Le ragioni del designer

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San Marino University Press Design, arti e comunicazione


LE RAGIONI DEL DESIGN Progetto, ricerca, università Viviana Altafin Laura Badalucco Sebastiano Bagnara Alberto Bassi Riccardo Blumer Alessandra Bosco Massimo Brignoni Serena Brovelli Fiorella Bulegato Silvia Gasparotto Roberto Groppetti Corrado Loschi Luigi Mascheroni

Sergio Menichelli Francesco Messina Massimo Pitis Simone Pozzi Ramin Razani Dario Scodeller Gianni Sinni · Riccardo Varini Michele Zannoni Marcello Ziliani Marco Zito Alberto Zoni

a cura di Alberto Bassi e Fiorella Bulegato

San Marino University Press


Indice

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Giorgio Petroni

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Medardo Chiapponi

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Alberto Bassi e Fiorella Bulegato Introduzione

I. Teoria, storia e critica

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Alberto Bassi Nuovi contesti e condizioni per il design contemporaneo

24 Riccardo Blumer Filosofia e design 30 Dario Scodeller Le ragioni del designer 40 Fiorella Bulegato La formazione dell’industrial designer in Italia (1950-72)

II. Una disciplina “laterale”: nuclei, bordi, confini, nodi

54 Sebastiano Bagnara e Simone Pozzi Interaction design e riflessione 62 Michele Zannoni Il design è interazione? 72 Sergio Menichelli e Serena Brovelli Information design

104 Ramin Razani Paradigmi scientifici e progetto 114 Alberto Zoni Il progetto dei materiali contemporanei III. Design, ricerca e formazione 126 Alessandra Bosco Per una formazione del designer 136 Laura Badalucco «Progettare è facile quando si sa come si fa» 144 Luigi Mascheroni con Viviana Altafin Per una didattica del product design 152 Francesco Messina Il martello e il microscopio 162 Massimo Pitis Insegnare visual design: atteggiamento e processo 168 Corrado Loschi Strategie e strumenti per la comunicazione online 178 Marco Zito Professione e didattica per il progetto 186 Marcello Ziliani e Silvia Gasparotto Un approccio sostenibile

80 Gianni Sinni Design in movimento. Il progetto visivo esteso nel tempo

194 Massimo Brignoni Design per/con i sud del mondo

92 Roberto Groppetti Oltre la tecnoscienza: Prometeo ed Epimeteo

204 Riccardo Varini Design e borghi antichi. La misura del vuoto


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LE RAGIONI DEL DESIGNER Dario Scodeller

Su www.wikipedia.org la voce rock progressivo (2013) – la musica dei Pink Floyd, per intenderci – è un testo estremamente esaustivo sul fenomeno, di circa 170.000 battute (85 cartelle editoriali). La voce industrial design (2013), sulla stessa enciclopedia online, può contare su un misero testo di 6.800 battute (12.680 nella versione in lingua inglese): meno di una “tesina”. Naturalmente wikipedia, enciclopedia basata sul volontariato intellettuale, non è un significativo metro di paragone del valore culturale di un fenomeno (molti calciatori godono di una biografia più corposa di quella di Walter Gropius), ma può essere assunta a unità di misura dell’interesse che suscita una “materia” e della difficoltà di definire e soprattutto di far comprendere i propri ambiti disciplinari. Condivide lo stesso destino la voce arte che, due secoli e mezzo fa, sull’Encyclopédie, ou Dictionnaire raisonneé des sciences, des arts et des métiers, vantava un testo di ben 8 colonne.


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«Il tempo della bellezza è passato – scriveva sconsolato Gustave Flaubert in una lettera a Louise Colet il 24 aprile 1852 (1997, p. 390). L’umanità (…) non sa che farsene per più di un quarto d’ora. Più si andrà avanti, e più l’arte sarà scientifica, come la scienza diventerà artistica». L’identità del designer si è formata nel corso degli ultimi centocinquant’anni, emancipandosi progressivamente da altre figure che operano nell’area della creatività, del progetto e dell’invenzione. L’anno 1852 e la lettera di Flaubert sono un buon punto di partenza per questa breve riflessione critica. Nell’ottobre dell’anno precedente, si era appena conclusa a Londra la Great Exhibition e Christopher Dresser, ventenne, aveva appena ultimato i suoi corsi alla Scuola di design di South Kensinghton. «Non c’è dubbio che avessi delle naturali doti d’artista – racconterà Dresser in un’intervista, molti anni più tardi (Gere, Whiteway, 2004, p. 18) – ma vorrei ricordare che, affinché lo diventassi, i miei genitori mi iscrissero alla School of design; e la conseguenza fu che non ho più potuto essere un artista». Non dice «non ho voluto essere un artista», Dresser, ma «as a consequence, I may not be an artist»1. Non mi è (più) stato possibile esserlo. Non sappiamo se questa consapevolezza Dresser l’abbia maturata mentre compilava le tavole per i suoi corsi di botanica, o durante il viaggio in Giappone nel 1876 o mentre disegnava le sue straordinarie teiere in acciaio galvanizzato per la James Dixon & Sons di Sheffield. Certamente la sua affermazione è un fatto di notevole interesse per la storia del design, perché sancisce uno dei momenti in cui il progetto di artefatti industriali si emancipa dal fare artistico e artigianale e diventa qualcosa d’altro. Si discute oggi diffusamente dei confini tra fare arte e fare progetto. «In quasi tutti i centri di formazione più avanzati, il design viene insegnato accanto alle cosiddette Fine Arts – ha scritto recentemente Angela Vettese (2011, p. 8); come a dire che le soluzioni migliori per problemi di carattere pratico si trovano anche frequentando la tradizione delle forme inutili, quelle che hanno un carattere votivo o totemico, o di riconoscimento simbolico di una società culturalmente coesa». Non c’è dubbio che arte e progetto siano discipline contigue (una influente corrente del design italiano cerca da almeno trent’anni di ricongiungere il territorio del design a quello delle “arti”), ma in una prospettiva in cui l’arte utilizza sempre più spesso i procedimenti del progetto (dove l’artista è sempre meno artefice e sempre più ideatore) sembrerebbe più utile al design (inteso come disciplina del progetto) avere coscienza della propria autonomia. Cercheremo di capire in che cosa consiste. I miti della creatività e dell’invenzione Se Dresser sembra restringere il campo d’azione del designer rispetto al variegato mondo delle arti, è William Morris ad ampliarlo a dismisura e anche questo fatto non sarà senza conseguenze per la pratica del progetto. In una conferenza tenuta allo University College di Oxford il 14 novembre del 1883 Morris (1979, p. 66), parlando del destino delle arti applicate, affermava: «vi debbo chiedere di voler considerare la parola nel suo più ampio significato, oltre i limiti di quelle opere d’arte che sono consapevolmente prodotte come tali, talché comprenda, al di là della pittura, della scultura, dell’architettura, anche le forme e i colori di tutti gli oggetti domestici, anzi perfino la sistemazione dei campi per le colture e dei pascoli, la gestione delle città e delle strade di ogni genere, in una parola essa deve comprendere tutti gli aspetti esteriori della nostra vita». E anche ogni trasformazione ope1 Tda, testo originale: «That I was intended by nature as an artist, I do not dubt; but let it ever be remembered that, with a view of causing me to become one, my parents placed

me at a ‘school of design’; as a consequence, I may not be an artist».


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rata dall’uomo «sulla superficie terrestre, in vista delle necessità umane, eccettuato il puro deserto», aveva sostenuto Morris in una precedente conferenza (1881/1963, pp. 3-4). Si tratta, da un lato, di una teoria unificante e, dall’altro, di un’estensione del campo d’azione del progetto che chiede al designer di considerare l’ambiente domestico, e il più vasto ambiente antropizzato, come spazio di azione consapevole, nel quale la dimensione estetica deve essere intesa come beneficio sociale2. Ma i segni che i designer lasciano impressi sulla superficie della terra non sono che forme transitorie di un’unica matrice. Si tratta di una matrice culturale, ci avverte George Kubler (1989). Nel fortunato saggio La forma del tempo, scritto nel 1960, lo storico dell’arte americano sottolinea come la cultura sia fondamentalmente un “autoritratto riflesso nelle cose”3, formato da lunghissime sequenze temporali di oggetti che si evolvono da tipi primi (o archetipi) con piccole variazioni4. La maggior parte degli oggetti sono repliche e il designer deve imparare a convivere con la frustrante consapevolezza che egli è uno “strumento del tempo”: il suo lavoro consiste nel modificare (e spesso non di molto) “tipi primi” elaborati da altri che lo hanno preceduto. All’interno della cultura del progetto questa frustrazione alimenterà due miti: uno è quello neo-romantico della creatività, l’altro è quello dell’invenzione. Sono due miti, inoltre, spesso amplificati all’interno delle scuole che dovrebbero avere invece il compito di aiutare i designer a sfatarli entrambi. «Nell’ambito della natura generale delle discipline formali – ha scritto Norman Potter (2010, p. 56) – è necessario accennare a un’assurdità, piuttosto comune, diffusa in alcuni college e sostenuta, più con vigore che con comprensione, dagli esaminatori: l’idea che qualsiasi proposta di design debba per sua natura esprimere “un pensiero nuovo e originale”». Persino l’Icsid (International Council of Societies of Industrial Design, nd) cade in questo equivoco con la sua definizione di design il cui incipit è: «Design is a creative activity whose aim is...». L’accademia eredita il mito della creatività da un vizio critico della storia dell’arte che da sempre, come ricordava in Storia della critica d’arte Lionello Venturi (1964, p. 61), colloca “il meglio” in un’età dell’oro mitica e insuperata, di cui “l’arte d’oggi” è solo un pallido riflesso. Il genio creatore assume in questo mito la funzione messianica di colui che rinnova, riattualizzandola, la speranza di un’età aurea. Questo valeva per l’arte greca dell’età antica, per il Michelangelo di Vasari e vale, ancor’oggi, per la storiografia del design italiano, che colloca l’età mitica nell’attività dei Maestri, dei quali saremmo solo incerti epigoni5. 2 Svilita spesso nello slogan “dal cucchiaio alla città”, questa estensione del campo d’azione del progetto “unità di metodo alle differenti scale del progetto” – come lo intendeva Ernesto Nathan Rogers –, è un principio guida che ha formato tre generazioni di designer. 3 Kubler, al pari di altri intellettuali nel corso degli anni sessanta, attribuendo pari dignità a cultura materiale e artefatti artistici, ha contribuito a gettare le basi della legittimazione dell’industrial design come disciplina. «La storia delle cose intende riunire idee e cose sotto la rubrica di “forme visive” includendosi in questo termine sia i manufatti che le opere d’arte, le repliche e gli esemplari unici, gli arnesi e le espressioni: in breve tutte le materie lavorate dalla mano dell’uomo sotto la guida di idee collegate e sviluppate in sequenza temporale. Da tutte queste cose emerge una forma del tempo, si delinea un ritratto visibile dell’identità collettiva, sia essa tribù, classe o nazione. Questo autoritratto riflesso nelle cose serve al gruppo come guida e punto di riferimento per il futuro e diviene finalmente il ritratto tramandato ai posteri» (Kubler, 1989, p. 17).

4 «Per oggetti primi e repliche intendiamo le principali invenzioni con tutto quel complesso di duplicati, riproduzioni, copie, riduzioni, trasposizioni, e derivazioni che seguono sulla scia di un’importante opera d’arte […] Oggetti primi assomigliano ai numeri primi della matematica: non si conosce una regola conclusiva che regoli la loro apparizione. Gli oggetti primi costituiscono entità originali […] il loro carattere non trova spiegazione negli antecedenti e il loro ordine storico è enigmatico» (Kubler, 1989, pp. 50, 51). 5 In un recente articolo su Casabella il direttore, nonché uno dei massimi storici di architettura contemporanea, Francesco Dal Co, dichiara esplicitamente che: «Il successo indiscutibile che la cultura italiana si è meritata era frutto di una palese specificità che la differenziava da quanto avveniva in altri paesi, dove diverse erano le tradizioni e le culture imprenditoriali: i migliori progettisti di oggetti d’uso italiani erano prevalentemente se non prima di tutto, architetti – ossia professionisti capaci di declinare nella progettazione di oggetti e merci il modo di pensare e concepire gli artefatti che la pratica dell’architettura insegna» (2012, p. 74).


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Il talento è una predisposizione comune – ci ricorda Kubler (1989, p. 15) – e il talento dei primi arrivati minimizza quello degli altri. E prosegue con una formidabile definizione del genio come «fortuita congiunzione di attitudine e situazione – e dunque come – un prodotto di educazione più che una caratteristica genetica». Nel 1923, in un famoso saggio sulla teoria e l’organizzazione del Bauhaus, Walter Gropius (1938, p. 23) sostiene molto chiaramente che: «Il percorso di studi accademico finisce con il produrre una vasta categoria di proletariato artistico destinato alla fame». E continua: «Il principale errore sul piano pedagogico dell’accademia deriva dalla sua preoccupazione per l’idea di genio individuale e dalla sua svalutazione per il raccomandabile raggiungimento di un livello meno esaltante». Alberto Meda, parlando della sua esperienza d’insegnamento al Corso di laurea magistrale in Disegno industriale di Venezia, mi suggeriva l’idea che insegnare il design significhi, principalmente, “sviluppare delle attitudini”6. Per fare il designer, dunque, è necessario avere una predisposizione al progetto; ma compito di una scuola di design non è “selezionare il genio” o “stimolare la creatività”, ma formare (indirizzare, ispirare) una collettività di progettisti attraverso una preparazione culturalmente aperta, educandoli alla ricerca, dotandoli di validi strumenti di indagine della realtà e di una eccellente preparazione disciplinare. In questo contesto anche creatività e “genio” individuali troveranno un’adeguata collocazione. «Nell’architettura e nel design – sosteneva Marco Zanuso in un’intervista del 1988, nel pieno del tattoism post-modernista (Magnago Lampugnani, 1988, p. 17) – […] la carenza di preparazione disciplinare di base si paga cara. Molti studenti incontrano difficoltà proprio perché, mancando il supporto di tale formazione, si trovano in una condizione di grande fragilità: non ci si può avventurare in altre discipline senza aver solida conoscenza della propria»7. Un discorso analogo si potrebbe fare per l’invenzione. Nonostante l’attività “inventiva” sia, da almeno un secolo, nelle sue forme più significative, frutto dell’attività di gruppi e centri di ricerca, l’invenzione (e il conseguente mito del brevetto) produce ancora una sorprendente fascinazione nello studente delle scuole di design. Ma tra invenzione e innovazione il passaggio non è quasi mai scontato. Nel 1950, uno dei grandi protagonisti del design americano, Raymond Loewy, intitola la sua autobiografia Never leave well enough alone. “Leave well enough alone” è un modo di dire che gli americani usano come avvertimento: se una cosa è ben fatta lasciala stare, non cercare di migliorarla, potresti far peggio. Loewy invita ad andare contro questo luogo comune e ci mette un “Never” davanti. Mai lasciare le cose come stanno (per quanto ben fatte). Il designer non deve mai lasciare intentata, inesplorata la possibilità di migliorarle, spiega Loewy, che ha improntato a questo atteggiamento tutta la sua attività a partire dagli anni trenta (Loewy, 1951). In questo egli non fa che seguire una tradizione americana consolidata: quella dell’improvement, del costante miglioramento8. Negli Stati Uniti, la legge che nel 1836 riformula le ossia professionisti capaci di declinare nella progettazione di oggetti e merci il modo di pensare e concepire gli artefatti che la pratica dell’architettura insegna» (2012, p. 74). 6 L’affermazione di Meda è contenuta in un’intervista raccolta per un saggio sul rapporto tra pratica e insegnamento del design da me curato e di prossima pubblicazione. 7 L’affermazione di Zanuso è ancora più significativa se si considera il momento storico in cui viene fatta, con il design ridotto programmaticamente a “trattamento delle superfici”, a “decorazione della pelle”: a tatuaggio, appunto. Il

corso di critica e storia del progetto tenuto dal prof. Alberto Bassi, al terzo anno del Corso di laurea in Disegno industriale dell’Università degli Studi della Repubblica di San Marino, ha svolto un serio lavoro di ricognizione delle fonti relative alla pratica e alla teoria progettuale di Marco Zanuso designer. Ringrazio Lorenzo Scodeller per avermi segnalato il punto di vista di Zanuso sul pericolo della tecnologia dimezzata e sulla concezione organica del progetto. 8 Così Alexis de Tocqueville descriveva il carattere degli americani nel 1832: «L’americano abita una terra di prodigi, intorno a lui tutto si muove incessantemente, e ogni


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normative sul brevetto d’invenzione impone di depositare, assieme al disegno, un modello tridimensionale e all’Ufficio brevetti di esporlo. Era viva la consapevolezza che la maggior parte delle invenzioni altro non fossero che varianti e miglioramenti di oggetti precedenti e che la loro esposizione al pubblico avrebbe stimolato idee migliorative (innovazione) nei visitatori dotati di intelligenza tecnica e fatto in modo che la qualità tecnologica, e quindi l’utilità sociale degli oggetti, progredisse. La reinvenzione tipologica è certamente uno dei maggiori contributi storici del design italiano e un utile esercizio concettuale per i designer; ma gli archetipi (gli oggetti primi), ci ricorda Kubler, compaiono con una sequenza non prevedibile: Anglepoise, Luxo, Tizio, Tolomeo, Fortebraccio e poi quale sarà la prossima lampada? La consapevolezza per la propria identità culturale matura quando il designer, rinunciando a consolatorie “ispirazioni”, pone in atto delle azioni di ricerca che gli permettono di andare oltre i limiti delle idee e dei risultati che hanno preceduto le sue riflessioni e il suo fare. Si tratta di un lavoro a volte faticoso, nel quale egli, se da un lato può avvalersi di tale mole di esperienze sedimentate in molteplici tentativi, deve spesso rassegnarsi al limitato apporto che invenzione e creatività offrono a questo processo. Il progetto come strumento di azione nella realtà Superato il fascino di questi due miti, il designer deve chiedersi se esista un carattere “specifico” della disciplina del progetto e quali siano i limiti di questa presunta autonomia. Per tentare una risposta è necessario andare all’origine della definizione di design e di disegno industriale come progetto e quindi tornare a wikipedia, ma questa volta per un utilissimo link che ci porta a consultare l’edizione originale dell’Encyclopédie. È risaputo che ancora oggi nella lingua italiana la parola diségno mantiene il suo significato di intento, proposito, progetto9. È con questo significato, già implicito nella sua radice etimologica latina (dèsignum), che essa è passata nella lingua inglese ed è poi ritornata a noi sotto forma di design. Se cerchiamo nell’Encyclopédie, alla voce projet, compilata nel 1765, troviamo questa identità chiaramente esplicitata: «Progetto, Disegno, (Sinonimi). Il progetto è un piano, un’organizzazione di mezzi, per la realizzazione di un disegno: il disegno è ciò che vogliamo realizzare»10 (Projet, 1765, p. 441). Nel 1969, durante un’intervista in occasione della mostra Qu’est ce que le design? a Parigi, Charles Eames (Amic, 1969) alla domanda dell’intervistatrice: «Qual è la sua definizione di design, messieur Eames?» risponde: «Si potrebbe definire il design come un piano in cui gli elementi sono predisposti per raggiungere un determinato scopo (per assolvere un determinato fine)»11. movimento sembra un progresso. Nella sua mente l’idea di nuovo è quindi strettamente legata con l’idea di meglio» (de Tocqueville, 2006, p. 427). 9 Nicola Zingarelli, fin dalla prima edizione del 1922 del suo vocabolario, identifica quattro significati della parola diségno: «1. Rappresentazione di figure con segni visibili su carta. 2. Maestria nella disposizione e nell’ordine dell’invenzione. 3. Ordine e forma di una composizione. 4. Pensiero, Intenzione, Mira, Scopo, Progetto, Piano. E alla parola disegnare attribuisce i significati di: mostrare, indicare, segnare, significare, dinotare. | Far progetto, progettare, fare disegno, ordinare con la mente prima di eseguire» (Zingarelli, 1922, p. 388). Pronunciata con la dizione corretta, con la esse dura (come ancor oggi a Parma o a Piacenza) la parola disegno denota ancor di più la sua vicinanza con la parola design. Questa la definizione etimologica: «Disegnàre dal

lat. DESIGNA’RE, propr. notare con segni, composto della particella DE di e SIGNUM segno, immagine effigie (v. Segno). – Ritrarre per via di segni con matita, penna o altro simile istrumento, la forma di un oggetto; fig. Descrivere con parole, e nel metafisico Tracciare nella mente le linee principali di un lavoro; ideare; ed anche prefiggersi col pensiero, Determinare» (Pianigiani, 1907, p. 423). 10 Tda, testo originale: «Projet, Dessein, (Synonymes). Le projet est un plan, ou un arrangement de moyens, pour l’exécution d’un dessein: le dessein est ce qu’on veut exécuter». 11 Tda, testo originale: «One could describe Design as a plan for arranging elements to accomplish a particular purpose».


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La sorprendente similitudine di tali definizioni ci conferma che il significato della parola progetto ci sta di fronte nella sua chiarezza da almeno due secoli e spiega esplicitamente che si tratta di un’attività che pianifica e perciò pre-vede, che organizza mezzi e dispone elementi con intenzione, in vista di uno scopo, di un obiettivo, di un’azione nella realtà, di cui il disegno è un dispositivo sintetico. Solo che l’Encyclopédie dice: «arrangement de moyens» (organizzazione, disposizione di mezzi) e Eames: «arranging elements» (organizzazione, disposizione di elementi). Calando questo significato all’interno del contesto “industriale” le cose si complicano. Nell’Encyclopédie la definizione di industria non c’è. Al suo posto troviamo la voce manufacture, compilata anch’essa nel 1765. È una voce difficile da affrontare, premette il compilatore, perché pone all’enciclopedista un problema di metodo d’indagine. «Si dovrebbe pensare infatti – sostiene – che la descrizione di questa materia sia esaustiva solo se trattata da persone che hanno coniugato l’esperienza con la teoria; ma gli industriali scrivono poco, e coloro che non lo sono hanno ordinariamente delle idee molto superficiali su ciò che si può imparare solo con l’esperienza»12 (Manufacture, 1765, p. 60). Dunque, chi è preparato a parlare di industria? Eppure sarà soprattutto sulla fabbricazione delle cose che s’incentrerà la dettagliata attenzione delle tavole che accompagnano l’Encyclopédie e ne formano il pendant visivo. L’intellettuale illuminista – secondo Roland Barthes (1975, sp) – è il primo a porsi di fronte al mondo degli oggetti e della loro produzione in modo analitico e descrittivo. «Prima della letteratura – ha scritto – l’Encyclopédie, in particolare nelle sue tavole, pratica quella che potremmo in qualche modo chiamare una filosofia dell’oggetto; in altre parole, riflette il suo essere, ne compie una rivelazione, tenta di definirlo; il disegno tecnologico obbligava a descrivere gli oggetti, certamente; ma separando le immagini dal testo, l’Encyclopédie si impegnava in un’iconografia autonoma dell’oggetto»13. Descrivendo sinotticamente i luoghi, i procedimenti e i mezzi di produzione degli oggetti, le tavole dell’Encyclopédie affidano al disegno (prospettico e assonometrico) un ruolo analitico circa le componenti e sintetico circa le forme, che è già di tipo progettuale. La definizione di manufacture si sofferma poi su una serie di presupposti che permettono all’industria di esistere: la localizzazione, l’organizzazione del lavoro ecc. Uno di questi presupposti è di un’attualità sconcertante ed esige: «Che gli oggetti di cui essa si occupa non siano soggetti al capriccio della moda, o che essi lo siano in misura minore delle varietà nelle specie del medesimo genere»14 (Manufacture, 1765, p. 60). Vale a dire: una lampada dev’essere meno soggetta alla moda di un paio di scarpe, un’automobile meno di una lampada. L’attualità di questo problema e la chiarezza con cui l’enciclopedista lo affronta ci inducono a pensare che il vero problema nel definire gli ambiti disciplinari del disegno industriale non sia tanto capire cosa sia il progetto, ma cos’è oggi e cosa sarà nei prossimi anni l’industria. 12 Tda, testo originale: «Il ne faut pas croire cependant que cette matiere soit épuisée, comme elle pourroit l’être, si elle n’avoit été traitée que par des gens qui auroient joint l’expérience à la théorie; mais les fabriquans écrivent peu, & ceux qui ne le sont pas n’ont ordinairement que des idées très-superficielles sur ce qui ne s’apprend que par l’expérience».

si organizzano qua e là per il mondo e di cui l’illustrazione enciclopedica fu, a suo tempo, quasi un’antenata: in entrambi i casi si ha a che fare con un bilancio e, insieme, con uno spettacolo: tacendo di altri motivi, lo spirito con cui le planches dell’Encyclopédie chiedono di essere avvicinate non differisce da quello con cui ci si reca alle esposizioni di Bruxelles e di New York» (Barthes, 1975, sp).

13 «Le tavole dell’Encyclopédie presentano l’oggetto, e tale presentazione aggiunge già, allo scopo didattico, una giustificazione più gratuita, di ordine estetico o onirico: a niente le tavole dell’Encyclopédie si possono accostare così bene come alle grandi esposizioni che da un centinaio d’anni

14 Tda, testo originale: «Que les objets dont elles s’occupent ne soient point exposés au caprice de la mode, ou qu’ils ne le soient dumoins que pour des varietés dans les especes du même genre».


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Resta un’ultima questione. Cosa intende Charles Eames quando dice che il design è «arranging elements»? Cos’è la composizione e qual è il suo rapporto con la bellezza? John Ruskin in una lettera del marzo 1877 sosteneva che: «Tutte le belle linee sono disegnate secondo leggi matematiche organicamente trasgredite»15 (Read, 1934, p. 2). «Per organico – scrive Gillo Dorfles a commento di questa affermazione – non si deve intendere qui qualcosa di naturalistico, ma un procedimento formativo». Il criterio compositivo deve essere guidato da un ordine che «non sarà né matematico né fisiologico, sarà un ordine peculiarissimo, quello stesso che forse Goethe intravvide alla base della sua Gestaltung, quell’ordine che permette il succedersi, entro una proporzionalità costante, eppure continuamente trascesa, di forme in continuo divenire, ma partecipi d’un’inalterabile e costante essenza formativa» (Dorfles, 2011, p. 69). «Quando si dice organicismo – sosteneva Marco Zanuso – si vuol dire che a un certo punto bisogna tenere presenti anche altre possibilità progettuali. Questo organicismo ci dà delle liberazioni diverse e più complesse, più aperte a una concezione non tanto della forma come caratteristica estetica dell’oggetto, quanto come forma dell’ambiente nella sua dimensione più ampia» (Magnago Lampugnani, 1988, p. 18). L’essenza formativa, dunque, la concezione della forma, è astrazione prima che rappresentazione e, come il significato della parola diségno ci ricorda, essa ha a che fare col tracciare nella mente, con l’ideare, con il prefigurare col pensiero. Per questo motivo, scriveva ancora Flaubert in un’altra lettera a Louise Colet, il 13 settembre 1852: «Rifletti, rifletti prima di scrivere. Tutto dipende dalla concezione. Questo assioma del grande Goethe è il più semplice e meraviglioso riassunto e precetto di ogni opera d’arte possibile» (1997, p. 398). 15 Tda, testo originale: «All beautiful lines are drawn under mathematical laws organically transgressed».


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