazia e all’estero e ha partecipato a diverse collettive. Le sue opere sono presenti in molte collezioni pubbliche, di arte sacra e private. Il suo lavoro di artista è stato oggetto di interesse dei più importanti critici d’arte croati e degli storici dell’arte. Nel 2015 è stato nominato direttore del Museo Matija Skurjeni a Zaprešić.

Daria Moldovan e il direttore, Ante Zaja, davanti al Matija Skurjeni Museum a Zaprešić, aprile 2017

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08.05.2017 – Istituto per le Materie e le Forme Inconsapevoli. Incontro con il direttore I.M.F.I. - Istituto per le Materie e le Forme Inconsapevoli Via Giovanni Maggio 4, Genova-Quarto Gian Franco Vendemiati (Ramiseto / Reggio Emilia, 1943) è il presidente dell’Istituto per le Materie e le Forme Inconsapevoli, un’Associazione di Volontariato onlus nata nel 1988, in stato di convenzione con la A.S.L. 3 di Genova per le attività di arteterapia dal 1989. Compito istituzionale dell’I.M.F.I., spiega Vendemiati durante la visita all’atelier, alle sale espositive e ai laboratori, è la promozione, la divulgazione e la ricerca delle creatività espressive (pittura, disegno, scultura, scrittura, teatro, musica, audiovisivi, ecc.), attraverso l’incontro tra tecniche e culture diverse. Queste attività favoriscono le reciproche conoscenze, da cui derivano ulteriori scambi e arricchimenti per una migliore integrazione sociale delle diversità esistenti. Dal 1992 l’I.M.F.I. ha istituito il Museattivo delle Forme Inconsapevoli presso l’ex ospedale psichiatrico di Quarto, in cui sono raccolte centinaia di opere provenienti da diversi atelier di attività espressive e da artisti professionisti italiani e stranieri che hanno voluto offrire sostegno all’iniziativa. Gian Franco Vendemiati, presidente dell’Istituto per le Materie e le Forme Inconsapevoli, presso l’ex ospedale psichiatrico di Genova-Quarto - © LK

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Judith Scott, opere in fibra e oggetti di recupero, esposte alla 57. Esposizione Internazionale d’Arte La Biennale di Venezia, “Viva Arte Viva”, vernissage, maggio 2017, Arsenale - © LK

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11.05.2017 – Viva Arte Viva. Judith Scott e Dan Miller all’Arsenale di Venezia 57. Esposizione Internazionale d’Arte, La Biennale di Venezia, Viva Arte Viva Giardini e Arsenale, Venezia – 13 maggio-26 novembre 2017 La curatrice della Biennale di Venezia di quest’anno, Christine Macel, ha concepito la mostra “Viva Arte Viva” come un percorso sviluppato attraverso “nove capitoli o famiglie di artisti”. Tra i sette universi che si snodano dall’Arsenale fino al Giardino delle Vergini c’è il Padiglione dei Colori. È questo una sorta di “fuoco d’artificio” straniante, di cui fanno parte anche due artisti americani outsider molto interessanti, accomunati dall’esperienza all’interno del laboratorio collettivo del Judith Scott, allestimento delle opere esposte Creative Growth Art Center di Oakland alla 57. Biennale di Venezia, maggio 2017, Arsenale - © LK (California), destinato alle persone disabili. La struttura venne ideata all’inizio degli anni ’70 dall’artista-terapeuta Florence Ludins-Katz e dallo psicologo Elias Katz come alternativa all’internamento sistematico delle persone con problemi mentali. Judith Scott (Cincinnati / Ohio, 1943 - Dutch Flat / California, 2005), affetta da sindrome di Down, frequenta il laboratorio a partire dal 1987 e l’anno dopo scopre l’arte tessile. La sua attenzione va al colore, sia nel disegno che, successivamente, nelle sue sculture, composte da stratificazioni di materiali diversi, come fili, fibre di tessuto, pezzi di plastica e altro, che celano sempre di più l’oggetto di partenza. Qui una ventina di opere dell’artista poggiano su piedistalli o sono appese al soffitto: si possono vedere girandovi attorno in un contesto di luce, che emerge da una leggera penombra e contribuisce a renderle un insieme a sé stante, una sorta di grande installazione. Dan Miller (Castro Valley / California, 1961), invece, soffre di autismo e di crisi epilettiche sin dall’infanzia ed entra nel Creative Growth Art Center nel 1988. La sua impossibilità di comunicazione verbale trova nel disegno un potente mezzo di espressione. Le sue opere su carta brulicano letteralmente di immagini, parole evocative del suo mondo interiore e famigliare, nomi di persone care e numeri, che si sovrappongono fino a rendere la scrittura illeggibile. La sua tecnica e l’uso del colore lo possono avvicinare al filone dell’arte americana rappre- Dan Miller, opere in acrilico e china su carta, sentato da Pollock e Twombly. Dan Miller può esposte alla 57. Biennale di Venezia, anche vantare di essere entrato, tra i primi armaggio 2017, Arsenale - © LK tisti di Art Brut, nelle collezioni del Museum of Modern Art di New York. In mostra sono visibili alcune grandi opere, che sembrano dialogare, sul lato opposto del contenitore architettonico, proprio con quelle di Judith Scott. LIMAX - MAG. 2017 #1

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Serie di tre opere di Rocco Borella, S. Daniele del Carso, 1940, incisione su carta, diversi formati Sopra: 14,5 x 9,5 cm; sotto: 13,8 x 11 cm; a fianco: 14,5 x 10,5 cm

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Primo piano - inquadrature particolari Tre opere inedite di Rocco Borella Genova, Collezione Marco Falcidieno Tre piccole opere, tre paesaggi in formato “cartolina” firmati dall’artista, testimoniano l’attività giovanile di Rocco Borella (Genova, 19201994). La data in calce a tutte e tre riporta l’anno 1940 e, in due casi, anche la precisazione del mese e del giorno: 6-10 (6 ottobre). Borella il 22 febbraio aveva compiuto 20 anni e si deduce che si trovasse, come indicato accanto alle due date precise, a San Daniele del Carso – ribattezzato Štanjel dopo l’annessione alla Jugoslavia e, dal 1991, nel territorio dell’attuale Štanjel (S. Daniele del Carso), oggi in Slovenia Slovenia. Il giovane, a quell’epoca, era uscito dal collegio dei Padri Benedettini del convento di San Giuliano al Boschetto – alle pendici del colle di Coronata, nel ponente genovese –, al quale era stato affidato dalla madre Maria, rimasta vedova nel 1922 con sei figli. Per proseguire gli studi, nel 1938 Borella si era iscritto ai corsi serali dell’Accademia di Belle Arti, che frequentava dopo il lavoro. L’attività di tracciatore-modellista presso lo stabilimento Ansaldo di Genova-Cornigliano lo impegnava quotidianamente per otto ore. Nel 1939, con l’inizio della seconda guerra mondiale, Borella viene arruolato nel corpo dei bersaglieri e inviato sul fronte greco-albanese. In seguito alla ferita che riporta al collo nel 1940, il giovane viene sottoposto a due interventi chirurgici presso l’Ospedale Militare del Celio a Roma e viene congedato nel 1941. Al periodo, dunque, trascorso sotto le armi si riferiscono le tre opere in oggetto, realizzate probabilmente dal vivo nel villaggio fortificato sin dall’antichità e abbarbicato in posizione strategica su un colle del Carso occidentale. Nelle tre incisioni su carta in diversi formati – tutte contrassegnate, in basso a sinistra, come P.A., cioè prove d’artista –, Borella rappresenta forse un suo momento intimista, restituendo il genius loci e il particolare tempo “sospeso” nella Storia. Del luogo di confine, che verrà anche attaccato e incendiato, cogliamo la bellezza delle costruzioni a schiera, delle strutture romaniche e gotiche, del castello medievale e della chiesa di San Daniele, che si taglia con il suo caratteristico campanile seicentesco. Le immagini appaiono come appunti veloci, con tratti decisi, alberi, steccati e, in un caso, persino la luna, come se l’artista, quella notte, non riuscisse a dormire. Nella collezione genovese le tre opere giungono come un regalo da parte di un cugino, amico di Borella, dell’attuale proprietario. LIMAX - MAG. 2017 #1

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Hanno collaborato a questo numero Giorgio Bedoni Maria Luisa Conserva Marcello Francolini Linda Kaiser Ante Žaja Si ringrazia in particolare Rosanna Caprile Marco Falcidieno Mario Kaiser Francesca Pontini Si ringrazia Österreichische Galerie Belvedere, Wien Fondazione Musei Civici, Venezia Matija Skurjeni Museum, Zagabria Istituto per le Materie e le Forme Inconsapevoli, Genova Referenze fotografiche Linda Kaiser, Genova Paolo Varenna, Monza

Edizioni L I M A X Finito di stampare in Italia Maggio 2017 #1



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