Utenti, Interazioni, Design

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Dario Martini

Utenti, Interazioni, Design



DICHIARAZIONE DI ORIGINALITÀ

Ho consegnato questo documento per l’appello d’esame del 14 gennaio 2010 del corso Interaction Design Theory (Teorie dell’interazione) tenuto da Gillian Crampton Smith con Philip Tabor alla Facoltà di Design e Arti, Università Iuav di Venezia. Per tutte le sequenze di parole che ho copiato da altre fonti, ho: a) riprodotte in corsivo, inoltre b) messo virgolette di citazione al loro inizio e fine, inoltre c) indicato, per ogni sequenza, il numero della pagina o lo URL del sito web della fonte originale. Per tutte le immagini che ho copiato da altre fonti, ho indicato: a) l’autore e/o proprietario, inoltre b) il numero della pagina o lo URL del sito web della fonte originale. Dichiaro che tutte le altre sequenze e immagini di questo documento sono state scritte o create esclusivamente da me. Dario Martini 11 gennaio 2010

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in copertina: Maurits Cornelis Escher, Drawing hands, 1948


Dario Martini

Utenti, Interazioni, Design

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INDICE

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dichiarazione di originalità

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indice

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capitolo 01: introduzione

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capitolo 02: uomini e utenti

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brainstorm interaction design loves and hates

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hunt for affordances

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design three personas

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capitolo 03: interazioni

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capitolo 04: strategie

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design a metaphor for your money

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brainstorm a metaphor

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le leggi del semplice e del complesso

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capitolo 05: conclusioni

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elenco delle fonti

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citazioni

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immagini

cos’è l’interaction design?

experiment with a design method

la lezione dell’interaction design

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Cos‘è l‘interaction design? Assistiamo, ormai da alcuni anni, ad una diffusione sempre più massiccia di dispositivi tecnologici dotati di hardware e software sempre più sofisticati. Strumenti e funzioni che un tempo non erano nemmeno pensabili, o che al massimo costituivano l’appannaggio di cerchie ristrette di volenterosi sperimentatori, o di limitate categorie professionali, sono oggigiorno alla portata di un vastissimo bacino d’utenza, per lo più priva di qualsiasi istruzione pregressa in materia. Questa intrinseca novità del mercato per cui si va a progettare ne costituisce una continua messa alla prova. Non a caso, la storia dell’alta tecnologia è un continuo susseguirsi di inattesi successi e clamorosi flop, le cui cause sono il più delle volte estremamente complesse da individuare, talvolta apparentemente estranee a qualsiasi logica razionale.

CAPITOLO 01: INTRODUZIONE

legge di Moore

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Si potrebbe dire che manca di frequente, negli utenti, la capacità di rispondere in modo positivo ai nuovi prodotti con lo stesso ritmo col quale essi si evolvono. L’utente, tuttavia, esiste da decenni, da secoli, dagli albori dell’umanità. L’utente può sbagliare ma può anche imparare. Quel che è nuovo è l’implementazione tecnologica, il prodotto, ed è quindi il prodotto a dover essere messo in discussione, rivisto, ridefinito, per la sua capacità di corrispondere o meno ai bisogni, alle aspettative, alle necessità e ai desideri delle persone. Non dev’essere il prodotto a mettere alla prova l’utente, ma viceversa, dev’essere l’utente a determinare lo sviluppo di prodotti corrispondenti alle sue specificità, al suo modo di essere, al suo mondo.

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CAPITOLO 01: INTRODUZIONE

nuove soluzioni o nuovi problemi?

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Questo concetto, che si direbbe scontato se non addirittura banale in un contesto di progettazione di artefatti industriali, si rivela non di rado ben più difficile da cogliere e collocare nello scenario dell’information e communication technology, che, agli occhi dei più, appare sovente come luogo di nascita e sostituzione continua di “diavolerie” sempre più perfidamente complesse, sempre più potenti, e ciò nonostante, sempre più lontane dalla dimensione d’uso più comune e familiare. Sembra talvolta che sia la tecnologia a costituire il target dell’utente, e non più viceversa. E la situazione non può certo risolversi fintantoché manca nello stesso utente una cosciente presa di posizione della sua centralità. Ma cos’è che contraddistingue in questo modo i prodotti ed i servizi informatici da sedie, lampade, divani? E dove nasce questa complessità, così spiccatamente problematica? La risposta a tale quesito sta essenzialmente proprio nel termine “interazione”. I dispositivi di ultima generazione, personal computer, cellulari, palmari, ma anche navigatori satellitari o macchine fotografiche, sono fondamentalmente strumenti di interazione, che consentono lo sviluppo di interazioni nuove tra le persone, tra le persone e le cose, tra le persone ed i luoghi, richiedendo nuove modalità di interazione, al contempo, tra gli individui ed i dispositivi, che sono sempre meno gli artefici passivi di una ben definita funzione, e sempre più entità attive, plurifunzionali, adattabili, intelligenti.

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Lo sviluppo di questa intelligenza non è tuttavia automatico, né dovuto. E soprattutto, non è scindibile dal suo interlocutore essenziale, l’utente.


La disciplina che si occupa di studiare l’utente, il dispositivo, l’interfaccia che si va a creare tra i due soggetti, e la reciproca dialettica, per delineare criteri e di conseguenza progetti capaci di sfruttarla al meglio, è detta quindi “interaction design”.

CAPITOLO 01: INTRODUZIONE

Essa costituisce non soltanto la chiave del successo dei prodotti e della soddisfazione degli utenti, bensì anche uno strumento di profonda analisi della civiltà contemporanea e della sua cultura materiale, ed una disciplina-guida per tutte le forme di progettualità, che da sempre, intenzionalmente o meno, si sono occupate di interfacce e interazioni, e che oggi hanno - anche in vista del futuro - l’obbligo e la necessità di farne gli elementi-cardine di ogni processo di analisi e costruzione.

interazione uomo-sistema

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Uomini e utenti

CAPITOLO 02: UOMINI E UTENTI

La storia delle scoperte scientifiche e tecnologiche che ci hanno consentito, in pochi decenni, di imparare a domare i fenomeni elettrici, fino a gestirli su basi logiche sempre più sofisticate, e fin poi a renderli le dinamiche fondanti di autentiche forme di intelligenza artificiale, è nata e si è sviluppata nel mondo occidentale, la cui mentalità scientifica risente tuttora, in larga parte, della bipartizione cartesiana delle cose del mondo tra soggetti, dotati di un’autonomia di pensiero e d’iniziativa, ed oggetti, privi di coscienza di sé, e in costante relazione con questi ultimi. Parallelamente alla realizzazione di artefatti via via più complessi, ed in particolare in seguito alla Rivoluzione Industriale, a questo dualismo si è andata ad aggiungere la contrapposizione tra la natura, nobile ed autentica, e l’artificio, prodotto materiale della tecnica, e quindi privo di valori emozionali propri, freddo e riproducibile in serie.

COG robot, Rodney Brooks, MIT

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Sebbene si tratti di una visione palesemente deficitaria, oggigiorno inequivocabilmente rozza, incapace quindi di contribuire ad esprimere un giudizio significativo sul mondo contemporaneo, essa condiziona profondamente il senso comune, anche odierno, e come tale va presa in considerazione nell’analisi del rapido processo ha portato ben presto l’uomo pre-industriale a diventare un “consumatore” ed un “utente”, processo che ben presto ha ingenerato aspre critiche, spaccando l’opinione pubblica e plasmando le visioni sociali e politiche che nello scorso secolo hanno avuto modo di dialogare e scontrarsi cambiando per sempre il volto del pianeta. Non esente da dibattiti corrispondenti è stato il mondo


della produzione industriale stessa, non di rado accolta dal pubblico con repulsione, con un senso di fascino misto ad estraneità. Gli utenti si sono spesso sentiti inadatti alle evoluzioni dalla tecnica, e un po’ per timore reverenziale di fronte alle altrui mirabili abilità progettuali, ed un po’ proprio per impostazione mentale, hanno lungamente dato la colpa di quest’inadeguatezza solo e soltanto a se stessi.

CAPITOLO 02: UOMINI E UTENTI

«Over the years I have fumbled my way through life, walking into doors, failing to figure out water faucets, incompetent at working the simple things of everyday life. “Just me,” I would mumble. “Just my mechanical ineptitude.” But as I studied psychology and watched the behaviour of other people, I began to realize that I was not alone. My difficulties were mirrored in the problems of others. And we all seemed to blame ourselves. Could the whole world be mechanically incompetent?» 01 Leggiamo queste frasi, dal tono ironico ed autobiografico, nella prefazione dell’edizione datata 1988 dell’ormai classico volume “The design of everyday things” di Donald A. Norman. D. A. Norman non fu di certo il primo a chiedersi se la difficoltà del rapporto umano con la tecnologia non stesse eminentemente in quest’ultima piuttosto che nelle abilità dei soggetti-utenti, ma fu tuttavia il primo a far emergere il problema in modo evidente e sistematico, e a divulgarne gli esiti a tutti i potenziali interessati: ovvero, progettisti e utenti. In altre parole, la sua opera ha interessato e - nei limiti della sua attualità - continua ad interessare, tutti noi,

prof. Donald A. Norman, ph. P. Belanger

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dato che la società nella quale viviamo ci rende tutti utenti, nessuno escluso, fin dalla nascita, e sta quindi a noi vivere nel migliore dei modi questa sorta di comoda imposizione, rendendo il nostro status la fonte di diritti e non di costrizioni.

CAPITOLO 02: UOMINI E UTENTI

Sempre secondo Norman, la questione, oltre ad essere diffusa a livello globale, è molto più grave di ciò che useremmo pensare. Innanzitutto, perché non dipende dal livello di educazione. Non è sufficiente avere una grande esperienza nell’uso di apparecchiature complesse per prevedere la logica insita in quelle più semplici. Anzi: molto spesso, i controlli delle automobili o le tastiere dei computer appaiono a prima vista estremamente complicati, ma si rivelano nella pratica piuttosto accomodanti. Ad ogni funzione, per quanto essa possa risultare complessa a svolgersi o a spiegarsi, tende a corrispondere infatti un solo comando, e per quanto limitata questa logica tende ad essere seguita facilmente (“mapping” semplice). la dura vita dell‘utente

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Lo stesso non può dirsi per dispositivi a prima vista ben più banali, ma che alla prova dei fatti mettono in crisi anche le menti più insigni, frenandone i ritmi di lavoro, e procurando incomprensioni e frustrazione.

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L’esempio che Norman cita per comunicare quest’idea è quello del centralino telefonico. Sempre più ricchi di funzioni, implementate in modo sempre più discreto in chassis apparentemente convenzionali, i centralini dell’era digitale offrono una pletora di funzioni in un design minimale.


Dove sta allora il problema? Per farcene un‘idea, citiamo nuovamente il testo originale:

CAPITOLO 02: UOMINI E UTENTI

«It was the standard twelve-button, push-button phone, except that it had an extra key labeled “R” off the side. (I never did find out what that key did). The telephone itself was a standing joke. Nobody could use all the features. One person even started a small research project to record people’s confusions. Another person wrote a small “expert systems” computer program, one of the new toys of the field of artificial intelligence; the program can reason through complex situations. If you wanted to use the phone system, perhaps to make a conference call among three people, you asked the expert system and it would explain how to do it.» 02 La situazione si fa ora più chiara: la riduzione dei comandi è eccessiva e quindi insensata; la gestione delle funzioni viene gestita tramite combinazioni di tasti assolutamente arbitrarie e di difficile memorizzazione, anche poiché diverse da un produttore all’altro.

British Telecom unit, ph. Donald Norman

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Il nuovo terminale, che sulla carta promette performance incomparabilmente superiori a quelle delle unità di vecchia generazione, si rivela invece talmente complesso da non consentirne l’uso, ed anzi, da rubare tempo alle attività dell’ufficio stesso, oltre che da portare a spiacevoli errori d’uso ed inutili arrabbiature. Tutto per risparmiare un tasto. È evidente che il gioco non vale la candela. La prospettiva assume un che di inquietante nel momento in cui l‘autore ci ricorda che gli oggetti coi queli entriamo in

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contatto, quotidianamente, sono alcune decine di migliaia (assicura che se ne possono contare “almeno ventimila”).

CAPITOLO 02: UOMINI E UTENTI

Grazie a questi e ai successivi esempi citati nel volume, il Norman giunge a proclamare l’urgenza di una nuova prospettiva progettuale, centrata sull’utente, inteso non in quanto soggetto detentore di un diritto dovuto a un contratto d’acquisto, ma innanzitutto come essere umano, dotato di un’esperienza e di un intuito, ma allo stesso tempo capace anche di sbagliare, e non per questo biasimabile, essendo nella sua natura, ed essendo la sua natura il vincolo essenziale di qualsiasi “design challenge”.

IDEO method cards for human-centred design

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A lungo termine, gli insegnamenti di Norman e dei suoi successori si sono rivelati di importanza fondamentale. Designer e collettivi di progetto, tra i quali spicca IDEO, capaci di affrontare la progettazione da una prospettiva essenzialmente “user-centred”, hanno ottenuto ben presto un grande successo industriale e commerciale, proponendo soluzioni innovative in anticipo sui tempi, non certo grazie a forme di occasionale genialità, bensì in virtù di giuste scelte metodologiche.

Brainstorm interaction design loves and hates

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Abbiamo approcciato queste necessità strategiche anche nel corso delle lezioni di Teorie dell’interazione svolto in quest’anno accademico, con apposite esercitazioni a tema, via via più specifiche e dettagliate. La loro utilità si è rivelata straordinaria nell’aiutarci ad assimilare tecniche imprescindibili per qualsiasi attività progettuale contemporanea.


La prima attività che vorrei citare è stata anche la prima delle esercitazioni svolte, ovvero l’esercitazione 1, intitolata “Brainstorm interaction design loves and hates”. Ci ha permesso di porci in prima persona come utenti, e di analizzare quindi innanzitutto i nostri comportamenti e le nostre preferenze innate.

we love

iPhone MS Nathal MS Surface Wii RFID PS3 Bluetooth Yamaha Tinori tablet graphic pen projected keyboard touchscreen blackboard iPod wheel Philips RGB lights self-illuminating lamps

CAPITOLO 02: UOMINI E UTENTI

Nota: esercitazione svolta in gruppo con Marta Ferrari, Caterina Marzolla, e Raffi Tchakerian

we hate

Trenitalia website Bancomat & Postamat Motorola keypad & menu videocameras video projectors Windows Vista UAC Symbian e-Bay IUAV website IUAV Spin flight reservations segreteria telefonica fax food distribution

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Hunt for affordances

CAPITOLO 02: UOMINI E UTENTI

Il percorso di ricerca che abbiamo iniziato ad intraprendere nel momento in cui ci siamo per primi interrogati sul nostro ruolo di utenti, e di conseguenza sugli artefatti a nostro avviso più o meno efficaci, è proseguito poi con una più sistematica analisi di tutti quelli che sono i criteri in grado di distinguere un sistema ben progettato da uno contorto, causa di incomprensioni, distrazioni, errori. Abbiamo in particolare introdotto il concetto di “affordance”, ovvero la capacità di un oggetto di suggerire la sua modalità d’uso, specie a livello formale. È molto utile, per capire cosa sia l’affordance, fare il percorso contrario, e quindi renderci conto delle differenze (che, una volta compreso il concetto di affordance, diventano peraltro evidenti) tra un oggetto dotato di una buona affordance ed uno scarsamente “affordable”, per poi confrontare i due insiemi e delineare ciò che in ultima analisi li distingue. È proprio questa la consegna della prima esercitazione svolta personalmente per il corso di Gillian Crampton Smith e Philip Tabor, dal titolo “Hunt for affordances”, ed i cui esiti si possono consultare nella pagina qui a fianco.

Jacques Carelman, “caffettiera del masochista”

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CAPITOLO 02: UOMINI E UTENTI

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Design three personas

CAPITOLO 02: UOMINI E UTENTI

Il concetto di “affordance” è necessario ma non, tuttavia, sufficiente, a determinare la qualità di una esperienza d’uso: vanno considerati altri parametri fondamentali, quali la visibilità degli elementi di controllo, la loro corretta mappatura, la capacità di un sistema di fornire un feedback degli input forniti, così da permetterci di capire se le nostre azioni abbiano sortito un effetto o meno, e l’abilità del sistema nel prevenire gli eventuali errori, facendo sì che piccole distrazioni non comportino mai conseguenze gravi e/o irrimediabili. Ci siamo poi resi conto che, per comprendere le effettive qualità di un sistema interattivo, non può essere sufficiente l’analisi della nostra sola esperienza, tanto più che essa si rivela alterata dal ruolo di critica implicito nel ruolo e nella formazione del designer.

IDEO: linee-guida per l‘uso delle method cards

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Abbiamo quindi esteso le sperimentazioni ad utenti esterni al meccanismo progettuale, intervistandoli, chiedendo le loro opinioni, e soprattutto osservandoli interagire con le cose stesse, così da evitare qualsiasi alterazione dovuta alla coscienza degli obiettivi critici dell‘operazione. Citando nuovamente il lavoro di IDEO, guru del design partecipativo, abbiamo potuto osservare come le nostre attività di sperimentazione si siano articolate essenzialmente in task di tipologia “learn”, “look”, “ask”, ed infine “try”, ossia quelle in cui, fin da subito, ci siamo messi noi per primi nei panni dell‘utente finale. Progettare basandosi sugli utenti è un metodo essenziale, poiché permette di tenere in costante considerazione il fatto


che ogni prodotto o servizio che andremo a progettare sarà destinato a persone e contesti reali, e non a fattori astratti. È tuttavia essenziale ricorrere, prima di affrontare decisioni vitali per gli esiti del progetto, a figure astratte che riassumano in sé tutte le caratteristiche dell’utenza, così da verificare subito che le nostre conclusioni non siano falsate dagli specifici utenti presi a campione, e da rendere evidente cosa il progetto offrirà a chi, come risponderà ai singoli bisogni, quali saranno gli utenti più interessati, e cosa andrà fatto per estendere il bacino dei possibili utenti. Queste figure sono chiamate in gergo “personas”, e devono assumere in sé tutte le possibili qualità dei possibili utenti, diventando quindi utenti-tipo. L’abilità che sta alla base dell’efficacia di questi personaggi è ovviamente quella di raccogliere fra di loro tutte le possibili caratteristiche degli utenti previsti, andando eventualmente ad aggiungere ulteriori elementi critici non considerati in precedenza, in maniera da arricchire ulteriormente la verifica. Ciò va fatto evitando ovviamente di creare figure irreali o caricaturali. Le “personas” devono, in questo senso, essere sì degli stereotipi, ma credibili, plausibili, veritieri.

CAPITOLO 02: UOMINI E UTENTI

studio di personas per un applicativo open-source 11

L’efficacia dell‘operazione è confermata da numerose ricerche. Una particolarmente recente e notevole è quella pubblicata lo scorso giugno da Frank Long, docente presso il National College of Art and Design di Dublino. «The study indicates that using personas offers several benefits for user-centred design in product development. The results support claims that using personas focuses more attention on the end-user, particularly in the early stages of the project. Not only

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does this increase the likelihood of a more usable end product but it also provides a clear user focus at the initial design research and idea generation stages, which enhances the possibility of incorporating usercentred features at the product specification stage. Personas have a role in helping designers to innovate new ideas but can also assist in validating new designs as they emerge. They can provide a valuable usercentred input early in the development cycle - helping to bridge the gap between research and design.» 03

CAPITOLO 02: UOMINI E UTENTI

Il metodo delle personas conosce tuttora numerosi critici ed incontra da parte di alcuni addirittura avversità. Questo per la sostanziale fissità delle persona, che non forniscono risposte attive, non variano nel tempo, non interagiscono fisicamente, non ripensano ai loro giudizi, a differenza delle persone reali. Secondo questa linea di pensiero, il metodo delle personas è non solo inutile bensì controproducente. Secondo questa linea di pensiero, il metodo delle personas è non solo inutile bensì controproducente. Secondo questa linea di pensiero, il metodo delle personas è non solo inutile bensì addirittura controproducente. I dati ottenuti da Long, tuttavia, basati sull‘analisi di 9 gruppi di studenti impegnati in 3 fasi consequenziali di lavoro, dimostrano nettamente il contrario:

alcune pagine del lavoro di Frank Long

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«The debate about whether personas work or not has been one of faith versus scepticism; claim versus counter-claim. This study demonstrates the effectiveness of using personas in the product design process, and while


more research is needed, there is now some objective evidence that using personas does work.» 04

CAPITOLO 02: UOMINI E UTENTI

Per quel che riguarda la nostra esperienza al corso di Teorie dell’Interazione svolto nell’ultimo periodo didattico allo IUAV di Venezia, l’esperienza non può che dirsi, nonostante la differente profondità di analisi, altrettanto positiva. Pubblico qui, a titolo di esempio, l’esercitazione “Design three personas”, così come svolta da me per la lezione del 26 ottobre 2009:

Assignment 3

DESIGN THREE PERSONAS SERVICE: an online shared workspace service like a sort of virtual blackboard, built both for professionals and education PERSONA #1: Giuseppe. 56 years old. Studied engineering 4 years but did not graduate. Married, has 2 teenager daughters. Enterpreneur. Lives in the centre of Milan since he was a child. Not so happy with traffic, noise and pollution. Attending english and software courses for the first time in his life. Finds them very difficult. Needs to find new business opportunities in the Far East but needs some help to do that. Disenchanted about politics. Feels very worried of the economical crisis. PERSONA #2: Sophie. 34 years old. Degree in humanistic subjects. Has a boyfriend that is software engineer. They plan to have a child. Works part-time as a high school teacher in a small town in France. Very concerned with social problems. Very inventive, talkative, smart thinker. She reads a lot. Wants to help the dyslexic boys in her class improving their reading and writing abilities. Her boyfriend suggests to use messaging services but she finds most of them inadequate. PERSONA #3: Nikolas. 27 years old. Studying architecture in Warsaw. Lives with his parents and his brother. Has a dog. Has money problems. Self-learned expert of cad software, wants to teach them to other students, or to find a way to work as free-lance without leaving his house. Now works for the maintenance of an online community. It takes him too much time. He would love to learn other languages and continue his studies abroad, maybe in England or Germany. Dario Martini / 267526 / clasDIP / Interaction Design Theory 1 / 26.10.09

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Interazioni

CAPITOLO 03: INTERAZIONI

Come abbiamo avuto modo di constatare nel capitolo precedente, la disciplina dell’interaction design occupa un ruolo essenziale nella definizione e nel successo di tutte le tecnologie computer-based che stanno oggi contribuendo al più grande cambiamento tecnologico e sociale mai incontrato dalla specie umana. La sua qualità determinerà quindi, in quantità via via maggiore, le vite di tutti noi, il modo in cui ci muoviamo, ci mettiamo in contatto, studiamo, lavoriamo, ci divertiamo. Cambierà, in ultima analisi, la nostra stessa mentalità e cultura, e in parte l’ha già cambiata. I concetti e le categorie propri dell’interaction design si rivelano a loro volta strumenti estremamente preziosi per qualsiasi altra attività progettuale, e ciò non soltanto per via del crescente livello di interattività che sta progressivamente invadendo ogni entità della nostra cultura materiale, ma anche per la validità stessa dei suoi postulati nel confronto critico con la tutta realtà oggettuale che ci circonda, e con tutta la storia dell’industria e delle comunicazioni. la tecnologia riflette la società

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Un concetto su tutti, come abbiamo visto, è quello di “affordance”. Mediato dall’analisi dei principi di base dell’ergonomia funzionale, esso si è rivelato essenziale per dare un senso e delle coordinate allo sviluppo di sistemi interattivi, e a sua volta il bagaglio di esperienze maturato in questo settore sta tornando a rinvigorire il mondo del progetto, al di là del vincolo dell’interattività.

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Il design dell’elettronica e delle sue interfacce sta insomma fornendo linfa nuova al design industriale e grafico intesi nel senso tradizionale del termine, e questo ritorno è a mio


avviso il primo e fondamentale indicatore di quanto si sia radicata ormai la cultura dell’interattività e delle interazioni nel nostro quotidiano. Generalizzando, il criterio dell’affordance, assieme agli altri coi quali siamo soliti studiare le caratteristiche e le performance di un sistema interattivo, contribuisce a riportare alla luce la centralità dell’uomo nello sviluppo tecnologico.

CAPITOLO 03: INTERAZIONI

Ritengo che questo sia un fatto dall’importanza straordinaria, in grado di riportare la follia del capitalismo industriale ad una quota umana e ad un livello intrinsecamente migliore, nel quale sia la tecnica a seguire l’uomo e non viceversa, e in cui a trarne vantaggio siano necessariamente ambedue. Oltre a ciò che l’interaction design è stato, è, e sarà sempre più capace di insegnare con le sue pratiche, esso impone una nuova visione delle cose per sua stessa natura. In altre parole, è lo stesso concetto di “interazione” ad imporre, con la sua nuova urgenza, una visione rinnovata della sfera sociotecnica, visione che può a sua volta contribuire a definire nuovi e migliori scenari di interattività.

Interaction Design Institute Ivrea: progetto “box“

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L’interazione, elemento fondante di tutta la teoria e la pratica dell’interaction design, richiede un ripensamento globale, a mio parere, per almeno due ragioni essenziali: 1. Spostandosi il cuore del sistema dall’oggetto in quanto tale all’interazione, sia essa tra persone e artifici, tra macchine e sistemi, o tra le stesse persone, si richiede la gestione, la comunicazione, l’esperienza di entità non concrete. Il mondo della logica prevale sul mondo della materialità, imponendo, quindi, un cambiamento di prospettive

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in apparenza sottile ma in sostanza radicale. Questo cambiamento va quindi gestito, comunicato, insegnato, nel miglior modo possibile, perché in caso contrario il rischio di progettare contro le persone anziché a loro favore è sempre dietro l’angolo, e vista il grado di permeazione tecnologica che ci attende, le conseguenze sarebbero devastanti.

CAPITOLO 03: INTERAZIONI

2. L’interazione, al contrario della fisicità, non risente di barriere spaziali e temporali. Crea una diversa percezione del tempo, della velocità, del dinamismo. Crea reti e rizomi, instaura rapporti di corrispondenza e collegamento nuovi e complessi, privi di un’effettiva valenza spazio-temporale, o per meglio dire dotati di grandezze spaziali e temporali profondamente differenti da quelle a cui ci hanno abituati la fisica classica ed il senso comune. Le apparenze di comuni oggetti diventano così comportamenti di sistemi, e si riflettono quindi in esperienze temporali.

tempi e informazioni deformano lo spazio

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Si usa in questo senso definire l’attività dell’interaction designer come una sorta di “meta-design”, non più quindi il progetto di componenti, singoli e specifici, bensì la creazione di sistemi dinamici, molteplici, complessi, a loro volta in relazione con altri sistemi ed altre sfere progettuali, in uno spazio allo stesso tempo fisico e metafisico, concreto e simbolico. Sulle nuove qualità dello spazio nato con la rivoluzione informatica si sono interrogati e confrontati molti autori, provenienti dalle più varie aree tematiche. Trovo particolarmente interessante ciò che ha avuto modo di dire a questo proposito l’architetto americano Peter Anders, pioniere nell’esplorazione e nella sperimentazione delle tecnologie di visualizzazione e disegno tridimensionali,


digitali ed interattivi. È solo del 2001 l’ormai celebre passo:

CAPITOLO 03: INTERAZIONI

«Cybrids - a link on the continuum between concrete objects and abstract data. The line that separates data from objects represents a continuum rather than a division. Today there are situations where data and concrete objects work together to create new spatial entities, herein called “cybrids”. A cybrid is a hybrid of physical and electronic spaces.» 05 Questo a riprova del fatto che il processo di unione progressiva tra la realtà materiale ed i suoi contenuti informativi, tra la realtà fisica e i suoi “meta-dati” digitali, è ormai evidente anche al di fuori dell’interaction design, e presenta contenuti che per la loro portata innovativa sembrano richiedere addirittura un’evoluzione linguistica, tanto complessi sono da comprendere e da spiegarsi nei termini della logica convenzionale. Tornando allo specifico della disciplina dell’interaction design, ritengo particolarmente efficace e chiaro il modo in cui essa viene definita una questione di dinamiche spaziotemporali all’interno del volume-guida “Design dell’interazione”, del designer e ricercatore Dan Saffer. «Il tempo crea ritmo. La velocità con cui un menu compare sullo schermo o il tempo richiesto per completare un’azione, come rinnovare la patente, controlla il ritmo dell’interazione. I giocatori di videogame sono spesso attenti al ritmo: quanti alieni ti stanno venendo contro in un qualsiasi momento o quanto tempo serve per completare un

effetto “genie“: il tempo arricchisce il feed-back

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CAPITOLO 03: INTERAZIONI

livello. Il ritmo è anche una componente importante dell’animazione: quanto velocemente si apre o si chiude una cartella sul desktop, quanto lentamente si apre un menu a discesa. Gli interaction designer controllano questo ritmo. [...] Le interazioni avvengono nel tempo.» 06

Experiment with a design method Per gestire questo tempo, questi movimenti, queste dinamiche, trarne informazioni utili, prevederne e plasmarne i flussi in modo efficace, occorre innanzitutto ideare soluzioni di visualizzazione intelligente delle informazioni, o in altre parole, occorre il supporto di un information design adeguato, capace quindi di: « 1. rendere evidenti concetti deducibili; 2. rendere comprensibili nozioni complesse; 3. aggiungere livelli di significato.» 07 rappresentazione di uno spazio multidimensionale 17

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È con questi riferimenti che siamo andati ad approcciarci al tema dell’analisi delle informazioni e della ricerca delle relazioni sottostanti, affrontato per la prima volta in occasione dell’esercitazione “Experiment with a design method”. In questa esercitazione, composta da più tematiche, affrontate in parallelo da diversi gruppi di studenti, l’obiettivo che mi sono visto assegnato, assieme al mio gruppo di lavoro, era quello di individuare tutte le possibili cose in comune, tutte le relazioni esistenti, per un’ipotetica ricerca di mercato della Vodafone, a proposito di un nuovo servizio concepito per tenere in contatto gruppi di persone sparse nel mondo.


CAPITOLO 03: INTERAZIONI

Marta Caterina

Dario

Criteria:

gender Dorotea age hair color glasses birthplace living city previous university

Raffi Guendalina

altri partecipanti: Marta Ferrari, Caterina Marzolla, Dorotea Panzarella, Guendalina Pizzolato, Raffi Tchakerian

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Strategie

CAPITOLO 04: STRATEGIE

Abbiamo sinora percorso una panoramica dei principali fra i temi che determinano la disciplina dell’interaction design, dei suoi soggetti e delle sue dinamiche. Abbiamo compreso quanto sia essenziale il ruolo dell’utente nelle attività di progetto e di verifica del corretto adempimento degli obiettivi, e quanto sia particolare e complessa la realtà dei fenomeni e dei sistemi con i quali l’interaction designer si trova ad operare.

D. Norman, diagramma di un modello mentale

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A questa analisi non può che seguire una panoramica ragionata, alla luce di quanto detto, delle modalità di lavoro proposte dalla disciplina, delle sue strutture operative e dei fattori di problematicità introdotti, attualmente, dal doversi confrontare con sistemi sempre più articolati ed estesi, rete caratterizzate dalla presenza di un numero spropositato di nodi, talmente tanti da rivelarsi, non di rado, impossibili da analizzare singolarmente, e da imporre quindi un metodo di lavoro centrato sulla totalità del sistema, non più riducibile in una serie lineare e limitata di problemi, ma bensì struttura organica, dotata di dinamiche di alto livello. Tutto ciò che sappiamo dei sistemi socio-tecnici con i quali ci è chiesto di confrontarci deriva dall’osservazione dei loro comportamenti, ed eventualmente da una presa di contatto con informazioni accessorie, quali libretti di istruzioni, recensioni cartacee, o anche il semplice passaparola interno ad una comunità di utenti.

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Alla ricezione di queste informazioni tendiamo ad elaborare un modello di funzionamento logico della macchina, un cosiddetto “modello mentale” (“mental


model”). Sviluppiamo, in altre parole, una sorta di reverseengineering cerebrale, senza che nessuno ce lo chieda o ce lo imponga, perché sappiamo - a livello pressoché istintivo essere la comprensione e memorizzazione di un numero limitato di regole di base palesemente più agevole e sicura dell’archiviazione mnemonica dell’estesa casistica dei suoi effetti finali.

CAPITOLO 04: STRATEGIE

Questo processo tende ad avvenire per qualsiasi tipologia di sistema, sia esso particolarmente banale o straordinariamente articolato e complesso. Sia nel primo, sia nel secondo caso, la deduzione può essere corretta ed approfondita, tanto quanto sbagliata e fallace. Come già accennato a proposito del celebre telefono con segreteria magistralmente citato da Donald Norman, la comprensibilità non dipende strettamente dalla complessità tecnica. Anzi: proprio in virtù di un’apparente semplicità operativa, sono molto spesso proprio gli oggetti più banali a condurre ad errori logici o approssimazioni inaccettabili, colpevoli di scarsa affordance, di istruzioni manchevoli o alle volte persino fuorvianti. A questo proposito lo stesso Norman citerà un frigorifero con congelatore, dotato di un unico compressore ed un ripartitore di gas, descritto invece per semplicità, nel libretto di istruzioni, come se le due celle fossero indipendenti. Si tratta qui di un evidente caso-limite, nel quale istruzioni eccessivamente semplificate denotano i limiti di una scarsa considerazione della curiosità critica dell’utente, che si vede alla fine costretto ad affrontare una mancanza

D. Norman, esempio di istruzioni confusionarie

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di comprensibilità ben più grave di quella per evitare la quale il libretto era stato concepito.

CAPITOLO 04: STRATEGIE

«Mental models, the models people have of themselves, others, the environment, and the things with which they interact. People form mental models through experience, training, and instruction. The mental model of a device is formed laregely by interpreting its perceived actions and its visible structure. I call the visible part of the device “system image”. When the system image is incoherent or inappropriate, as in the case of the refrigerator, then the user cannot easily use the device. If it is incomplete or contradictory, there will be trouble.» 08

Xerox 6085 workstation, ambiente desktop

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Riemerge quindi il problema della visibilità, della completezza e della chiarezza con cui un oggetto o un sistema esprime se stesso all’utente, problema che, dal punto di vista del designer, si traduce nella necessità di concepire la “system image” del progetto in esame in modo efficace e corrispondente all’effettiva natura del suo funzionamento. Nel momento in cui questo funzionamento, tuttavia, vada ad assumere sviluppi non facili da immaginare, invisibili, o troppo sofisticati per qualsiasi tentativo di schematizzazione diretta, occorre che la “system image” non si limiti ad essere un riepilogo semplificato, bensì sfrutti ulteriori strategie, per fare appello a ciò che fa già parte del bagaglio di conoscenze ed esperienze dell’utente, specificatamente affinità con contesti simili, o riassumibili in modo analogo.

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È questo l’esempio della metafora del desktop, introdotta per la prima volta da Alan Kay presso lo Xerox PARC, nel 1970,


e concepita nemmeno due anni prima dal genio di Douglas Engelbart, passato alla storia per avere introdotto anche il puntatore, ovvero il mouse, l’interfaccia principale di tutti i moderni pc, ideale per muoversi e dare comandi nello spazio bidimensionale delimitato dai pixel dello schermo.

CAPITOLO 04: STRATEGIE

Impossibile da visualizzare concretamente, il funzionamento interno dell’elaboratore, e la sua gestione delle informazioni e degli applicativi, sono stati abbinati alla metafora di un ipotetico ufficio, con una scrivania, un archivio, strumenti di lavoro e file, archiviati in cartelle e sottocartelle, secondo una struttura ad albero. L’uso di una metafora efficace consente agli utenti una comprensione immediata di problematiche anche complesse, infonde loro sicurezza e li invita a verificare tutte le possibili analogie, continuando a lavorare e ragionare secondo forme già assimilate.

Design a metaphor for your money Apple Mac, da una brochure del 1984

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Dimostrata e compresa l’importanza di un buon modello mentale, e quindi di una rappresentazione metaforica e simbolica soddisfacente, interessante, ed appropriata, per i sistemi nel cui progetto ci accingiamo ad intervenire, ci siamo messi alla prova, in occasione dell’esercizio intitolato “Design a metaphor for your money”, nell’ipotizzare una metafora per il flusso del denaro, le spese ed i ricavi, nella nostra vita quotidiana. Ci siamo resi conto di come sia difficile individuare rapidamente una metafora adatta, e di come anche le migliori

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CAPITOLO 04: STRATEGIE

esercitazione “Design a metaphor for your money”, così come presentata in data 9 novembre 2009

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trovate si rivelino con il tempo e con l’analisi, sempre perfettibili. Abbiamo messo in gioco prospettive diverse, cogliendo l’utilità fondamentale di andarle a recuperare da ambienti possibilmente lontani, capaci quindi di arricchirsi l’un l’altro, e di suggerire implicitamente soluzioni progettuali. Non abbiamo dimenticato, inoltre, l’efficacia che può avere un uso discreto e di buon gusto di forme di ironia, che senza dubbio aiutano l’utente a fissare al meglio le corrispondenze.


Brainstorm a metaphor Oltre all’esercizio indipendente e ragionato visto nelle pagine precedenti, il concetto di metafora, a mio parere uno dei più importanti di tutta la pratica dell’interaction design, è stato ulteriormente toccato in un’altra esercitazione, svolta invece a gruppi di 4 studenti. L’esperienza, intitolata “Brainstorm a metaphor”, richiedeva una sfida ardua ma anche per questo interessante: ripensare la metafora tradizionale del desktop, così come fu concepita dalla Xerox e poi in Apple, per arrivare sino ai giorni nostri, utilizzando come punto di partenza un altro luogo della casa. Il nostro gruppo, nella fattispecie, aveva il compito di evidenziare le possibili affinità con l’ambiente cucina. Il compito è stato svolto in tempi particolarmente contenuti ed ha tuttavia portato a molti risultati: questo grazie alla efficacia caratteristia del brainstorming ed all’uso di postit, supporto perfetto per una fase di ideazione rapida e fortemente in parallelo. Ritengo l’esperienza nel suo complesso un momento illuminante, e aggiungo che la cucina si è prestata particolarmente bene a questa affinità, essendo anch’essa costruita intorno ad un tavolo di lavoro, e costituendo un luogo fondamentalmente di progettualità e condivisione.

rielaborazione grafica di alcune tra le analogie emerse nel corso dell‘esercitazione “Brainstorm a metaphor”

CAPITOLO 04: STRATEGIE

new file

file size

administrator

customize

toolbox

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Le leggi del semplice e del complesso

CAPITOLO 04: STRATEGIE

L’immediato successo dell’Apple Mac, primo computer propriamente mainstream dotato di un’interfaccia desktop, dimostra la portata rivoluzionaria della semplicità, semplicità che costituisce uno dei principali argomenti di riflessione di tutta la storia dell’interaction design, e che trova il suo guru in John Maeda, poliedrico autore e ricercatore, attualmente a capo della Rhode Island School of Design. Nel suo celebre “Laws of simplicity”, edito nel 2006, egli cerca di affermare le basi della semplicità, definendo così una serie di assiomi di base della progettazione intelligente, ed indicando, espressamente, una strategia particolarmente utile all’interaction designer, il cui lavoro è per natura tendente al dover confrontare, elaborare, mettere in gioco sistemi di fattori dall’elevata complessità sistemica.

Tsuyoshi Ozawa, foto per Ars Electronica 2006

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L’immediato successo dell’Apple Mac, primo computer propriamente mainstream dotato di interfaccia desktop, dimostra la portata rivoluzionaria della semplicità, semplicità che costituisce uno dei principali argomenti di riflessione di tutta la storia dell’interaction design, e che trova il suo guru in John Maeda, poliedrico autore e ricercatore, attualmente a capo della Rhode Island School of Design. Nel suo celebre “Laws of simplicity”, edito nel 2006, egli cerca di affermare le basi della semplicità, definendo così una serie di assiomi di base della progettazione intelligente, ed indicando, espressamente, una strategia particolarmente utile all’interaction designer, il cui lavoro è per natura tendente al dover confrontare, elaborare, mettere in gioco sistemi di fattori dall’elevata complessità sistemica. In molti hanno tentato di definire le linee guida di un buon interaction design, secondo ottiche e prospettive differenti.


Nel già citato manuale “Design for interaction” di Dan Saffer, ad esempio, essi vengono definiti nei criteri di affidabilità, appropriatezza, intelligenza, reattività, ingegnosità, dimensione ludica e piacevolezza (cfr. Saffer 2007, pag. 61 e seguenti). Lungi dal voler creare uno strumento restrittivo, egli poi aggiunge:

CAPITOLO 04: STRATEGIE

«tutte le caratteristiche viste, assieme alle leggi e ai principi dell’interaction design, guidano i prodotti e i servizi che gli interaction designer creano. Ma non dobbiamo dimenticare a chi sono destinati quei prodotti e quei servizi: gli utenti.» 09 A questa convinzione si appella anche l’autorevole Larry Tesler, membro del gruppo User Experience e Design di Yahoo, quando, intervistato da Saffer, alla domanda su quali siano le leggi inviolabili dell’interaction design, risponde: «Solo una. Progetta per gli utenti.» 10 Tra un’impostazione di questo genere, libera di pregiudizi ma anche scarsamente didattica, poiché gran parte delle competenze vengono riconosciute come frutto di esperienza pratica, ed i decaloghi di altri autori, che parrebbero rendere la professione dell’interaction designer la naturale e diretta applicazione di una serie di principi fondanti, chiari e stabili, la posizione di Maeda, che definisce leggi di meta-design anziché puramente di progetto, mi sembra rappresentare un approccio più olistico e allo stesso tempo più potente.

Dan Saffer, impegnato in una conferenza

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Citiamo quindi le sue “Laws of simplicity”, così come appaiono nel sito ufficiale (http://lawsofsimplicity.com/). 37


CAPITOLO 04: STRATEGIE

John Maeda, ritratto nel suo studio

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« Law 1: REDUCE The simplest way to achieve semplicity is through thoughtful reduction; Law 2: ORGANIZE Organization makes a system of many appear fewer; Law 3: TIME Savings in time feel like semplicity; Law 4: LEARN Knowledge makes everything simpler; Law 5: DIFFERENCES Simplicity and complexity need each other; Law 6: CONTEXT What lies in the periphery of simplicity in definitely not peripheral; Law 7: EMOTION More emotions are better than less; Law 8: TRUST In simplicity we trust; Law 9: FAILURE Some things can never be made simple; Law 10: THE ONE Simplicity is about subtracting the obvious, and adding the meaningful.» 11 Mediate dal settore dell’interaction design, le leggi della semplicità proposte da Maeda sono tuttavia evidentemente applicabili, senza ulteriori rielaborazioni, alla totalità delle attività progettuali, essendo la percezione della semplicità il primo indice della bontà progettuale di qualsiasi apparecchio o sistema. È tuttavia fondamentale saper riconoscere la scala alla quale viene richiesto di operare, che la crescente connessione sistemica del nostro mondo rende sempre più elevata. Non esistono fattori indipendenti.


«When designing systems at scale, we must consider the whole ecosystem that needs to be engaged..» 12

CAPITOLO 04: STRATEGIE

Leggiamo così nella pubblicazione dal titolo “Designing systems at Scale”, a cura di Fred Dust e Ilya Prokopoff, ricercatori presso IDEO. Essi formulano 5 regole di base per la gestione di sistemi su larga scala: « 1. Ask how the system feels, not just how it works; 2. Recognize that a good system is often the best influencer; 3. Let the user close the loop; 4. Go micro with human factors; 5. Start with hope, and take the long view.» 13 Per un approfondimento della loro visione, rimandiamo alla lettura della pubblicazione, reperibile anche sul sito di IDEO. Ciò che con questo esempio abbiamo voluto evidenziare è la necessità, nell’affrontare sistemi allo stesso tempo così vasti e così essenzialmente legati all’individualità dell’utente, di operare secondo almeno due linee guida, capaci di integrarsi e correggersi a vicenda: è necessario, in altre parole, considerare sia il rapporto dell’utente con il sistema, sia la dinamica del sistema nel suo insieme. La strategia user-centred non può prescindere da quella system-centred, e viceversa. Tanto più che, citando Hugh Dobberly, fondatore e direttore della DDO di San Francisco, « un approccio sistemico al design è completamente compatibile con un approccio incentrato sull’utente. [...] Il nucleo di entrambi gli approcci è comprendere gli obiettivi utente.» 14

copertina di “Designing systems at Scale”

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La lezione dell’interaction design

CAPITOLO 05: CONCLUSIONI

Tutto ciò che è stato fin qui scritto rappresenta una visione d’insieme dell’interaction design, delle sue problematiche, delle sue specificità, e dei suoi metodi. Tuttavia, visto l’evolversi rapido e non completamente prevedibile delle tecnologie di ricezione, immagazzinamento, elaborazione e trasmissione di quantità di dati - a loro volta sempre più ingenti ed elaborate -, appare ormai evidente come, sebbene i postulati di base della disciplina siano stati chiariti con un soddisfacente livello di definizione, molto potrà ancora cambiare. Nasceranno nuovi dispositivi, per nuovi bisogni. Si delineeranno allora nuovi contesti d’uso, nei quali avranno modo a loro volta di emergere ulteriori mancanze e desideri, verso i quali andrà a indirizzarsi l’attività di designer e ricercatori, tecnici ed antropologi.

andamento esponenziale della tecnologia

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Parallelamente a questa evoluzione, che ci ricorda quella vertiginosa - avvenuta nell’ultimo ventennio, in seguito alla diffusione dei microprocessori e poi delle reti, se ne potrà seguire un’altra, completamente imprevedibile poiché priva di precedenti. Parliamo della cosiddetta “legge del ritorno accelerato”, enunciata dall’informatico e saggista statunitense Ray Kurzweil: secondo questo enunciato, che generalizza la legge di Moore a tutta la storia tecnologica umana, da quella pre-industriale a quella che ci riserverà il futuro, arriveremo nell’arco di pochi decenni a realizzare macchine più potenti dello stesso cervello umano, e quindi capaci di gestire forme di intelligenza estremamente sofisticate. A mantenersi costante, secondo Kurzweil, non sarà il tasso di sviluppo, bensì la sua accelerazione (da cui


“ritorno accelerato”). Ciò vorrà dire che si raggiungerà, inevitabilmente, un punto di rottura (la cosiddetta “singolarità”), in corrispondenza del quale la macchina non avrà più bisogno della diretta progettazione umana, ed inizierà ad evolversi in modo indipendente, automatizzato. L’uomo si limiterà a gestire questo processo, che però ben presto non avrà nemmeno più bisogno di questa forma di gestione, essendo l’intelligenza in gioco già enormemente superiore a quella dell’essere umano e delle sue strutture.

CAPITOLO 05: CONCLUSIONI

Per quanto questa possa a prima vista sembrarci una bizzarra fantasticheria da fumettistica di fantascienza, i dati e le esperienze concreti non fanno che concordare con tale previsione. Arriverà, insomma, certamente, il giorno in cui la macchina raggiungerà la maturità, ed inizierà a muoversi con le sue gambe. Quel che potrà fare dipende, comunque, essenzialmente da noi, da come noi la plasmeremo, e dalle basi sulle quali cercheremo di farla evolvere. Con questa previsione nella mente, capace tanto di affascinarci quanto di destare in noi una profonda inquietudine, la sfida del design si rivela centrale e strategica, ed il momento dell’interazione va a costituirne il fattore critico. In sé, la previsione di Kurzweil non dovrebbe tuttavia spaventare, essendo libera da qualsiasi corollario sulle forme che questa tecnologia andrà ad assumere. È altamente probabile, tra l’altro, che lo scenario da immaginare sia completamente diverso dalle classiche cartoline del futuro con le quali il nostro immaginario ha usato nutrirsi fin dall’infanzia, piene di robot umanoidi ed onnipresenti apparati informatici.

nuove frontiere di implementazione

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CAPITOLO 05: CONCLUSIONI

Gina Miller, rendering per “Museum of the future“ 28

La direzione che la tecnologia sta andando ad assumere è, infatti, decisamente un’altra, ben più nascosta, invisibile, integrata. Quando Kurzweil dice che, in ultima analisi, se l’uomo vorrà e potrà ancora trarre un giovamento dalla tecnologia che ha creato, dovrà per forze di cose integrarvisi, perché altrimenti non sarà neppure in grado di sfruttarla, non dobbiamo certo immaginare strane creature ibride di carne e ferraglia. Quel che appare più probabile (e ragionevole) è che la tecnologia continuerà, assieme alla sua crescita prestazionale, a ridurre le sue dimensioni fisiche ed i suoi limiti di implementabilità. Essa sarà integrata ed invisibile, impercepibile, diretta. Le cose del mondo fisico e le loro controparti digitali si uniranno in un insieme decisamente coeso, nel quale però la parte software richiederà hardware sempre meno ingombranti, fino al punto (teorico) di non richiederne più, e di presentare un flusso ed una circolazione di informazioni che sarà in contatto con gli utenti in modo talmente potente e leggero da risultare invisibile. Le funzioni interattive saranno quindi in larga parte indipendenti dai loro hardware, e a questa tendenza stiamo già assistendo. Per dirla con un altro celebre futurologo, Bruce Sterling, che nel suo noto e brillante volume intitolato “La forma del futuro” ci racconta la storia dell’evoluzione degli oggetti cui siamo abituati, verso nuove generazioni di usi, situazioni e contesti, viviamo già nell’epoca dei cosiddetti “gingilli”.

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«Quando l’intero processo industriale viene reso esplicito, quando le metriche contano più dell’oggetto


che misurano, allora i “gingilli” diventano “spime”. [...] La chiave dello “spime” è l’identità. Uno “spime” è, per definizione, il protagonista di un processo documentato. È un’entità storica con una sua traiettoria, accessibile e precisa, attraverso lo spazio ed il tempo.» 15

CAPITOLO 05: CONCLUSIONI

Il passaggio dal “gingillo”, prodotto evoluto e centrato sull’esperienza dell’uso anziché sull’uso in quanto tale, allo “spime” (gioco di parole nato dalla contrazione di “space”+“time”), è rapidissimo ma non per questo immediato. Richiede numerose generazioni intermedie, generazioni che tuttavia, nell’epoca esponenziale in cui viviamo, occorreranno in un tempo tremendamente inferiore a quello di tutta l’evoluzione tecnologica passata. Stando alla previsione di Sterling, uno degli elementi che concretamente accompagnerà l’oggetto a divenire “spime”, è il cosiddetto tag RFID. Ormai estremamente economici, e pressoché invisibile, i moduli RFID contengono tutti i dati relativi ad un determinato oggetto. Costituiscono, in questo senso, le unità di base di quella che sta diventando una vera e propria “internet di cose”. Lo “spime” starà al prodotto industriale come internet sta all’hardware di un pc. Costituirà innanzitutto un’esperienza, un fenomeno spazio-temporale. Tutto il resto sarà secondario, a partire da tutta la fisicità non indispensabile a questo scopo. La previsione di Sterling si conclude con la figura del “biota”, ancora insondabile poiché lontana troppe generazioni, tuttavia già presumibile. Il “biota” sarà un’integrato di informazione e vita, sarà lo “spime” nella persona stessa.

Bruce Sterling, copertina di “Shaping things“

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È sorprendente notare come ciò sia equivalente al discorso di Kurzweil, seppur partendo da basi distinte, o anzi storicamente contrapposte, ovvero da un lato la tecnica e dall’altro l’uso.

CAPITOLO 05: CONCLUSIONI

È ancor più sorprendente, a mio avviso, come questa tendenza sia già in realtà studiata ed auspicata, talvolta forse addirittura inconsciamente, all’interno della teoria e delle pratiche dall’interaction design, disciplina che da sempre ha come suo più alto obiettivo il congiungimento ottimale di tecnologie avanzate, basate sulle più recenti piattaforme computazionali, ed utenza, e quindi persone, individui, con le loro speranze, la loro imprevedibilità, le loro paure, il loro corpo e la loro psiche.

il futuro riserva nuove sfide all‘interaction design

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L’interaction design costituisce, riassumendo, un campo pionieristico e strategico non solo per il futuro del design, bensì per il futuro dell’uomo stesso. Le sue forme ed i suoi contenuti si rivelano calzanti ed ispiranti in tutte le sfere della progettazione, ed il suo svilupparsi vi riconosce l’unica disciplina attuale in grado non solo di prevedere ma di anticipare le condizioni socio-tecniche del futuro. Non ci resta che augurarci che i suoi metodi e le sue strutture si fortifichino e si espandano ancora, così da fornire nuovi strumenti per i designer e nuove e migliori prospettive di vita per tutti noi.

Dario Martini 44


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ELENCO DELLE FONTI: CITAZIONI

01

Donald A. Norman, The design of everyday things, Currency Doubleday, New York 1988, pag. 09

02

Donald A. Norman, The design of everyday things, Currency Doubleday, New York 1988, pag. 33

03

http://www.frontend.com/products-digital-devices/real-or-imaginary-the-effectiveness-of-using-

personas-in-product-design.html

04

Frank Long, Real or Imaginary; The effectiveness of using personas in product design, Proceedings

of the Irish Ergonomics Society Annual Conference, May 2009, ISSN 1649-2102, Dublin 2009, pag. 11

05

http://www.chrisoshea.org/projects/cybrid/

06

Dan Saffer, Design dell’interazione, Pearson Education, 2007, pagg. 49-50

07

Carlotta Latessa, Laboratorio di grafica 2, Università La Sapienza, Roma, a.a. 2007/2008, pag. 03

08

Donald A. Norman, The design of everyday things, Currency Doubleday, New York 1988, pag. 31

09

Dan Saffer, Design dell’interazione, Pearson Education, 2007, pag. 68

10

Dan Saffer, Design dell’interazione, Pearson Education, 2007, pag. 58

11

http://lawsofsimplicity.com/

12

Fred Dust, Ilya Prokopoff, Designing systems at Scale, Harvard Business Publishing, 2009, pag. 04

13

Fred Dust, Ilya Prokopoff, Designing systems at Scale, Harvard Business Publishing, 2009, pag. 05

14

Dan Saffer, Design dell’interazione, Pearson Education, 2007, pag. 41

15

Bruce Sterling, La forma del futuro, Apogeo, Milano 2006, pagg. 22 e 84

46


ELENCO DELLE FONTI: IMMAGINI

01

http://blogs.sun.com/eclectic/resource/diagram/PPTMooresLawai.jpg

02

http://www.masternewmedia.org/images/technology_stockxpertcom_id1218361_size1.jpg

03

http://www.folblog.it/wp-content/uploads/2009/01/image32.png

04

http://www.acm.org/crossroads/xrds10-2/gfx/cogmit1.jpg

05

http://www.jnd.org/NNg-Photographs/Photo2.jpg

06

http://www.nukeworker.com/pictures/albums/userpics/20819/control_room~0.jpg

07

Donald A. Norman, The design of everyday things, Currency Doubleday, New York 1988, pag. 34

08

http://flickr.com/photos/tvojta/16978314/

09

http://2.bp.blogspot.com/_ulwCg9X5PXg/SIDy0LYfecI/AAAAAAAAAFo/csWpNIt5RhY/s400/

Norman-CoffeePotMasochist.jpg

10

IDEO, Method Cards: 51 Ways to Inspire Design, William Stout, San Francisco 2003, pag. 04

11

http://wiki.openusability.org/kivio/images/3/31/Kivio-personas-overview.png

12

http://www.frontend.com/products-digital-devices/real-or-imaginary-the-effectiveness-of-using-

personas-in-product-design.html

13

http://www.flickr.com/photos/driveblind/3498583210/

14

http://www.iaacblog.com/internet0/wp-content/uploads/2008/01/box.jpg

15

http://www.visit-londoncity.com/london_tips/pictures/underground_map.jpg 47


ELENCO DELLE FONTI: IMMAGINI

16

http://www.macvswindows.com/images/b/be/osx_minimize_genie.jpg

17

http://www.chrisoshea.org/files/projectimages/cybrid-2.jpg

18

Donald A. Norman, The design of everyday things, Currency Doubleday, New York 1988, pag. 30

19

Donald A. Norman, The design of everyday things, Currency Doubleday, New York 1988, pag. 28

20

http://www.granneman.com/images/xeroxViewpoint.jpg

21

Bill Moggridge, Designing Interactions, The MIT Press, Cambridge 2007, pag. 74

22

http://www.experientia.com/blog/uploads/2006/09/simplicity_complexity.jpg

23

http://hottub.hotstudio.com/wp-content/uploads/2009/01/safferixda.jpg

24

Bill Moggridge, Designing Interactions, The MIT Press, Cambridge 2007, pag. 612

25

http://www.ideo.com/news/designing-systems-at-scale/

26

http://ieet.org/images/expgro.png

27

http://manwithoutqualities.files.wordpress.com/2008/11/jacking.jpg

28

http://www.nanogirl.com/museumfuture/images/dermalsml.jpg

29

http://mitpress.mit.edu/images/products/books/9780262693264-f30.jpg

30

http://www.robotstoreuk.com/actuators/air-muscle/air-muscle-images/arm-glass-hand-50PC.jpg

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COLOPHON

Font intestazioni:

Avenir 85, 10 pt

titoli:

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testi:

Archer Pro Book, 11 pt / 15 pt

citazioni:

Archer Pro Book Italic, 11 pt / 15 pt

didascalie:

Avenir 55, 8 pt

The Avenir font family by Adrian Frutiger is a registered trademark of Linotype GmbH, © 1988 + The Archer Pro font family by Jonathan Hoefler and Tobias Frere-Jones is a registered trademark of H&FJ Inc, © 2008 + Software Il presente libretto è stato interamente realizzato con l’uso di software Adobe® Creative Suite CS4, su piattaforma Apple® OSX. L’ impaginazione è stata realizzata in InDesign®, mentre le illustrazioni sono state ottenute/riadattate in Adobe® Illustrator® e Adobe® Photoshop® Extended. Stampa Il presente libretto è stato interamente stampato a laser in quadricromia CMYK, su supporto standard 100gr/m2.

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