Fruitore, Opera, Spazio

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FRUITORE, OPERA, SPAZIO

Relazioni tra uomo e opera all’interno degli allestimenti di arte contemporanea

Tesi di Davide Graniti



FRUITORE, OPERA, SPAZIO

Relazioni tra uomo e opera all’interno degli allestimenti di arte contemporanea

Tesi di laurea di I livello Relatore: Barbara Bogoni Laureando: Davide Graniti 747800

Politecnico di Milano - Polo Regionale di Mantova Scuola di Architettura e Società, A.A. 2012-2013 Corso di Studi in Scienze dell’Architettura



INDICE 6 12

Introduzione CAPITOLO 1 LE MODALITà STATICHE E DINAMICHE DELLA PERCEZIONE DELL’OGGETTO

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Schede di analisi: 1 - Museo di Castelvecchio, Verona, Carlo Scarpa, 1957 2 - Guggenheim Museum, New York, Frank Lloyd Wright, 1959 3 - Neue Nationalgalerie, Berlino, Mies van der Rohe, 1968 CAPITOLO 2 ALLESTIRE

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Schede di analisi: 4 - Variazioni dello spazio allestito: Basilica Palladiana di Vicenza

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CAPITOLO 3 FRUITORE, OPERA, SPAZIO: I SOGGETTI DEL MOSTRARE

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3.1 Il Fruitore

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3.2 L’Opera

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3.3 Lo Spazio

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CAPITOLO 4 FRUITORE, OPERA, SPAZIO E LORO INTERAZIONI RECIPROCHE

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4.1 Uomo, Opera (e loro interazioni) Schede di analisi: 5 - La percezione collettiva dell’opera 6 - La percezione individuale dell’opera 4.2 Uomo, Spazio (e loro interazioni) Schede di analisi: 7 - Spazi espositivi di grande scala 8 - Spazi espositivi di piccola scala

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4.3 Opera, Spazio (e loro interazioni)

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Schede di analisi: 9 - Uno spazio / Diverse opere 10 - Una sola opera / Spazi diversi


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CAPITOLO 5 ANALISI DELLE MODALITà DI APPROCCIO UOMO-OPERA nello spazio allestito

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Legenda Schede di analisi:

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11 - ARCHITETTURA A MISURA D’UOMO, E. N. Rogers, V. Gregotti; Palazzo Reale di Milano, Italia, 1951 12 - L’ARRIVO AL MARE, G. Aulenti, C. Aymonino, S. Paciello, J. Gardella; Palazzo dell’arte di Milano, Italia, 1964 13 - CALEIDOSCOPIO, V. Gregotti, L. Meneghetti, G. Stoppino; Palazzo dell’arte di Milano, Italia, 1964 14 - LA VITALITà DEL NEGATIVO, Studio Sartogo; Plazzo delle Esposizioni Roma, Italia, 1970 15 - L’ALTRA METà DELL’AVANGUARDIA, Achille Castiglioni; Palazzo Reale di Milano, Italia, 1980 16 - ALEXANDER CALDER, Renzo Piano Building Workshop; Palazzo Vela, Torino, Italia, 1983 17 - THE WORLDS OF NAM JUNE PAIK, John G. Hanhardt, Jon Ippolito; Guggenheim, New York, Stati Uniti, 2000 18 - EAU MOLLE, Leandro Erlich; Tolosa, Francia, 2003 19 - SWIMMINGPOOL, Leandro Erlich; 21st Century Museum of Contemporary Art, Kanazawa, Giappone, 2004 20 - SEEING YOUR SPIRIT, Leandro Erlich; Centro di Arte Contemporanea, Saint Nazaire, Francia, 2005 21 - TIME, TIMELESS, NO TIME, Walter de Maria, Tadao Ando; Chichu Art Museum, Naoshima, Jappone, 2004 22 - TANATOSI, Marzia Migliora; GAM, Torino, Italia, 2006 23 - ALTERED EARTH, Doug Aitken, Grande Halle, Arles, Francia, 2007 24 - MATTERBALL, NAU Architecture & Design; Stoccarda, Germania, 2007 25 - HEAD IN, MAGMA Architecture; Berlinische Galerie, Berlino, Germania, 2007 26 - APPEEL, The Green Eyl, Londra, 2007 27 - LOTUS: ZONE OF ZERO, Kimsooja; Revenstein Galerie, Bruxelles, Belgio, 2008 28 - (IM)MATERIAL PROCESSES EX.HIBITION DESIGN, Elevation Workshop; 798 Space, Pechino, Cina, 2008 29 - PADIGLIONE MIGUEL RIO BRANCO, Arquitetos Associados & Miguel Rio Branco; Inhotim, Brasile, 2008 30 - VIEWING MACHINE, Olafur Eliasson; Inhotim, Brasile, 2008 31 - HASSELT B, Krijn de Koning; Z33, Hasselt, Belgio, 2009 32 - YOU FADE IN LIGHT, Random Architects; Carpenter Galleries, Londra, Berlino, Parigi, 2009 33 - WHISPERING TABLES, The Green Eyl; Museo ebraico di Berlino, Germania, 2009 34 - TWO CARPS, Kengo Kuma & associates; Palazzo della Ragione di Padova, Italia, 2009 35 - KOGEI TRIENNALE PRE-EVENT, Nendo; 21th Century Art Museum, Kanazawa, Giappone, 2009 36 - SONIC PAVILLION, Doug Aitken; Inhotim, Brasile, 2009 37 - SWARM LIGHT, Random Architects; Carpenter Galleries, Londra, Berlino, Parigi, 2010 38 - KOGEI TRIENNALE, Nendo; Libreria di Kanazawa, Giappone, 2010 39 - GRIGIO NON LINEARE, Eva Marisaldi; EX 3, Firenze, Italia, 2010 40 - EDA, Emanuelle Moureaux, Tokyo, Giappone, 2010 41 - HYLOZOIC, Philip Beesley Architect; Biennale di Venezia, Italia, 2010 42 - RAPPORT, Jungen Mayer; Berlinische Galerie, Berlino, Germania, 2011 43 - BUBLE WRAP, Kengo Kuma & associates; Dojima River Biennale, Fukushima, Giappone, 2011 44 - VIDES POUR UN PATIO, Krijn de Koning; Musée des Beaux-arts, Nantes, Francia, 2011 45 - RADA, Marzia Migliora; EX 3, Firenze, Italia, 2011 46 - TOKI, Emanuelle Moureaux; Tokyo Designtide, Tokyo, Giappone, 2012 47 - BATIMENT, Leandro Erlich; Parigi, Francia, 2012 48 - MURDER OF CROWS, Cardiff & Miller; Park Avenue Armory, New York, Stati Uniti, 2012

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CONCLUSIONE

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BIBLIOGRAFIA RAGIONATA



INTRODUZIONE La volontà di intraprendere questo specifico tema per lo sviluppo della mia tesi è nato dopo essermi confrontato con un progetto affrontato durante il laboratorio tematico opzionale di restauro. In questa occasione sono stato chiamato a ricomporre un’ala del Palazzo Ducale di Mantova, sottoponendola ai più adeguati interventi di restauro e trovando una nuova funzione per questo spazio ormai in disuso. L’area in questione ha compreso il cosiddetto “Corridore”, fondale architettonico del Giardino dei Semplici, e l’adiacente Cortile delle Rimesse, uno spazio ora vuoto che era un tempo sede delle stalle gonzaghesche; ambedue si trovano in un grave stato di degrado e isolate rispetto al resto del percorso museale del Ducale. Oltre ad un rilievo topografico del sito e un’attenta opera di restauro ipotizzata per le antiche fabbriche, ho elaborato per questo spazio un tema di progetto che valorizzasse il ruolo culturale del palazzo, ora orientato a museo di se stesso, ma potenzialmente destinabile a “contenitore espositivo” di opere moderne e contemporanee. Il progetto quindi consiste in un nuovo polo museale inserito nel Cortile delle Rimesse in modo tale da interpretare, con la giustapposizione di volumi interconnessi tra loro, l’arte contemporanea anche come “architettura e scultura contemporanea”. La complessità della tematica museale è risultata molto interessante, sia per la molteplicità di interventi tecnologici unici che risolvono le differenti necessità espositive, sia per le relazioni che lo spazio espositivo instaura con l’opera d’arte e il visitatore. Infatti doversi confrontare con la creazione di uno spazio dedito all’esposizione di arte, in particolare arte contemporanea, ha indirizzato in maniera sostanziale l’evoluzione del progetto, che ha preso forma grazie alle relazioni tra le diverse opere e ai percorsi appositamente ideati per la mostra. il progetto

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I singoli volumi, che si uniscono sino a formare l’organismo architettonico contenente il nuovo museo, si presentano differenti l’uno dall’altro per altezza, superficie, esposizione alla luce e percorribilità. Questo risultato è stato il frutto di una progettazione supportata dallo studio delle necessità espositive per le opere pensate al suo interno, nonché delle relazioni uomo-opera ideate per il museo, in modo tale da rendere il più funzionale possibile la visita e dare una corretta fruibilità alle diverse opere d’arte. Laddove sono state posizionate opere scultoree, per esempio, è stato necessario conferire alla sala una grande esposizione alla luce naturale, che col suo mutare continuo è riuscita ad enfatizzare la tridimensionalità dell’oggetto e farlo sembrare vivo nelle sue molteplici espressioni. Nelle sale espositive ospitanti le opere pittoriche, invece, sono stati posizionati apparati illuminotecnici per il controllo della luce, accompagnati da finestre zenitali però filtrate da appositi diffusori, in modo tale che la luce presente


nella sala sia controllata e mai diretta, per non creare riflessi sopra i quadri e permetterne una visione ottimale. Per quanto riguarda la composizione degli spazi poi, ha giocato un ruolo fondamentale la distribuzione dei percorsi che hanno definito uno sviluppo dall’alto al basso del museo, rendendo necessaria la presenza di più livelli. L’edificio è stato dunque progettato su tre piani che, oltre a dare una maggiore superficie utile alle sale espositive, sono serviti a creare punti di vista privilegiati su diversi livelli per avere prospettive differenti delle opere come anche dell’architettura circostante: una stessa opera può essere vista dell’alto grazie ai piani soppalcati che si aprono su alcune sale espositive, mentre percorsi sospesi, che si sviluppano anche all’esterno delle sale, permettono di osservare il Palazzo Ducale e le opere di land-art posizionate nel giardino circostante. Le molte relazioni che si sono venute a creare tra uomo, opera e spazio, sono dunque diventate il fulcro del progetto sviluppato, e hanno suscitato in me interesse nonché numerose questioni, alcune delle quali sono diventate il punto di partenza per l’analisi intrapresa nella mia tesi. In che modo lo spazio architettonico si relaziona con l’opera d’arte contemporanea? Quali sono le dinamiche di uno spazio atto a contenere opere di diverso genere portatrici di un preciso messaggio comunicativo? Quali sono i molteplici modi per il fruitore di relazionarsi all’opera d’arte contemporanea? Partendo da questi presupposti ho iniziato una ricerca bibliografica con lo specifico interesse di riuscire a capire tutte le possibili relazioni instaurate tra l’uomo e l’opera d’arte all’interno dello spazio, limitando sostanzialmente le mie riflessioni all’opera d’arte contemporanea. Ciò è stato reso complicato dalla esigua presenza di informazioni bibliografiche legate a questo specifico tema, rendendo necessario estrapolare le nozioni più utili da testi che trattavano l’argomento all’interno di più ampie argomentazioni. Questo processo deduttivo, che ha unito i tasselli di tutte le informazioni ritrovate, è stato affiancato ad un lavoro parallelo che ha messo in campo la ricerca di un consistente numero di casi studio, inerenti le esposizioni di arte contemporanea e anche ad alcune architetture museali, che sono stati utilizzati per comprendere ed analizzare le relazioni uomo-opera nelle loro molteplici espressioni. Questi esempi sono stati inseriti nella mia tesi sottoforma di schede esplicative dei singoli progetti, estrapolate dal resto del testo e posizionate alla fine dei capitoli per far leggere nella maniera più chiara possibile le specifiche caratteristiche di un determinato spazio e i tipi di relazioni ricreati tra uomo e opera d’arte all’interno dei diversi allestimenti. Per trattare al meglio e spiegare chiaramente la mia analisi è stato necessario innanzitutto suddividere i soggetti della mia ricerca. Questi, esplicita7


ti già nel titolo della mia tesi, sono tre: fruitore, opera e spazio. Iniziare ad analizzare le relazioni tra i soggetti principali di questa tesi, ha reso dunque necessario contestualizzare in maniera più allargata i loro metodi di interazione, partendo con lo spiegare quelle che sono le modalità dinamiche o statiche della percezione dell’oggetto. Lo spazio, che in questo caso si riferisce ad ambienti dediti ad ospitare opere d’arte, nasce sulla base di determinate “forme architettoniche” (come la galleria, la sala, l’open space ecc.) che definiscono specifiche modalità di percorrenza. Il percorso dunque, suddiviso tra sosta e movimento, si lega alle infinite composizioni interne di un allestimento, diventando la linea guida di una determinata esposizione, capace di coniugare i rapporti tra l’ambiente ospitante e l’opera d’arte in relazione a chi la osserva. La successiva riflessione porta verso il secondo capitolo, che introduce una nuova figura che ché si pone come elemento fondamentale di coniugazione tra fruitore, opera e spazio: l’allestimento. Questo soggetto, oltre che con le opere e i messaggi da esporre, deve relazionarsi anche con il luogo in cui dovrà essere realizzato; i legami ricreati dunque mettono in campo processi di adattamento e riadattamento spaziale che gli architetti-allestitori pensano al fine di formare esposizioni che siano “manifestazione animata e relativamente autonoma di un punto di vista sul senso di ciò che si viene portati a incontrare e conoscere, sempre collocata in una giusta posizione di complementarità e subordinazione rispetto alle opere esposte[…]”1. Ambientare, ovvero adeguare uno spazio a una data opera e viceversa, è il processo primario compiuto dall’azione dell’allestire la quale, nella diversa espressione che può assumere, rende leggibile il linguaggio di un oggetto artistico e, anzi, riesce a porlo sotto differenti punti di vista, dandogli in ogni altro allestimento una nuova vita, sia che l’intervento modifichi ampiamente lo spazio contenitore d’arte, sia che lo esalti e lo metta in evidenza in maniera più esplicita. Chiarite con questa prima parte le dinamiche dello spazio allestito nei suoi percorsi e nel ruolo instaurato tra le singole parti della mostra, è stato necessario studiare più nello specifico i soggetti della mia ricerca.

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Gianni Ottolini, “Una verifica dell’allestimento come arte dello spazio“ in: “Il progetto di allestimento e la sua officina. Luogo, memoria ed evento: mostre alle Fruttiere di Palazzo Te, Mantova”, a cura di Marco Borsotti e Glenda Sartori, Skira, Milano 2009.

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Il primo ad essere analizzato è il fruitore. Questo, essendo il punto cardine di un allestimento nella misura in cui è il destinatario principale dell’opera d’arte, viene messo al centro di ogni tipo di relazione. Gli studi sociologici oggi sempre più diffusi all’interno delle istituzioni museali, sono stati dunque presi in esame per delineare la figura del visitatore dell’arte contemporanea.


Il secondo soggetto è l’opera, in questo caso d’arte contemporanea; questo tipo di arte fa riferimento a molteplici espressioni e discipline che, a differenza di ciò che avveniva in passato, non rappresentano più un unicum compositivo che racchiude un valore in quanto pezzo unico, irripetibile e di grande valenza materiale, bensì assumono significato e importanza in base al messaggio insito in esse e nel loro atto di creazione. Come espressione dei nostri tempi, si presenta sotto diversi aspetti e discipline e si inserisce in un background storico culturale che ne delinea i ruoli e le modalità espressive. Quindi viene analizzato lo spazio. Questo assume un ruolo fondamentale nel sistema di relazioni nella misura in cui costituisce l’ambiente primario di supporto per la rappresentazione dell’esperienza artistica. Le diverse forme architettoniche che nel corso del tempo si sono andate definendo, nella ricerca di un’architettura “tipo” il più adatta possibile per un’esposizione, non sono mai state delineate in maniera specifica, lasciando spazio a esperienze sempre differenti sulla base delle singole esigenze. Gli interventi progettuali infatti impongono linee guida sempre diverse anche sulla base degli specifici interventi di architettura che, dovendo confrontarsi con la progettazione di spazi ex novo, con la ricomposizione di edifici storici o con la riconfigurazione di spazi esistenti impongono soluzioni sempre differenti per la composizione di uno spazio. Una volta introdotti i soggetti che ruotano attorno all’atto dell’esporre, si entra nello specifico dell’analisi mettendo a confronto il fruitore, l’opera e lo spazio, accorpando due per volta i soggetti esaminati in modo tale da mettere in evidenza le modalità di comunicazione che si sviluppano tra le singole parti. Sulla base di queste suddivisioni vengono elencati i differenti tipi di relazione attraverso il riferimento ad alcuni esempi trovati durante la fase di ricerca. Il punto di partenza sono le relazioni fruitore-opera. L’esperienza dettata dal messaggio che una certa opera comunica, si proietta verso l’osservatore infondendogli una determinata serie di emozioni e sensazioni, le quali scaturiscono sulla base delle relazioni create tra i due. Il contatto con l’opera è il punto centrale dell’esperienza vissuta da parte del fruitore, il quale cerca di cogliere informazioni riconducibili a diversi campi della conoscenza e dell’emotività. Questo contatto uomo-opera si concretizza per mezzo delle diverse posizioni che il visitatore può assumere rispetto all’oggetto che sta osservando: collocarsi a differenti distanze, come anche porsi di fronte, sopra o sotto una determinata opera crea interazioni tra i due soggetti che sono spesso fondamentali per leggere al meglio un’opera d’arte ed esprimerne i suoi significati.

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Si passa poi all’analisi fruitore-spazio. Le più comuni relazioni riscontrabili tra il fruitore e lo spazio sono riconducibili alla forma e alla dimensione dello spazio. Lo spazio fisico può essere alto, largo, lungo, stretto, chiuso o aperto, ma in ogni caso trasmetterà determinate emozioni che ovviamente saranno sfruttate dal bravo allestitore per raggiungere i suoi intenti. Questo spazio, vissuto tra sosta e movimento, verrà percepito sulla base delle posizioni assunte dall’uomo il quale, disponendosi all’interno di un determinato luogo, cambierà il suo punto di vista anche in base alle posizioni assumibili per le necessità dell’allestito. In fine, sono state affrontate le relazioni opera-spazio. L’oggetto d’arte, percepito attraverso i sensi, si inserisce in uno spazio che deve riuscire ad esaltarlo il più possibile: dare nuova vita all’opera attraverso un corretto inserimento nello spazio, è un fattore fondamentale in una mostra. Il procedimento che però mette in relazione l’opera con lo spazio, per quanto sensibile e rispettoso, definirà sempre, anche se in minima parte, una reinterpretazione dell’oggetto esposto; qui si inserisce il ruolo dell’allestimento che, attraverso la capacità del progettista, deve cercare di mitigare le esigenze di una determinata esposizione con lo spazio e con l’opera, ponendo al centro dell’attenzione quest’ultima, senza comunque far perdere valore al suo contenitore. A conclusione della tesi viene inserita una raccolta di trentotto casi studio che raccontano di progetti di allestimento e arte contemporanea. Una codificazione appositamente pensata per l’analisi di questi progetti esprime le posizioni assunte dall’uomo all’interno dello spazio e il tipo di esperienza artistica che si trova ad affrontare attraverso l’utilizzo di caselle con raffigurazioni simboliche dei diversi tipi di interazione. Queste caselle vengono riproposte in ogni scheda, mettendo in luce le molteplici relazioni inerenti ai singoli esempi e i legami tra fruitore, opera e spazio, in una sintesi conclusiva che vuole esprimere simbolicamente i ragionamenti affrontati nella tesi.

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CAPITOLO 1 MODALITà STATICHE E DINAMICHE DELLA PERCEZIONE DELL’OGGETTO


Lo spazio architettonico, nelle sue molte forme e articolazioni, inevitabilmente ha un peso sul comportamento del fruitore dello spazio stesso. Si impone su chi entra nell’architettura e riesce a trasmettergli differenti tipi di riflessioni ed emozioni. A maggior ragione, quando i luoghi ospitano opere d’arte, esposizioni e mostre, entra in gioco un differente tipo di relazione tra lo spazio architettonico e l’oggetto che lo abita. Si deve infatti considerare che, in questi casi, non è più solo il messaggio artistico espresso dall’opera architettonica ad emergere, ma entra in gioco anche una complicità di aspetti prodotti dall’interazione tra lo spazio, l’opera esposta e il fruitore (dello spazio e dell’opera d’arte esposta) che rende molto più complessa la dinamica della percezione dell’oggetto e i significati contenuti, espressi e interpretati. Affrontare i temi connessi alla percezione dell’oggetto artistico e le sue dinamiche di interazione significa analizzare i metodi in cui lo spazio viene vissuto e percorso dal fruitore dell’opera, e come l’allestimento si può differenziare in base alle caratteristiche proprie dello spazio e dell’opera. I tipi di relazione che l’oggetto artistico può instaurare con l’ambiente circostante sono molteplici, e molteplici sono i messaggi che può lanciare proprio in relazione al diverso modo di porsi nello spazio e di prestarsi alla fruizione. Per esempio, uno spazio disposto su livelli differenti, con piani e forme in evoluzione, che impongono un cambio del punto di vista (gradini, rampe ecc.) o il percorso intorno ad un ostacolo, produce una sensazione di movimento, indirizzando il fruitore ad attraversare l’ambiente, a muoversi lungo un percorso; uno spazio più dilatato, e totalmente percorribile nella sua forma chiara e semplice invece produrrà maggiore stanzialità nel visitatore.

Percezione dinamica dello spazio.

Percezione statica dello spazio.

L’osservatore, dunque, si inserisce nello spazio dell’esporre seguendo diverse modalità di approccio dettate dallo spazio e dall’opera, per le quali bisogna considerare inevitabilmente i modi del confronto tra spazio e opera in esso contenuta. Come afferma Lehmbruck: “Ogni oggetto richiede uno spazio definito in maniera tale da fare emergere al meglio tutte le sue qualità. Ogni forma visibile si proietta oltre i propri limiti, e in certa misura investe della sua presenza il vuoto circostante. Poiché le caratteristiche spaziali dell’ambiente determinano la forma e la posizione degli oggetti visibili, lo spazio deve essere organizzato in modo tale da trovarsi in armonia con questi”1. Risulta dunque essenziale conferire la giusta importanza alla dimensione e alla scala del contenitore, in modo da consentire all’osservatore una fruizione corretta, completa e concentrata dell’opera senza impedimenti, con un andamento fluido e spontaneo. 1

I luoghi dell’esporre dunque sono oggetto di decisioni progettuali che riguardano non solo che cosa esporre, ma anche dove, e soprattutto come,

Manfred Lehmbruck, “Psychology: Perception and Behaviour”, Museum vol. XXVI, Presses Centrales S. A., Losanna 1975.

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al fine di creare diverse e specifiche modalità di approccio all’opera all’interno di un percorso organizzato. La connessione spaziale tra i diversi oggetti esposti produce i percorsi, e i percorsi sono un elemento importantissimo nell’analisi delle modalità dinamiche di fruizione dell’oggetto d’arte. Il percorso, articolato tra sosta e movimento, diventa la congiunzione spaziotempo, il legame tra un’opera e la successiva in un rapporto sì spaziale, ma anche temporale. Un esempio molto importante ci viene dato dal Museo di Castelvecchio a Verona2, realizzato tra gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso su progetto di Carlo Scarpa. Qui l’ambiente viene modulato dalla presenza delle opere che, grazie alla sapiente esposizione dettata dai supporti progettati ad hoc per i diversi oggetti, creano soste e momenti di riflessione all’interno del percorso museale, dando modo al fruitore di concentrarsi sia sulle singole opere che sull’edificio storico; l’intervento dell’architetto resta chiaro e leggibile e si pone come progetto di ricucitura tra l’antica natura del Castello e la sua nuova funzione, creando un chiaro legame tra architettura, spazio allestito e opera d’arte ideato in funzione dell’esperienza del fruitore. All’interno del “viaggio” che si compie tra le diverse parti di un’esposizione, la circolazione e la fruizione degli spazi assume un ruolo rilevante, poichè essa è il mezzo principale con cui si “trasporta” il visitatore nello spazio, e poiché diventa una possibile chiave di lettura dell’esposizione stessa, laddove questa assuma un significato preciso. Ciò accade se è esplicitata la volontà di indicare un percorso dato attraverso la sequenza spaziale progettata che induca a seguire una programmazione conoscitiva. Nel caso in cui invece sia concessa una più ampia libertà di scelta del percorso, si incontrano spazi con connessioni più indefinite e meno vincolanti, quindi più aperti. Due esempi emblematici della storia dell’architettura che ci possono aiutare a comprendere le differenti modalità di approccio instaurate all’interno di uno spazio espositivo, rispetto alla distribuzione spaziale e al metodo di avvicinamento all’opera d’arte, sono il Guggenheim Museum di New York e la Neue Nationalgalerie di Berlino3. Nel primo caso si viene a contatto con un percorso a spirale predefinito che si sviluppa in maniera continua, dando al visitatore un indirizzo specifico di avvicinamento all’opera d’arte. Nel secondo caso invece viene creato uno spazio aperto quasi totalmente privo di limiti fisici, che può dare al visitatore la possibilità di creare percorsi in totale libertà.

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Vedi scheda 1 pg. 18; Vedi scheda 2 pg. 20, e scheda 3 pg. 22.

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Inserirsi in uno spazio allestito, percorrerlo e viverlo vuol dire dunque mettersi di fronte alla necessità di compiere un percorso che si articola in differenti modi, sia rispetto alle volontà dell’allestitore (nel caso di esposizioni) o del progettista (nel caso di musei), sia rispetto alle necessità degli oggetti


esposti. Come si comportano però spazi e architetture nel confronto con l’opera d’arte? Quali tipi di modalità dinamica di percezione dell’opera da parte del fruitore all’interno di uno spazio si possono rilevare? Se si guarda al passato possiamo vedere come, fin da quando esiste l’atto del mettere in mostra, si siano sviluppate forme architettoniche riconducibili a specifiche modalità di fruizione spaziale in relazione all’oggetto da contenere. Partendo dalle prime esperienze, che possiamo far coincidere con la nascita del concetto di “museo moderno”, ovvero quell’organismo destinato al pubblico e progettato per avere un ruolo educativo nella società, possiamo rilevare delle concretizzazioni delle diverse forme architettoniche più adatte e diffuse. Il primo che ha schematizzato dei precisi modelli di forma pensati appositamente per ospitare le esposizioni museali, è stato Jean-Nicolas-Louis Durand. La sua figura e il suo ruolo all’interno dell’evoluzione del concetto di museo viene sintetizzata chiaramente da Luca Basso Peressut nel libro “I Luoghi del Museo”4, dove rivela l’importanza assunta dai modelli creati dall’architetto e teorico ottocentesco. “ La grandissima fortuna che il modello di Durand incontra per tutto l’Ottocento (e, in maniera più articolata, ma riconoscibile, anche oggi) non è dovuta alla mancanza di altre proposte teoriche o di esempi diversamente realizzati. La sintesi compiuta da Durand nella sua proposta è in effetti radicata alla concretezza degli esempi che si sono venuti evolvendo in Europa alla fine del ‘400 e alla fine del ‘700, il periodo cioè in cui si sono venute formando le grandi raccolte private di scultura e pittura e le prime “gallerie delle meraviglie” di carattere naturalistico scientifico. Da quando la tesaurizzazione e la raccolta di oggetti e preziosi supera la dimensione dello “studiolo” rinascimentale, le diverse modalità organizzative ed espositive delle raccolte trovano corrispondenza in elementi tipologico-architettonici confrontabili e definiti da necessità espositive , complessità di funzioni presenti (la galleria è anche spesso sala per ricevimenti oppure luogo di studio e lavoro), gerarchie e valori simbolici di spazi e arredi direttamente o indirettamente connessi. Durand coglie e depura questi elementi comuni e ripetitivi e fornisce una risposta semplice e schematica alle nuove istanze legate alla creazione e diffusione del museo pubblico, riproponendoli in un progetto unitario: la galleria, come percorso lineare cadenzato dalla disposizione degli oggetti esposti; la stanza o la sala, come luogo di percorso “circolare” tra gli oggetti esposti; la rotonda come cuore, punto di riferimento, centro topologico ed elemento “ordinatore” dell’intera composizione, non necessariamente legato a funzioni espositive, ma più propriamente alle manifestazioni pubbliche e collettive”. 4

Queste nuove forme dello spazio espositivo divengono dunque la base della composizione di un ambiente dedito a mostrare e si ripropongono fino ai

Luca Basso Peressut, “I Luoghi del Museo: Tipo e Forma fra Tradizione e Innovazione”, Editori Riuniti, Roma 1985.

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giorni nostri subendo ovviamente piccole modificazioni che in alcuni casi hanno portato alla definizione di nuovi modelli. Con l’evoluzione novecentesca ritroviamo infatti delle elaborazioni che creano nuove forme come la spirale (nata da un concetto di galleria continua), oppure l’open space (modernizzazione della sala principale o rotonda vista adesso come ambiente ampio e indefinito per esposizioni libere e temporanee). La Galleria Si intende un ambiente sviluppato principalmente in lunghezza che produce una dinamica nello spostamento del corpo ma anche del punto di vista e della percezione dell’oggetto. Questa spazialità assume forme diverse (dalla forma geometrica più regolare del rettangolo a quella più complessa della spirale) tutte enfatizzanti il concetto di evoluzione spaziale. I percorsi lineari sono cadenzati dalla presenza degli oggetti esposti, che introducono punti focali e di sosta nello spazio interno. La Sala La sala espositiva si distingue per la sua natura di spazio limitato: l’ambiente si apre al visitatore esprimendo chiaramente i propri confini. Gli oggetti collocati al suo interno producono un movimento prodotto dalla disposizione dell’oggetto stesso, che si relaziona in maniera chiara con lo spazio circostante. Ci si può trovare a muoversi tra gli oggetti, punti fissi che il fruitore dovrà “aggirare”, definendo percorsi articolati, seguendo uno schema spaziale predefinito; oppure ci si può trovare in uno spazio vuoto in cui sono i margini a supportare gli oggetti esposti, lasciando al visitatore la possibilità di scegliere più liberamente il proprio percorso e le relazioni di distanza con le opere; o ancora ci si può trovare di fronte a una sala non visitabile, ma percepibile solo dall’esterno, da un unico punto di osservazione per produrre uno specifico “punto di vista sull’oggetto”. Qui il visitatore si pone in una relazione univoca con l’oggetto, non è trasportato in percorsi predefiniti né lasciato libero di scegliere tra le diverse alternative.

Sopra, schizzi personali: quattro tipi di sale espositive in relazione all’opera da mostrare; l’oggetto da aggirare, il percorso perimetrale, il punto di vista unico, la galleria.

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L’open Space Nato dall’evoluzione degli ampi saloni dei musei ottocenteschi, sale dedicate all’accoglienza e ad altri tipi di manifestazioni che, grazie alle ampie dimensioni e alla versatilità dello spazio, venivano adibite in alcune occasioni a sale espositive per mostre temporanee, l’open space si introduce nello scenario dell’esporre come luogo caratterizzato da un’ampia libertà compositiva dello spazio. L’idea è quella di un ambiente ampio e privo di limiti fisici, all’interno del quale vengono inserite le opere. La percorrenza viene dettata dalla volontà del fruitore che, privo di percorsi prefissati, si avvicina, si allontana oppure gira attorno all’opera. In spazi diversi ci si approccia in maniera differente sulla base delle rela-


zioni instaurate tra ambiente e allestimento, che definiscono le condizioni della percorrenza. I percorsi possibili sono i percorsi predefiniti nell’ambiente, che sono creati dallo spazio allestito e indirizzano il visitatore verso una precisa direzione; percorsi liberi nell’ambiente, dove non è presente una linea guida predeterminata ma solo le opere definiscono i punti di sosta; percorsi liberi nello spazio con punti di vista prefissati, spazi aperti che precludono un percorso in base alla presenza di opere collocate nello spazio, la cui distribuzione gerarchica, però, non impone una specifica direzione, ma è l’osservatore a sceglie il percorso; percorsi negati e punti di vista prefissati, che corrispondono ad allestimenti da “osservare” da precise posizioni che non prevedono alcun tipo di “percorribilità”, nella misura in cui l’oggetto esposto ha una sola e predeterminata posizione e direzione di osservazione. Si può dunque asserire che la varietà degli spazi serve ad esprimere, a chi compie una visita, una certa articolazione dei messaggi presentati dalla mostra, nonché a creare una circolazione fluida, ragionata e funzionale, e ricreare fuochi visuali, associandoli a zone meno caratterizzate dove ci si può invece concedere un riposo visivo. Muoversi in uno spazio in relazione all’oggetto esposto vuol dire quindi seguire delle dinamiche di percorrenza differenti in base alle esigenze dell’opera, dell’allestitore o del fruitore, il tutto coniugato da una comunanza di intenti legati alla corretta e piacevole esposizione dell’opera d’arte.

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MUSEO DI CASTELVECCHIO, VERONA

Carlo Scarpa, 1957

Di fianco: veduta esterna della statua di Cangrande della Scala. Nella pagina seguente: veduta del museo dal cortile interno; veduta esterna del “sacello�; sala interna del museo; pianta del piano terra del museo.

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L’opera di Scarpa (1957-1975) consiste in un intervento di restauro che ha dato vita al museo di Castelvecchio di Verona; l’edificio, danneggiato dai bombardamenti post bellici, ha subito un rinnovamento che ha voluto mettere a nudo l’antico castello, lasciando apertamente visibili gli interventi di restauro. Il percorso museale ricreato in questo progetto si sviluppa prima ancora di entrare nelle sale espositive. La riconfigurazione del cortile di ingresso, infatti, ha messo in atto la volontà precisa dell’architetto di dare una nuova articolazione ai percorsi sin dai primi passi all’interno del museo; per questo motivo l’ingresso è stato spostato in fondo al cortile in posizione asimmetrica, e i percorsi eterni sono stati riformati modulando pavimentazioni in pietra o ghiaia disposte tra vasche d’acqua e siepi. In questo modo il visitatore, non ancora “dentro”, si pone già in un rapporto di visita trovando di fronte a sé l’opera d’arte più importante, ovvero il castello stesso, che si può ammirare durante il lento procedere verso l’entrata. Nel cortile è inoltre presente un’anticipazione dell’esperienza museale, resa possibile attraverso quello che si può definire il punto focale di tutto il progetto, ovvero l’ala sventrata dell’edificio da dove la statua equestre di Cangrande della Scala svetta imperiosa sopra un supporto in cemento armato; questa zona, oltre a colpire il visitatore grazie alla sua suggestiva composizione, lascia prevedere la distribuzione interna del museo e i diversi piani dell’esposizione. La caratteristica disposizione delle opere viene modulata creando un ritmo di fruizione di opere e spazi. Grazie alla sapiente esposizione dettata dai supporti progettati ad hoc per i diversi oggetti, vengono creati particolari momenti di unione tra spazio e opera, che si esprimono in maniera chiara al visitatore. Le soste, quelle del riposo all’interno museo, ma anche quelle dell’ammirazione delle opere, producono momenti di riflessione, dando modo al fruitore di concentrarsi sia sulle singole opere sia sull’edificio circostante.

Scheda 1


GUGGENHEIM MUSEUM NEW YORK

Frank Lloyd Wright, 1959

Di fianco: veduta esterna della “rotonda”. Nella pagina seguente: veduta interna della “rotonda”; schizzo di F.L. Wright sulle sale espositive; sezione sul corpo della “rotonda”; pianta del primo piano.

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Nel 1959 Wright si cimenta nella realizzazione di un progetto per un nuovo museo a New York, commissionatogli da Solomon R. Guggenheim. L’edificio è una struttura plastica in cui dominano forme curvilinee; il cemento e l’acciaio lavorano insieme in maniera innovativa per l’epoca, definendo una stretta connessione tra forma e struttura, che delinea spazi continui in un edificio che si erge nel tessuto urbano come una scultura. La sua particolare forma è creata dallo sviluppo circolare verso l’alto di una grande rampa che si affaccia su uno spazio a tutta altezza, il quale percorre l’intero edificio culminando con un grande lucernario che illumina tutto l’ambiente interno. La volontà dell’architetto è quella di creare un luogo in contrasto con il caos e la frenesia della città, che possa accogliere i visitatori dando loro uno spazio dove rilassarsi e dedicarsi all’arte. “L’intento”, dice l’architetto, “è quello di rendere l’edificio e la pittura una ininterrotta e magnifica sinfonia”, ovvero ricreare un ambiente dove lo spazio e l’opera esposta sono in stretta simbiosi. Rilevante in questo esempio è il modo in cui l’architetto progetta il percorso e pensa al metodo di fruizione dello spazio. La “passeggiata” che compie il visitatore inizia dall’alto: dopo la risalita in ascensore fino all’ultimo livello, la visita prosegue percorrendo in discesa la lunga rampa. Questo elemento, complesso nella sua elementare articolazione a spirale, alterna e unisce spazi di percorrenza a spazi di sosta. Il visitatore è indirizzato in un unico senso prestabilito, per mezzo di una discesa molto lieve che accompagna dolcemente verso il piano terreno; lo spazio è fruito nella sua integrità, in maniera fluida e continua, e le soste sono dettate dalla presenza di zone marginali (gli unici spazi delimitati da profondità nel percorso) definite da alcuni setti posti a lato della rampa: le zone espositive. Questo è un chiaro esempio di unione tra due diversi tipi di fruizione dinamica dello spazio e dell’oggetto artistico. Da un lato la grande libertà delle “sale espositive”, aperte e fruibili senza indicazioni prestabilite, dall’altra il percorso controllato e direzionato della rampa che guida e accompagna il visitatore.

Scheda 2


NEUE NATONALGALERIE BERLINO

Mies van der Rohe, 1968

Di fianco: veduta esterna del fronte principale. Nella pagina seguente: veduta interna della sala espositiva; pianta piano primo; disegni delle sale espositive al piano terreno; sezione longitudinale.

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Opera emblematica, che segna il ritorno in Germania di Mies, la Nue Nationalgalerie si colloca alla fine della carriera e poco prima della morte dell’architetto tedesco. Terminata nel 1968, la sala espositiva si pone in una zona di Berlino oggetto di ricostruzione. L’edificio, dai marcati riferimenti neoclassici, rielabora la forma e l’aspetto del tempio greco attraverso il sapiente utilizzo di acciaio e vetro; grandi colonne dalla tipica sezione miesiana cruciforme (due per ogni lato del volume), sorreggono un’enorme piastra che lavora a compressione, formata da un reticolo metallico che costituisce la copertura. Lo spazio interno, totalmente libero, è delimitato da una parete di vetro arretrata di alcuni metri rispetto al margine della tettoia; gli unici elementi fissi (non portanti) all’interno sono due parallelepipedi in pietra che contengono le zone di servizio, al cui fianco scendono due scale che portano al seminterrato, un altro spazio adibito alle esposizioni permanenti, contenuto in un basamento. La duplice natura dell’edificio lo distingue dai musei precedentemente progettati, dando una funzione diversificata ad uno stesso luogo, e suddividendola al contempo in due differenti spazi; se nell’interrato, adibito a mostre permenenti, l’ambiente è caratterizzato da partizioni murarie fisse e le aperture finestrate scompaiono per essere posizionate su una sola facciata del volume (dando la possibilità di sfruttare la luce artificiale controllata e di avere la più alta percentuale di superficie muraria per la posizione delle opere), nel piano terreno, ideato per le esposizioni temporanee, i muri scompaiono, le pareti perimetrali sono interemente vetrate e lo spazio è libero e fruibile per intero. L’aspetto interessante in questa architettura è l’indefinitezza dello spazio, associata alla possibilità di costruzione di tutte le relazioni possibili. I margini visivi sono dettati solo dall’intorno e dal paesaggio esterno. La pianta libera non vincola lo spazio e non impone dei percorsi predefiniti, permettendo così una vastità infinita di composizioni e ricomposizioni delle relazioni tra spazio, uomo e opera nonchè percorrenze spontanee e inaspettate, prive di predeterminazione, legate quasi totalmente alle intenzioni del fruitore.

Scheda 3



CAPITOLO 2

ALLESTIRE


“Non tutti gli allestimenti sono architettura: non è architettura un’istallazione d’arte visiva o di un qualsivoglia supporto comunicativo. L’architettura, occorre ricordarlo, è per eccellenza arte dello spazio, quello spazio in cui siamo sempre “dentro”, che ci circonda da tutti i lati e che addirittura respiriamo (per questo l’architettura è “d’interni”: edilizi, urbani, paesaggistici). Perché ci sia architettura occorre il gioco sapiente della messa in relazione di questo spazio atmosferico praticabile dal corpo umano, dei margini solidi che lo circoscrivono e degli arredi fissi o mobili che lo attrezzano, offerto all’esperienza e alla conoscenza emotiva di chi lo abita: cioè entra, percorre, sta, osserva e usa, avendone poi una memoria visiva. Una gran parte degli allestimenti lavora proprio con i materiali dell’architettura: spazio, margini solidi, attrezzature e dispositivi tecnologici, oggi sempre più sofisticati; anzi, è proprio nel campo dell’allestimento che si anticipano spesso interventi, operazioni e tecniche che poi vengono consolidate e trasferite negli altri campi dell’architettura. A volte gli allestimenti sono addirittura occasione di indagine diretta sulla reattività delle persone e sul loro modo di interagire con lo spazio, quasi forme sperimentali di psicologia dello spazio, come in certi allestimenti di Pier Giacomo e Achille Castiglioni, in cui il modo di muoversi o di radunarsi delle persone “come falene sotto la luce” di nicchie illuminate entro un basso soffitto buio, il “millepiedi” delle loro gambe che sporgono da un percorso in un tubo espositivo sollevato da terra o le riflessioni multiple dei loro corpi fra superfici a specchio fanno parte del progetto visivo d’insieme”1.

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Gianni Ottolini, “Una verifica dell’allestimento come arte dello spazio“ in: “Il progetto di allestimento e la sua officina. Luogo, memoria ed evento: mostre alle Fruttiere di Palazzo Te, Mantova”, a cura di Marco Borsotti e Glenda Sartori, Skira, Milano 2009. 2 Luciano Celli, “L’architettura del mostrare” in: “Mostrare. L’allestimento in Italia dagli anni Venti agli anni Ottanta”, Sergio Polano, Edizioni Lybra Immagine, Milano 1988.

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Questa breve descrizione di Gianni Ottolini, introduce il concetto di “allestire”, una pratica progettuale molto importante, che ha avuto il merito di interessarsi dello studio delle relazioni tra uomo e spazio, creando spesso spunti e idee interessanti per lo sviluppo e la ricerca architettonica. Per conoscere meglio e analizzare nello specifico questa pratica, è importante capire come l’intervento di allestimento abbia assunto un ruolo essenziale nel campo della sperimentazione architettonica nel corso degli anni. Questa pratica progettuale infatti, che mette in campo un attento studio delle interazioni tra uomo, opera e spazio, si inserisce nello scenario storico già da alcuni secoli; “i problemi relativi alla progettazione degli spazi per esposizioni compaiono sul tavolo da disegno, per la prima volta, tra la fine del Settecento e gli inizi dell’Ottocento. E’ il periodo della nascita delle istituzioni museali, logica trasformazione della precedente forma d’esposizione, la galleria in cui il collezionista, la famiglia nobile o il mecenate conservavano le opere acquistate da archeologi e mercanti: un luogo di prestigio al quale poteva però accedere solo un ristrettissimo numero di selezionati visitatori-cultori d’arte”2. In concomitanza dunque con lo sviluppo delle nuove istituzioni museali, volte ad accogliere una fascia di pubblico sempre più vasta, la pratica dell’allestire comincia a imporsi nello scenario dell’architettura definendo


il proprio ruolo di tramite comunicativo tra uomo e opera. La conseguente evoluzione del concetto di “Museo Moderno”, iniziata nei primi decenni del Novecento, porta gli allestimenti verso nuovi ulteriori sviluppi che daranno vita a molte differenti esperienze. Provando a sintetizzare i diversi tipi di esperienze espositive del Novecento, possiamo confrontare due tendenze opposte, ma entrambe significative, nello scenario. Sia che si tratti della creazione ex novo di un museo, sia che si tratti dell’allestimento di uno spazio esistente, le differenti esperienze esprimono le diverse modalità di composizione dello spazio dell’esporre. Troviamo da una parte esempi come quello del MOMA di New York, in cui, come ci ricorda Luca Basso Peressut, “già [nel suo manifesto fondativo del 1929] veniva individuato il ruolo di istituzione volta all’acquisizione e alla diffusione “in tempo reale” dei temi e delle opere di arte contemporanea, per cui le collezioni non sarebbero state permanenti ma avrebbero dovuto aggiornarsi continuamente con il progredire della ricerca artistica. Un programma dichiarato anche nell’architettura dell’edificio realizzato nel 1939 da Philip Goodwin ed Edward Durrel Stone e nell’organizzazione loftlike, flessibile ed essenziale dei suoi spazi espositivi”3. In questo caso la versatilità degli ambienti si presenta come nodo fondamentale per la creazione di uno spazio innovativo che si possa relazionare anche attraverso il suo aspetto e la sua tecnologia alle avanguardie artistiche da ospitare. Le spazialità si discostano da quelle fino a quel momento utilizzate per le mostre di arte, e si ripropongono sotto nuove forme per ospitare al meglio i lavori artistici del tempo.

Carlo Scarpa, allestimento della mostra “Piet Mondrian”, Galleria Nazionale di Arte Moderna, Roma, 1957. Veduta dei pannelli di supporto in tela.

Dall’altra parte troviamo, invece, le esperienze italiane che, a partire dagli anni Trenta e per tutto il secondo dopoguerra, si sono fatte carico di proporre esperienze di diverso genere, sia per quanto riguarda gli allestimenti temporanei sia per la creazione di progetti museali. Gli interventi dei maestri del “primo razionalismo italiano” (tra cui Franco Albini, Carlo Scarpa e i BBPR) seppero esprimersi nelle diverse forme progettuali inerenti al museo e alle esposizioni in maniera tale da creare un legame assoluto tra contenitore e contenuto, coniugati dalla precisa e sublime progettazione del dettaglio di supporto, che riesce così a formare un legame inscindibile tra le parti. Sul fruttuoso rapporto tra “spazio espositivo” (museo), e “allestimento”, citiamo di seguito uno tra i molti progetti di questo fortunato periodo progettuale, l’esposizione di Piet Mondrian del 1957, presso la Galleria Nazionale di Arte Moderna di Roma, curata da Carlo Scarpa. La mostra inserisce alcune pannellature di tele grezze imbevute di gesso che, sorrette da telai in ferro, modulano lo spazio interno delle sale del Palazzo. L’ingresso avviene da un corridoio coperto da una tettoia che crea un

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Luca Basso Peressut, “Su mostre e musei“ in: “Il progetto di allestimento e la sua officina. Luogo, memoria ed evento: mostre alle Fruttiere di Palazzo Te, Mantova”, a cura di Marco Borsotti e Glenda Sartori, Skira, Milano 2009.

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gioco di luce “fine ed elegantissimo”4. Da questa posizione l’osservatore vede il primo quadro ancora ottocentesco e naturalistico, che viene posto presso un vano rettangolare che indirizza lo sguardo verso la conclusione della mostra, dove si trova il Broadway Boogie-Woogie, cioè il punto d’arrivo dello sviluppo dell’artista. I pannelli delle sale sono molto semplici, in materiali poveri, le superfici sono ruvide e non omogenee, e conferiscono vitalità al supporto dei dipinti. Il visitatore, pur muovendosi liberamente, si trova ogni volta di fronte a un solo quadro, che acquista una importanza grandissima grazie al particolare allestimento. Scarpa si impadronisce dello spazio e lo fa convivere in armonia con l’opera e soprattutto con il visitatore, portandolo a una scala più vicina all’uomo. l’ultimo tocco è dato da una riga che corre lungo il profilo delle sale, a metà tra i pannelli espositivi e la volta dell’edificio: questa linea costituisce il confine tra lo spazio dell’edificio e lo spazio dell’allestimento. In questo caso la particolare conformazione dello spazio esistente viene modificata con un’azione per nulla invasiva chericonfigura lo spazio, coniugandovi in maniera superba i soggetti dell’esposizione. Le esperienze italiane sono il frutto di progetti di allestimento che nascono con la precisa esigenza di dare nuova vita a spazi già esistenti; la peculiarità dello scenario italiano, ricco di edifici storici da destinare a istituzioni museali, diede modo ai progettisti di quegli anni di confrontarsi con particolari progetti di recupero, restauro o rifunzionalizzazione.

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Anna Chiara Cimoli, “Architetture cronache e storia” 1957, n. 17 pp. 786-789; in: “Musei Effimeri. Allestimenti di mostre in Italia 1949/1963”, Il Saggiatore, Milano 2007. 5 Luca Basso Peressut, “Su mostre e musei“ in: “Il progetto di allestimento e la sua officina. Luogo, memoria ed evento: mostre alle Fruttiere di Palazzo Te, Mantova”, a cura di Marco Borsotti e Glenda Sartori, Skira, Milano 2009. 6 Si guardi di Brian O’Dhoerty, “Iside the white cube: the ideology of the gallery space”, University of California Press, San Francisco 1999.

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Sullo scenario internazionale nel frattempo si conducevano sperimentazioni, sulla base dei concetti sorti già nei primi anni Trenta ad opera del Movimento Moderno, che avevano provato a definire i significati e i compiti degli allestimenti per le mostre, e le caratteristiche degli ambienti destinati ad accoglierle. I caratteri dell’esporre vennero delineati precisamente nel 1934, durante il primo congresso di museografia di Madrid: venne sancita la distinzione tra allestimenti per mostre permanenti o temporanee, definendo queste ultime come caratterizzate da un assetto meno rigido e sistematico. In definitiva, però, l’intento principale fu quello di spingere i progettisti a creare “spazi neutri entro cui sperimentare, con gli allestimenti effimeri, soluzioni che, una volta dimostratesi funzionali, potessero essere acquisite nella sistemazione delle gallerie delle collezioni stabili”5. Sulla base di queste istanze, dunque, si diffusero a livello internazionale, verso la fine degli Sessanta, nuove tendenze allestitive, e, partendo dagli accesi dibattiti nati in riferimento alla corretta esposizione dell’opera d’arte, si approdò come soluzione al concetto di “white cube”6. “Con il white cube lo spazio museale assume caratteri il più possibile di


neutralità, l’opera d’arte (prevalentemente concettuale o minimalista) è l’unica protagonista. […] Le caratteristiche principali del white cube sono la religiosa ritualità, la neutralità cromatica e un codice spaziale che vuole ogni opera a una certa distanza dalle altre e, in alcuni casi, dal visitatore”7. Questa idea di volume neutro bianco, esprime la diffusa tendenza all’eliminazione degli elementi di contesto, che vuole conferire il massimo margine espressivo all’opera d’arte. L’idea nacque dalla crisi del modello espositivo di cui ci parla Paul Valery già nel 1923, che, nel descrivere un’esperienza museale, racconta del suo “sacro orrore” davanti al “disordine organizzato” e alla “vicinanza di visioni morte”. Mentre “l’orecchio non potrebbe sopportare di ascoltare dieci orchestre allo stesso tempo”, l’occhio, al contrario, “si trova obbligato ad accogliere un ritratto e una marina, una cucina e un trionfo, personaggi nelle condizioni e dalle dimensioni più disparate”. La sensibilità pienamente modernista di Velery lo portò ad esprimersi a riguardo dell’esposizione d’arte: a suo avviso bisognerebbe spaziare maggiormente tra loro le opere, restituire loro quell’unicità e quell’isolamento non garantito dalle più diffuse esperienze di “salon” e musei caratterizzati da un accumulo privo di senso degli oggetti esposti. Di conseguenza il modello di spazio espositivo privato di qualunque elemento di contesto, dove le pareti diventano uniformi e bianche, dove i pavimenti sono tirati a lucido e dove l’illuminazione zenitale controllata crea un’atmosfera omogenea e priva di ombre, avrà una grande diffusione, tracciando le linee di un modello che ancora oggi è praticato. La scatola bianca, però, finisce spesso con l’assumere una connotazione surreale che gli stessi artisti non apprezzano e, paradossalmente, diventa troppo invasiva rispetto all’opera, proprio a causa della sua eccessiva neutralità. A questo proposito Flaminio Guadaloni, nel libro “L’opera d’arte e lo spazio architettonico”, fa alcune considerazioni interessanti sullo spazio neutrale della mostra, elaborando una linea di pensiero che ha portato gli allestitori e i progettisti a discostarsi, in molti casi, dal concetto di White Cube, ormai ideologicamente superato. “Per luogo comune, si è soliti sostenere che il museo è l’unico spazio fisiologicamente e culturalmente neutrale per l’esposizione dell’opera: in senso un po’ teorico un po’ utopistico, molti artisti e architetti all’avanguardia sostengono che esso dovrebbe sempre più tendere a identificarsi con una scatola bianca, priva di ogni connotato, in modo da non interferire per nulla con il senso proprio e specifico dell’opera. Non è, ovviamente, vero. Se un’architettura storicamente e stilisticamente connotata non può che riflettere sull’opera i valori ideologici di cui è portatrice, l’ideale scatola bianca non può non essere vista come un luogo di radicale omologazione, di normalizzazione di segni ad alto contenuto di senso, che ne disinnesca la diversità dirompente”8.

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Cristina Bergo “Arte contemporanea e spazio architettonico”, in: “Architettura Contesto Cultura”, a cura di Barbara Bogoni, Marco Lucchini, Alinea Editrice, Firenze 2011. 8 Flaminio Guadaloni, “L’opera d’arte, scena e scene”, in: “L’opera d’arte e lo spazio architettonico. Museografia e Museologia”, a cura di Mercedes Garberi e Antonio Piva, Mazzotta, Milano 1988.

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In relazione ai modelli contemporanei “dell’esporre” e alle opere d’arte contemporanea “da esporre” rileviamo alcune tendenze importanti. Afferma Cristina Bergo: “è proprio l’arte contemporanea a mettere in crisi il ruolo storico, (del museo) sia per il quotidiano modificarsi dell’idea di opera (in termini di consistenza ma anche di durata e di modalità espositive) sia perché essa tende a superare il ruolo dell’architettura per porsi in dialogo diretto con il pubblico e con la città”9. Le tendenze attuali della composizione di allestimenti, sono proiettate in molti casi verso la creazione di progetti che organizzano lo spazio della mostra come scena; la volontà primaria in questo caso è quella di rendere comunicativo lo spazio autonomo e astratto dell’ambiente espositivo. Con la volontà di mettere in risalto un determinato messaggio nel tentativo di arrivare nella maniera più diretta possibile a colpire il fruitore e la sua emotività, si creano a formare allestimenti che mirano alla spettacolarizzazione dell’oggetto in mostra. Questa tendenza è un retaggio della cultura nata agli inizi degli anni Novanta, che, ha visto svilupparsi musei “popolari e populisti”, volti alla divulgazione artistica di massa. La conseguenza estrema è quella che si svilisca l’opera riducendola a semplice oggetto di consumo e l’allestimento divenga di conseguenza un espediente per attrarre i consumatori. Per evitare questo fenomeno alcuni artisti e collezionisti si sono diretti verso luoghi differenti rispetto al museo, ex capannoni o edifici industriali, dove sono sorti nuovi spazi e gallerie. Il nuovo campo di azione dell’allestimento è, dunque, sempre più eterogeneo e vasto, legato a oggetti e luoghi molto vari, che spesso non necessitano neppure di un progetto di allestimento, ma si risolvono nella stessa installazione artistica. Progettare “l’architettura del mostrare”, dice Luciano Celli, ha a che fare con diverse modalità di approccio che “dipendono dalle caratteristiche di ciò che si deve mostrare, dal contenitore in cui va inserito l’apparato espositivo, dai nessi culturali con l’ambiente, ma soprattutto dagli stessi intendimenti culturali-teorici con cui si affronta coerentemente qualsiasi altro tema nell’ambito dei vari settori della progettazione architettonica. E’ un settore complesso, pertanto, che coinvolge valutazioni sulle tecniche di allestimento, ma anche sulle componenti architettoniche, sui criteri di orientamento, sui linguaggi espressivi”10.

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Cristina Bergo, “Arte contemporanea e spazio architettonico”, in: “Architettura Contesto Cultura”, a cura di Barbara Bogoni e Marco Lucchini, Alinea Editrice, Firenze 2011. 10 Luciano Celli, “L’architettura del mostrare” in: “Mostrare. L’allestimento in Italia dagli anni Venti agli anni Ottanta”, Sergio Polano, Edizioni Lybra Immagine, Milano 1988.

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Nei casi in cui l’oggetto in mostra racchiuda in sé un valore specifico in quanto opera d’arte (che quindi di per se stessa è portatrice di un messaggio e produce emozioni su chi la osserva) sarà un’operazione complessa ideare un allestimento adatto ad ospitarlo e a mostrarlo. “L’architettura delle mostre”, spiega Franco Albini nel suo discorso di inaugurazione per l’anno accademico 1954-1955 dello IUAV di Venezia, “stabilisce il rapporto tra le opere esposte e il visitatore e per di più stabilisce proprio il primo avvicinamento del pubblico al tema della mostra, il primo


atto di simpatia. […] E’ talvolta fondamentale per il successo e l’interesse della mostra staccare il visitatore dalla realtà esterna e introdurlo in un ambiente di atmosfera particolare, che lo aiuti a concentrare l’attenzione sulle opere esposte e ne acutizzi la sensibilità senza causargli fatica. Occorre che l’invenzione espositiva attiri nel suo gioco il visitatore; occorre che susciti attorno alle opere l’atmosfera più adatta a valorizzarle, senza tuttavia mai sopraffarle”11. Ideare un allestimento, dunque, si traduce in un processo di coniugazione tra opera e spazio, che pone in dialogo l’arte e chi la fruisce, cercando di stimolare nel visitatore la nascita di emozioni. In uno scenario in cui l’arte rende espressivi e comunicativi oggetti di ogni genere, si è posti di fronte al tema dell’ambientazione più consona per una determinata opera d’arte. Ambientare, ovvero riadeguare uno spazio per accogliere una certa opera o una certa esperienza emozionale e viceversa, è il processo primario compiuto dall’azione dell’allestire, la quale, nelle sue diverse espressioni, rende leggibile il linguaggio di un determinato oggetto artistico. In particolare per quanto riguarda l’opera d’arte contemporanea si giunge a ritenere inutile una contestualizzazione finalizzata alla corretta espressione dell’oggetto, poiché, a detta degli stessi artisti, questo tipo di arte non possiede nessuno specifico riferimento a un qualche contesto spaziale. Con questo concetto non si vuole dire che non sia necessario progettare allestimenti quando si ha a che fare con l’arte contemporanea, bensì che l’allestimento può diventare, laddove ce ne sia la volontà, un procedimento di reinterpretazione dell’opera d’arte mostrata, che prende nuovi significati in base alle diverse forme assunte dall’allestito, il quale consente allo spettatore di fruire e leggere l’oggetto in mostra in diversi modi. L’esposizione di una determinata opera, infatti, potrebbe risultare completamente differente da una mostra a un’altra, offrendo possibilità fruitive diverse al visitatore rispetto allo stesso oggetto. “L’arredo espositivo” si fa tramite tra opera d’arte e luogo in cui vive, prendendo forme differenti sulla base delle esigenze sia dell’opera sia dell’allestitore. Le vocazioni interne di ogni differente spazio, quindi, differenziano le modalità di approccio nei confronti dell’allestimento, in modo che le soluzioni espositive cerchino sempre di risolversi in una biunivoca corrispondenza formale tra contenitore e contenuto. L’allestimento, che si associa, nello specifico, a un’opera di grafica e design del supporto, diventa essenziale nella misura in cui serve a trovare il giusto equilibrio tra ambiente-spazio architettonico e oggetto esposto. Se ci poniamo di fronte alle molte possibilità di allestimento di uno stesso spazio, ci accorgiamo di come questo processo cambi totalmente la percezione che

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Prolusione tenuta da Franco Albini all’inaugurazione dell’anno accademico 1954-1955 all’istituto Universitario di Architettura di Venezia, dattiloscritto conservato presso la Fondazione Franco Albini, pubblicato integralmente sulla rivista “Casabella”, 370, febbraio 2005, pp. 9-12.

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abbiamo di quel luogo. “Essendo per necessità il progetto dell’esporre, in particolare nella mostra d’arte, la proposta di un processo comunicativo che nella fattispecie deve saper tenere insieme la delicata questione del rispetto dell’opera d’arte nella sua autonoma rappresentatività con la più consona proprietà narrativa dedicata all’accompagnamento coerente, ma anche vitale, del visitatore alla scoperta di un tema espositivo stimolante e nutritivo dal punto di vista culturale, appare evidente che un altro livello di relazioni che si mette in gioco è quello tra contenitore e contenuto, inteso come equilibrio che si intende creare tra ambiente, sfondo e supporto del sistema allestitivo e le opere d’arte ivi esposte”12. Tali presupposti impongono che lo spazio si differenzi in modi sempre diversi in relazione alla sua percezione e alla fruibilità dell’oggetto mostrato, lasciando la possibilità di una composizione infinita di uno stesso luogo in relazione alla semplice riconfigurazione dell’allestito. Osservando gli schizzi si può rilevare come, all’interno di una stessa stanza, la percezione dell’ambiente possa variare semplicemente grazie all’inserimento di diversi allestimenti: con essi varieranno la percorribilità, la percezione dimensionale dell’ambiente, la fruibilità, i punti di vista e i focus visivi. Il luogo ospite, che viene “travestito” o addirittura “negato” da un allestimento, si impone sullo spazio con una raffinata arte del sovrapporsi, la quale, come accennavamo prima, modifica le proporzioni, ridefinisce le articolazioni spaziali e dà nuova vita alle gerarchie dello spazio. I limiti di un intervento, quando si parla di allestimento, sono dettati dalle differenti necessità dello spazio, nonché dalle volontà di chi mette in atto un’esposizione. Se è vero che bisogna ricercare delle relazioni spaziali che coniughino il rapporto tra visitatore e opera d’arte, è anche vero che queste non sempre riescono ad essere efficaci. Si creano delle situazioni in cui la possibilità di realizzare una data esposizione sia resa possibile solo attraverso la negazione dello spazio contenente la mostra. L’allestimento, può introdursi nell’ambiente in maniera invasiva, trasformando radicalmente i caratteri propri dello spazio architettonico accogliente.

Diversi allestimenti di uno stesso ambiente. 12

Giampiero Bosoni, “Architettura, allestimento, opera d’arte” in: “Il progetto di allestimento e la sua officina. Luogo, memoria ed evento: mostre alle Fruttiere di Palazzo Te, Mantova”, a cura di Marco Borsotti e Glenda Sartori, Skira, Milano 2009.

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L’esempio dell’allestimento “Kandinskij” di Daniela Ferretti del 1981, nell’Ala Napoleonica di Venezia ricompone e trasforma i caratteri spaziali della sala di forma allungata: ai margini vengono posti i quadri, appesi sulle pareti bianche, nel centro sono posizionati dei volumi di base triangolare che proiettano luci della stessa forma sul soffitto. La geometria del triangolo diventa tema nell’allestimento, che si lega da un lato al processo creativo dell’artista, dall’altro alla spettacolarizzazione di uno spazio poco caratterizzato. Le luci proiettate creano “punti di vista” preferenziali che servono, oltre che a illuminare, a trasportare il visitatore all’interno dello spazio. La


sala viene riformata sia nella percezione dimensionale, spezzata dai prismi a base triangolare, sia dal “total white” che conferisce una certa neutralità e una certa ambiguità alle linee di confine della sala: con l’effetto della luce queste diventano quasi impercettibili. Qui lo spazio non viene inteso come risolutivo dell’esposizione, ma solo come confine entro il quale “ricostruire”, mettendo in atto una metamorfizzazione dell’ambiente contenitore. Ma quali sono gli elementi che compongono un’allestimento? Agire andando ad introdursi in un ambiente attraverso la messa in opera di un’esposizione, sia nelle mostre temporanee sia nelle mostre permanenti, significa, per il progettista, impegnarsi a elaborare precisi elementi “caratterizzanti” il nuovo spazio, più o meno relazionati con l’ambiente, valorizzanti l’opera: allestire. Nel caso delle esposizioni temporanee, che sono per natura effimere, il progetto dell’allestitore sarà finalizzato all’ideazione di supporti versatili e flessibili, che rispecchino le esigenze del luogo ma che sappiano proiettarsi oltre, seguendo un linguaggio universale e, nel caso, riadattabilie. Nell’allestimento di esposizioni permanenti, che si associa il più delle volte a luoghi come i musei, la progettazione del supporto (che probabilmente sarà studiata dal professionista chiamato a progettare il museo stesso) consisterà nella composizione di elementi ovviamente meno versatili, capaci però di essere essenziali e non eccessivamente caratterizzanti, in modo tale da non compromettere, con la loro immagine, uno spazio che, come quello del museo, è composto da differenti e numerose parti che devono coesistere in un unicum compositivo.

Daniela Ferretti, allestimento per la mostra “Kandinskij“, Ala Napoleonica, Venezia, 1981. Veduta interna della sala principale.

Illuminazione “Illuminare è mettere in luce: non solo nell’ambiguità delle parole è analogo al mostrare. Dar luce implica decidere circa direzione e intensità di un flusso luminoso, produrre ombre e penombre: si mette in luce una parte, mettendo in ombra l’altra. E’ propriamente tramite l’ombra che si disegna la consistenza delle superfici, il contorno delle cose, la profondità degli spazi. Direzione e intensità fanno vedere per differenza, traendo angoli e misure dalla parimenti accecante pienezza di luce o di oscurità”13. Nicola Marras inizia il suo discorso sull’illiminare nel suo “Breviario strumentale”, mettendo in risalto la duplice natura di questo processo che si divide tra luci e ombre. Il sapiente utilizzo di questi due soggetti è un procedimento essenziale, dunque, nella pratica dell’allestimento dove la definizione degli ambienti passa anche attraverso l’illuminazione; “[…] luci e ombre fortemente contrastate - continua l’autore - mettono in primo piano volumi e spazi, tra questi inscrivendo superfici, toni, colori; diffuse, invece,

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Nicola Marras, “Breviario strumentale” in: “Mostrare: l’allestimento in Italia dagli anni Venti agli anni Ottanta”, Sergio Polano, Edizioni Lybra Immagine, Milano 1988.

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inducono nel verso opposto”. Mettere in risalto determinate zone di un ambiente oppure uniformarlo, scaturisce dalle diverse modalità di esposizione alla luce che un allestitore mette in campo nel suo progetto. L’idea più comune è quella dell’utilizzo della luce come elemento essenziale ai fini di fruire dell’opera mostrata, ma, sebbene questo concetto sia assolutamente corretto, dobbiamo mettere in evidenza, come sottolinea Marras, la natura della luce quale elemento caratterizzante all’interno della mostra, che viene utilizzato per accentuare determinati concetti propri del messaggio insito nelle opere d’arte.

Renzo Piano Building Workshop, allestimento per la personale su Alexander Calder, Palazzo Vela, Torino, 1983.

L’esposizione su Alexander Calder messa in opera da Renzo Piano nel Palazzo Vela di Torino, per fare un esempio, ricostruisce l’illuminazione all’interno della sala, oscurando completamente le pareti vetrate del grande padiglione espositivo; una volta creato il buio, la luce artificiale può essere modulata creando focus visivi nella sala che lavorano con le stesse opere esposte: l’esile configurazione delle sculture in metallo riflette la luce attraverso le lievi oscillazioni delle parti mobili dell’oggetto. L’annullamento dell’ambiente circostante enfatizza le sculture “astratte” , che “fluttuano” nello spazio, creano effetti spaziali dinamici. Nella sua analisi Marras prosegue affermando che: “illuminare cose ed eventi della mostra tramite lo spazio che li ospita sottopone l’ordine ad essi attribuito all’ordine di quello spazio; illuminarli direttamente inverte la gerarchia”. L’importanza di illuminare, dunque, si afferma anche attraverso la definizione delle gerarchie di uno spazio in relazione all’opera. Se lo spazio è fondamentale e serve a ordinare la mostra e definire precise percorrenze, sarà consono illuminarlo con un’illuminazione diffusa; nel caso in cui invece i punti focali di un allestimento si estraniino dallo spazio che li circoscrive, l’illuminazione puntuale dei singoli oggetti risulterà essere la soluzione più adeguata. Dobbiamo anche considerare un aspetto meno espressivo e più tecnico della luce artificiale, laddove questa deve essere utilizzata per illuminare un’opera altrimenti poco visibile: questo procedimento, prevede di calcolare l’angolo di incidenza della luce, nonché la potenza luminosa e l’effetto di deterioramento che i raggi ultravioletti possono avere sull’opera. Un altro tipo di considerazione riguarda il ruolo e il senso dell’illuminazione naturale, quella mutabile e in continuo movimento del sole, che si inserisce nelle sale attraverso le diverse aperture finestrate. In uno spazio museale realizzato ex novo, la definizione della modalità di illuminazione per l’ambiente e per le opere sarà un tema di progetto decisamente importante. L’orientamento rispetto al percorso solare è il primo fattore da tenere in considerazione: l’esposizione di museo deve disporsi

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in direzione opposta a quella da cui sorge o tramonta il sole; nel nostro emisfero l’esposizione ideale sarà quella verso Nord (Sud per l’emisfero opposto), portatrice di una luce naturale diffusa e uniforme. Dopo questa valutazione, il progettista deciderà quale tipo di illuminazione è più consona allo spazio da lui allestito, se zenitale, laterale, diffusa, diretta o indiretta. Come sottolinea Luca Basso Peressut ne “I Luoghi del Museo”14, nella progettazione di un museo la “forma è determinata dal tipo di illuminazione scelta. L’illuminazione zenitale richiede spazi rettangolari o a pianta centrale (circolare o poligonale). L’illuminazione laterale presuppone spazi poco profondi ad angoli smussati, ossia poligonali”. Non è ovviamente solo in questa istanza che si risolve il problema dell’illuminazione e, come ci spiega l’autore, il dibattito sulle corrette modalità illuminanti percorre tutto il Novecento, cercando di trovare una soluzione universalmente riconosciuta, anche in base al rapporto tra luce naturale e luce artificiale. Naturalmente un’illuminazione unitaria e sempre corretta per ogni situazione non può essere verosimile, piuttosto le singole esperienze e contesti, nonché le volontà del singolo allestitore in riferimento all’oggetto mostrato, daranno i giusti indirizzi per scegliere una tipologia di illuminazione il più corretta possibile. “E’ mio convincimento - dice Peressut - che, per qualsiasi tipo di esposizione, particolarmente per quelle non puramente basate su oggetti a due dimensioni come i quadri, le finestre come fonte di luce rappresentano una soluzione legittima e corretta. […] Attraverso il miglior utilizzo di luce naturale e artificiale assieme è possibile ottenere gli effetti più sorprendenti per il visitatore”. Lo spazio dell’esporre è composto da altri importanti elementi, che richiederebbero, per essere descritti al meglio, una ricerca molto approfondita e ricca di esmpi, che da sola potrebbe diventare un’argomento di tesi. Per concludere l’analisi di queste “parti”, dunque, mi limiterò a citare la descrizione fatta da Nicola Marras nel suo “Breviario Strumentale”15, dove basamento, pannello espositivo e teca, ritenuti dall’autore elementi fondamentali della composizione di un allestimento, vengono “raccontati” in maniera incisiva ed esaustiva. Basamento “Il basamento, considerato in astratto quale piedistallo di un oggetto, fa di questo un punto nello spazio. All’attenzione sottrae se stesso e pone l’oggetto come centro: riferimento polare per la visione e il cammino, ordina lo spazio unificandolo, ma ignorandone i confini. Isolato, il basamento propone un centro; moltiplicato crea una costellazione che il desiderio di ordine compone in una qualche geometria. Restituito all’universo materiale, richiama la necessità di una superficie solida e orizzontale, quindi di stabili nessi verticali tra tale superficie e l’oggetto, misu-

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Luca Basso Peressut, “I Luoghi del Museo: Tipo e Forma fra Tradizione e Innovazione”, Editori Riuniti, Roma 1985. 15 Nicola Marras, “Breviario strumentale” in: “Mostrare: l’allestimento in Italia dagli anni Venti agli anni Ottanta”, Sergio Polano, Edizioni Lybra Immagine, Milano 1988.

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randone il senso del grave[…] Il basamento si propone come un paradigma del fare architettonico. Esso implica comunque la soluzione costruttiva di un problema statico. La sua collocazione determina la gamma delle relazioni tra l’oggetto – del quale guida alla tridimensionalità – e lo spazio che lo circonda. Nei confronti dell’osservatore, la conformazione del basamento e dello spazio stabilisce la quota dell’orizzonte visivo, orienta le prospettive, misura le profondità e seleziona le porzioni del cammino – spaziale e temporale – intorno e, nel caso, attraverso l’oggetto”16. Pannello espositivo “Il pannello nell’etimo è panno di lino, tessuto di trama sospesa tra il grosso e il sottile; nella mostra, il pannello – un tempo, non a caso, stoffa pendente – nasce come sfondo per cose ed eventi, ovvero è sorta di veste che vela e rivela. Essenzialmente, però, il pannello è porzione di superficie; di questa, dunque, esibisce le bidimensionali proprietà: trasparente o opaca, ha dritto o rovescio, divide lo spazio e la sua visibilità, è comunque confine. Se una superficie divide lo spazio, più superfici lo articolano, chiudendolo in volumi, scandendone la profondità nella successione di quinte, mostrando un centro – se vi è – tramite un involucro. Il pannello è comunque parte di superficie, perché ha i limiti che la materia e il produttore impongono – e da questi limiti deriva il potere d’ordine della linea. Del resto, come superficie non è mai pura perché, sebbene si offra per le qualità del piano, ha sempre uno spessore, la cui materia ne decide la rigidezza… Il pannello fornisce, dunque, ad oggetti prevalentemente bidimensionali la stabilità della terza dimensione, li impagina entro il chiuso di un piano e li dispone in uno spazio che contribuisce a definire. Alla sua fattura non basta, perciò, la regola di un’arte, ché reclama incrociati calcoli di disegno, grafica e architettura”17. La bacheca (teca)

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Nicola Marras, “Breviario strumentale” in: “Mostrare: l’allestimento in Italia dagli anni Venti agli anni Ottanta”, Sergio Polano, Edizioni Lybra Immagine, Milano 1988. 17 V. nota precedente. 18 V. nota precedente.

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“La bacheca - o teca - sembra un supporto ideato proprio per mostrare. Come gli altri due elementi descritti, parrebbe protendere un oggetto verso l’osservatore; in realtà difende l’uno dall’altro. Esplicitamente, misura e qualifica le posizioni reciproche; implicitamente, ne giudica pericoloso il potenziale contatto. Il suo disegno non configura tanto un modo di mostrare quanto la forma di una separazione. Se basamento e pannello possono richiamare le idee di punto e di superficie, la bacheca – nell’uso comune, una scatola – in sostanza definisce un volume. Coniugando le proprietà dei primi due, perde tuttavia in semplicità e purezza di intenti”18.


“Basamento, pannello e bacheca, in qualsiasi combinazione, usati coniugatamente o separatamente, istituiscono le relazioni spaziali primarie, ineliminabili”19. La composizione di diverse parti per un fine comune, che è quello del mostrare, sancisce l’intervento sapiente di una figura professionale (progettista) che sappia leggere l’opera, ma anche lo spazio, e unisca questi due soggetti in una più grande opera d’arte: l’allestimento. “Ma forse è proprio nella congiunzione dello jato tra il grave architettonico del costruire e il lieve dell’azzardo consono invece all’esibire che trova spiegazione la natura altrimenti sfuggente dell’allestimento. Non a torto, si potrebbe anche sostenere che l’allestimento è una forma di arte applicata: precipuamente arte di architettare interni per il dimorare di oggetti temporaneamente raccolti in quell’unicum che dovrebbe essere la mostra”20.

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Nicola Marras, “Breviario strumentale” in: “Mostrare: l’allestimento in Italia dagli anni Venti agli anni Ottanta”, Sergio Polano, Edizioni Lybra Immagine, Milano 1988. 20 Sergio Polano, “Mostrare. L’allestimento in Italia dagli anni Venti agli anni Ottanta”, Edizioni Lybra Immagine, Milano 1988.

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VARIAZIONI DELLO SPAZIO ALLESTITO

BASILICA PALLADIANA Andrea Palladio, Vicenza

La Basilica Palladiana di Vicenza, ospita ormai da diversi anni mostre ed esposizioni di diverso genere. Tra queste si svolgono allestimenti monografici di architettura, che hanno come obbiettivo l’interpretazione, sempre diversa, del tema del “mostrare” all’interno del medesimo spazio, come opportunità offerta al visitatore per meglio comprendere la poetica, e la concezione architettonica del protagonista chiamato a progettare la propria mostra personale. Gli esempi analizzati sintetizzano tre diverse possibilità di allestimento: il primo caso è un intervento minimalista e caratterizzato dal semplice inserimento di arredi mobili; il secondo è un progetto più invasivo, ma che non nega lo spazio, utilizzando dei focus luminosi per imporre le gerarchie spaziali; il terzo inserisce un volume nello spazio che, sebbene permetta di percepire l’ambiente circostante, si discosta da questo creando un luogo privato dove mettere in atto la mostra.

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ALVARO SIZA L’allestimento di Alvaro Siza per l’esposizione delle sue opere rappresenta un’idea innovativa di relazione tra allestimento ed edificio storico palladiano. Per il progetto, che espone disegni originali, schizzi, modelli in legno, l’architetto ha pensato a un intervento poco invasivo: vengono disposti tavoli di lavoro all’interno della sala, sui quali si dispongono i progetti in mostra; ad ogni tavolo è associata una sedia per permettere al visitatore una relazione diretta con gli oggetti mostrati. Il progetto illuminotecnico prevede poi l’inserimento di lampade che scendono dal soffitto che illuminano omogeneamente l’ambiente, creando una luce naturale e diffusa.

TOYO ITO La presentazione delle opere di Toyo Ito si avvale dell’uso innovativo di forme di comunicazione multimediali. Al centro della mostra è collocata, infatti, una sala di proiezione a pianta ovale, nella quale vengono riprodotti i suoi lavori. Il tema del “mostrare” diventa così lo spunto per l’invenzione di un’opera architettonica che, sebbene effimera, coinvolge il visitatore in un racconto spaziale ed emozionale di grande intensità: una serie di 19 tubi sospesi in tessuto translucido leggero, alti 11 metri, illuminati dall’alto, costituiscono gli elementi caratterizzanti lo spazio espositivo; all’interno di ogni colonna, un tavolo trasparente diventa, ad un tempo, schermo per la proiezione di immagini e supporto per i modelli.

SANAA Un’immensa stanza bianca illuminata a giorno lascia appena intravedere, al di là delle sue pareti di tessuto semitrasparente, le strutture medievali del salone Cinquecentesco. Dalle eleganti logge palladiane veniamo immessi direttamente, senza soluzione di continuità, nello spazio allestito, nel quale sono esposte immagini, proiezioni e oggetti. L’allestimento, composto da elementi sottili, giochi di trasparenze e da luci abbaglianti, prende vita e senso compiuto dal movimento delle persone che l’attraversano. La ricerca di Sejima e Nishizawa, a partire dal minimalismo delle prime opere, approda verso atmosfere trasognate e immateriali, nel tentativo di ridurre al minimo la sostanza tettonica degli edifici. Scheda 4



CAPITOLO 3

FRUITORE, OPERA, SPAZIO: I SOGGETTI DEL MOSTRARE


Dopo aver osservato come, nel campo della percezione dinamica, si può entrare in relazione con l’ambiente allestito e il suo contenuto, definiamo i caratteri dei soggetti principali di queste relazioni. Un luogo adibito a mostra, uno spazio dove l’allestimento diviene il senso principale della visita, entra in relazione non solo con l’oggetto che deve contenere, ma anche con il fruitore, ovvero con il destinatario primario del messaggio comunicativo dell’esporre; per questo motivo per definire al meglio il ruolo di ciascuno di questi soggetti dobbiamo chiarire alcune questioni: Chi è il fruitore delle mostre di arte contemporanea? Come si sviluppa e sotto quali forme si presenta questo tipo di arte? Come si differenzia lo spazio e in che modo riesce ad accogliere le opere e i visitatori?

3.1 IL FRUITORE “Si è a lungo discusso sul rapporto tra istanza espositiva e oggetto in mostra, sul peso e sul valore che la struttura espositiva può apportare al soggetto dell’esposizione, ma il progetto dell’esporre contemporaneo si è ormai spostato dal piano di questo dualismo di nette contrapposizioni per generare progetti più complessi, trasversali, da cui emerge con sempre maggior chiarezza come l’esperienza conoscitiva costituisca il reale prodotto dell’azione espositiva. Questo vuol dire ribaltare il punto di vista, ponendo al centro degli obiettivi del progettista il ruolo del visitatore, effettivo principale soggetto del progetto, la cui presenza, i cui movimenti, le cui libertà e possibilità di azione sono progettabili. Ragionare sui tempi e movimenti delle persone all’interno di uno spazio, prevederne i comportamenti d’uso, lavorare intorno alla dinamicità degli spostamenti diventa il tema centrale di un progetto che non vuole esaurirsi nella qualità visiva, ma tende a conquistare quella spaziale e sensorialità. Quando la ridefinizione di un luogo considera come elemento portante la presenza di pubblici diversi, con tempi, livelli di percezione e comportamenti d’uso differenti, il progetto temporaneo dell’allestimento, pur partendo dalla definizione di una scenografia, si fa motore di comportamenti e pensieri, diventando alla fine il progetto di una densa e complessa sceneggiatura in quattro dimensioni. In questo contesto, il percorso del visitatore è scandito da ideali campi magnetici di attrazione o allontanamento: strutture e sistemi di interazione, progettati per definire ritmi, modi e velocità di attraversamento del luogo. Il progetto allestitivo concepito nella sua complessità di atto di comunicazione definisce così spazi di conoscenza e condivisione fortemente caratterizzati, unici e non clonabili perché profondamente radicati nel luogo e strettamente connessi con il contenuto specifico. 42


Spazi che possono essere caricati di un’innegabile forza estetica o di poetiche soluzioni espressive, ma che si qualificano soprattutto per la qualità del rapporto che riescono a instaurare tra utente e opera”1. Gli architetti Ico Migliore e Mara Servetto parlano in questo breve saggio della figura del visitatore e del ruolo centrale che assume all’interno degli allestimenti contemporanei; il loro pensiero crea un punto di partenza interessante per l’analisi di questa figura assolutamente essenziale nel campo delle relazioni tra uomo, opera e spazio. Il fruitore, diventato oggi il soggetto principale della mostra, viene preso come punto di riferimento dai progettisti allestitori che cercano di far funzionare al meglio un determinato allestimento, sia dal punto di vista dei contenuti che della composizione formale; l’intento primario è quello di far vivere un’esperienza unica al visitatore, suscitando in lui interesse e quindi voglia di ritornare. La buona riuscita di un allestimento infatti, può indurre ad una fruizione su più larga scala, aumentando il prestigio di un museo o spazio espositivo. Come dice Basso Peressut, “nelle mostre si individua, da parte dei responsabili museali, lo strumento principe per captare l’interesse di pubblico e media, per generare income, immagine e prestigio, sia per gli organizzatori, sia per i finanziatori, sia per gli operatori coinvolti: collezionisti e mediatori d’arte, politici e amministratori, esperti e studiosi, accademici e liberi pensatori”2. Nella società di massa anche la divulgazione artistica dunque segue le regole del mercato e “l’income” di cui ci parla Basso Peressut altro non è che l’entrata monetaria di un museo, il suo reddito, che è dunque strettamente legato all’afflusso di visitatori. Il fruitore, oggi, non si limita più soltanto ad essere il destinatario di un messaggio comunicativo espresso dall’artista, ma diviene anche una fonte di sostegno per le istituzioni museali che cercano di attrarlo e di soddisfarlo appieno. Questa attitudine contemporanea ha portato alla formazione di metodi per lo studio del profilo dei visitatori, spingendo spesso a fare considerazioni di tipo psicologico-commerciale dell’afflusso al museo. Definire il carattere di chi visita, capire i suoi gusti e cogliere le criticità da lui riscontrate, sembra essere il nuovo obiettivo dei musei contemporanei, che con questi studi provano a migliorarsi e ad attrarre più visitatori possibile. “Viene da pensare che se i musei non avessero la necessità di far quadrare i bilanci, non ci sarebbe la stessa enfasi sulla volontà di far aumentare il numero di visitatori. […] La visibilità del museo è richiesta dal mercato e dagli sponsor che sostengono finanziariamente riallestimenti, restauri e mostre”3. Con questo commento, tratto dal libro “Immaginare il Museo: riflessioni sulla didattica e sul pubblico”, viene criticata la tendenza sempre più diffusa da parte di chi crea mostre ed esposizioni a spostarsi verso il consumo di massa e quindi al guadagno, tralasciando il fine primario che dovrebbe avere un’istituzione museale; in realtà il fatto di spostarsi verso

Ico Migliore e Mara Servetto, “Azioni e modificazioni progressive”, in: “Il progetto di allestimento e la sua officina. Luogo, memoria ed evento: mostre alle Fruttiere di Palazzo Te, Mantova”, a cura di Marco Borsotti e Glenda Sartori, Skira, Milano 2009. 2 Luca Basso Peressut, “Su mostre e musei”, in: “il progetto di allestimento e la sua officina. Luogo, memoria ed evento: mostre alle Fruttiere di Palazzo Te, Mantova”, Marco Borsotti e Glenda Sartori, Skira, Milano 2009. 3 Maria Teresa Balboni Brizza, “Immaginare il Museo: riflessioni sulla didattica e sul pubblico”, Jaca Book, Milano 2006. 1

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un guadagno maggiore, sfruttando l’influenza mediatica, non significa per forza che venga in questo modo tralasciato il fine di divulgazione culturale e la qualità artistica, che sono poi i fondamenti dell’esposizione d’arte. Bisogna comunque tener conto di queste tendenze che possono portare ad una spettacolarizzazione dell’allestimento finalizzata esclusivamente all’aumento di afflusso. Lo scopo principale di questa diffusa volontà è, o almeno dovrebbe essere, “la creazione di un momento di approfondimento critico e allo stesso tempo di divulgazione ad un pubblico ampio di saperi, proponendo tra l’altro istanze interpretative delle vicende artistiche, tali da indurre a nuove letture e acquisizioni e nuovi punti di vista, ma pur sempre in sintonia con la mission culturale del museo”4.

Luca Basso Peressut, “Su mostre e musei“ in: “il progetto di allestimento e la sua officina. Luogo, memoria ed evento: mostre alle Fruttiere di Palazzo Te, Mantova”, a cura di Marco Borsotti e Glenda Sartori, Skira, Milano 2009. 5 Maria Teresa Balboni Brizza, “Immaginare il Museo: riflessioni sulla didattica e sul pubblico”, Jaca Book, Milano 2006. 6 V. nota precedente. 7 V. nota precedente. 8 Maria Mercede Ligozzi e Stefano Mastrandrea, “Esperienza e conoscenza del museo. Indagine sui visitatori della Galleria Nazionale d’arte moderna e contemporanea”, Electa, Milano 2008. 9 Cfr. H.J. Eysenck, The General Factor in Aesthetic Judgments, in “British Journal of Psychology”, 31, 1940, pp. 94-102. 4

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Il fruitore suscita dunque interesse anche per quanto riguarda la sua connotazione di genere, stato socio-culturale, età ed altri fattori che possano delinearne interessi e stimoli, al fine di dare vita a mostre, esposizioni e allestimenti capaci di soddisfarne le esigenze culturali ed emotive. Qual’è però il fruitore ideale? È possibile delinearne un profilo? Come scrive M. Teresa Balboni Brizza, il fruitore ideale “non esiste, e invece di cercare di tracciare un profilo sarebbe più utile riflettere sui visitatori e partire dal loro atteggiamento psicologico”.5 Ogni visitatore, infatti, ha una sua identità specifica che non potrà mai essere identificata in maniera precisa; continua l’autrice dicendo che “il pubblico, l’entità indifferenziata cui il museo si rivolge, soprattutto nelle proposte didattiche, è costituito da singoli individui, ciascuno dei quali ha aspettative, richieste ed esigenze del tutto particolari”6. Il fruitore risponde in maniera differente alle singole esperienze che possono suscitare in lui reazioni inerenti al campo del pensiero, del sentimento, della sensazione e dell’intuizione. Individui anche della stessa fascia sociale, età e grado di studio “potranno reagire alla stessa proposta didattica o di allestimento in modi imprevedibilmente differenti”7. Se è vero che ogni singolo fruitore non può essere definito nello specifico delle sue caratteristiche, resta comunque importante riuscire ad analizzare, per mezzo di precise ricerche, le percentuali di visitatori appartenenti alle varie categorie, per poter capire chi entra a contatto con l’arte contemporanea. “I nuovi paradigmi che si stanno sviluppando nelle politiche di gestione museale, infatti, trovano il loro fondamento nella concezione del museo, quale istituzione che esercita una funzione universale e senza tempo nella società. Secondo alcuni studi, il pubblico del museo rappresenta, perciò, un campione strutturato della realtà, quale modello oggettivo da porre a riscontro delle percezioni individuali” 8. L’approccio di ogni singolo fruitore, le sue percezioni della mostra, si esprimono, in effetti, in modi diversi in base alle diverse attitudini caratteriali. Eysenck9 fu tra i primi studiosi a dimostrare una relazione tra personalità e preferenze estetiche: stili artistici impressionisti, espressionisti e astratti in cui si fa ricorso a un


intenso uso di colore sono preferiti dalle persone estroverse, mentre rappresentazioni più realistiche, semplici e simmetriche sono valutate più positivamente dagli introversi. Anche secondo Cardinet10 le preferenze estetiche rispecchiano i tratti di personalità: persone indipendenti e creative preferiscono l’arte astratta, mentre individui più convergenti e dipendenti apprezzano maggiormente l’arte realistica. A questo proposito è interessante sottolineare il fatto che, all’interno delle ricerche svolte tra gruppi di persone appositamente selezionate tra i visitatori di arte contemporanea, siano emersi in maniera spontanea, due diversi approcci alla fruizione artistica: la prima caratterizzata dalla relazione istinto-vissuto emozionale, la seconda dalla relazione razionalità-bisogno di comprensione. Alcune persone si lasciano guidare solo dall’emotività, dando un giudizio a riguardo dell’esperienza artistica vissuta, che si basa sulle sensazioni provate a pelle di fronte alle singole opere, altre invece trovano necessario comprendere il significato dell’opera per poterla apprezzare pienamente. Tra gli studi effettuati sul pubblico dell’arte contemporanea, il Centro studi e ricerche dell’Associazione Civita11 ha condotto un’indagine su nove principali musei d’arte contemporanea italiani al fine di conoscere il profilo socio-demografico, la motivazione, la fruizione e i consumi culturali. Questo excursus sulle ricerche condotte negli ultimi anni, delinea la sempre più diffusa volontà della comunità scientifica museale di “conoscere il proprio pubblico attraverso gli studi sociologici e demoscopici svolti in Occidente (Europa, Australia, Canada e Stati Uniti), sia al fine di attuare strategie di marketing museale a medio e lungo termine, sia al fine di conoscere il gradimento (customer satisfaction) sulle opere d’arte e sui contesti museali, ossia la relazione esistente tra istituzione e pubblico dei musei anche attraverso lo studio di nuove modalità di fruizione: la relazione che si instaura tra il visitatore e il museo, il processo cognitivo dell’esperienza alla visita, l’interesse alla partecipazione e all’interazione con l’istituzione museale”12. I dati evidenti di questa ricerca mettono in luce che, dal punto di vista socio-demografico, il pubblico dell’arte contemporanea è prevalentemente femminile (in linea con il dato sulla popolazione italiana), e molto giovane: oltre il 56% del pubblico si colloca sotto i 44 anni, una fascia di età che a fronte dell’intera popolazione italiana ne comprende circa un terzo. Il grado di istruzione è elevato: Il 47,2% possiede una laurea o un titolo post laurea, una cifra molto al di sopra del totale dei laureati sul complesso della popolazione italiana (7,5%). Anche il numero dei diplomati è alto (37,9%). Questo dato conferma un fatto noto agli operatori dei musei e che cioè il loro pubblico è, almeno formalmente, più colto. L’immagine di un pubblico colto emerge anche dai dati sui consumi culturali. Una grande maggioranza esprime il proprio interesse per siti archeologici (57%), mostre (64,9%) e musei (65,9%), ed è propensa ad impiegare il proprio tempo libero in

10 Cfr. J. Cardinet, Preference esthetiques et personnalité, in “Anné psychologique”, 58, 1958, pp. 45-69. 11 Centro Studi e Ricerche dell’Associazione Civita, “Il pubblico dei musei d’arte contemporanea”, indagine sul pubblico dell’arte contemporanea conclusa nel luglio 2007. I musei coinvolti nell’indagine sono: Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Torino; Museo d’arte contemporanea di Roma (MACRO); Museo di Arte contemporanea Castello di Rivoli, Rivoli (TO); Museo d’Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto; Museo nazionale delle arti del XXI secolo (Maxxi), Roma; Padiglione d’Arte Contemporanea, Milano; Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci, Prato; Galleria civica d’arte moderna e contemporanea, Torino; Museo d’Arte Contemporanea DonnaRegina, Napoli. 12 Maria Mercede Ligozzi e Stefano Mastrandrea, “Esperienza e conoscenza del museo. Indagine sui visitatori della Galleria Nazionale d’arte moderna e contemporanea”, Electa, Milano 2008.

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attività che arricchiscono il proprio bagaglio culturale (62%). Un’altra caratteristica dei fruitori evidenzia che circa un terzo di essi legge molti libri e utilizza abitualmente internet. Per quanto attiene la posizione lavorativa il 27% è composto da direttivi e impiegati; il 19% da dirigenti, quadri e liberi professionisti, il 21% da studenti, il 12% da persone che si sono ritirate dal lavoro e l’8% da persone in cerca di prima occupazione. Il restante 13% si ripartisce in maniera equilibrata tra operai, lavoratori in proprio, coadiuvanti, casalinghe o persone in cerca di nuova occupazione. Nello specifico è stato riscontrato che più del 60% di pubblico ricopre ruoli lavorativi non attinenti all’arte contemporanea, delineando così un interesse generale verso questo tipo d’arte che non è motivato soltanto da un interesse professionale, anche se questa ampia percentuale è formata da figure lavorative in qualche modo collegate al settore dell’arte (architetti, designer, fotografi, giornalisti addetti al settore della cinematografia e della televisione). Per concludere si analizzano le modalità e la durata delle visite. Quasi la metà dei visitatori trascorre una o due ore nel museo, mentre il 20% decide di prolungare oltre le due ore la visita. Un risultato abbastanza simile a quello di altre mostre e musei, con l’eccezione dei musei delle città d’arte sottoposti alla pressione dei turisti. Qui la visita scende molto e si posiziona poco al di sotto dell’ora. Per quanto riguarda la modalità di visita, in genere il 90% degli intervistati la compie liberamente senza ausilio di supporti audio o cartacei. Solo per il pubblico più giovane sale considerevolmente il numero di visite guidate che si attesta intorno al 18%. Indice, questo, di una buona organizzazione dei servizi per le fasce più giovani, che sembra essere una preoccupazione costante dei musei d’arte contemporanea. “L’indagine, i cui risultati abbiamo qui sintetizzato, evidenzia dunque un pubblico colto, interessato e dinamico. Un pubblico abbastanza diverso da quello che tradizionalmente si vede nei grandi musei delle città d’arte: più limitato nelle quantità, ma attento ed esigente, desideroso di apprendere e di conoscere”13.

3.2 L’OPERA

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V. nota 11

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Nell’analisi del ruolo che l’opera d’arte riveste nelle relazioni con lo spazio espositore e con il suo fruitore, è importante rilevare le caratteristiche generali dell’oggetto artistico e i modi che esso ha di comunicare con l’osservatore. Come è stato già accennato, ognuno dei “pezzi” della mostra non è mai puramente se stesso, ma va inteso in quanto parte componente di un pro-


cesso più ampio che si esprime in funzione di un’esperienza. Sulla base di questo dobbiamo valutare la nuova proprietà espressiva dell’oggetto d’arte che, da presunto protagonista qual’era in passato, assume oggi un ruolo decisamente differente. Questo è dovuto alla funzione che l’arte è venuta ad assumere nell’ultimo secolo, e in particolare negli ultimi decenni, che hanno molto modificato il significato originario dell’oggetto d’arte, il quale deve ormai essere inteso in maniera più allargata: non considerando la sua qualità materiale di opera osservata come unicum compositivo, ma anche, e soprattutto, il messaggio che esso vuole trasmettere e l’idea che sta alla base della sua composizione. Attorno all’inizio del XX secolo, a causa dei numerosi cambiamenti che stavano avvenendo nella società, legati a un forte sviluppo tecnico e tecnologico, la concezione dell’arte viene a modificarsi; la famosa “aura”, di cui ci parla il filosofo tedesco W. Benjamin14, quell’essenza intrinseca dell’oggetto artistico che suscita nello spettatore una meraviglia, e che si basa sull’unicità del pezzo d’arte, va scomparendo con l’avvento dell’epoca della riproducibilità tecnica. Le infinite possibilità di riprodurre gli oggetti, nonché la possibile rappresentazione del reale attraverso mezzi tecnici di precisione superiore a quella umana, fanno ora dell’opera d’arte un oggetto che prende posizioni differenti per quanto riguarda il senso tradizionale di valore artistico, ovvero quello legato alla qualità estetica e materiale del pezzo. Le “avanguardie” artistiche entrano in relazione con la realtà in modi diversi, mettendo da parte la rappresentazione verosimile e ponendo al centro l’espressività dell’artista che mette a nudo gli aspetti della società e dell’animo umano attraverso l’utilizzo non convenzionale e innovativo, del segno, del colore, dei materiali della composizione ma anche delle tecnologie (riferendosi con queste ultime alle espressioni artistiche che fanno uso di macchinari moderni per creare arte, come ad esempio la fotografia, le proiezioni, le immagini, i filmati, le installazioni luminose, ecc). Sulla base di questi sviluppi, dunque, si arriva a stabilire che l’oggetto di per se stesso, non può più essere considerato portatore di un valore tale da dovergli conferire la centralità rispetto alla progettazione di un’esposizione. “Mentre con le opere di arte antica si pone il problema relativo alla contestualizzazione, vale a dire restituire all’opera quelle condizioni ideali che la rendano percepibile in tutte le sue valenze artistiche e critiche, attraverso la ricerca di opportuni rapporti spaziali e di luce, con l’arte contemporanea parrebbe superfluo occuparsi di tali rapporti, che gli artisti stessi dichiarano essere poco significativi in quanto l’opera non nasce necessariamente in un contesto spaziale preciso”15. Nel campo dell’arte contemporanea, dunque, il messaggio insito nell’opera e l’esperienza emotiva e sensoriale che viene messa in atto durante la mo-

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W. Benjamin, “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Arte e società di massa”, trad. it. di Enrico Filippini, Einaudi, Torino 1966, 1991 e 1998, Titolo originale: “Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit,” da Walter Benjamin, Schriften, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 1955. 15 Cristina Bergo, “Arte contemporanea e spazio architettonico”, in “Architettura Contesto Cultura”, a cura di Barbara Bogoni e Marco Lucchini, Alinea Editrice, Firenze 2011.

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stra, diventano le caratteristiche fondamentali di un determinato oggetto artistico. Come è stato già detto a riguardo del “fruitore”, non è più l’opera ma l’uomo il nuovo protagonista dell’esposizione d’arte, poiché egli è il primo destinatario delle idee espresse nel lavoro dell’artista. Sviluppo dell’Arte Contemporanea

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Dalla premessa di Francesco Poli (a cura di), “Arte contemporanea. Le ricerche internazionali dalla fine degli anni ’50 ad oggi”, Electa, Milano 2005.

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Il primo quesito cui rispondere, nella prospettiva di comporre una, seppur breve, storia dell’arte contemporanea è: “Quando nasce rispetto alla totalizzante “Arte”? Per comprendere il fenomeno è infatti necessario contestualizzarlo e circoscriverlo temporalmente. Stando alle ideologie che si affermano nello scenario della storia dell’arte c’è da distinguere tra la definizione di arte contemporanea che si dà in Europa e quella invece che si dà negli Stati Uniti d’America. “Mentre in Europa, normalmente, per “arte contemporanea”, in senso allargato, si intende quella che va dagli impressionisti ad oggi, negli Stati Uniti lo stesso periodo è diviso in “modern art” fino alla seconda guerra mondiale e “contemporary art” dagli anni quaranta circa a oggi, prendendo di fatto come punto di partenza l’espressionismo astratto, e cioè il movimento di avanguardia d’oltreoceano che si impone internazionalmente, in stretta connessione con il definitivo consolidamento dell’egemonia americana in tutti i campi. Ma la vera svolta che ha cambiato le coordinate di fondo della ricerca artistica definibile come strettamente contemporanea, i cui aspetti più significativi sono ancora uno stimolo vitale per la complessa e articolata situazione attuale, inizia sia in Europa sia in America più o meno nella seconda metà degli anni Cinquanta, sviluppandosi nel decennio successivo. Tale svolta va in definizione di un definitivo sfondamento dei confini tradizionali della pittura e della scultura (che rimangono pratiche di peculiare importanza, ma non più dominanti nella creazione artistica), a partire da una critica radicale all’eccesso dell’espressività soggettiva ed esistenziale dell’informale e dell’action painting, e più in generale alla dimensione illusionistica dell’opera. E si concretizza attraverso un coinvolgimento concreto della realtà oggettuale quotidiana; un’apertura provocatoria della cultura d’elite all’universo della cultura di massa; un nuovo e più diretto rapporto fra arte e vita, in termini di interventi performativi e di installazioni ambientali; e anche come processo di riflessione autoreferenziale sulla specificità e i limiti dei linguaggi artistici e sullo stesso sistema dell’arte. Il tutto prende forma attraverso l’utilizzazione di nuove tecniche e nuovi materiali, e l’elaborazione di nuove procedure operative. Non bisogna naturalmente dimenticare che punti di riferimento essenziali per questo cambiamento sono state le esperienze estetiche più avanzate avviate nell’ambito delle avanguardie storiche da alcuni grandi precursori, tra cui innanzi tutto Marchel Duchamp”16. L’incipit di Francesco Poli del suo scritto sull’arte contemporanea, riper-


corre sinteticamente i processi che hanno portato a formare l’arte di oggi e che noi fruiamo. Non a caso cita Duchamp quale figura emblematica e precursore dell’arte contemporanea; egli è infatti il primo, anche se non l’unico, a porre l’oggetto artistico sotto una nuova luce: ogni elemento ed oggetto della realtà che ci circonda può diventare arte. Il suo pezzo più conosciuto, intitolato “Fountain”, basa il suo stesso significato e concetto fondativo su questa nuova idea di oggetto artistico. L’urinatoio viene capovolto, firmato e intitolato con un nuovo nome che ne identifica una diversa funzione: la fontana. Nel procedimento artistico non è più essenziale creare un’opera, ma si può limitarsi anche a compiere un’azione che reinventa un determinato oggetto: il messaggio insito nel processo creativo, frutto di una rielaborazione da parte dell’artista del mondo che lo circonda e dell’emotività del campo umano, diventa il fondamento della nuova opera d’arte; qualsiasi oggetto può essere arte. L’evoluzione che l’arte contemporanea subisce nell’arco di tutto il Novecento porta dunque a manifestare varie modalità compositive tutte interdipendenti: disegno, pittura, scultura, fotografia, videoarte, arte digitale, musica, performance, installazioni. Questo campo di azione così vasto implica un altrettanto vasto utilizzo di materiali e oggetti che appartengono a tutti i campi della vita umana.

Marchel Duchamp, “Fountain”, 1917.

Forse l’aspetto che definisce meglio l’arte contemporanea è proprio la difficoltà di definirla criticamente. Prima della fine degli anni Sessanta, infatti, la maggior parte delle opere poteva essere etichettata facilmente come frutto di una particolare scuola pittorica. Anche all’interno delle seconde avanguardie, che hanno creato il punto di rottura tra arte moderna e contemporanea introducendo una nuova idea di rapporto tra oggetto, ruolo dell’artista e opera d’arte, possiamo leggere determinate e definite correnti: l’Happening, i Fluxus, la Body Art, la Minimal Art, l’Arte Povera, l’Arte Concettuale, l’Arte Cinetica, la Land Art, la Op Art, la Pop Art, il Nouveau Realisme, solo per citare le più importanti. Anche negli anni Settanta e Ottanta si possono notare altre tendenze, come l’Arte Concettuale, la Performance Art, il Neoespressionismo, la Graffiti Art, la nuova scultura inglese oppure la Transavanguardia. Le tendenze odierne, d’altro canto, sono poco definibili e definite e poiché, come cita Francesco Poli, sono “spesso ancora culturalmente fluide”17, non è facile inserirle all’interno di una corrente o linea di pensiero specifica. L’arte dopo l’era moderna si è trasformata seguendo anche i cambiamenti economici, globali, politici e socioculturali. La sempre maggior velocità e mole di scambi di idee, risorse economiche, informazioni e cultura intorno al globo avviene infatti anche nel mondo dell’arte. Molte delle barriere e

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Dalla premessa di Francesco Poli (a cura di), “Arte contemporanea. Le ricerche internazionali dalla fine degli anni ’50 ad oggi”, Electa, Milano 2005.

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distinzioni all’interno dell’arte sono cadute contribuendo a una vivacità e multidisciplinarietà tipica dell’arte contemporanea che ne ha fatto spesso ragione d’essere.

Felix Gonzales Torres, Senza titolo, 1991.

Lo studio degli strumenti artistici spesso innovativi e l’uso degli stessi senza altro fine hanno caratterizzato molta parte di ciò che possiamo definire arte contemporanea. Di qui il fiorire di ricerche artistiche basate su una continua sperimentazione e utilizzo di materiali nuovi e delle installazioni. Questo tipo di ricerca a volte esasperata dalla novità, in un sistema di mercato controllato, in gran parte, da pochi gruppi finanziari a livello globale e caratterizzata spesso dall’assenza di criteri oggettivi per valutare la qualità artistica delle varie espressioni, viene contestata da alcuni critici e uomini di cultura. Altri, compresi alcuni nuovi gruppi artistici, ne hanno messo in evidenza gli aspetti di degrado culturale, il conformismo e l’assenza di contenuti e poetiche profondi. Le tendenze più vicine alla nostra cultura e alla nostra società possiamo farle cominciare con l’inizio degli anni Novanta, che anche a livello socioculturale possono essere definiti come punto di cambiamento e inizio di una nuova epoca (si pensi alla caduta del Muro di Berlino). Sulla base delle opposizioni nate alla fine degli anni Ottanta, che andavano contro le ideologie del Neoespressionismo, le quali affermavano che la realtà si era eclissata nella spettacolarizzazione di se stessa e che quindi ciò che bisognava raccontare erano le emozioni e l’interiorità dell’artista, gli artisti degli anni Novanta riportarono al centro del dibattito artistico la realtà, analizzata da diversi punti di vista.

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Giorgio Verzotti, “Ultime tendenze degli anni ‘90”, in: “Arte contemporanea. Le ricerche internazionali dalla fine degli anni ’50 ad oggi”, a cura di Francesco Poli, Electa, Milano 2005.

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Un personaggio emblema dei suoi tempi è Felix Gonzales Torres; egli come dice Giorgio Verzotti18, “è stato un personaggio chiave per come ha saputo parlare dell’esistenza attraverso un linguaggio nuovo, o per lo meno mai tentato in arte”. La novità dipende dalla semplicità degli oggetti esposti, tratti dalla vita quotidiana; le sue installazioni consistono in accumulazioni di caramelle o pile di manifesti di carta, che noi possiamo prendere e portare via. Sono opere che non espongono il proprio processo di costruzione, ma la forma della loro presenza tra un pubblico. Il procedimento del “portare via” un pezzo di opera assume una fortissima carica allusiva che rimanda costantemente alla volontà generale di “non vedere”, di negare inconsciamente la possibilità di una malattia, l’Aids, che ha segnato la vita e le produzioni dell’artista. La messa a disposizione delle cose non comporta necessariamente la loro banalizzazione: in un mucchio di caramelle c’è una continua oscillazione tra la forma e la sua sparizione programmata, tra bellezza visiva e modestia dei gesti, tra meraviglia infantile e complessità dei livelli di lettura. Torres racconta nelle sue opere della morte, anche se in maniera affettiva e non tragica.


Tutto ciò, dunque, che si lega all’oggetto reale, tratto dalla vita quotidiana, assume un valore nuovo e più forte, andando in contrasto con i concetti minimalisti e neoespressionisti di pochi anni prima. Una serie di artisti tra cui citiamo Jeff Koons e Haim Steinbach, introdussero l’utilizzo di questa forma d’arte, legata ai materiali presi dal mondo circostante, prendendo oggetti e trasformandoli in arte per mezzo di un processo che, nell’atto stesso del suo compimento, dona un nuovo significato: un’analisi critica della realtà delle cose. Questi artisti introducono un processo di analisi tra arte e vita, arrivando a definire l’esistenza come “una dimensione problematica, attraversata da dinamiche alienanti, bisognose di liberazione.” Il disagio della società va espresso quindi in tutte le sua forme, legandosi anche attraverso le tecniche espressive utilizzate dai media per infondere il messaggio di critica, anche ironica, del mondo. Un altro passo importante da considerare all’interno di questo lasso temporale, è segnato dall’utilizzo della fotografia, quale analisi del reale e messaggio critico, chiaro e leggibile. Vediamo in questo caso Cindy Sherman e le sue foto che ritraggono la donna; facendo uso di stereotipi che portano verso “slittamenti ambigui della realtà”, sposta la fotografia del corpo femminile “sul piano della realtà costruita, fortemente teatralizzata”19. L’utilizzo di un gusto “kitch”, o dell’esagerazione è una conseguenza diretta degli indirizzi culturali trasmessi dai media. Anche le forme di arte cinematografica si inseriscono con nuovi linguaggi e metodi di rappresentazione. La presa diretta di un’azione diventa un mezzo con il quale fruire del reale attraverso racconti molto particolari. Le video arti vengono sfruttate per la forza scenica e attrattiva che posseggono, ma anche per la capacità riproduttiva, che mette in scena reiterazioni infinite di concetti, oppure azioni di vita reale e quotidiana. Taylor Wood ad esempio, utilizza una proiezione multipla, separata in sequenze distinte e simultanee, che costituisce micro narrazioni che sono alla base dei suoi video. Potenzialmente è presente una logica narrativa, ma sta allo spettatore metterla in opera attraverso la visualizzazione di una determinata sequenza video. Questa struttura narrativa del sistema compositivo dell’opera si diffonde in generale tra tutti gli artisti degli anni Novanta; “le opere fanno sentire il bisogno di narrare, di raccontare una storia che è spesso autobiografica, come un’esigenza dei nostri tempi”. L’atto del narrare vuole attrarre emotivamente, far immedesimare il pubblico e coinvolgerlo, portarlo a riflettere sulla società.

Cindy Sherman, Senza titolo, 1996.

Jeff Koons, installazione alla mostra “Post Human”, Castello di Rivoli, Torino, 1992.

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Giorgio Verzotti, “Ultime tendenze degli anni ‘90”, in: “Arte contemporanea. Le ricerche internazionali dalla fine degli anni ’50 ad oggi”, a cura di Francesco Poli, Electa, Milano 2005.

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Maurizio Cattelan, “La nona ora”, 1999.

Mona Hatoum, “Map [Tappeto di biglie]”, installazione presso il Castello di Rivoli, Torino 1998.

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Giorgio Verzotti, “Ultime tendenze degli anni ‘90”, in: “Arte contemporanea. Le ricerche internazionali dalla fine degli anni ’50 ad oggi”, a cura di Francesco Poli, Electa, Milano 2005. 21 V. nota precedente. 22 V. nota precedente. 23 Documenta11 è l’undicesima edizione della mostra di arte contemporanea Documenta e si svolge a Kassel dall’8 giugno al 15 settembre 2002, sotto la direzione artistica del curatore Okwui Enwezor.

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Gli anni Novanta si identificano come epoca di contrasto fra “simulacri e realtà, fra verità e finzione”20, in cui l’immagine espressa nelle opere non viene più subita nella sua onnipotenza di simulacro, anzi essa viene “decostruita” ma neppure “rigettata o elusa. E’ una generazione iconofila quella che agisce negli anni Novanta. Ne abbiamo indicato i precedenti in Jeff Koons o quello di Cindy Sherman. Gli artisti anzi vi ricorrono accogliendola in tutto il suo potenziale di ambigua fascinazione, di allusività che si lascia fluttuare nel mare dell’indeterminato, dove i significati appartengono solo al mondo del possibile. Così le immagini non si rivolgono al pensiero razionale ma colpiscono sul piano dell’emotività, del pensiero intuitivo, dell’inconscio o dell’immaginario collettivo”21. Come esempio possiamo citare le visioni oniriche messe in atto dal duo Vedova-Mazzei, che con le loro complesse installazioni realizzano e concretizzano speciali visioni artistiche di realtà. L’equilibrio della rappresentazione, comunque ambigua, non vuole trovare una coincidenza con l’armonia ideale della vita, poiché sulla tela rimane ciò che l’artista vede e non ciò che vorrebbe vedere. L’ambiguità dell’immagine per eccellenza è però creata da Maurizio Cattelan, che, senza ricorrere ad alcun tipo di dispositivo tecnologico, è stato capace di realizzare opere capaci di diventare indicative di un modo di essere collettivo, “attinenti tanto all’esistente quotidiano quanto all’apparente del mondo dell’arte, riuscendo a mettere in luce le specificità del contesto per cui le opere stesse sono create”22. Esponendo nella sua prima mostra di New York un asino vivo, Cattelan ha risposto alla personale tensione emotiva, determinata dall’importante evento, con un’ironica rappresentazione della sua insicurezza. L’artista, con i suoi interventi artistici, si pone come elemento di critica della società odierna e dello spettacolo che la domina; l’indefinito carattere di questi soggetti viene rimarcato dalla creazione di opere assolutamente ambigue, ma intrise di significato. Il punto di arrivo delle espressioni artistiche degli anni Novanta si conclude con l’apertura verso contributi culturali estranei al mondo Occidentale. “Non più solo Europa e Americhe, ma anche Africa e Asia, e non solo le culture dominanti ma anche quelle dominate, conformano oggi il panorama dell’arte nell’epoca postcoloniale, quella che è stata ratificata, grosso modo, da Documenta 1123 a Kassel. Naturalmente, anche in questo caso il mondo dell’arte ha da tempo proposto strategie espressive che valgono come precedenti: l’India di Anish Kapoor, l’Africa di Chris Ofili e di William Kentridge, l’Islam di Ghada Amer e Shirin Nashat, il Medio Oriente di Mona Hatoum, la Cina di Cai Guo-quiang (e del resto anche dell’Albania di Sislej Xhafa) sono diventati punti di riferimento da quando questi artisti si sono trasferiti in Occidente. Il valore del loro lavoro sta proprio nell’essere testi “aperti” al confronto fra diverse culture, dove l’alterità non viene neutra-


lizzata per omologazione né spettacolarizzata come esotismo, ma diviene problema, necessità di confronto, fonte di contraddizioni. La posta in gioco, soprattutto da parte degli artisti che non operano necessariamente all’interno del nostro sistema dell’arte, è la tra svalutazione radicale dei nostri valori, di parametri di giudizio su cui di solito quel sistema si sostiene. E’ il rischio principe del mondo globalizzato, di cui l’arte diviene una delle articolazioni, sta a noi decidere quanto importante”24. Per concludere mettiamo in evidenza come le “tradizioni” della cultura artistica degli anni Novanta, che sono poi tramandate a noi dai suoi esponenti tuttora attivi nel campo artistico, porta avanti i messaggi e gli obiettivi sin ora discussi, traslandoli all’interno della cultura odierna, che diventa il tramite principale di lettura delle vicende della vita quotidiana (che sono i soggetti delle attività artistiche contemporanee). Il “site specific” dunque, quel processo artistico legato alla società e alla cultura di un luogo, si inserisce quale elemento fondamentale delle composizioni artistiche odierne. L’opera parla del reale, commenta e critica la vita attuale e, facendo ciò, si pone l’obiettivo di inserirsi nel contesto in cui ha luogo, adattandosi di volta in volta alle diverse esigenze comunicative. In fondo l’arte parla dell’uomo e all’uomo ritorna, leggendone i caratteri, i sogni e le emozioni; si lega ad esso nelle peculiari unicità che lo rappresentano attraverso il legame con la società che lo circonda, espressa con qualsiasi mezzo possibile: l’importante e comunicare.

Anish Kapoor, “Dirty Corner”, installazione presso la Fabbrica del Vapore, Milano 2011.

3.3 LO SPAZIO “Come accade il fare e lasciare spazio? E’ il disporre e ordinare e questo a sua volta nel duplice modo dell’accordare l’accesso e dell’installare? Innanzitutto il disporre accorda qualcosa. Esso lascia dominare l’aperto che fra l’altro assegna l’apparire delle cose presenti cui un abitare umano si vede a sua volta assegnato. In secondo luogo il disporre prepara per le cose la possibilità di appartenere a qualche luogo e a partire da questo di porsi in relazione fra loro”25. Martin Heidegger ci parla in questo scritto intitolato “Lo spazio e l’arte” dell’entità dello composizione di uno spazio; si intuisce qui come, secondo lui, dare vita allo spazio significa disporre, “dominare l’aperto” attraverso la definizione delle posizioni assunte dalle singole cose all’interno di un luogo, alla quale finiscono poi con l’appartenere. Lo spazio è, dunque, un elemento fondamentale in quanto parte integrante delle relazioni fruitore-opera-spazio, e costituisce l’ambiente primario di supporto per la rappresentazione dell’esperienza artistica, ovvero il luogo

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Giorgio Verzotti, “Ultime tendenze degli anni ‘90”, in: “Arte contemporanea. Le ricerche internazionali dalla fine degli anni ’50 ad oggi”, a cura di Francesco Poli, Electa, Milano 2005. 25 Martin Heidegger, “L’arte e lo spazio”, il Melangolo, Genova 2000.

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in cui le opere si dispongono e che “costruiscono” per offrirsi allo spettatore. Esso deve essere flessibile e allo stesso tempo vitale, capace di coinvolgere il fruitore e le sue naturali capacità di adattamento, producendo in lui sensazioni sulla base delle sue caratteristiche compositive, quali le proporzioni e le dimensioni, i cromatismi o i rapporti tra luce e ombra. La percezione dello spazio, in effetti, varia in base alle forme principali di un ambiente e la relazione che si crea al suo interno tra volume e oggetto contenuto riesce a comunicare con lo spettatore. Nei casi in cui l’intero luogo dell’esposizione sia composto di più parti, come nel caso di un museo ad esempio, ogni singolo “spazio” dovrà unificarsi al successivo nella creazione di un unicum compositivo, capace di mantenere allo stesso tempo l’identità di ogni ambiente espositivo. Il percorso si inserirà come elemento di coniugazione tra le parti, divenendo il punto fondamentale di una composizione d’insieme. Un altro fattore fondamentale per un ambiente espositivo è che lo spazio non deve imporsi sull’opera esposta, ma al contempo deve saper comunicare se stesso e le proprie specificità al fruitore, riuscire a valorizzare l’opera senza però modificare il proprio ruolo e la propria identità spaziale. A questo proposito Antonio Piva dice che “la semplice idea di evidenziare le opere esposte, senza annullare lo spazio architettonico, porta a studiare rapporti, toni e sottotoni, a privilegiare un percorso di sorprese e di pause, con pochi elementi estranei alle opere e allo spazio”26. Ai fini di una composizione espositiva è importantissima, dunque, anche la forma di un ambiente nel quale avrà luogo l’esperienza artistica (intendendo per “forma” la complessità dei caratteri che definiscono lo spazio in toto), nella misura in cui lo spazio espositivo prende vita sulla base dei rapporti instaurati tra l’architettura e il suo contenuto. Ma per poter parlare di un luogo che svolge la sua funzione di ambiente atto ad accogliere un’esposizione, bisogna distaccarsi dal comune senso di architettura ormai troppo limitato; pensare a una forma architettonica specifica che possa racchiudere opere d’arte e più in generale mostre, non è più possibile. I procedimenti progettuali che a partire dall’Ottocento si attualizzarono e svilupparono verso la ricerca di un tipo architettonico adatto all’esposizione, si sono col tempo dissolti a causa dell’impossibilità di trovare un ambiente perfetto che possa ospitare opere d’arte.

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Antonio Piva, “Esporre”, in: “Mostrare. L’allestimento in Italia dagli anni Venti agli anni Ottanta”, Sergio Polano, Edizioni Lybra Immagine, Milano 1988.

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Infatti, superate le ideologie ottocentesche che non rispondevano più alle esigenze di un’arte in progressiva evoluzione, gli architetti del primo Novecento si sono preoccupati di svecchiare il modello ottocentesco, monumentalistico ed estetico, per attualizzarlo. Il Movimento Moderno per primo pone le basi per la definizione dello spazio museale, portando alla luce una volontà di universalizzazione dell’architettura; il museo “moderno”, rifacen-


dosi ad alcune nozioni del passato, pone al centro della progettazione dello spazio museale i concetti di funzionalità, sacralità e spettacolarità, ma depurati, riformati e sgravati delle superfetazioni inutili: il nuovo museo diventa un luogo definito da alcune caratteristiche specifiche che prevedono l’utilizzo della pianta libera, del percorso continuo, e dove i singoli ambienti cercano si mantenersi il più neutrale possibile per potersi adattare alle differenti opere da ospitare. Le esigenze progettuali si vanno comunque diversificando in base alle tendenze artistiche specifiche di ogni luogo, e il tentativo di ricondurre il museo, o più in generale lo spazio dell’esporre, a un immaginario comune il museo non sempre può essere portato a termine. La progettazione dell’allestimento, che voleva coniugare gli intervanti temporanei e permanenti per la definizione di uno spazio adatto all’esporre, era volta all’utilizzo di interventi neutrali, che avevano il compito di conferire all’opera tutto lo spazio necessario affinché potesse essere fruita nel migliore dei modi. Questa idea portò alla formazione, con l’avvento degli anni Sessanta, del modello del “white cube”27, un ambiente totalmente privato di elementi di contesto che mirava a non interferire in alcun modo con l’oggetto esposto. L’evoluzione spaziale però, si è venuta a modificare nel corso del tempo, dando vita ad ambienti più complessi non per forza legati a un’immagine vuota ed eterea delle sale, come era quella della scatola bianca, per introdurre nuove ambientazioni, anche slegate dal concetto fisico di museo, di gran lunga più diversificate, proprio come gli oggetti che sono destinate a esporre. L’arte contemporanea, infatti, con le sue infinite forme espressive ha influito molto anche sulla natura formale dello spazio. Il museo contemporaneo, legato a collezioni di gran lunga differenti rispetto a quelle di un tempo, vede un ridimensionamento delle sale, che non devono più ospitare opere dalle misure “prevedibili”. “L’oggetto del mostrare in passato era per sua natura facilmente collocabile all’interno di una categoria predefinita e generava prevedibili rapporti tra opera, spazio e visitatore”28. Le tradizionali sale devono subire quindi una dilatazione per poter creare spazi adatti alle infinite forme e dimensioni dell’opera contemporanea che, in molti casi, si esprime anche attraverso complesse installazioni che si impadroniscono totalmente dello spazio. Se guardiamo all’esempio, ormai lontano nel tempo, dell’opera di Marchel Duchamp “Un miglio di spago”29, possiamo capire meglio il perché di questa trasformazione dell’ambiente espositivo, che deve dare la possibilità alla nuova arte di esprimersi nelle sue forme più disparate. L’allestimento messo in opera dall’artista per la retrospettiva sul Surrealismo consisteva nell’inserimento di una fitta maglia di fili all’interno della sala che rendeva molto difficile, anzi quasi impossibile, muoversi e

Marchel Duchamp, “Un miglio di spago”, installazione presso la mostra “Papers of Surrealism” alla Whitelaw Reid Mansion, New York 1942.

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V. capitolo 3. Cristina Bergo, “Arte contemporanea e spazio architettonico”, in: “Architettura Contesto Cultura, a cura di Barbara Bogoni, Marco Lucchini, Alinea Editrice, Firenze 2011. 29 L’opera viene allestita presso la mostra “Papers of Surrealism” alla Whitelaw Reid Mansion (su Madison Avenue, tra la 50ima e la 51ima Strada). Duchamp, su invito di André Breton, realizza “Mile of String”: 1.609 metri di spago bianco che dal soffitto scendono a terra e schermano i quadri appesi ai muri. Corteggiando lo sguardo disincarnato, questa ragnatela immobilizza il corpo e confonde le coordinate dello spazio. 28

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osservare le opere: impadronirsi dello spazio è dunque un’istanza presente nel campo dell’arte contemporanea già a partire dai suoi primi passi. La tendenza messa in campo dall’arte contemporanea, dunque, è quella di far uscire l’opera dalla tela per “bucare” e invadere lo spazio, creando così nuove e più suggestive interrelazioni. Un’altra pratica presente nell’arte contemporanea, che ha influito sulla definizione di un nuovo spazio, è quella delle video arti, ovvero quelle esperienze artistiche che utilizzano filmati, schermi, proiezioni riproducenti immagini in movimento. Lo spazio creato per questo tipo di arte è stato definito “black box” poiché caratterizzato da un’illuminazione o scura o semioscura che, imitando la sala cinematografica, vuole suggestionare il visitatore esaltando l’opera visiva. L’empio più comune è quello delle sale di proiezione presenti ormai in tutti i musei di arte moderna e contemporanea, dove vengono esposti filmati di vario genere frutto di composizioni artistiche. “Il black box, la scatola nera, nasce come spazio nuovo, isolato e buio, all’interno del quale il visitatore muta,[…] esso diventa centro e parte dell’opera”30. All’interno di uno scenario così eterogeneo, proviamo quindi a capire quali sono i luoghi, gli spazi architettonici dove hanno luogo esposizioni e mostre. La progettazione espositiva contemporanea, che fa riferimento a una concezione molto allargata di espressione artistica, arriva a coinvolgere l’architettura sotto molteplici forme. Questo significa che lo spazio contenitore d’arte oggi non è più riconducibile solo ed esclusivamente al museo o, almeno, il museo non è più definito come una specifica architettura dedita ad ospitare opere d’arte, bensì sono molteplici gli spazi che possono contenerla. Possiamo trovare esperienze di allestimento ad esempio anche nelle gallerie d’arte, che si differenziano dal museo perché riferite a una dimensione più esigua dell’architettura che non è mai un luogo ricreato ad hoc, ma è quasi sempre (poiché le gallerie sono gestite da privati) un allestimento in uno spazio più comune come una casa, un magazzino o un capannone; gli spazi sono più misurati e solitamente contengono mostre temporanee, anche perché le gallerie, che si autofinanziano con la vendita degli oggetti esposti, hanno un ricambio continuo di opere.

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Cristina Bergo, “Arte contemporanea e spazio architettonico”, in: “Architettura Contesto Cultura, a cura di Barbara Bogoni e Marco Lucchini, Alinea Editrice, Firenze 2011.

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Lo spazio allestito, dunque, si può proiettare verso molteplici direzioni e comprendere tanti tipi di spazi differenti che non richiedono più una specifica progettazione: l’allestimento diventa il meccanismo col quale lo spazio si esprime insieme alle opere per comunicare un messaggio. Per fare un esempio emblematico basta pensare a quella serie di artisti che tra gli anni Sessanta e Settanta, per un atto di protesta contro la mercificazione dell’arte, decisero di uscire dai confini degli spazi adibiti a mostra per inserirsi nello spazio aperto: la città, la piazza e il paesaggio in gene-


rale divennero nuovi spazi di azione dove poter parlare direttamente con la gente. In questo esempio ci si pone di fronte a un caso limite, che ci fa però comprendere come le dimensioni e le forme dell’ambiente assumano caratteristiche ampiamente disparate. Ritornando al più comune spazio, architettonicamente definito e definibile, parliamo di come, nell’esempio del museo, si possano differenziare alcuni tipi architettonici che sintetizzano lo scenario della costituzione di un luogo atto a ospitare esposizioni. Edifici costruiti ex novo Le esigenze di un luogo, di una società, di una cittadina, possono prevedere la costruzione di un edificio che serva a ospitare l’arte. Lo spazio, in questo caso, sarà frutto di un progetto che, nella rispondenza alle richieste della committenza e sulla base delle opere che dovrà contenere il progetto, prevederà ambienti funzionalmente adeguati a svolgere il ruolo per il quale sono nati con una posizione ragionata in base a esposizione, distribuzione, fruibilità e un’illuminazione capace di valorizzare il significato delle singole opere esposte.

Frank O. Gehry, Guggenheim Museum, Bilbao 1997. Veduta interna del secondo piano.

I musei progettati oggigiorno sono delle istituzioni che nascono con l’intento di creare un’integrazione con la città o il luogo in cui sorgono, ponendosi in un dialogo diretto con il pubblico e più in generale con la società; che cercano di creare nuovi spazi di vita per la città dove le persone posso passare il loro tempo libero e dove non si è limitati soltanto ad osservare l’arte. Nello specifico i musei di arte contemporanea, come abbiamo visto, assumono forme differenti in base alla natura stessa di questo tipo d’arte, che conferisce nuova dimensione agli spazi, anche in relazione all’attitudine sempre più diffusa di ospitare esposizioni temporanee; una rotazione continua di opere e più in generale di mostre, impone la formazione di spazi più dinamici e versatili. I nuovi musei sono sempre luoghi riconoscibili che legano alla loro immagine architettonica, innovativa e stupefacente, l’intenzione di attrazione e diffusione su larga scala del proprio messaggio culturale. “Questo sta a significare che l’architettura del museo contemporaneo tende ad essere sempre meno ripetizione (e variazione sul tema) di un tipo riconoscibile, come accadeva nel Sette-Ottocento, ma invece si pone sempre più come unicum, segno o gesto originale e magari irripetibile, ogni volta nuovo e diverso, messa in opera di quella che Françoise Choay ha definito l’imageabilité, cioè la capacità dei nuovi musei di riprodurre all’infinito la propria figura tramite una forma che colpisce”31. Un chiaro esempio della tendenza contemporanea di progettazione museale è il Guggenheim Museum di Bilbao. Con questo edificio Frank O. Gehry

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Luca Basso Peressut, Editoriale: “Il museo che cambia”; Costruire, n. 76, Luglio/Agosto 2000, pg. 2-3.

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definisce una nuova tipologia di museo che, partendo dalle conoscenze museografiche tradizionali, si distacca dalle più comuni spazialità per approdare a forme più complesse e innovative. Come avviene per le pareti esterne, complessi piani inclinati e curvilinei che richiamano alle forme della natura (l’architetto si ispira alle squame e al corpo del pesce), anche all’interno, come dice lo stesso Ghery, non esiste una sola superficie che sia completamente piana (ad esclusione del pavimento). “Il Guggenheim di Bilbao è un vero “catalogo” di spazialità espositive: sale classiche poste in enfilade e adatte a ospitare quadri di arte moderna dalle misure standard, si alternano a sale di singolare irregolarità, sia per dimensione che per forma, destinate a mostre e allestimenti particolari. E ancora agli spazi neutri e flessibili per esposizioni temporanee di grande richiamo si accosta l’ampia sala adatta a opere di grandi dimensioni, dove a fare mostra di sé è la scultura di Richard Serra, in uno spazio che è la rivelazione dello studio dell’artista. L’opera di Serra, “The matter of time”, è parte della collezione permanente e come tale interagisce con le altre opere e mostre che periodicamente vengono allestite”32.

Tadao Ando, Palazzo Grassi, Venezia 2005. Veduta interna dell’allestimento.

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Cristina Bergo, “Arte contemporanea e spazio architettonico”, in: “Architettura Contesto Cultura”, a cura di Barbara Bogoni e Marco Lucchini, Alinea Editrice, Firenze 2011.

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Edifici riadattati Sono spazi che nascono dalla ristrutturazione (più o meno invasiva) o dalla più semplice nuova funzionalizzazione di un’architettura già esistente. Ovviamente in questo caso ci sarà da considerare il limite imposto dall’edificio esistente, nella misura in cui gli interventi di restauro saranno possibili solo in certa quantità e nel rispetto della preesistenza; se si parla di un edificio dalla valenza storica le limitazioni saranno molto più grandi e ci si dovrà adattare e legare con cura a tutte le caratteristiche, anche agli aspetti decorativi che finiranno inevitabilmente per caratterizzare anche l’intervento di riqualificazione. Un esempio molto interessante in questo campo è quello di Palazzo Grassi a Venezia. L’edificio, antico palazzo ottocentesco, venne dapprima riadibito a museo nel 1985 su progetto di Gae Aulenti, ma poi ricomposto nuovamente nel 2005 ad opera di Tadao Ando. Il progetto si confronta con la ricchezza dell’apparato decorativo originale, contrastato dagli elementi di allestimento che sono essenziali e semplici; i pavimenti in linoleum grigio chiaro sono comuni a tutte le sale e nel secondo piano si legano anche al rifacimento del soffitto, pure grigio chiaro; leggeri binari in alluminio si incrociano ai soffitti e servono a sorreggere il sistema di illuminazione. Lo spazio storico viene ridefinito ma non negato e gli elementi preesistenti entrano in rapporto con le opere d’arte contenute, creando una sintesi tra la bellezza dell’edificio esistente e il raffinato minimalismo dell’allestimento contemporaneo. In questo caso l’apparato decorativo del palazzo viene


messo in “mostra”, in contrappunto con l’essenzialità dei muri bianchi che sorreggono le opere; viene prodotta una doppia lettura di arte contemporanea ed edificio storico, legati tra loro da un intervento neutro e minimalista.

Edifici stratificati Sono spazi costruiti sul costruito, che modificano profondamente la natura dell’esistente, che si adatta dunque a una nuova funzione. Lo spazio subsce le alterazioni necessarie a rispondere alle nuove esigenze, pur mantenendo in mostra gli elementi salienti della preesistenza. Si distinguono dagli edifici riadattati proprio per il grado di intervento, che prevede, in questo caso, una ricostruzione dell’ambiente preesistente, che resta presente solo come racconto di una presenza storica, la quale viene completamente modificata.

Herzog & De Meuron, Tate Modern, Londra 2000. Veduta interna della “Turbine Hall”.

Un esempio di questo tipo di architettura è dato dal progetto curato da Herzog e de Meuron per il Tate Modern di Londra. L’edificio, antica centrale elettrica posizionata sulle rive del fiume Tamigi, assume la nuova funzione di museo di arte moderna e contemporanea grazie a una ricomposizione dello spazio costruito. Gli architetti hanno deciso di mantenere intatto l’edificio in quanto costituisce una forte presenza nella città. A questo hanno sovrapposto un volume vetrato contenente due nuovi piani che corrono lungo tutta la lunghezza del tetto. L’utilizzo del vetro evidenzia la ricerca di levità dell’intervento, il rispetto della preesistenza nella sua sostanzialità: il linguaggio usato è quello della discrezione. L’intervento mantiene leggibile la pianta, che non modifica le proprie spazialità, i materiali usati sono semplici e poco costosi; entrambi gli interventi sono volti a mantenere vivo l’immaginario della centrale elettrica, luogo di produzione e lavoro. Il progetto crea nuove funzioni e impianti che in nessun caso disturbano gli spazi interni, mantenuti intatti. Un’importante caratteristica per la Tate Modern consiste poi, nella creazione di collegamenti e promenades tra interno ed esterno, che introducono la città all’interno della fabbrica. Un ponte pedonale, appositamente progettato, “trasporta” i visitatori nel complesso museale. Questo è solo uno dei molti ingressi che aprono l’edificio su più fronti. Uno degli spazi più importanti è la sala delle macchine (turbine hall), mantenuta come spazio centrale, un punto di snodo tra museo e città dove hanno luogo numerose esposizioni temporanee; questo spazio è direttamente collegato all’esterno attraverso un grande piano discendente, da cui si può percepire la spazialità dell’intero edificio e i suoi diversi livelli che si affacciano sulla sala a quadrupla altezza. I nuovi spazi interni sono costituiti da una serie di piccole e grandi sale espositive 59


più convenzionali, distribuite su sette piani, che fuoriescono per tre piani all’interno del nuovo volume vetrato. Questi nuovi piani, permettono di utilizzare la copertura come nuovo spazio aperto da cui osservare la città. In questo edificio la versatilità dello spazio espositivo è essenziale e dà al museo la possibilità di relazionarsi con molteplici forme d’arte, offrendo sempre lo spazio adatto a ospitarle. Edifici “promiscui” Sono quei luoghi “adattati” per ospitare allestimenti e mostre d’arte, ma che non nascono esplicitamente con questa funzione. Intendiamo, tra questi, i più diversi ambienti, allestiti per particolari occasioni o per particolari necessità di divulgazione di un messaggio artistico, che mettono in campo l’utilizzo di luoghi “comuni” del vivere quotidiano che possono prendere nuova vita grazie all’istallazione di opere e allestimenti artistici.

Veduta interna di due stazioni della metropolitana di Napoli. In alto: fermata “Toledo”, allestimento a cura di William Kendridge, Bob Wilson, Achille Cevoli; a seguire: fermata “Università”, allestimento a cura di Karim Rashi.

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Cristina Bergo, “Arte contemporanea e spazio architettonico”, in: “Architettura Contesto Cultura, a cura di Barbara Bogoni e Marco Lucchini, Alinea Editrice, Firenze 2011. 34 Luca Basso Peressut “Su mostre e musei”, in: “Il progetto di allestimento e la sua officina. Luogo, memoria ed evento: mostre alle Fruttiere di Palazzo Te, Mantova”, a cura di Marco Borsotti e Glenda Sartori, Skira, Milano 2009.

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Un esempio interessante è l’allestimento nella metropolitana di Napoli di spazi per esporre più di duecento opere contemporanee (iniziativa dell’Amministrazione Comunale con la direzione artistica di A. Bonito Oliva). Il risultato è quello di creare un “museo” decentrato, sparso nell’intera maglia cittadina, che però un vero e proprio museo non è; lo spazio comune della stazione della metropolitana si inserisce come punto di relazione tra uomo e opera d’arte all’interno della vita di tutti i giorni. Lo spazio dell’esporre contemporaneo è fatto di esempi molto diversi tra loro, che incarnano le peculiarità dei luoghi e delle società in cui sorgono, nonché delle specifiche volontà dettate dalla missione culturale di una determinata istituzione museale. Gli spazi espositivi si aprono verso soluzioni differenziate per ogni specifico caso, introducendo “nuove spazialità anche lontane dagli ambienti minimalisti, astratti, neutri (muri bianchi, dimensioni generose, piante libere, illuminazione diffusa), del modello moderno”33. A fronte di queste numerose diversificazioni, nella contemporaneità non è più fondamentale creare uno spazio d’allestimento “neutrale”, sarà invece più utile “saper apprezzare la disponibilità ad accogliere di uno spazio interno, cioè l’insieme delle qualità spaziali, formali, materiche, luministiche dell’ambiente in cui creare un’esposizione”34.



CAPITOLO 4

LE INTERAZIONI RECIPROCHE TRA I SOGGETTI


L’opera d’arte si inserisce nello spazio costruito e viene codificata e adattata all’ambiente per mezzo di un’attenta opera di allestimento, studiata per una lettura chiara da parte del fruitore. In un rapporto scatolare dove l’opera è mostrata su un supporto ed entrambi stanno all’interno di un ambiente, l’uomo si pone nel mezzo. La prossima analisi entrerà nello specifico delle relazioni create tra i tre soggetti, che saranno trattati nella forma reciproca soggetto-soggetto (due alla volta) per mettere in evidenza le modalità di comunicazione che si sviluppano tra le singole parti.

4.1 UOMO, OPERA (E LORO INTERAZIONI) L’esperienza dettata dal messaggio che una certa opera comunica, si proietta verso l’osservatore infondendogli emozioni e sensazioni, che scaturiscono sulla base delle relazioni uomo-opera. Il contatto con l’opera d’arte è il punto centrale dell’esperienza del fruitore, che cerca di cogliere informazioni riconducibili a diversi campi della conoscenza e dell’emotività. I messaggi che possono essere comunicati attraverso la messa in mostra di un’opera, saranno dettati in primo luogo dall’artista; è però anche vero, come è stato già accennato nei capitoli precedenti, che il procedimento compiuto dall’allestitore dona un significato proprio all’oggetto esposto in relazione alle modalità espositive. Dare la possibilità di leggere precisi caratteri di un’opera di allestimento, definisce le diverse modalità di comunicazione con cui questa si può esprimere (per esempio un dipinto che in una mostra è il punto cruciale e più importante dell’allestimento, in un’altra potrebbe diventare un semplice tassello di una trama più vasta). Visualizzare e fruire l’opera significa anche compiere uno sforzo di concentrazione indirizzato verso uno specifico punto di osservazione. Tutte le differenti modalità di approccio assumibili da un fruitore si definiscono all’interno dell’ambiente grazie alle possibilità di avvicinamento all’oggetto, che varierà il suo rapporto in relazione alla distanza. La relazione dimensionale, dunque, gioca un ruolo fondamentale in un procedimento che, presupponendo una variabilità delle dinamiche di percorrenza dello spazio, pone l’uomo in una specifica postazione rispetto alla visualizzazione di un’opera. I metodi di fruizione dell’opera dipendono da fattori propri dell’oggetto o dell’allestimento, nel senso che, se da un lato è la stessa tipologia dell’opera d’arte a influenzare i metodi di fruizione, dall’altro è il modo in cui essa è inserita nello spazio a contribuire alla sua percezione e fruizione completa. L’oggetto d’arte in effetti, comunica con noi attraverso i suoi colori,

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le sue forme, la sua materia e le relazioni che instaura tra le singole parti; in realtà, per capire meglio la vastità di questo campo di analisi, bisogna considerare come la natura dell’opera, in alcuni casi, imponga determinate modalità di approccio, sulla base proprio delle categorie sensoriali che vuole stimolare.

Tomas Saraceno, “On Space Time Foam”, Hangar Bicocca, Milano 2012.

Per fare un esempio possiamo citare le esperienze delle installazioni artistiche, pratica contemporanea sempre più in voga nel campo delle mostre. In questo tipo di arte si mettono in scena composizioni di grande scala che invadono lo spazio nella sua intera dimensione e che necessitano dell’azione dello stesso spettatore per portare a conclusione l’esperienza artistica. Per capire meglio guardiamo all’installazione dell’artista-architetto Tomas Saraceno intitolata “On Space Time Foam”; questo esperimento si inserisce all’interno dell’Hangar Bicocca di Milano, creando una struttura fluttuante costituita da tre livelli di pellicole trasparenti praticabili dal pubblico. In questo caso l’osservazione di teli trasparenti posti in aria all’interno di un’architettura vuota (com’è l’hangar) non corrisponde certo a una fruizione artistica di qualche tipo; l’esperienza, invece, si forma grazie alla possibilità che ha il fruitore di salire sopra i teli, di toccarli e attraversarli, riuscendo a vivere lo spazio da un punto di vista differente. Il rapporto opera-fruitore, dunque, deve tenere conto dei diversi tipi di esperienza artistica esistenti, che sono relazionati a diverse modalità di fruizione; banalmente possiamo dire che non avrebbe senso permettere una fruizione a 360° di un dipinto, che esprime il suo messaggio nella bidimensionalità della tela, così come non avrebbe senso impedire la visione di una scultura nelle tre dimensioni. Torniamo però alle relazioni dimensionali e di posizione, e definiamo così le caratteristiche dei differenti metodi di relazione tra uomo e opera d’arte, cercando di capire quali sono i metodi di approccio tra i due. L’uomo di fronte all’opera d’arte Partiamo col considerare il fruitore posizionato di fronte all’oggetto. La relazione uomo-opera si impone in maniera pragmatica, instaurando un rapporto visivo diretto tra i due soggetti. Uno dei fattori primari da tenere in considerazione quando ci si pone in un confronto di osservazione diretta con un opera, è quello della scala dimensionale dell’oggetto. Quanto più grande sarà l’oggetto osservato, tanto più lontano si troverà l’osservatore, per il semplice fatto che, per avere una visione totale dell’opera, dovrà porsi a una distanza adeguata per poterla osservare. Entrando nello specifico dei rapporti dimensionali del campo visivo umano

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osserviamo che questo si aggira in media attorno ai 38°, di conseguenza la distanza influirà sulla porzione di campo osservato; dunque, per fare un esempio, “uno spettatore il cui punto di vista è posizionato a 1,6 m da terra, dovrà posizionarsi a 3 m di distanza da un’opera quadrata di lato 1,6 m per poterla percepire interamente”1. Le dimensioni dell’opera si distribuiscono all’interno di un’ampia gamma di casi, che comprendono oggetti che vanno dalla micro alla macroscala. In riferimento a questo si possono sintetizzare le relazioni di distanza in grande, media o ravvicinata. Lo spazio ovviamente, varierà in relazione alla dimensione dell’opera, o meglio l’opera verrà associata a spazi adeguati a poterla accogliere. Va sottolineato qui che l’arte contemporanea ha tendenzialmente scardinato i tradizionali concetti di spazio, sia figurativo sia fisico, creando nuove e molteplici relazioni tra il fruitore, l’opera e lo spazio; questi presupposti, come si è già detto nei capitoli precedenti, hanno riformato l’ambiente della mostra così come la pratica dell’allestimento, che sono venute a relazionarsi con un nuovo tipo di opera e di fruitore. All’interno di questa analisi bisogna inoltre tenere presente che, l’opera d’arte viene sempre creata seguendo una certa prospettiva, un punto di vista predeterminato (che in alcuni casi può anche essere multiplo), definito dall’artista durante l’atto di compimento dell’oggetto artistico. Ci si trova dunque di fronte a opere che devono essere fruite da una giusta distanza e in una corretta posizione per poter essere osservare al meglio. Per citare un esempio del passato, basta pensare ai dipinti che, disegnati rispettando una determinata prospettiva, quella della composizione dello spazio (figurato) all’interno della tela, impongono una terza dimensione alla loro comune bidimensionalità, che è quella del punto di vista, predeterminato e unico, che impone un preciso metodo di fruizione. Per quanto riguarda l’arte contemporanea il concetto è per certi versi differente, abbiamo spesso a che fare infatti con opere che non hanno riferimenti a contesti spaziali specifici e che possono essere fruite da molti punti di vista, ci sono esempi però in cui il punto di vista predeterminato è fondamentale.

Schema rappresentativo della porzione di campo visivo umano.

Jonathan Borofsky, “Running man 2511898”, Moma, New York 1980.

Il “Running man 2511898” di Jonathan Borofsky è un’esempio di come questa semplice opera giochi i suoi elementi espressivi proprio sulla base della prospettiva dalla quale viene osservata; è solo una la posizione dalla quale, osservando la figura, questa appare come disegno fluido che sembra stare davanti all’angolo sul quale si posiziona. La corretta distanza assumibile dal fruitore rispetto a un opera, diventa perciò elemento importante per lo sviluppo di un allestimento che vede il progettista o curatore come il compositore del giusto rapporto dimensionale tra la scala del contenitore e quella del contenuto; ovvero chi mette in atto una mostra deve preoccuparsi di lasciare il giusto margine dimensio-

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Luca Basso Peressut, “I Luoghi del Museo: Tipo e Forma fra Tradizione e Innovazione”, Editori Riuniti, Roma 1985.

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nale all’opera per poterne permettere la fruizione più consona.

Giancarlo Palanti, Eduardo Persico, “Sala della Vittoria”, Palazzo della Triennale, Milano 1936.

Prendiamo come esempio la “Sala della Vittoria”, allestita presso la VI Triennale di Milano nel 1936. La Vittoria era una gigantesca scultura in gesso bianco, realizzata da Lucio Fontana per allestire il salone d’onore del Palazzo della Triennale. L’enorme gruppo scultoreo fu costruito in poco più di un mese al fine di celebrare le conquiste italiane in Etiopia. L’allestimento, ad opera di Giancarlo Palanti ed Eduardo Persico, impone nello spazio vuoto la grande scultura; l’unico altro intervento che compiono è quello di definire le pareti della sala attraverso delle fasce murarie che solo da un lato fanno filtrare la luce, ma che nel complesso vogliono enfatizzare la verticalità dell’ambiente dando più importanza alla grandezza dell’opera. Il punto di vista univoco concentra l’osservatore davanti l’oggetto, che viene quindi fruito per intero all’interno del grande spazio d’allestimento. L’opera viene fruita da una precisa prospettiva (centrale), che è quella più adatta per osservare l’oggetto nella sua completa forma e comunicatività; avvicinarsi in questo caso permette di osservare l’opera nel dettaglio, ma non attribuisce alcuna nuova dimensione all’esporre, che è già stato risolto nella definizione del punto di vista frontale. La grande scala dimensionale dell’opera viene messa in relazione con uno spazio altrettanto grande ma soprattutto allungato, che dona il giusto campo visivo al visitatore. Un altro esempio interessante, che in questo caso si riferisce ad una fruizione ravvicinata, è quello dell’allestimento intitolato “I disegni dal carcere di Carlo Levi”, curato dallo Studio Einaudi. L’allestimento temporaneo, che è stato adibito presso l’Archivio di Stato di Roma, riprende la tematica del carcere per formare delle celle che isolano l’opera dal contesto, pur non nascondendola; il punto di vista frontale è univoco, fisso e misurato e il fruitore osserva l’opera in solitudine, privo di distrazioni, a una distanza ravvicinata, che permette di osservare le piccole tavole contenenti i disegni. Anche in questo caso l’unica fruizione che risolve l’allestimento è quella frontale, prefissata e ravvicinata.

Studio Einaudi, allestimento per la mostra “I disegni dal carcere di Carlo Levi”, Archivio di Stato, Roma 1982.

Ci sono casi in cui il fruitore si trova in relazione con l’opera da un punto di vista superiore, ovvero quando la osserva dall’alto verso il basso. Questo privilegiato punto di osservazione si presta ad esperienze differenti da quelle prima citate. Le relazioni instaurate si legano, anche in questo caso, al rapporto dimensionale dell’oggetto, che imporrà, sulla base di questo, dei differenti posizionamenti articolati anche qui tra distanza ravvicinata, media o grande. Le motivazioni per questo tipo di fruizione possono essere molteplici, e si riferiscono non soltanto alla dimensione dell’oggetto osservato, ma anche

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alla volontà specifica del progettista dello spazio o dell’artista. L’allestimento gioca un ruolo importante in questi casi, nelle misura in cui elementi come la teca o il basamento, instaurano rapporti specifici di distanza tra il fruitore e l’oggetto in mostra. L’esempio della mostra su Lucio Fontana, allestita presso la sala delle Nature del Palazzo Reale di Milano nel 1972 ad opera di Luciano Baldessarri e Zita Mosca, mette in scena un basamento dalla forma non convenzionale che crea un appoggio continuo di altezza variabile per le opere esposte. Il piano di appoggio è inclinato e mette, dunque, in sequenza le sculture di Fontana in una composizione che varia l’altezza in base alla posizione nello spazio. Uno stesso basamento, in questo caso, mette a confronto rispetto a distanze differenti lo spettatore che, quando si trova sulla parte più bassa del piano d’appoggio, fruisce l’opera da vicino e da una posizione superiore, mentre via via che il piano si alza la sua posizione e il modello relazionale fruitore-opera varieranno.

Luciano Baldessarri, Zita Mosca, allestimento per la mostra su Lucio Fontana, Palazzo Reale, Milano 1972.

Ci sono casi in cui la pratica dell’allestire decide di porre l’opera in una posizione inferiore, anche per poter comunicare certe sensazioni al fruitore, che sono determinate dalle peculiarità compositive dell’oggetto, o dall’esplicita volontà dell’allestitore di raccontare qualcosa dell’opera d’arte mostrata. Un esempio significativo in questo caso è l’allestimento effettuato presso la Biennale di Venezia del 1976 a cura di Gino Valle e Marica Redini; è interessante osservare come i compositori dell’allestimento abbiano messo in opera, attraverso il loro intervento, una specifica modalità di lettura dell’oggetto artistico. In questo caso sono state inserite delle opere di Jackson Pollock, maestro e inventore della tecnica dell’action painting, all’interno di una sala, senza l’apporto di particolari interventi di allestimento. L’esigenza di rappresentare un procedimento esecutivo, ha fatto prendere ai progettisti la decisione di porre l’opera su un piano inferiore rispetto a quello del fruitore, per dargli stesso identico punto di vista assunto dall’artista durante il momento creativo. L’esperienza mette dunque in mostra un preciso messaggio che si sviluppa sulla base dell’analisi di un processo creativo (e nel caso di Pollock è essenziale al fine di comprenderne l’arte), che diventa così il punto cruciale della mostra. Stare sopra l’oggetto risolve la specifica esigenza comunicativa interpretata dagli allestitori.

Gino Valle, Marica Redini, sala “Jackson Pollock” allestimento presso la mostra “Arte-ambiente”, Biennale di Venezia, Giardini di Castello, 1976.

Non molto dissimile dal posizionamento del fruitore superiore rispetto all’opera esposta, ritroviamo le casistiche che lo mettono in posizione inferiore. In alcuni casi queste relazioni scaturiscono dalla natura stessa dell’oggetto che nasce per restare appeso in aria: viene ad annullarsi il più possibile la limitazione spaziale del contesto e del supporto che passano in secondo 67


piano, conferendo maggiore margine espressivo all’oggetto. Si pensi ad esempio alle opere di Alexander Calder e alle sue mobile sculptures costituite da filamenti in ferro che sorreggono “petali” in metallo colorati; queste sculture sono mobili e il loro esile equilibrio ne crea movimenti continui prodotti dai diversi spostamenti d’aria provocati anche dalla sola presenza fisica dell’uomo. Spesso queste opere vengono appese in modo da fluttuare nell’aria, lasciandole libere di muoversi come galleggiassero nello spazio. Il gioco di pesi e contrappesi che accennano movimenti nell’aria rappresentano, nell’immaginario dell’artista, un mondo naturale trasfigurato che, come diceva Marchel Duchamp “è la sublimazione di un albero nel vento”. Alexander Calder, Black, White and then Red, 1957.

Daniela Ferretti, allestimento per la mostra “Da Tiziano a El Greco”, Palazzo Ducale, Venezia 1981.

In altri casi l’oggetto in mostra è talmente grande da porre l’osservatore in posizione inferiore rispetto all’opera, è questo il caso delle grandi sculture o installazioni. Ci sono poi esposizioni dove è l’allestitore a decidere di porre l’opera in posizione superiore rispetto a chi la osserva, per conferire in questo modo nuovi punti di vista e modalità di relazione, non solo rispetto all’oggetto in mostra, ma anche rispetto allo spazio. Creare dei cambiamenti nelle modalità di fruizione identifica nuovi focus all’interno di un’esposizione e può mette il fruitore nelle condizioni di percepire l’ambiente espositivo nella sua interezza; questa pratica può inoltre spingere l’osservatore a compiere movimenti che altrimenti non sarebbe mai portato a fare in una normale visita, suscitando in lui esperienze nuove e più suggestive. E’ interessante notare l’opera di allestimento creata da Daniela Ferretti presso il Palazzo Ducale di Venezia nel 1981, intitolata “Da Tiziano a El Greco”. In questo caso la focalizzazione delle opere, disposte secondo assi visivi non tradizionali, è ottenuta con un attento studio delle luci. L’ambiente resta in penombra e le opere si dispongono nello spazio in posizioni differenti da quelle convenzionali, mettendo lo spettatore di fronte a dipinti che in alcuni casi si trovano sospesi per aria; l’osservazione di questi implica un rapporto di ammirazione nei confronti del pezzo, oltre che di stupore scaturito dalla scoperta delle raffigurazioni artistiche che si dispongono nello spazio nei modi più disparati. Nel caso della mostra “L’opera pittorica di Mardesic”, del 1982, la volontà dell’allestitore si traduce come desiderio di inglobare l’uomo nell’opera dell’artista. Zita Mosca Baldessarri in questo progetto dispone i dipinti in modo da coprire quasi per intero il campo visivo dello spettatore, che li può osservare a destra, a sinistra e anche sopra la sua testa. In questo caso le tele, di grandi dimensioni, trovano un’ubicazione che ne risolve la disposizione all’interno della sala, riuscendo oltretutto, con questo espediente,

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a esprimere l’idea di una mostra che coinvolge lo spettatore, anche fisicamente, grazie alla particolare disposizione delle opere. Possiamo concludere che il procedimento che pone un visitatore in posizione inferiore rispetto all’oggetto esposto nega un rapporto diretto o alla pari tra i due soggetti, e costringe l’uomo ad assumere una determinata posizione “subalterna” (a volte anche scomoda o apparentemente inadeguata). Sia che si voglia esprimere irraggiungibilità, intangibilità o grandiosità, il caso dell’opera osservata dal basso presuppone che l’uomo sia un elemento “lontano e inferiore” rispetto all’oggetto esposto.

L’uomo “dentro” l’opera d’arte Quando le distanze tra uomo e oggetto raggiungono e superano il limite della vicinanza e della tangibilità, entriamo in contatto con una serie di esperienze che portano all’effettiva intrusione dell’uomo nell’opera. L’oggetto non è più davanti all’osservatore, ma tutt’intorno. Questa tipologia di approccio è introdotta da una forma d’arte che si è sviluppata nelle tre dimensioni in maniera innovativa; viene rotto il limite fisico creato dalla natura fisica dei due differenti soggetti, facendo in modo che l’uno possa riuscire a contenere l’altro, innescando in questo modo un’esperienza completa di unione tra uomo e opera d’arte. All’interno di questa tipologia ricadono differenti tipi di intervento, che vanno dalla creazione di uno spazio architettonico definito in maniera tale da costituire di per se stesso un’esperienza artistica2, oppure di elementi scultorei che per la loro dimensione e composizione permettono all’uomo di entrarvi, fino all’esperienza delle installazioni, opere che ricoprono ampie porzioni di ambiente e che sono state appositamente pensate per accogliere il visitatore. Solitamente in questi casi l’opera “contenitore” assume due punti di vista differenti, quello esterno, dal quale si osserva l’oggetto nella sua forma compositiva generale parzialmente (percettivo), e quello interno nel quale si compie l’effettiva esperienza artistica (partecipativo). Un esempio significativo è quello del “Sunspace”, installazione permanente di Olafur Eliasson realizzata per la cerimonia di apertura dell’Hara Museum di Shibukawa del 2009. L’oggetto, posto negli spazi esterni del museo diventa un piccolo elemento architettonico solitario che col suo particolare aspetto incuriosice il visitatore; una piccola porta accoglie il fruitore che si trova in un ambiente quasi completamente sferico in penombra. L’esposizione mette in mostra il percorso solare durante l’anno: il sole viene filtrato all’interno attraverso piccoli fori sulla copertura che permettono ai raggi luminosi di penetrare. Questi, dopo essere stati smaterializzati da vetri

Zita Mosca Baldessarri, allestimento per la mostra “L’opera pittorica di Mardesic”, 1982.

Olafur Eliasson, “Sunspace”, Hara Museum, Shibukawa 2009.

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V. scheda 21 pg. 117.

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tridimensionali, disegnano la posizione del sole sulle pareti della sfera. In questo caso stare “dentro” l’opera significa scoprire una nuova visione della realtà e lasciarsi stupire attraverso l’esperienza sensoriale. L’uomo e l’opera sono due soggetti in stretta simbiosi, che parlano l’uno dell’altro e l’uno all’altro; l’uomo parla di arte perché la crea, l’arte parla dell’uomo perché ne descrive le emozioni attraverso un linguaggio universale. Questi due soggetti si impongono come fattori primari della pratica dell’allestire.

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LA PERCEZIONE COLLETTIVA DELL’OPERA Fruire di un’opera può significare, in alcuni casi, compiere un’esperienza collettiva. Allargare verso un pubblico vasto si propone quale volontà da parte di un artista di coinvolgere la “massa”, facendo in modo che il messaggio insito nell’opera venga enfatizzato per mezzo di una condivisione collettiva. Mettere in “scena” un’opera è una pratica diffusa nell’arte contemporanea.

THE ARTIST IS PRESENT - Marina Abramović Marina Abramović è un’artista tra le più affermate nel campo della performance art, l’arte che mette in atto delle azioni che sono esse stesse l’opera mostrata. In questo esempio di performance artistica si compie un’esperienza innovativa e molto interessante. Al centro di un quadrato di luce allestito nell’atrio del MoMA di New York in occasione della sua prima ampia retrospettiva museale, sette ore al giorno, sei giorni alla settimana per tre mesi, l’artista ha accolto, in silenzio, con la sua presenza, i visitatori che desideravano sedersi davanti a lei all’altro capo di un tavolo, uno alla volta, ciascuno per un tempo diverso. L’artista stesso diviene centro e soggetto dell’opera: annulla la comunicazione che l’oggetto artistico instaura con chi lo osserva, per parlare direttamente al fruitore in un interscambio di emozioni creato dal semplice atto del guardarsi. La fama che possiede la Abramović gioca un ruolo fondamentale in questo esempio producendo un’affluenza molto ampia di persone, che al di là del volersi mettere in gioco con quest’opera per il significato che assume, hanno sfuttato l’occasione per “conoscere” l’artista. La composizione dell’allestimento si presenta come una scena entro la quale avviene l’operazione artistica; lo spazio è delimitato e i fruitori si pongono tutt’intorno come in uno spettacolo di teatro elisabettiano. Il fruitore diventa importante non solo come singolo individuo che partecipa in prima persona, ma anche come pubblico, ovvero insieme di osservatori che condividono l’azione, ovvero che si lasciano coinvolgere e che partecipano attivamente anche solo guardando.

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UOMO-OPERA A SOMA DOS DIAS - Carlito Carvalhosa Carlito Carvalhosa mette in atto un’istallazione artistica che riforma le sale della Pinacoteca di Stato di San Paolo (Brasile), inserendo volumi fluidi e dinamici all’interno dello spazio geometrico dell’edificio, creati attraverso l’installazione di teli in stoffa bianca semi-trasparente. L’idea è quella di rielaborare in maniera fisica il concetto, tratto dalla tradizione cristiana, di coprire e nascondere per rivelare e mostrare. Lo spazio viene percepito solo parzialmente. Un’aspetto fondamentale è l’introduzione della musica, eseguita da un pianista all’interno di una sala costituita da tendaggi. La performance richiama un pubblico che assiste allo spettacolo estraniandosi da ogni legame fisico solitamente sperimentato; non c’è uno spazio riconoscibile, ne tantomeno si riesce a percepire la presenza dell’esecutore della musica. La percezione collettiva di questa performance crea un interscambio di sensazioni ed emozioni scaturite dall’alterazione del contesto ambientale e spaziale. Riallacciandosi al concetto di fondo della sua opera, quello del tema biblico del rivelare, la moltitudine si pone quale destinatario di un messaggio importante (in questo caso quello della sinfonia, composta per l’occasione), che si svela poco alla volta: infatti solo al termine della performance si giunge a capire che è un individuo ad aver eseguito dal vivo il pezzo musicale.

Scheda 5


LA PERCEZIONE INDIVIDUALE DELL’OPERA L’opera d’arte si può presentare sotto svariate forme, in alcuni casi però la sua composizione è tale da prevedere una fruizione individuale, destinata al singolo; il fruitore, posto davanti l’oggetto esposto, entra a contatto con esso da solo, senza l’influenza della massa dei visitatori. Lo stretto livello di contatto mette in campo una relazione fruitore-opera particolare che si esprime ogni volta in modo diverso in relazione all’emotività di chi osserva.

PERCEPTUAL CELL - James Turrel Perceptual Cell è un’installazione che fa parte di un’insieme di studi condotti negli anni Novanta da James Turrel. Le opere di questa serie sono degli elementi chiusi e autonomi, creati per ospitare una persona per volta. Questa accoglie il fuitore al suo interno, con l’intento di fargli compiere un’esperienza percettiva unica e suggestiva. La dimensione spaziale viene alterata da una piccola sfera dentro la quale si inserisce la testa; in questo ambiente scaturiscono sensazioni di costrizione e claustrofobia, ma l’artista si pone l’obiettivo di modificare la percezione dello spazio angusto con particolari giochi di luce colorata. Il fruitore si sente proiettato in un ambiente “altro”, dove prova emozioni del tutto differenti rispetto a quelle claustrofobiche iniziali. L’artista crea uno spazio innovativo e mistico, composta da sostanza immateriale, la luce. L’osservatore può fruire di un esperienza singolare e irripetibile, ogni volta differente.

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UOMO-OPERA ISHI’S LIGHT - Anish Kapoor L’opera è una scultura che si presenta come una sorta di grande uovo, per una porzione sezionato, all’interno del quale si può sostare; le pareti sono bianche esternamente, mentre all’interno sono di un colore rosso molto scuro, realizzata in una resina riflettente. Il fruitore osserva l’opera nel suo insieme all’interno della sala espositiva, ma è solo quando vi entra che si risolve l’esperienza artistica. Nella sua forma ricorda una capsula futuristica per il teletrasporto, ed effettivamente, una volta compiuto un semplice passo fino ad entrare si viene proiettati in un’altra dimensione spaziale. Le particolari riflessioni del materiale che riveste l’interno creano una deformazione dell’intorno riflesso e anche dell’immagine dello spettatore. Il gioco di colori e i riverberi della luce danno dunque vita all’opera, creando uno spettacolare effetto visivo che colpisce l’uomo nella sua interiorità. Altre opere di questo artista vengono composte in maniera non molto dissimile, mettendo in campo un tipo di relazione non così diffusa nella pratica artistica, cioè la percezione “individuale” dell’opera d’arte. Il significato di questo procedimento viene dato dalla precisa volontà di creare estraneazione in ogni singolo individuo, per portarlo a un’altro grado di relazione con lo spazio circostante.

Scheda 6


4.2 UOMO, SPAZIO (E LORO INTERAZIONI) Se pensiamo alla più diffusa progettazione degli ultimi anni, un’accusa che è spesso stata perpetrata dai critici di diverso genere è quella inerente alla scala umana. “La dimensione del nostro corpo, di cui siamo continuamente consapevoli, viene da noi utilizzata come unità di misura nella percezione degli spazi che ci circondano. L’interesse o l’emozione vengono amplificati o si smorzano a seconda che la scala di un determinato oggetto cresca o diminuisca”3. Questo rapporto dimensionale ci interessa nella misura in cui il sistema di relazione tra spazio e uomo si misura proprio sopra quest’ultimo. Risulta quindi semplice capire come un sovradimensionamento, per esempio, dell’oggetto esposto o dello stesso luogo espositivo, possa suscitare particolari sensazioni fisiche e psicologiche di diversa natura (insieme anche agli altri caratteri dello spazio come i cromatismi, la luminosità, i materiali, le proporzioni). Il luogo della mostra, sia che venga negato o messo in evidenza da un allestimento, avrà sempre un’importante influenza sul fruitore. Le più comuni relazioni riscontrabili tra fruitore e spazio, dunque, sono riconducibili alla forma e alla dimensione dell’ambiente, che trasmettono determinate sensazioni ad un individuo. L’ambiente può essere alto, largo, lungo, stretto, chiuso o addirittura aperto, e il bravo allestitore dovrà essere capace di coniugare le relazioni tra spazio e uomo attraverso il suo intervento progettuale. Per fare alcuni esempi possiamo vedere come uno spazio sviluppato in altezza, per esempio, proietterà il visitatore a concentrare il suo sguardo verso l’alto; in altri casi un ambiente allungato e magari anche stretto inviterà alla percorrenza (come nel caso della galleria), mentre uno spazio ampio e aperto aprirà una vasta gamma di percorsi scanditi a questo punto solo dalla presenza delle opere o dell’allestimento. L’uomo quindi entra a far parte di uno spazio sulla base di rapporti dimensionali ma anche dinamici e statici dettati dalla percorrenza di un ambiente.

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Luca Basso Peressut, “I Luoghi del Museo: Tipo e Forma fra Tradizione e Innovazione”, Editori Riuniti, Roma 1985.

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Definiamo quindi le relazioni tra uomo e spazio come relazioni di movimento e di sosta e, rifacendoci al primo capitolo, diciamo che la percorribilità di un ambiente è dettata dai margini dell’allestito e ovviamente anche dalla forma stessa dell’architettura dove ha sede una mostra; dobbiamo però considerare anche il fatto che l’uomo entra nello spazio e vi partecipa, lo percorre e vi sosta con l’intento di fruirne le opere contenutevi, quindi non basta tenere conto delle relazioni spaziali e dimensionali dell’architettura, ma anche di quelle definite dall’allestimento che mette in mostra le opere d’arte.


Le relazioni di movimento si riferiscono in generale a un rapporto riconducibile primariamente allo spazio; le sintetizziamo dicendo che l’atto di percorrere uno spazio ci pone in relazione all’opera in maniera dinamica: muoversi e girarvi intorno implica un grado di fruizione particolare che può coniugare l’esperienza della visita permettendoci di conoscere meglio un’opera e anche le relazioni che essa instaura con lo spazio che la contiene. Per quanto riguarda le relazioni di sosta ci soffermiamo maggiormente andando a distinguerle nelle loro tipologie, che vengono definite per mezzo della posizione assunta dall’uomo nello spazio. Un individuo infatti, inserendosi all’interno di un determinato luogo, disporrà il suo punto di vista in diversi modi. Sostare in piedi prestabilisce che lo sguardo dell’osservatore sia ad una certa distanza da terra (che dipende dalla sua altezza), nel caso in cui però si presentino posizioni di sosta che comportano lo stare seduti, o addirittura sdraiati, il fruitore cambierà il proprio punto di vista rispetto allo spazio, madificando la percezione che ha dello stesso. Durante la Biennale di Architettura del 2010 è stata presentata un’installazione molto interessante ad opera dello Studio Tetsuo Kondo Architects. E’ interessante notare questo esempio in cui le diverse posizioni assunte all’interno dello spazio possono variare grazie alla diversa configurazione dell’installazione. Questa consiste infatti in una rampa a spirale in acciaio, molto esile e leggera, che invade lo spazio architettonico; una nuvola continua, creata da una macchina del fumo, rende l’atmosfera eterea e forma punti in cui lo spazio appare e ricompare in base alla posizione assunta sulla rampa.

Studio Tetsuo Kondo Architects, “Cloudscapes”, installazione presso la Biennale di Venezia, 2010.

Vediamo in questo caso come i punti di vista varino in base all’altezza che il visitatore assume nello spazio, creando in questo modo suggestioni e percezioni del tutto differenti tra loro. Lo spazio varia (in maniera figurativa) la sua forma col variare del punto di vista dell’osservatore. La posizione più comune di un individuo che entra in uno spazio allestito è quella in piedi. Questa affermazione può sembrare banale ma è giusto accennarla. Tutte le azioni che fanno parte della nostra vita e che si articolano in infinite posizioni del corpo rispetto allo spazio, vengono, nel caso delle esposizioni, sintetizzate e, nella maggioranza dei casi, ricondotte alla posizione dello stare in piedi, che è quella che si assume in un rapporto dinamico come è quello della visita, che si prefissa di spostarsi da un luogo a un altro per fruire delle opere. L’arte in realtà assume precisi punti di vista, che sono insiti nella natura 77


stessa di oggetti mostrati, creati ad hoc per comunicare un certo messaggio, e non si esprimono solo attraverso la posizione eretta, ma anche in altri differenti modi come per esempio nello stare seduti. Nel complicato processo di allestimento di una mostra, il progettista mette in campo all’interno del percorso espositivo delle diversificazioni, che possano portare il fruitore a vivere o percepire l’ambiente in maniera diversa per far sì che non si annoi. Questa differenziazzione dei “modi della fruizione” consente, tra le altre cose, anche di tenere alta la concentrazione dell’osservatore e di non farlo stancare. “La noia, insieme alla stanchezza, sono dei fattori che uccidono l’interesse, quindi la capacità di lettura del pubblico”4. Frederick Kiesler, allestimento per la “Art of this Century Gallery”, New York 1942.

Ideare punti di sosta è dunque un processo necessario, soprattutto quando l’esposizione è molto vasta, poiché si creano momenti di svago per la mente dell’osservatore, che potrà leggere più facilmente i contenuti. Stare seduti è però un atto che non si identifica solo con il sostare e riposarsi, ma può essere considerato in certi casi una posizione spaziale predeterminata, che serve a conferire un metodo di fruizione corretto o alternativo rispetto a un’opera. Il punto di sosta identifica nello spazio un punto preciso che modifica la percorribilità nonché il grado di percezione. Un’esempio che verifica l’importanza di questo aspetto è rappresentato da un allestimento di Frederick Kiesler, del 1942. Il progetto consisteva nella creazione di una galleria chiamata “Art of this Century Gallery” commissionata da Peggy Guggenheim. L’allestimento, creato su uno spazio esistente, ebbe la peculiarità di introdurre metodi espositivi di avanguardia, che si legavano alle tematiche surrealiste della mostra. Oltre alla cancellazione delle cornici, si pensò a una definizione dello spazio molto particolare, dove le forme curve e la sovrapposizione di piani si distribuivano nelle tre dimensioni. La libertà espositiva con la quale venne concepita la galleria impose una fruizione particolare dell’ambiente allestito, che disponeva le opere in maniera libera nello spazio oltre che sulle pareti. Allo stesso modo venne pensato il ruolo del visitatore che, catapultato in un ambiente sovraffollato di opere d’arte, poteva distribuirsi nello spazio e sedersi, utilizzando le sedie-sculture (trasformabili all’occasione in supporti), le quali ridefinivano le relazioni spazio-uomo ponendolo seduto, a volte quasi del tutto sdraiato, conferendo una visione d’insieme dello spazio allestito. Lo stare seduto diventa un espediente per avvicinarsi alle opere, nel caso delle piccole sculture e oggetti distribuiti nella sala, ma anche per rilassarsi nella fruizione dei quadri.

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Luca Basso Peressut, “I Luoghi del Museo: Tipo e Forma fra Tradizione e Innovazione”, Editori Riuniti, Roma 1985

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Sedersi si identifica all’interno di un’esposizione come un’azione di cambiamento del punto di vista, sia rispetto allo spazio, sia rispetto all’opera


esposta. Può inoltre coincidere con la volontà dell’allestitore di instaurare un preciso grado di vicinanza tra uomo e opera, oppure di creare punti di vista privilegiati per la fruizione dell’oggetto. E’ interessante leggere questo aspetto in una significativa esperienza ormai lontana nel tempo, quella dell’allestimento di una sala dedicata a Klimt presso la IX Biennale di Venezia del 1910, ad opera di E.J. Wimmer. Questa (che al tempo era una mostra di arte contemporanea) presentava tutti i caratteri di neutralità legati a una corretta esaltazione delle opere (in questo caso esposte a parete). La posizione delle sedute nello spazio allestito, non è affatto casuale e si definisce come un inserimento di nuovi punti focali prestabiliti, che permettono al fruitore di osservare determinate opere in un determinato modo: l’evoluzione del punto di vista viene fissata attraverso la definizione della disposizione delle sedute. Continuando con l’analizzare il tipo di rapporto statico che l’uomo assume rispetto allo spazio, dobbiamo accennare brevemente al fatto che le diverse posizioni di staticità assunte dall’uomo comprendono anche lo stare sdraiati o semi-distesi. Su queste posizioni possiamo fare considerazioni simili a quelle dello stare seduti. Possiamo citare l’esempio dell’installazione dell’artista Kimsooja presso la Honolulu City Hall, del 2003. In questo caso l’opera invita lo spettatore a sdraiarsi per terra, invogliato a rivolgersi verso l’alto grazie al pavimento a specchio riflettente una porzione di cielo; un lungo tubo di tela bianca circoscrive lo spazio contenitore dell’opera che crea, attraverso l’inquadramento di una porzione di spazio, un’unione tra terra e cielo dettata dal gioco di riflessioni e anche dalla posizione assunta dal visitatore.

E.J. Wimmer, allestimento della sala “Klimt”, Biennale di Venezia, 1910.

Kimsooja, “A Mirror Woman: The Ground of Nowhere”, installazione presso la Honolulu City Hall, Honolulu, Hawaii 2003.

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SPAZI ESPOSITIVI DI GRANDE SCALA Il museo, e ogni spazio atto a contenere opere d’arte, in certi casi assume dimensioni così vaste da riuscire a contenere contemporaneamente un numero straordinario di opere d’arte, che possono assumere le forme più dispareate; le opere saranno accolte in modo adeguato in ogni situazione, in di uno spazio che si trasforma e si adatta al caso specifico.

Centre pompidou - renzo Piano, Richard Rogers Inaugurato nel 1977 come nuova istituzione museale parigina rivolta all’arte moderna e contemporanea, il Centre Pompidou nacque per diventare ben più di un semplice museo: un polo attrattivo all’interno della città, una nuova “piazza” dove promuovere la cultura. Il Centre Pompidou fu inoltre uno dei primi esempi di museo che integra spazi per la relazione sociale, biblioteche bar e negozi che danno nuova vita al polo. La volontà di creare una nuova “piazza” per ospitare l’arte e la cultura, si riflette nella progettazione dell’edificio, che si compone di cinque piani a pianta libera sorretti da un complesso sistema strutturale perimetrale in acciaio: uno spazio totalmente libero può assumere le forme più disparate per ospitare opere e visitatori. L’edificio ha un’immagine caratteristica e unica, capace di divenire un simbolo per la città e un luogo rappresentativo della cultura, non solo francese, ma internazionale. Lo spazio interno, totalmente libero, può essere composto in diversi modi, grazie anche all’ampiezza degli spazi, che, come stanza in una stanza, possono “costruire” sale museali diverse. Sono anche presenti numerose terrazze esterne, dove vengono esposte sculture e da cui il visitatore può ammirare la città. “Città dentro la città”, Il Centre Pompidou è uno spazio fluido, libero e dalle infinite modalità compositive.

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UOMO-SPAZIO PALAIS DE TOKIO - Anne Lacaton, Jean Philippe Vassal Il Plais de Tokyo è un’edificio costruito a Parigi nel 1961 come museo di arte moderna; oggi si divide in due ale, ospitando da una parte esposizioni di arte moderna mentre nell’altra esposizioni di arte contemporanea. Questa seconda ala viene sviluppata a partire dal 2001, quando un intervento di restauro, condotto dai progettisti Anne Lacaton e Jean Philippe Vassal, lo ha trasformato nel museo che è oggi. Il vecchio edificio è stato ridefinito nella composizione interna, lasciando la pianta il più possibile libera e versatile. La grandezza delle sale è sata sfruttata per creare luoghi di ampie dimensioni dove poter inserire opere e installazioni di forma e dimensioni diverse. L’idea progettuale che viene legata a questo restauro è volta a creare spazi non propriamente definiti, enrtro cui gli artisti possono sperimentare e creare le proprie opere in sito, non solo esporle; più che di sale espositive il nuovo museo si compone di laboratori artistici che ricompongono lo spazio in modi differenti in relazione alle opere create. La dimensione risulta molto importante per questa istituzione museale, che vede possibile la realizzazione delle più diverse composizioni artistiche quali performance o installazioni di grande scala piuttosto che graffiti art, sviluppata su intere porzioni di edificio. L’impatto visivo e lo stupore garantiscono sempre una grande comunicatività alle diverse opere.

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SPAZI ESPOSITIVI DI PICCOLA SCALA In alcuni casi la scala dimensionale degli spazi contenitori d’arte è molto piccola, comparabile a quella domestica. Alcuni artisti e collezionisti, infatti, ritengono che non sia necessario creare luoghi grandiosi per ospitare l’arte, ma, anzi, che relazionarsi ad ambienti dalle dimensioni più esigue e rispettose della scala umana possa conferire la giusta ambientazione per l’opera d’arte.

LOUISIANA MUSEUM OF MODERN ART Quando il museo Louisiana venne aperto nel 1958, la volontà era quella di creare uno spazio dove esporre l’arte moderna in Danimarca. Con il tempo però quest’istituzione, per attrarre un bacino culturale più ampio, iniziò ad ospitare le opere d’arte provenienti da diverse parti del mondo. Questo edificio venne pensato già in fase progettuale come un’architettura in cui la scala dimensionale delle sale espositive fosse esigua, riproponendo l’immagine di una normale casa, senza grandi pretese; la superficie delle sale è comunque grande, e gli ambienti epositivi sono molti, per garantire una larga collezione, ma ogni stanza rispecchia le caratteristiche della casa privata, con soffitti tendenzialmente bassi e con finiture in legno, mattoni e intonaco che creano un’ambientazione calda e accogliente, ben lontana dalle neutrali sale museali. Il contesto paesaggistico non è da trascurare in questo progetto, ed è stato uno dei fattori che hanno inciso sulla progettazione dell’edificio. L’impatto ambientale del costruito, infatti, viene tenuto in consideraione quale fattore dominante per non creare un contrasto tra architettura e natura; oltretutto la vista dell’ambiente circostante, un luogo dove la natura incontaminata fa da padrona, ha messo in atto la volontà di creare un edificio legato al contesto ambientale, che per questo presenta spesso ampie pareti finestrate e numerose zone esterne. Le opere d’arte, esposte sia all’interno sia all’esterno, subiscono un attento processo di ambientazione che lega opera e spazio sino a creare un pezzo unico.

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UOMO-SPAZIO ACID MODERNISM L’artista e regista Doug Aitken ha voluto comporre la sua stessa abitazione come un’opera d’arte, dove vivere esperienze percettive particolari create da installazioni permanenti distribuite nei diversi ambienti. La casa, che si trova a Venice (California), è stata pensata come un’architettura di ispirazione modernista, dalle forme regolari, ma capace di inserirsi nella natura per mezzo di spazi aperti direttamente collegati agli interni e anche attraverso l’utilizzo di materiali come il legno o la pietra. L’edificio, di modeste dimensioni, diviene vera opera d’arte completa in ogni sua parte compositiva. Tutto il piano terra presenta vetrate colorate che, in base ai vari momenti della giornata, simulano il colore del tramonto; le murature sono coperte da carte da parati che imitano il verde che circonda la casa, per creare continuità tra le stanze e la vista esterna; la scala che porta al primo piano, illuminata da luce zenitale, è delimitata da pareti interamente ricoperte di specchi, che creano un gioco di riflessioni appositamente studiate per illuminare l’abitazione; i piani dei tavoli sono realizzati in lastre di pietra, che possono essere suonate come uno xilofono; i gradini delle scale contengono microfoni per poter creare, battendo sulle alzate in legno, concerti di percussioni; infine tutta la casa è pervasa dal suono proveniente dalla terra e dalla falda acquifera sottostanti, che vengono amplificati. La casa diventa l’opera d’arte, e le normali azioni del vivere quotidiano assumono una valenza differente perchè quasi sempre legate a una precisa esperienza artistica che stimola i sensi e lo spirito.

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4.3 OPERA, SPAZIO (E LORO INTERAZIONI) “L’intervallo spaziale tra l’opera d’arte e la superficie espositiva assume, con la cultura moderna, un valore interpretativo dell’opera d’arte stessa. A partire dalla pinacoteca classica, in cui lo spazio architettonico ha un valore di supporto acritico, si traccia un percorso che giunge sino ai giorni nostri in cui l’opera d’arte abbandona la parete per occupare e condizionare lo spazio architettonico (sino addirittura a superarlo tralasciando la relazione spazio-tempo per entrare nello spazio della rete)”5. Dal punto di vista di un’artista il bordo di un’opera, la sua cornice fisica, non è solamente un punto di passaggio tra due situazioni spaziali, ma il confine tra due mondi visivi diversi. Per questo motivo l’ambientazione di un’opera, soprattutto nella contemporaneità, sembra un fatto difficile da risolvere. La soluzione più diffusa, comunque, è quella in cui si lascia libero sfogo all’opera, incanalandola dolcemente nello spazio attraverso un intelligente intervento di allestimento solitamente minimalista e poco invasivo; certo bisogna dire che i casi sono molto diversi e si ritiene normalmente che il giusto intervento sia solo quello che non si fa “sentire”, bensì si vuole sostenere il principio secondo il quale lo spazio e l’allestimento non devono in nessun modo prevaricare l’opera d’arte. Ogni opera autodefinisce un proprio spazio di azione e il bravo progettistaallestitore è chiamato a stilare un primario e complesso rapporto di lettura che sia chiaro e disponibile. L’oggetto d’arte, percepito attraverso i sensi, si inserisce in uno spazio che deve riuscire a esaltarlo il più possibile: dare nuova vita all’opera è un fattore fondamentale in una mostra. Il procedimento che però mette in relazione l’opera con lo spazio, per quanto sensibile e rispettoso, definirà sempre, anche se in minima parte, una reinterpretazione dell’oggetto esposto: è proprio qui che si inserisce la capacità dell’allestitore di riuscire a mitigare le esigenze di una determinata esposizione con spazio e opera, ponendo al centro dell’attenzione quest’ultima, senza far perdere valore al suo contenitore.

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Cristina Bergo, “Arte contemporanea e spazio architettonico”, in: “Architettura Contesto Cultura”, a cura di Barbara Bogoni e Marco Lucchini, Alinea Editrice, Firenze 2011.

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Sembra dunque che il rapporto primario opera-spazio si definisca proprio grazie all’intervento di “design” relazionato alla progettazione dei supporti necessari per un allestimento. Progettare un sistema espositivo non è mai facile ed è necessario che si riesca a trovare il giusto grado di relazione tra spazio e opera contenuta. Le relazioni che l’opera può instaurare con l’ambiente che la circonda sono ovviamente moltissime e sono il risultato di una coniugazione della tipologia dell’opera d’arte legata alla “forma” dello spazio contenitore. In realtà bisogna considerare come l’opera di arte contemporanea spesso


non abbia bisogno di una specifica contestualizzazione, proprio per come è stata pensata, ma l’integrazione spazio-opera resta, nonostante ciò, una pratica fondamentale per la composizione dello spazio espositivo. Facciamo una breve digressione per introdurre un caso particolare, che richiede di essere trattato a parte. L’evoluzione digitale ha introdotto un nuovo modo di fruire l’arte, raggiungendo il caso paradossale dell’opera che annulla totalmente lo spazio, poichè viene fruita da un punto di vista non più fisico, ma solo mentale; stare seduti a osservare uno schermo che ci fa compiere un viaggio all’interno dello spazio virtuale, piuttosto che un’esperienza artistica simulata, ci pone in un confronto diretto con l’opera, interno all’opera sebbene non tangibile, in contrasto con l’esperienza del reale; questo processo è un interessante sviluppo della fruizione artistica, ma non è sostituibile all’esperienza diretta di un’opera dal vivo, che invece instaura relazioni spaziali emotive ineludibili nell’esperienza fisica della percezione. Detto questo proviamo a definire le modalità in cui le opere d’arte si possono relazionare con lo spazio circostante che le contiene. Questo procedimento include tutte le esperienze che inseriscono un oggetto nell’ambiente interponendo tra i due un procedimento progettuale che definisce i gradi di rapporto specifici tra i soggetti. Possiamo osservare come, in certe situazioni, l’ambiente diventa ambientazione, e la progettazione architettonica stessa, nella composizione dei suoi spazi, diviene un processo per la creazione di un allestimento permanente; il caso dello Chichu Art Museum, di Tadao Ando (distretto di Naoshima, Giappone). L’architetto è stato chiamato ad affrontare la progettazione di un museo creato appositamente per ospitare la piccola collezione di un mecenate locale. L’esiguo numero di oggetti da mettere in mostra ha fatto sì che ogni singolo ambiente venisse progettato ad hoc per l’opera che avrebbe ospitato, il tutto legato da un attento rapporto con la natura e il contesto, che viene espresso attraverso il sapiente innesto del volumi all’interno delle colline di Naoshima, illuminati da una suggestiva luce zenitale che guida i percorsi dell’esposizione. L’intento è quello di conferire una nuova “aura” alle opere esposte attraverso la messa in mostra in piena simbiosi con il costruito. La luce in questo progetto gioca un ruolo importantissimo, poichè viene gestita nelle sale attraverso dei “tagli” nell’edificio che ricreano particolari focus o giochi di luce; così avviene nella sala dedicata all’allestimento “Time Machine”, in cui il variare dell’apporto luminoso nei diversi momenti della giornata, modulato dall’intervento architettonico, diventa un elemento compositivo dell’opera d’arte stessa.

Tadao Ando, Chichu Art Museum, Naoshima, Giappone 2004.

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Gli spazi dell’esposizione prendono in questo progetto forme apparentemente prive di regole compositive, che si scoprono poi essere soluzioni ragionate di un attento studio del percorso, che porta il visitatore a scoprire i diversi ambienti del museo e a lasciarsi emozionare dalle stesse forme architettoniche prima di arrivare nelle sale, la cui forma è definita dalle differenti necessità espositive. Nella galleria dedicata alle opere di James Turrel, ad esempio, le sale sono piccole e prive di illuminazione, permettendo alle installazioni luminose di giocare con l’architettura per distorcere la percezione dei volumi.

Mark Rothko, allestimento per la sua mostra personale, White Chapel, Londra 1961.

Le differenti soluzioni create ad hoc per le singole sale ospitanti una determinata opera (in alcuni casi pensate insieme agli stessi artisti), sono la soluzione per mettere in scena un unicum compositivo che rende opera e contenitore un elemento singolo che accoglie il visitatore nella sua esperienza emotiva e intellettiva. Opera a parete Nella tradizionale concezione di esposizione, la figura più comune che ci viene in mente è quella del quadro appeso. Questa tipologia sintetizza in maniera molto chiara un’attitudine progettuale che mette in relazione diretta lo spazio e l’opera. Lo spazio definisce in maniera univoca l’allestimento, che segue i limiti e confini concreti dell’architettura (pareti). Ovviamente le variazioni di posizionamento dell’opera rispetto allo spazio possono dipendere, oltre che dal tipo di opera, anche dalle sensazioni prodotte dallo specifico ambiente rispetto all’illuminazione (volta a creare determinati effetti), piuttosto che alla densità delle opere presenti.

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Flaminio Guadaloni, “L’opera d’arte, scena e scene”, in: “L’opera d’arte e lo spazio architettonico. Museografia e Museologia”, a cura di Mercedes Garberi e Antonio Piva, Mazzotta, Milano 1988.

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L’esempio che porterò di seguito vuole enfatizzare proprio questo concetto: qui un comune allestimento parietale produce dinamiche molto diverse rispetto a quelle tradizionali. La mostra di Rothko allestita presso la Whitechapel di Londra nel 1961, presenta caratteri molto particolari: le opere, disposte sulla parete con discontinuità brevissime tra l’una e l’altra, riempiono completamente la visuale di chi entra nelle sale: lo spazio architettonico viene estraniato dall’allestimento. L’esperienza primaria e predominante nell’esposizione è solo quella del quadro, che diventa il punto focale di tutto lo spazio. Entrare in contatto con la dimensione spaziale creata dall’astrazione dei colori dell’artista diviene più importante di qualsiasi altra dimensione spaziale: la volontà dell’artista era quella di annullare l’effetto di vuoto creato dalla “white cube”, che rischiava di sopraffare le opere, riempiendo le pareti con i suoi dipinti. “E’ il quadro che abilita il muro a portarlo, non la parete che si fa garante del valore dell’opera”6.


Opera su supporto Quando l’opera non può essere “sostenuta” semplicemente sulle pareti di confine dello spazio, si deve intervenire con l’inserimento di supporti che proiettino gli oggetti nell’ambiente fino ad arrivare all’osservatore. Che i supporti siano basamenti, teche o pannelli espositivi, l’importante è ricreare le condizioni più adatte a trasmettere il messaggio dell’opera. I supporti si inseriscono come parti integranti dello spazio che sostengono e mostrano gli oggetti. Un grande maestro come Franco Albini, spiega con la sua opera come un supporto possa essere utile e, allo stesso tempo, completamente integrato con l’opera e lo spazio. L’allestimento della mostra del pittore Scipione presso la Pinacoteca di Brera, segna il completo affinamento del metodo espositivo albiniano. Una maglia quadrata di cavi di acciaio a un’altezza di tre metri sostiene una serie di montanti in legno a forma di fuso appoggiati al pavimento. Questi reggono, oltre alle lampade, tre tipi di supporti: fondali di stoffa bianca o color nocciola come telai staccati per sorreggere i quadri, doppie lastre di vetro per i disegni e, per i disegni “contemporanei”, piani inclinati protetti da vetri con fondo a graticcio. Un nastro di carta da disegno, sopra il reticolo dei tiranti, unisce visivamente le quattro sale della mostra e diffonde la luce dei riflettori in tutto l’ambiente, mentre lunghi teli di carta da tappezzeria sono allineati a mo’ di quinte verticali lungo le pareti. Le opere più importanti dell’artista sono collocate sullo sfondo di esedre in mattoni a vista. Tutte le diverse parti dell’allestimento si modificano in relazione alle differenti categorie di opera, che vengono mostrate grazie all’attento inserimento di specifici supporti.

Franco Albini, allestimento per la mostra “Scipione e i disegni contemporanei”, Pinacoteca di Brera, Milano 1941.

Opera libera nello spazio Spesso nella composizione dello spazio ospitante l’opera contemporanea, troviamo l’utilizzo di grandi ambienti espositivi all’interno dei quali le opere vengono posizionate liberamente nello spazio, proiettandole in comunicazione diretta con il fruitore. Gli oggetti, che sono posizionati in maniera puntuale nell’ambiente, si distinguono solo grazie alla loro forma propria e all’aiuto degli apparati illuminanti; la fisicità dell’intervento viene circoscritta a quella dell’oggetto artistico, che si impone nello spazio astraendosi dai suoi confini. Il New Museum di New York, progettato da Sanaa, è un esempio di que87


sto tipo di spazio libero. L’edificio, un palazzo composto da sette volumi rettangolari sovrapposti e sfalsati, compone le sue sale come spazi vuoti totalmente leggibili nella loro completa volumetria. Il grigio dei pavimenti si accosta al total white delle pareti e del soffitto, formando una scatola neutra che mette a nudo la natura dell’edificio industriale lasciando a vista impianti e strutture. Opera fuori dallo spazio

SANAA, New Museum, New York 2007. Veduta di una sala interna.

Robert Smithson, “Spiral Jetty”, Grande Lago Salato, Salt Lake City, Stati Uniti 1970.

L’estrema conseguenza di una tendenza allargata di divulgare l’arte nei più svariati campi della vita, nonché quella volontà di singoli artisti che sono voluti uscire dai confini dell’allestimento e dello spazio finito, contenitore d’arte, hanno fatto sì che si sviluppassero forme artistiche legate a una spazialità illimitata, ovvero quella dell’ambiente esterno. Porre le opere in relazione con l’ambiente e il contesto paesaggistico ha introdotto una nuova dimensione spaziale, che ha superato i limiti finiti dell’architettura. Le relazioni instaurabili prendono campo rispetto a dimensioni molto più estese ovviamente, mettendo in gioco altri fattori. Questo concetto di “land art”, dunque, si può relazionare alle dimensioni del costruito, quando si pone all’interno di una città, oppure a quelle miste dei luoghi naturalistici, o infine alle dimensioni infinite degli ambienti naturali isolati. Per citare un esempio guardiamo a Robert Smithson e ai suoi grandi processi di trasformazione della natura. Nel 1970, presso il Great Salt Lake nello Utah, riesce a portare a termine la Spiral Jetty, il suo più importante intervento, un grande molo a forma di spirale, costruito accumulando con bulldozer e camion più di 6.500 tonnellate di terreno circostante, come terra, rocce e cristalli di sale. L’opera consiste in un grande omaggio alla natura e a quest’ultima ritorna: non appena viene terminata, incomincia l’azione dell’acqua salata; anzitutto la superficie laterale della passerella inizia a coprirsi di microrganismi che ne fanno il proprio habitat, poi la concentrazione di sale inizia a salire verso il centro della spirale, rendendo, in tale zona, l’acqua più rossa, poi violacea, per ritornare blu ai bordi. Naturalmente la presenza di un’opera d’arte nell’ampia spazialità esterna, di per se stesso disegna un luogo, quindi circoscrive uno spazio, lo configura, lo rende percepibile. Ma questo è un’argomento così vasto, articolato e delicato da renderne difficile la trattazione in questa sede. Concludiamo semplicemente sostenendo che, la natura spaziale dell’ambiente aperto che ospita la land art, incide sulle opere stesse che, per inserirsi e distinguersi all’interno di questo contesto assumeranno nella maggior parte dei casi dimensioni ampie, fuori dalla scala umana e più prossime, invece, alla scala paesaggistica.

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UNO SPAZIO / OPERE DIVERSE

TURBINE HALL Tate Modern, Londra

TATE MODERN E LA SALA DELLE TURBINE Il complesso museale del Tate Modern di Londra, un progetto realizzato da Herzog & de Meuron nel 2000, offre uno dei tanti esempi di spazio di allestimento per installazioni artistiche di grande scala. L’edificio, frutto di un riadattamento architettonico effettuato su quella che un tempo era la centrale elettrica di Londra, è caratterizzata dalla versatilità degli ambienti museali, creati per ospitare le molte tipologie di oggetti d’arte. La particolarità di questo progetto sta nell’aver mantenuto un vasto spazio di ingresso che si sviluppa su quella che era un tempo la sala delle turbine. Questo spazio di ingresso accoglie con una discesa lieve gli spettatori che possono, da qui, distribuirsi verso le altre aree del museo. La spazialità di questo ambiente accoglie opere e installazioni di grandi dimensioni, che possano impressionare il visitatore. Lo spazio della “Turbine Hall”, si presta a modificazioni sempre differenti in base all’opera o all’installazione; dall’inserimento di una enorme scultura, passando attraverso la ricomposizione spaziale conferita dall’allestimento, sino a giungere all’installazione luminosa, si possono osservare nel medesimo luogo le diverse modalità di approccio possibili tra opera e spazio.

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Marsyas Anish kapoor progetta per lo spazio della Turbine Hall una scultura lunga quasi 200 metri ed alta 35, costruita con intelaiature metalliche sulla quale è agganciato un telo in PVC. Il risultato è un enorme forma organica che attraversa l’intera sala del museo conferendo allo spazio nuovi punti di riferimento; l’oggetto arriva quasi a toccare le pareti della sala, permettendo al visitatore di avvicinarsi e di guardarvi dentro.


OPERA-SPAZIO

Embankment

The Weather Project

Rachel Whiteread racconta con questo lavoro esperienze e ricordi di infanzia che si esprimono in una scatola bianca, quella che lei spesso usava da bambina. L’opera si compone di migliaia di scatole bianche impilate sino a formare grandi bancali dalle forme e dimensini differenti; in alcuni casi sembrano montagne. Il concetto espresso è quello dei ricordi e dei pensieri dell’uomo che si accumulano l’uno sull’altro nella confusione della mente.

La tematica del tempo (quello metereologico) è un’elemento importante nei lavori Olafur Eliasson: con essa l’artista si pone di sperimentare la relazione tra uomo e natura. In questa installazione, chiamata “Weather Project”, Eliasson riproduce un sole, all’interno della Tate Modern, e una leggera nebbiolina. La volontà è quella di produrre un’ambientazione esterna, con l’utilizzo di pochissimi elementi (il più importante dei quali è il sole, che irradiando la tipica luce del tramonto, crea riverberi e particolari giochi di chiaroscuri all’interno del museo).

Questa installazione produce importanti variazioni nella spazialità della sala, modificando la percorribilità: le pile di scatole creano percorsi articolati all’interno dei quali il visitatore si muove, osservando gli scorci dello spazio circostante attraverso le migliaia di scatole bianche.

Il visitatore viene invogliato a fermarsi e vivere lo spazio in una maniera diversa; come se fosse veramente all’aperto al tramonto, l’osservatore si ferma, si sdaia per terra e ammira l’effetto luminoso che, imitando lo scorrere delle giornate, varia in intensità e quindi in effetti visivi, lasciando emozioni sempre diverse a chi la osserva.

Scheda 9


UNA SOLA OPERA / SPAZI DIVERSI

WURSA Daneil Firman

L’installazione, creata nel 2008, consiste nella rappresentazione di un elefante posizionato in modo insolito, in equilibrio sulla proboscide, col corpo in tensione per mantenere la posizione. L’elefante, realizzato in materiali plastici, viene sostenuto da una struttura in metallo che, nei diversi spazi di allestimento, viene agganciata senza lasciare visibile allo spettatore i punti di innesto con l’edificio ospitante. L’impatto visivo è di grande effetto, con il risultato che il fruitore resta impressionato e sbalordito. L’opera, come molte altre dell’artista francese Daneil Firman, elabora il concetto di movimento, sospendendo in un preciso momento l’azione compiuta dal soggetto rappresentato: bloccare un’azione nel suo massimo momento di sforzo crea un’energia straordinaria. In questo caso il pezzo nasce dopo uno studio sull’equilibrio delle masse e sull’attrazione gravitazionale; Firman dona tale forma al suo elefante perché quella è la posizione di equilibrio che potrebbe assumere l’animale in relazione alla sua massa se, ipoteticamente, si trovasse a una distanza di 18.000 Km dal centro di gravità terrestre. La forza espressiva dell’opera viene a crearsi attraverso la rappresentazione del potere della natura, catturato in uno specifico momento. L’esposizione di questa installazione ha girato il mondo, presentandosi in diversi musei e nazioni; riproposta in diverse versioni, l’opera si relaziona in modi sempre diversi nei diversi spazi di allestimento.

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Palais de Tokyo Le sale del Palais de Tokyo, museo di arte contemporanea ricavato dal restauro di un edificio degli inizi del novecento, sono molto ampie e in grado di ospitare grandi opere d’arte. L’installazione di Firman è stata inserita all’interno di uno spazio neutro che non incide affatto sull’immagine rappresentata. Il messaggio insito nell’opera diviene in questo caso il fulcro principale dell’esposizione. Il fruitore è a contatto diretto con l’oggetto esposto, e lo può analizzare da differenti posizioni e nella sua interezza.


OPERA-SPAZIO

Castello di Fontainebleau

Kunsthalle di Vienna

Lo spazio ospite dell’opera di Firman è un edificio rinascimentale, ora sede di una scuola di arte e architettura, ma anche museo per esposizioni di altro genere.

La Kunsthalle di Vienna è un esempio di museo in cui le sale vengono allestite seguendo il concetto di “white cube”: lo spazio neutrale si presta all’esaltazione delle diverse opere.

Le sale espositive corrispondono alle ampie sale del palazzo, fortemente connotato da una struttura architettonica “fissa”.

Firman dà una nuova vita al suo componimento artistico, cambiando l’orientamento dell’elefante. Lo spazio cambia la relazione con l’opera, che adesso si proietta orizzontalmente a partire da una parete verticale. Lo stupore aumenta in relazione alla posizione ancora più insolita, paradossale e antigravitazionale dell’elefante.

L’opera, qui pone l’accento sul forte contrasto tra la bellezza dell’edificio e l’impressionante posizione dell’animale.

Scheda 10


CAPITOLO 5

ANALISI DELLE MODALITÃ DI APPROCCIO UOMO-OPERA nello spazio allestito

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La prossima analisi consisterà nel mettere a confronto le diverse relazioni instaurabili tra l’uomo e l’opera all’interno dello spazio allestito, prendendo ad esame numerosi casi studio inerenti gli allestimenti e le installazioni artistiche della contemporaneità. Per mezzo di schemi esemplificativi che sintetizzano i possibili metodi di relazione e le tipologie di fruizione instaurabili all’interno di una mostra, sarà possibile avere un’idea più chiara di come, in diverse situazioni, vengano affrontate le relazioni fruitore-opera-spazio.

Legenda

Opera percepita dal basso

Opera visiva

Opera percepita dal’alto

Opera tattile

Opera percepita dall’interno

Opera sonora

Opera percepita frontalmente

Opera multimediale

Opera percepita da seduti

Processo artistico interattivo tra fruitore e opera

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ARCHITETTURA A MISURA D’UOMO E. N. Rogers, V. Gregotti Palazzo Reale di Milano, Italia, 1951

La mostra descrive al visitatore le proporzioni e la relazione con la misura umana che assume l’architettura. L’ampia sala vuota ospita una serie di immagini di luoghi e architetture emblematiche, disegni e schizzi di diversa natura; queste vengono presentate su pannelli di diverse dimensioni stampati, che si inseriscono nello spazio con irregolarità, creando in pianta un percorso molto articolato all’interno dell’allestimento. Il visitatore si muove in uno spazio suddiviso dalla presenza di pannelli disposti nelle tre dimensioni; questi infatti sono legati al soffitto e al pavimento mediante fili o piccole strutture in ferro, che permettono di muoverli e posizionarli a diverse altezze e in diverse posizioni. Lo spettatore può interagire in modo sempre diverso con l’opera d’arte, grazie a questo carattere “dinamico” e trasformabile.

Scheda 11

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L’ARRIVO AL MARE

G. Aulenti, C. Aymonino, S. Paciello, J. Gardella Palazzo dell’Arte di Milano, Italia, 1964

In occasione della XIII Triennale viene allestita questa sala come parte della mostra “L’uomo e il tempo libero” che si contrappone alle sale che la precedono mostrandosi al visitatore con estrema gioia e vitalità, proprie del tema che viene raccontato. La sala viene composta attraverso l’inserimento di pareti specchiate ai lati, che allargano lo spazio, e di rulli rotanti sulla parete dove si dispone l’uscita, che rappresentano i cavalloni del mare; tutta la sala, disposta con una lieve discesa che accompagna lo spettatore, è riempita da sagome rappresentanti due donne, prese dal dipinto di Picasso “Le bagnanti”. Il visitatore all’interno dello spazio allestito scende verso il mare accompagnato dalla dinamica prospettiva delle possenti donne picassiane, sopra a una spiaggia che si allunga all’infinito, immerso in una luce calda edabbagliante, verso lente onde adagiate su rulli rotanti.

Scheda 12

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CALEIDOSCOPIO

V. Gregotti, L. Meneghetti, G. Stoppino Palazzo dell’Arte di Milano, Italia, 1964

Nello spazio, allestito in occasione della tredicesima triennale per la sezione introduttiva internazionale, viene inserito un enorme oggetto costituito da due prismi triangolari incastrati tra loro lungo lo spigolo longitudinale. Ad esso si accede attraverso un’apertura triangolare posta sulla sinistra, opposta all’analoga apertura creata per l’uscita. Questa composizione spaziale che dà vita a una galleria dalla forma triangolare, si modifica in continuazione per mezzo dell’installazione di specchi lungo le pareti inclinate; queste, alte più di 10 metri e lunghe 24, creano un particolare gioco di riflessioni nell’ambiente, da cui, appunto, prende il nome l’allestimento. L’installazione consiste nella proiezione di due films creati per l’occasione dal regista Tinto Brass, che raccontano dello stile di vita del tempo. Le immagini proiettate dall’alto sono indirizzate al pavimento, e mettono il visitatore in relazione stretta con il film: poichè questo deve sovrapporsi alle immagini per poterle vedere, si ritrova dentro al film, e nello specchio puo vedere nella sua interezza la proiezione cinematografica che lo avvolge e lo coinvolge.

Scheda 13

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LA VITALITà DEL NEGATIVO

Studio Sartogo Palazzo delle Esposizioni, Roma, Italia, 1970

Data la configurazione dello spazio, che consiste in una grande sala coperta da una cupola, l’intervento progettuale si è sviluppato sull’idea di tagliare in due il volume innescando una duplice lettura dell’ambiente. Il passaggio di un nastro attorno alle colonne rappresenta l’elemento di gestualità dell’intervento, che vuole ridurre il volume reale del palazzo a una nuova dimensione antropometrica. L’andamento del nastro tiene conto della configurazione dello spazio e si dispone in diagonale seguendo l’ordito delle colonne, creando in questo modo un’intensificazione degli incroci del nastro sulla periferia della sala, punto di maggior interesse per la visita. Sotto i nastri vengono posizionati fari che illuminano solo la parte inferiore dell’ambiente. L’ambiente viene a dividersi in due parti, segnate semplicemente dalla luce; i nastri delimitano ma non nascondono il resto dell’edificio, che può comunque essere percepito. Lo spazio prende nuova vita e, nella sua nuova configurazione si mostra al visitatore come luogo primigenio aperto e fluido.

Scheda 14

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L’ALTRA METà DELL’AVANGUARDIA Achille Castiglioni Palazzo Reale di Milano, Italia, 1980

La mostra dedicata alle avanguardie di inizio Novecento, propone opere pittoriche, oggetti e sculture di diverso genere in una spazialità interna completamente alterata dall’allestimento stesso. La scelta progettuale è quella di tagliare lo spazio delle sale attraverso l’utilizzo di una membrana di tessuto sintetico, che crea una sorta di vela all’interno dell’ambiente. Lo spazio della sala si aplia dunque verso le pareti che sostengono le opere, le quali vengono illuminate da una luce riflessa dai teli bianchi inseriti per riformare lo spazio. Lo spettatore viene direzionato e inquadrato verso le opere e, dove necessario vengono inserite sedute per permettere una fruizione “direzionata” dell’opera.

Scheda 15

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ALEXANDER CALDER

Renzo Piano Building Workshop Palazzo a Vela di Torino, Italia, 1983

La mostra è stata allestita all’interno di una specie di gigantesco hangar lungo 120 metri e largo 30, che permetteva di avere a disposizione un sito spoglio della solennità che uno spazio espositivo tradizionale avrebbe comportato, potendo così esaltare l’aspetto trasgressivo e giocoso delle sculture. L’esposizione sfrutta l’ampiezza dello spazio per disporre l’allestimento in maniera circolare; le opere stanno sui loro supporti, seguendo i raggi di un cerchio il cui centro rimane sempre visibile come punto focale al quale progressivamente avvicinarsi. Il sistema di illuminazione è composto da fari per l’illuminazione puntuale che esaltano le singole opere all’interno della penombra ricreata nella sala. Il clima generale percepito è quello di sospensione delle opere, che si impadroniscono dello spazio indefinito. Lo spettatore ha la possibilità di fruire delle opere nelle differenti modalità espositive, ognuna legata alle specifiche necessità dell’oggetto.

Scheda 16

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THE WORLDS OF NAM JUNE PAIK

John G. Hanhardt, Jon Ippolito Guggenheim Museum di New York, Stati Uniti, 2000

La mostra è la prima retrospettiva dedicata all’artista multimediale Coreano. Le sculture, installazioni e videotape presenti in questo allestimento, mostrano al visitatore la forza che assume il video nella nella scena mondiale della cultura visuale mediatica. La parte fondamentale di quest’opera è data dalla composizione di schermi che, scendendo dal soffitto della “rotonda” del Guggenheim Museum di New York, arrivano al piano terra, legati visivamente da un raggio laser che rimbalza sopra di essi. Al piano terra si trovano più di cento televiori accesi che mostrano i lavori di Paik. Questa drammatica unione di laser e video può essere vista lungo tutto il percorso attorno alla “rotonda”, offrendo al visitatore punti di vista multipli dell’opera. Quest’opera, che scardina lo spazio museale “convenzionale” proiettandosi oltre gli ambienti riservati all’allestimento, mostra come la composizione di un’installazione sia decisiva per trasmettere un determinato messaggio.

Scheda 17

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EAU MOLLE

Leandro Erlich Tolosa, Francia, 2003

Esposta per la prima volta a Tolosa all’interno di una fabbrica dismessa sulle rive del Garonna, l’opera “Eau molle” imita con la sua immagine una vasca d’acqua sopra la quale però è possibile camminare. L’installazione consiste in una vasca lunga 14 metri coperta da un materasso di materiale plastico, translucido, retroilluminato, sul quale è impressa la stampa delle increspature dell’acqua. Nella penombra dello spazio di allestimento questa “vasca” risalta per mezzo della luce che emana e per le increspature di tonalità azzurra, invitando lo spettatore ad avvicinarsi; una volta arrivato però è possibile salire sulla vasca camminandoci e sdraiandocisi sopra. Il materasso ad acqua che accoglie lo spettatore, permette una relazione stretta tra uomo e opera che ha l’obiettivo di scardinare il più comune senso di realtà, permettendo all’osservatore di muoversi sull’acqua. La morbidezza della superficie fa sì che, una volta sopra, le innumerevoli pieghe e ondulazioni formatesi sotto il peso dei visitatori crei una sensazione di stabilità precaria e in continuo mutamento.

Scheda 18

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SWIMMINGPOOL

Leandro Erlich 21th Century Museum, Kanazawa, Giappone, 2004

L’opera, installazione permanente presso il 21st Century Museum di Kanazawa, è stata ideata per la prima volta nel 1999 dall’artista argentino. L’idea è quella di ricreare una piscina che si possa osservare sia dall’esterno che dall’interno: una finta superficie di acqua, dà la sensazione a chi sta fuori che la vasca sia effettivamente piena, così come chi vi accede dentro ha la sensazione di trovarsi sott’acqua grazie ai particolari effetti visivi creati dentro la piscina. Il tutto è reso possibile grazie all’utilizzo di una lastra di vetro che sostiene uno strato di acqua di dieci centimetri, unito alla tinteggiatura azzurra delle pareti al di sotto della superficie. Le increspature reali create dall’acqua insieme alla colorazione del fondale permettono a chi visita la “piscina” dall’interno di rivivere quel tipico clima di sospensione che si prova quando ci si trova sott’acqua, mentre chi sta fuori può stupirsi di fronte all’assurdità della presenza di visitatori che tranquillamente si muovono sott’acqua. L’azione artistica vede l’osservatore in stretta relazione con l’opera, la quale ha come obiettivo primario quello di dissimulare la realtà e di stupire il visitatore.

Scheda 19

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SEEING YOUR SPIRIT

Leandro Erlich Centro Arte Contemporanea, Saint Nazaire, Francia, 2005

L’installazione, che ha girato numerosi musei in tutto il mondo, consiste nella ricreazione di una stanza (in particolare uno studio da psicologo) che, grazie ad un gioco di riflessioni, permette al visitatore di osservare la propria immagine come fosse uno spirito. L’opera è composta da una sala divisa da una parete riflettente translucida, la quale permette di osservare la propria immagine riflessa ma, allo stesso tempo, anche di vedere cosa sta al di là dello specchio. Si crea dunque un’immagine riflessa che si proietta all’interno della stanza arredata che non è fruibile dal visitatore se non dal punto di vista visivo; questa immagine risulta sbiadita e trasparente, evocando nell’immaginario del visitatore uno spirito. L’intento dell’opera è quello di fa rivivere uno spazio da un punto di vista “altro”: lo spettatore non si trova dentro lo stanza che sta osservando, bensì vede se stesso all’interno di questo ambiente pur non trovandosi effettivamente dentro.

Scheda 20

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TIME, TIMELESS, NO TIME

Walter de Maria, Tadao Ando Chichu Art Museum, Naoshima, Jappone, 2004

“Time, timeless, no time” è una delle opere permanenti realizzata dall’artisya Walter De Maria in collaborazione con Tadao Ando. La sala si dispone in questo modo per accogliere ed esaltare al massimo il messaggio dell’artista, creando uno spazio specificatamente progettato nella quale l’opera prende vita. Una grande scalinata, che porta verso un muro, è divisa in due da un pianerottolo dove è posata una sfera di marmo nero; la luce zenitale della sala, tagliata da un controsoffitto, crea giochi luminosi sempre diversi in base al percorso solare, formando al contempo focus luminosi ed esaltando le edicole appese ai muri che segnano la scansione del tempo. Il visitatore è portato a compiere un percorso ascensionale verso la sfera, a girargli attorno e poi a ritornare sui suoi passi per uscire dalla sala, compiendo in quest modo cambi di prospettive e punti di vista che diventano fondamentali per l’installazione.

Scheda 21

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TANATOSI

Marzia Migliora GAM di Torino, Italia, 2006

Seicento placche di porcellana bianca occupano in maniera simmetrica una parete bianca. Sono placche ovali, abitualmente impiegate come supporto per la riproduzione fotografica di ritratti tombali. Sessanta di esse recano in rilievo delle iscrizioni trasparenti in alfabeto sia Braille, sia latino, che nominano altrettante fobie legate ai cinque sensi (vista, udito, tatto, olfatto, gusto): cromatofobia, termofobia, acusticofobia, fagofobia. L’allestimento si sviluppa con un rimando continuo a frasi e parole che vengono esposte in molteplici modi e, oltre ai linguaggi nascosti del Braile, sono presenti numerose altre parole leggibili nella sala scritte su pannelli che simulano quelli usati per le visite optometriche. L’opera richiede la prossimità fisica dell’osservatore per essere pienamente percepita. Il titolo “Tanatosi” (termine che indica il processo di simulazione della morte attuato da alcuni animali come reazione alla paura), rimarca il concetto di immobilità che è essenziale in questa installazione per poterne fruire in maniera corretta.

Scheda 22

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ALTERED EARTH

Doug Aitken Grande Halle di Arles, Francia, 2007

L’installazione si compone in modo tale da conferire una sensazione di inserimento del visitatore nell’opera video, che è stata creata appositamente per la mostra. Il film espone delle viste di paesaggi desolati presi da diverse parti del mondo, dove la natura diviene protagonista; due sagome, una femminile ed una maschile, percorrono questi spazi, senza però mostrare mai i loro volti. La disposizione dei pannelli è tale da inglobare chi vi si trova davanti, creando uno spazio di proiezione molto esteso capace di conferire maggiori suggestioni rispetto a un normale schermo. I visitatori entrando nell’open space, restano colpiti di fronte alle proiezioni di dimensioni enormi, che lo fanno diventare protagonista inglobandolo e coinvolgendolo; la visita segue la disposizione fluida degli schermi che si intersecano creando spazi inclusivi dove lo spettatore può percepire l’opera da diversi punti di vista.

Scheda 23

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MATTERBALL

NAU Architecture & Design Stoccarda, Germania, 2007

Al centro di uno spazio dalla distribuzione assiale, viene posizionata questa installazione dalla forma sferica. Progettata attraverso delle sofisticate tecniche di modellazione digitale derivate dall’industria cinematografica, viene realizzata una robusta, ma leggera, architettura sferica. Fuoriescono da questo particolare oggetto quattordici coni che creano punti di vista privilegiati per chi si avvicina all’opera: da questi si possono osservare, attraverso degli schermi, alcune scene di backstage cinematografici; le differenti altezze in cui vengono posti questi coni invogliano lo spettatore ad una relazione dinamica con l’opera. Girando attorno all’oggetto si arriva alla conclusione della visita laddove si trova un punto di accesso alla sfera; qui, uno spazio completamente curvo, accoglie il visitatore con una seduta posta di fronte ad uno schermo, dalla quale può osservare l’ultimo video clip della mostra.

Scheda 24

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HEAD IN

MAGMA Architecture Berlinische Galerie, Berlino, Germania, 2007

L’allestimento si inserisce all’interno di uno spazio espositivo di circa 150 m2 presso il museo statale di arte moderna di Berlino. Lo studio ha eseguito un progetto cucito ad hoc per l’ambiente in cui si insersce, che ricopre quasi interamente lo spazio creando una forma sospesa, sinuosa e fluida. L’opera consiste nella creazione di una scultura informe composta da un tessuto sintetico di colore arancione. All’interno di questa forma sono presenti le illuminazioni e vari oggetti messi in esposizione, che diventano fruibili solo quando il visitatore si inserisce all’interno della scultura attraverso degli appositi fori disposti su di essa. La forma definitiva di questa scultura in tessuto non è il frutto di un disegno o di studi progettuali precisi, bensì è il risultato empirico della messa in opera dell’installazione; la struttura crea un legame molto stretto con i diversi punti della sala, dai muri fino al soffitto, espandendosi verso ogni punto nello spazio. Lo spettatore si inserisce in maniera concreta all’interno dell’allestito, creando un duplice rapporto con l’opera, prima di tutto osservandola da fuori, e in seguito entrandovi dentro.

Scheda 25

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APPEEL

The Greeneyl Londra, 2007

Uno sgargiante muro rosso formato dall’accostamento di una miriade di puntini. Ogni piccolo pezzo che viene tolto scopre uno strato più chiaro che si espande piano piano, come fosse un virus, grazie all’azione delle mani dei visitatori che partecipano attivamente al processo artistico. L’installazione, chiamata “Appeal” è formata da una griglia fittissima di piccoli adesivi; disposti uno accanto all’altro come pixels, sono attaccati su un fondale bianco, che viene scoperto solo quando gli adesivi vengono spostati. Ogni persona che visita l’opera lascia il segno del suo passaggio componendo immagini e frasi sopra il muro rosso. I singoli pezzi che compongono questa grande parete, racchiudono nella loro composizione i paradigmi che solitamente associamo al mondo digitale. L’opera diventa qui una sperimentazione pratica dell’infinita varietà di messaggi che l’uomo può immaginare.

Scheda 26

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LOTUS: ZONE OF ZERO

Kimsooja Revenstein Galerie, Bruxelles, Belgio, 2008

L’opera consiste in un grande oggetto di forma circolare composto da un telaio metallico che sostiene numerose lanterne di colore fucsia, le quali assumono la forma del fiore di loto; l’opera è appesa come fosse un lampadario ed è grande abbastanza da coprire quasi totalmente lo spazio ospitante, anch’esso di forma circolare. Il simbolo del loto riconduce alla religione buddista e alla meditazione, che diventa la chiave di lettura per questo oggetto che è accompagnato nell’esposizione da un sottofondo sonoro composto da canti di monaci Tibetani, uniti ai canti Gregoriani e ai canti della religione islamica. L’aspetto interessante di questa composizione, studiata appositamente per questo luogo, è che possa essere vista da due punti di vista. Per la natura stessa della galleri infatti l’opera si può osservare dal basso, poichè sospesa a mezz’aria, ma anche dall’alto, ponendosi sul piano più alto dell’edificio che si trova sopra l’oggetto. L’esperienza si sviluppa a 360 gradi, pur non essendo inglobati dall’opera; il tutto viene reso ancora più suggestivo dai canti continui che vengono riprodotti in sottofondo.

Scheda 27

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(IM)MATERIAL PROCESSES EXHIBITION DESIGN Elevation Workshop 798 Space, Pechino, Cina, 2008

Collocata all’interno della fabbrica di stile Bauhaus chiamata 798 SPACE, l’esposizione si compone seguendo la tematica del “fluttuare”. Il concetto viene ricreato attraverso la progettazione di bassi tavolini dalla forma esagonale con basamento trasparente che sembrano sospesi in aria grazie al particolare siatema di illuminazione posto al loro interno; questo è formato da un cono translucido nel quale è inserita una fonte luminosa che, oltre a conferire luce al piano di appoggio dove sono stampati i progetti in mostra, rende evanescenti gli appoggi dei tavoli, dando l’illusione che siano sostenuti da un semplice raggio di luce. La mostra si sviluppa seguendo due percorsi paralleli delimitati da “isole” (espositori disposti a gruppi di diversi elementi), che delimitano gli spostamenti all’interno dello spazio; un’altra caratteristica è che i bassi tavolini adottati per l’esposizione pongono il visitatore ad osservare dall’alto gli elementi della mostra. Gli oggetti esposti in questo allestimento sono foto e tavole progettuali, frutto dell’opera di diversi istituti di design e architettura provenienti da diverse facoltà; la visione delle immagini viene resa possibile grazie alla retro illuminazione dei tavoli su cui sono posizionate, conferendo così un ruolo fondamentale alla luce che viene oltretutto valorizzata dallo spazio espositivo in penombra.

Scheda 28

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PADIGLIONE MIGUEL RIO BRANCO

Arquitetos Associados & Miguel Rio Branco Inhotim, Brasile, 2008

Il padiglione creato appositamente per ospitare le opere del fotografo e artista Miguel Rio Branco, si trova nel parco naturalistico di Inhotim, un luogo che ospita numerosissime installazioni e padiglioni dedicati all’arte contemporanea. L’edificio, che si articola su tre livelli, è studiato per alternare delle sale espositive che nel percorso ascensionale del visitatore si vanno modificando, astraendo sempre di più lo spazio. L’ambiente è fortemente suggestivo e, sebbene non abbia particolari caratteristiche a livello spaziale, colpisce per la relazione che l’uomo assume rispetto l’opera creata dall’uso della luce. Partendo da sale più tradizionali, dove si trovano fotografie stampate appese a parete, si arriva a sale sempre più buie dove l’immagine diventa padrona dello spazio e, poichè proiettata, crea i punti focali dell’allestimento grazie proprio al contrasto luciombre. Lo spettatore può assumere diverse posizioni nello spazio in relazione all’opera proiettata, fruendola da diversi punti di vista.

Scheda 29

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VIEWING MACHINE

Olafur Eliasson Inhotim, Brasile, 2008

L’installazione artistica si presenta come oggetto che scardina la concezione di spazio. L’opera, che si dispone in uno spazio aperto, si presenta come un grande cannocchiale dove inserire la propria testa e dal quale osservare il paesaggio; all’interno, un gioco di specchi simile a quello di un caleidoscopio, riflette l’immagine del panorama iquadrato. Il visitatore si accosta all’oggetto in maniera libera e, una volta che ne fruisce, assume un punto di vista privilegiato che lo mette in una relazione nuova con l’ambiente circostante; il panorama che viene inquadrato viene specchiato all’infinito creando delle dilatazioni dello spazio molto particolari, usando l’espediente dell’illusione ottica come messaggio comunicativo. Quest’opera d’arte ci estende in un campo di definizione spaziale dettato semplicemente dall’oggetto che, attraverso il suo punto di vista fisso, reinterpreta l’ambiente circostante e i suoi limiti.

Scheda 30

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HASSELT B

Krijn de Koning Z33, Hasselt, Belgio, 2009

All’interno del museo Z33 della cittadina belga di Hasselt, l’artista ha inserito una grande installazione che consiste in una stuttura continua di colore cyan che si muove all’interno degli spazi dell’edificio. Questo intervento entra in stretta relazione con l’architettura che lo contiene, e dall’esterno del museo entra fino a percorrerne tutti gli ambienti. Questa “scultura” viene ad assumere il ruolo di “piattaforma” verso lo spazio che circonda il visitatore, offrendo di tanto in tanto spazi di sosta laddove si presta come seduta. La scelta del colore cyan è stata fatta per far risaltare il colore arancio dei mattoni, lavorando con le tonalità complementari; in questo modo si crea una forte nota attrattiva dall’esterno, che cambia la sua natura quando viene messa a confronto con i toni neutro dell’interno del museo.

Scheda 31

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YOU FADE IN LIGHT

Random Architects Carpenter Galleries, Londra, Berlino, Parigi, 2009

L’opera di allestimento consiste nella composizione di un particolare installazione parietale che si presenta come un grande quadro formato da un reticolo di piccoli specchi quadrati. La tecnologia usata è quella degli OLED, dei diodi ad emissione di luce organica, che formano un particolare gioco di riflessioni e illuminazioni; i movimenti compiuti dal fruitore vengono riflessi sull’opera dissolvendosi progressivamente fino a diventare luce. L’approccio che il visitatore ha con l’opera diviene essenziale per definire questa installazione; l’intento dei progettisti è quello di relazionare uomo e opera a livello cinetico, dando importanza alle azioni compiute dal visitatore, che diventano messaggio artistico grazie alla particolare tecnologia che invoglia ad interagire.

Scheda 32

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WHISPERING TABLES

The Greeneyl Museo ebraico di Berlino, Germania, 2009

L’installazione consiste nella composizione di un tavolo cui sopra si poggiano dei piatti di diversa forma. Il messaggio che si vuole esprimere è quello inerente all’atto di aggregazione che ruota intorno ai riti del mangiare, riferito alle differenti tradizioni presenti nel mondo. I singoli oggetti poggiati sul tavolo sono costruiti in ceramica bianca; la particolarità risiede al loro interno, dove è stato inserito un dispositivo sonoro che permette di trasmettere suoni: racconti delle tradizioni culinarie. In questo modo si crea un tipo di relazione particolare che dona l’opportunità al visitatore di conoscere e imparare le tradizioni, i riti e le credenze legate alla storia del cibo. Il visitatore entra in contatto diretto con l’opera, arrivando addirittura a prenderla in mano e a spostarla, compiendo attraverso l’zione dell’ascoltare, una ricomposizione spontanea dei singoli elementi mostrati. Il messaggio complessivo si compone attraverso l’ascolto di ogni singolo pezzo, portando l’osservatore a compiere un movimento intorno, e, oltretutto, ad uno srtretto avvicinamento con esso.

Scheda 33

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TWO CARPS

Kengo Kuma & associates Palazzo della Ragione di Padova, Italia, 2009

In occasione della retrospettiva monografica dello studio di Kengo Kuma, si allestisce all’interno dello storico Palazzo della Ragione di Padova una mostra che espone i lavori dell’architetto. L’ambientazione, di elevato spessore architettonico, dona lo spunto per un allestimento che vuole rispettare ed esaltare il suo contenitore. L’intento dei progettisti è quello di trasformare la grande fabbrica completamente vuota in una metafora del giardino giapponese, inserendo delle esili ed evanescenti strutture che nella forma rievocano due carpe koi fluttuanti nello spazio. Proprio come in un giardino viene indicato un percorso prestabilito, una passerella che lega differenti punti nello spazio il cui pavimento presenta le immagini dei differenti progetti esposti; spostandosi attraverso i differenti padiglioni e raggiungendo punti significativi dell’edificio palladiano, l’alletimento si inserisce in maniera chiara e minimalista all’inteno della fabbrica.

Scheda 34

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KOGEI TRIENNALE PRE-EVENT

Nendo 21th Century Art Museum, Kanazawa, Giappone, 2009

Questa mostra consiste nell’esposizione di 62 oggetti artistici e di dedign, frutto dell’artigianato locale, creati con materiali di differente natura. L’allestimento prevede di inserire nella stanza completamente bianca 62 espositori, distribuiti seguendo una maglia regolare nello spazio; qusti sono delle semplici teche in alluminio caratterizzate alla base da un neon che ne illumina l’ingombro su pavimento. Con l’utilizzo di queste piccole masse disposte nell’ambiente in maniera regolare, il progettista ha voluto conferire una senazione di ordine, dando oltretutto al visitatore una prospettiva schiacciata, definita dallo sviluppo orizzontale dello spazio nella quale i singoli oggetti possono spiccare. L’idea di fondo del progettista resta quella di creare un’allestimento per nulla invasivo dello spazio costruito, che metta in risalto semplicemente le opere esposte; le esili teche in alluminio e vetro, dal budget irrisorio, sono un chiaro esempio della volontà di flessibilità nella composizione dell’allestimento.

Scheda 35

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SONIC PAVILLION

Doug Aitken Inhotim, Brasile, 2009

ll padiglione si pone sulla cima di una collina presso il parco di Inhotim in Brasile. L’edificio creato appositamente per essere sede dell’esperienza artistica ideata dall’artista, si presenta con una pianta circolare; ad esso si accede attraverso una rampa che dall’esterno si eleva portando lentamente lo spettatore al suo interno, seguendone il perimetro. La sala è completamente vetrata, facendo diventare il panorama il punto di vista primario della visita; l’unica particolarità è un foro di circa venti centimetri di diametro posizionato al centro della stanza, il quale è l’inizio di un lungo tunnel che scende per più di duecento metri all’interno della terra. L’eperienza artistica si basa sull’ascolto del rumore in continua variazione che la terra emette; questo, attraverso un microfono che dal sottosuolo arriva sino all’edificio, viene amplificato per essere reso maggiormente percepibile dalle orecchie dei visitatori. In questa installazione lo spettatore non ha limiti spaziali, che anzi tendono ad essere minimizzati il più possibile grazie all’utilizzo della pianta libera e delle pareti vetrate; il suono, che diviene qui il soggetto principale dell’opera, ha come unico legame materiale e tangibile quel piccolo foro posto al centro della stanza che assume dunque un ruolo centrale nella visita.

Scheda 36

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SWARM LIGHT

Random Architects Carpenter Galleries, Londra, Berlino, Parigi, 2010

L’allestimento chiamato “Swarm” ripropone i più comuni comportamenti di un gruppo di volatili ritrovati in natura e li traduce sottoforma di giochi luminosi. L’opera si presenta come un gruppo di tre lampadari posti uno accanto all’altro, dal quale scendono numerosi filameti composti da led luminosi, i quali sono governati da sensori. La chiave di lettura di questo allestimento risiede nei rumori emessi dai visitatori che servono da input per far accendere le luci. Chi entra in contatto con l’opera viene messo in relazione con essa e con il resto della sala; lo spazio, mantenuto in penombra, viene animato dalla presenza dei visitatori che stimolano la reazione di queste installazioni luminose.

Scheda 37

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KOGEI TRIENNALE

Nendo Libreria di Kanazawa, Giappone, 2010

Cinque capanni per la coltivazione in serra si dispongono all’interno di una ampia sala delle libreria di Kanazawa, utilizzata come sede inaugurale della triennale di Kogei del 2010. La necessità all’inteno di questo spazio era quella di non modificare assolutamente il costruito e creare dunque una mostra totalmente disallestibile. La soluzione dei capanni in materiale plastico crea delle zone espositive isolate, che comunicano in maniera ambigua con lo spazio contenitore; da una parte si creano ambienti isolati e settorializzati che poco comunicano con l’intorno, dall’altra il gioco di luci e la semitrasparenza delle pareti dei capanni rende visibili, anche so non distinguibili, gli oggetti esposti ponendoli in comunicazione visiva con l’esterno. I percorsi vengono tracciati prepotentemente nello spazio, mettendoli in risalto attraverso l’uso di colore nero, che spicca moltissimo all’interno di un ambiente total white. Lungo il tragitto, che guida il visitatore nella mostra, si dispongono espositori costruiti in PVC bianco che permettono la fruizione delle opere.

Scheda 38

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GRIGIO NON LINEARE

Eva Marisaldi EX 3 di Firenze, Italia, 2010

Il lavoro dell’artista si muove all’interno di un’ampio salone come un gesto minimale. In questa esposizione intitolata “grigio nonlineare”, si articolano semplici scritte a pavimento legate come un grande schema suddiviso in step sulla quale leggere delle frasi, invitando i fruitori dello spazio in un percorso libero ma direzionato. Si tratta un intervento a terra, concepito come una sorta di diagramma, un tracciato percorribile che si sviluppa sull’intera superficie del pavimento attraverso 64 frasi e 16 disegni. A partire dalla prima frase tracciata a terra, “te ne parlerò a lungo”, il visitatore viene invitato a e un percorso composito, dove le parole scritte, di provenienza eterogenea, offrono indicazioni aperte a interpretazioni personali. Oltre a queste scritte da un’angolo della sala un’altoparlante propone delle “ghost words” che vengono lanciate casualmente da un software, le quali fungono da sottofondo sonoro che induce il visitatore a riflettere sulla sua esperienza e ad estrapolare queste parole apparentemente casuali per ricomporle seguendo un suo proprio significato. In quest’opera lo spazio apparentemente libero viene delimitato dai segni a pavimento e dai suoni provenienti da uno specifico punto della sala.

Scheda 39

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EDA

Emanuelle Moureaux Tokyo, Giappone, 2010

Il modulo che compone questa particolare opera deriva dalla rielaborazione delle forme della natura; “Eda” che in giapponese significa ramo, rievoca appunto il tema dell’albero unito a quello dei fiori e delle foglie che viene espresso attraverso i molteplici colori. L’installazione consiste nell’assemblare 2000 di queste esili strutture componibili in carbonio, per ricreare delle forme dalle linee complesse capaci di modulare lo spazio in maniera nuova. La grande complessità dell’insieme è creata dall’unione di elementi lineari semplici e, proprio come in natura, lo schema di base viene ripetuto innumerevoli volte per creare un’organismo ben più complesso ed interessante. In questa esperienza lo spettatore vive lo spazio in maniera diversa grazie alla sottile trama di linee colorate create da questo oggetto; l’ambiente viene percepito nella sua interezza ma si fissano nuove percorrenze.

Scheda 40

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HYLOZOIC

Philip Beesley Architect Biennale di Venezia, Italia, 2010

Appositamente disegnato per inserirsi nel padiglione del Canada presso la Biennnale di Architettura di Venezia del 2010, l’allestimento vuole interpretare un nuovo dialogo tra natura e tecnologia. Il progetto consiste nella creazione di una sorta di foresta artificiale composta da numerosi filamenti in lattice e altre piccole parti in plastica e materiali acrilici, sulla quale si aggrappano alcune provette piene di liquidi di diverso colore. Questo grande oggetto diventa però interattivo, ed è questo il lato più interessante, poichè la presenza dei visitatori instaura una relazione con l’opera che comincia a muoversi, guidata da un software appositamente progettato per l’occasione. L’opera, appesa al soffitto, scende luminosa e leggera sulla testa di chi entra nello spazio allestito, risaltando col suo colore bianco translucido sulla penombra della sala. Il visitatore si avvicina, tocca e vede muovere l’oggetto che reagisce e interagisce, creando stupore e suggestionando a vari livelli le riflessioni di chi lo osserva.

Scheda 41

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RAPPORT

Jungen Mayer H. Berlinische Galerie, Berlino, Germania, 2011

Il pattern, già utilizzato in diverse occasioni dallo studio dell’archtetto Jungen Mayer, diventa il soggetto della mostra e viene utilizzato in questa esposizione per decorare tutte le superfici della hall di ingresso del museo. L’ingrandimento è tale da poter essere fisicamente attraversato, creando un rapporto (che come dice il titolo dell’esposizione diventa il fulcro del messaggio artistico) tra lo spazio alterato dall’artista e il fruitore. L’istallazione avvolge completamente lo spazio espositivo della sala, ricoprendo pavimento e pareti attraverso il pattern, che ingigantito e ripetuto, si estende in tutte le direzioni. La rigida architettura della sala si trasforma cosi in un giocoso e divertente scenario di forme e strutture interpenetranti. Lo spettatore che lo attraversa ha la sensazione stessa di venirne attraversato, realtà e virtualità si fondono; non si può far altro che giocare lasciandoci disorientare e dominare da un senso ambiguo di inclusione ed esclusione. Questa installazione, più che un’opera, diventa una dimensione in grado di risvegliare la nostra percezione e farci riflettere sulla complessità dei meccanismi della comunicazione.

Scheda 42

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BUBLE WRAP

Kengo Kuma & associates Dojima River Biennale, Fukushima, Giappone, 2011

L’opera si compone come una sorta di Igloo che ospita al suo interno un’istallazione luminosa, volta ad offrire allo spettatore un’esperienza mistica. La struttura è composta attraverso l’utilizzo di schiuma di poliuretano espanso, spruzzata su una rete di materiale plastico e lasciata indurire; il materiale, che indurendosi espande di 100 volte il suo volume, rende la struttura quasi completamente composta di aria. L’igloo, rievocando nella forma una dimora primitiva, si contrappone a questo archetipo architettonico per l’uso di un materiale così particolare. L’installazione, completamente bianca, riesce ad enfatizzare il clima interno, creato dalla luce zenitale, grazie proprio al suo aspetto neutrale; le qualità di isolamento acustico del poliuretano poi, fanno sì che all’interno non si senta alcun rumore, aumentando il senso di sospensione presente all’interno dell’opera.

Scheda 43

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VIDES POUR UN PATIO

Krijn de Koning Musée des Beaux-arts, Nantes, Francia, 2011

All’interno dello spazio museale di Nantes, un’ampio open space a doppia altezza, viene composta una nuova architettura composta di volumi semplici e chiari. L’installazione è formata da muri divisori provvisori che formano una nuova architettura composta da numerosi patio, dove la monumentalità viene contrapposta alla neutrale sobrietà del total white e delle forme regolari delle murature e degli archi a tutto sesto. L’interno del museo viene fortemente modificato nella sua normale composizione, dando agli spettatori l’occasione di confrontarsi con nuovi spazi, che ad ogni angolo danno un nuovo punto di vista sull’ambiente circostante. L’obiettivo è quello di creare nello spettatore un nuovo punto di vista sulla realtà, impressionandolo attraverso queste forme pure, e dando lo spunto per una visione d’insieme che continua ad evolversi insieme al percorso all’interno dell’arcitettura.

Scheda 44

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RADA

Marzia Migliora EX 3 di Firenze, Italia, 2011

La ricomposizione del salone principale dello spazio espositivo EX3 di Firenze, vede l’artista impegnata con un pensiero preciso che ricodifica con quest’opera. Rada è un’installazione costituita da un pontile in legno di colore blu oltremare che attraversa - in larghezza e in lunghezza - tutto lo spazio espositivo, e da una distesa di scarti di lavorazione di marmo di Carrara che ricopre interamente il pavimento. L’opera riproduce la grafica della bandiera X-Ray, che nel Codice Internazionale dei segnali marittimi significa “Sospendete quello che state facendo”. Mentre per i marinai questo simbolo costituisce un segnale preciso, interpretabile con azioni determinate, l’artista astrae e destruttura la forma della bandiera, proponendola qui come luogo praticabile e invito aperto al pubblico. L’esperienza consiste nel percorso spontaneo di questo pontile, che pone dei limiti alla percorrenza, giungendo a punti focali dove luci al neon attraggono il visitatore.

Scheda 45

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TOKI

Emanuelle Moureaux Tokyo Designtide, Tokyo, Giappone, 2012

“Toki”, che i giapponese significa “tempo”, si presenta come una grande tela bianca su cavalletto sopra alla quale sono posati numerosi listelli colorati, i quali subiscono un movimento circolare continuo imitando quello delle lancette di un orologio. Questa parete bianca, caratterizzata da listelli disposti in modo da formare un gradiente di colori, subisce una continua evoluzione proprio grazie alle piccole lancette colorate che si muovono; questo è possibile grazie ad un processo di magnetismo accuratamente calcolato per permettere il corretto movimento dei listelli metallici. L’opera rievoca l’idea di progresso grazie alle lancette in continuo movimento (rappresentazione del tempo che scorre), tutte distinte da una diversa colorazione riferita alle differenti zone del nostro mondo. Il visitatore entra in relazione diretta con l’opera e arriva addirittura a modificare e spostare le piccole lancette, attuando un processo di interazione che dona un significato sempre diverso all’opera.

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BATIMENT

Leandro Erlich Parigi, Francia, 2012

“Batiment” è un’istallazione artistica di grande scala esposta a Parigi e in numerose altre città francesi. L’opera consiste in un modello della facciata di un edificio posizionata in orizzontale sul pavimento, di fronte al quale si trova un’altra facciata alta 12 metri composta di specchi e inclinata rispetto ad essa. L’installazione, come altre dell’artista, permette allo spettatore di mettersi in relazione diretta con l’opera. In questo caso il gioco di riflessioni creato dagli specchi, permette al fruitore di vedersi all’interno l’opera; osservando l’illusione ottica che è alla base di questa esperienza artistica, il visitatore può guardare negli specchi le più improbabili posizioni assumibili “stando appesi” ad facciata di quattro piani, distorcendo, anche se solo attraverso un’illusione ottica, la legga di gravità. L’intento dell’artista è quello di deviare la comprensione della realtà dei visitatori che è rimasta assopita nel loro inconscio, utilizzando un elemento banale della vita di tutti i giorni.

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MURDER OF CROWS

Cardiff & Miller Park Avenue Armory, New York, Stati Uniti, 2012

L’opera consiste nella diffusione di suoni di vita comune (canto di uccelli, vetri che si rompono, rumori di una fattoria, ecc.) attraverso novantotto altoparlanti, disposti nello spazio sopra a delle sedie; i suoni passano continuamente da un altoparlante all’altro formando composizioni sempre diverse più o meno complesse, creando nello spettatore, che siede al centro della composizione, continue vaiazioni sonore che lo mettono a confronto con lo spazio circostante “riempito” dal suono. Al centro, davanti gli spettatori, si trova un tavolo dove si posa u’altro altoparlante, questo però posizionato come se fosse caduto; l’immagine richiama quella dei corvi che gracchiano per giorni intorno al corpo di un compagno morto. L’esperienza artistica si appropria dello spazio attraverso l’uso del suono, che risulta essere un mezzo molto potente. Il minimalismo della composizione è contrapposto all’ampia gamma sonora messa in gioco nei confronti degli spettatori che devono rimanere immobili.

Scheda 48

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CONCLUSIONI Le tre figure portanti dell’analisi, il fruitore, l’opera e lo spazio, vengono coniugate dall’azione dell’allestire, una pratica che risolve i problemi di relazione tra i tre soggetti del mostrare e che definisce il luogo in cui tali interazioni avvengono. Lo spazio architettonico è di per sé un evento complesso e completo, ma quando un oggetto artistico vi irrompe, così pieno di significato e così forte nella sua singolare potenza espressiva, finisce con alterarne i caratteri e creare discontinuità nel campo dei sensi e dell’emotività. Non è infatti pensabile che un opera si inserisca casualmente in un ambiente senza che uno dei due, o entrambi, perdano la loro natura e il loro significato individuale e, interagendo, si modifichino l’un l’altro. L’importanza del progetto di allestimento, dunque, si pone tra la volontà di lascar esprimere e comunicare l’arte e quella di non annullare lo spazio costruito. L’opera deve dunque lasciarsi “mostrare”, perché è nella sua natura; allo stesso modo la natura dell’allestire è quella di “mostrare”. Il legame tra i due soggetti è forte, ma, in questo legame, protagonista indiscusso è l’uomo, che attribuisce un significato al legame stesso. Il fruitore si pone nel mezzo, tra la pratica dell’allestire e l’opera d’arte, essendo egli il destinatario principale di entrambe. L’unione dei tre soggetti del mostrare trova un giusto equilibrio negli esempi in cui la sinergia è totale, e valorizza sia il contenuto sia il contenitore spaziale. Negli esempi raccolti, compaiono soluzioni di allestimento a volte esili e poco impattanti, altre più dense e pregne di significato, altre ancora brutalmente imponenti, che snaturano lo spazio. In relazione ai messaggi che l’opera vuole trasmettere, al tipo di utenza alla quale si rivolge e all’involucro spaziale più o meno delimitato nel quale è contenuto, un buon progetto di allestimento espositivo terrà sempre conto dei parametri interattivi tra i tre soggetti. C’è da aggiungere che, poiché l’arte è portatrice di una interpretazione/ comunicazione della realtà (l’animo umano, la società, le culture) – materia complessa e poco circoscrivibile – e poiché, a maggior ragione, l’arte contemporanea è a tutti gli effetti portatrice di maggiori ambiguità interpretative (per la sua natura libera, a volte autarchica) le modalità di interazione con l’uomo e con lo spazio diventano ancora più complesse: l’una vive nell’altro, in una relazione a tre che da vita a interessanti, articolate e mutevoli soluzioni. 173


Inoltre, l’arte contemporanea, non si risolve esclusivamente nei più tradizionali canali espressivi e sfrutta tutte le possibili potenzialità offerte dai mezzi comunicativi. Non solo, la trasformazione, la co-partecipazione e la fruizione diretta dei tre soggetti “costruisce” essa stessa opere d’arte contemporanea. Un esempio tra molti: il “site specific”, ovvero la progettazione di opere o installazioni realizzata ad hoc per un determinato spazio, comporta una totale responsabilità dell’artista-architetto-designer-sociologo, che, in uno stesso atto creativo, associa l’opera a un luogo, modifica il comportamento del fruitore (che si siede, si sdraia, si “veste”, etc., partecipa cioè in modo diretto all’evento artistico), altera e costruisce la spazialità architettonica. Nonostante questo però, l’allestire nel campo dell’arte contemporanea, non si esaurisce in queste esperienza. Infatti, i numerosi casi studio raccolti evidenziano una prassi, ancora in uso, di affidare a soggetti diversi il progetto architettonico e il progetto allestitivo (movimento che “espone” l’opera d’arte contemporanea, non che la costruisce). A conclusione di questo percorso e a conferma delle ipotesi iniziali di individuazione delle relazioni reciproche tra i soggetti coinvolti nella percezione dell’opera d’arte contemporanea, è importante rilevare la forte sinergia tra questi, tanto più significativa e degna di attenzione, quanto più profonde sono le interazioni tra i soggetti.

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BIBLIOGRAFIA RAGIONATA

Antonello Marotta, “Atlante dei Musei Contemporanei”, Skira, Milano 2010

Questo volume analizza circa novanta progetti museali, principalmente opere costruite, realizzati nell’ultima decade, attraverso la lente di indagine di sette categorie critiche: Essenziale, Monolite, Archeologico, Innesto, Teatro, Contesto. È un’indagine sui musei contemporanei, che oggi mettono in relazione lo spazio dell’arte, quello della cultura e quello della società. Quattro saggi critici innervano questa analisi e chiariscono la scelta delle opere e soprattutto il grado di mutazione della struttura-museo, in uno spazio sempre più complesso e articolato, che incorpora i diversi paesaggi, sia quelli naturali sia quelli esistenziali.

Luca Basso Peressut, “I luoghi del Museo: tipo e forma tra tradizione e innovazione”, Editori Riuniti, Roma 1985

Il museo contemporaneo nelle sue molteplici espressioni, architetture, spazi, allestimenti in una serie di contributi a carattere storico e teorico; con una selezione di esempi sedimentati e di esperienze in corso, passati al vaglio dal crescente dibattito sul rapporto tra forme scientifiche della conoscenza e progetto.

Orietta Lanzarini, “Carlo Scarpa: l’architetto e le arti”, Regione del Veneto, Marsilio, Venezia 2003

Carlo Scarpa collabora con La Biennale di Venezia per più di trent’anni. Seguendo il filo di questa esperienza, si svela la fitta trama di relazioni che lega uno dei protagonisti dell’architettura del Novecento al milieu culturale veneziano, animato da artisti, studiosi, collezionisti come Carlo Carrà, Bruno Zevi, Peggy Guggenheim. Il contatto giornaliero con queste personalità stimola Scarpa a compiere una estesa riflessione sulle arti figurative e proprio il rapporto con le arti trova una chiave di lettura nella ricostruzione del suo lavoro alla Biennale. Ugualmente importante si rivela il ruolo dell’istituzione nel propiziare l’incontro con Hoffmann, Neutra, Aalto, Kahn, la ricerca dei quali lascia un segno nei suoi percorsi progettuali.

Guido Beltramini, “Carlo Scarpa. Mostre e Musei 1944/1976. Case e Paesaggi 1972/1978”, Electa, Milano 2000

Il libro tratta una biografia delle opere progettate da Carlo Scarpa in due momenti diversi della sua carriera, dividendo in due le destinazioni d’uso dei progetti elencati: nella prima fascia temporale vengono descritti progetti inerenti installazioni museali e allestimenti di mostre, nella seconda invece ci si concentra sulle opere residenziali e paesaggistiche affrontate dal maestro.

Barbara Bogoni, “Internità della soglia: il passaggio come gesto e come luogo”, Aracne, Roma 2006

Si propone in questo testo un modello di lettura dello spazio e dei suoi significati nel fragile punto di scambio fra l’esterno e l’interno attraverso l’analisi di esempi di architetture famose.

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Sergio Polano, “Mostrare: l’allestimento in Italia dagli anni Venti agli anni Ottanta”, Edizioni Lybra Immagine, Milano 1988

Il testo indaga l’evoluzione avvenuta nel corso del secolo riguardo l’allestimento museale, aprendo lo sguardo verso le esperienze sparse in tutto il mondo. Al suo interno sono presenti numerosi saggi di esperti nel settore che trattano argomentazioni riguardanti il ruolo assunto dall’allestimento, le modalità dell’allestire e le relazioni instaurate all’interno di una mostra tra l’ambiente e l’opera d’arte. Si sviluppano numerosi esempi di allestimenti suddivisi in schede esemplificative con immagini dei progetti citati.

Irma Arestizábal, Antonio Piva, “Musei in trasformazione. Prospettive della museologia e della museografia : un’idea per il Museo d’arte moderna di Rio de Janeiro”, Mazzotta, Milano 1991

Il libro tratta dei metodi con la quale si sviluppa un allestimento e del ruolo che instaurano i curatori delle mostre oltre che i progettisti. Si cerca di spiegare le differenti metodologie di approccio per la soluzione dei problemi inerenti la composizione di un museo, trattando anche esempi famosi. A conclusione delle diverse analisi si entra nel merito dell’esempio museale del MAM di Rio de Janeiro, creando una soluzione progettuale ipotetica per un futuro allestimento.

Michael Brawne, “Spazi interni del museo: allestimenti e tecniche espositive”, Edizioni di Comunità, Milano 1983

Il libro tratta dell’evoluzione della scena museale nel mondo a partire dalle esperienze emblematiche dei progetti italiani del secondo dopoguerra e di come questi hanno influenzato gli interventi di altri architetti. Lo sviluppo dei modi alternativi di presentare l’arte e la necessità di esporre anche altri tipi di oggetti ha cambiato le tecniche di allestimento e il ruolo che esso assume nel prgetto. Vengono chiariti i significati di un preciso intervento nella misura in cui questo è creato sulla base del messaggio che il progettista vuole comunicare.

Rudolf Arnheim, “Arte e Percezione Visiva”, Feltrinelli, Milano 2005

“Vedere” è un atto creativo; e il giudizio visivo non è contributo dell’intelletto successivo alla percezione ma ingrediente essenziale dell’atto stesso del vedere. Quanti, tuttavia, sanno prendere coscienza del giudizio visivo, e tradurlo e formularlo? Sapere quali sono i principi psicologici che lo motivano e quali sono le componenti del processo visivo che partecipa alla creazione come alla contemplazione dell’opera, significa sapere “che cosa”, in realtà, vediamo. Rudolf Arnheim fonda la sua trattazione sui più recenti principi della psicologia della Gestalt. Egli tende a opporsi al formalismo, riportando la forma al significato e al contenuto, e suggerisce come se ne possano cogliere i più significativi moduli strutturali, approfondendo i problemi che si sono sempre proposti e analizzando le molteplici soluzioni dell’arte più remota a quella dei nostri giorni.

Chiara Savino, “Gallerie d’Arte”, Motta Architettura, Milano 2009

Sempre più le gallerie assomigliano ai musei, dal punto di vista delle funzioni allargate e nell’espressione tipologica, in cui si distinguono i loft, gli ambienti riconvertiti, le sculture architettoniche e lo spazio casa, più intimo e tradizionale. Dalla boutique alla catena in franchising, le gallerie d’arte aprono succursali in tutto il mondo, divenendo, prima che luogo di esposizione, espressione di una tendenza.

Pietro Carlo Pellegrini, “Allestimenti Museali”, Motta, Milano 2003

Una selezione tra le migliori realizzazioni dell’allestimento italiano all’interno di musei, mostre e spazi espositivi per poter interpretare i risultati della ricerca italiana sull’arte

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del mostrare. Il libro, attraverso una selezione dei lavori più significativi degli ultimi dieci anni, vuole far conoscere la disciplina, figlia di Albini, BBPR, Scarpa e altri, presentando un insieme di spazi e realizzazioni di allestimenti dove la ricerca interessa i diversi ambiti dell’exhibition design.

Mercedes Garberi, Antonio Piva, “L’opera d’arte e lo spazio architettonico”, Mazzotta, Milano 1988

Questo volume, curato da Mercedes Garberi e Antonio Piva, raccoglie le esperienze didattiche del corso di Museografia e Museologia tenuto al Politecnico di Milano nel 1986-87. I saggi sviluppan un dibattito sulla museologia e sulla museografia secondo tematiche che, sfrontate in modo articolato da numerosi esperti del settore, offrono un mondo complesso di relazioni. Emerge dai contributi di ciascun autore come non vi sia un’unica risposta ai problemi, ma piuttosto soluzioni articolate in modo sempre diverso e sostenute da un metodo di lavoro che aiuterà nella scelta delle strade alternative possibili.

Robert Klanten, Lukas Feireiss, “Staging Spaces: Scenic Interiors and Spatial Experiences”, Gestaiten, Berlino 2010

Una configurazione di immagini che rappresentano una serie di progetti che si uniscono perfettamente con lo spazio sino a creare un’unica entità narrativa. Staging Space ci suggerisce nuove soluzioni per esposizioni e altri eventi di architettura, scenografia, illustrazioni mediatiche ed interni. Il libro presenta inoltre una serie di progetti ibridi il cui scopo è quello di usare lo spazio per trasmettere grandiosi effetti scenici predefiniti. Questa acuta ricerca riferita alla reinterpretazione scenografica dello spazio fisico diviene un mezzo per dare nuovi spunti a tutti quei professionisti come designers, scenografi, decoratori di interni ma anche a coloro che agiscono nel campo commerciale e pubblicitario.

Alessandro Rocca, “Atlante della Triennale”, Edizioni Charta, Milano 1999

Brevi descrizioni accompagnano una serie di immagini rappresentative dei progetti di allestimento più emblematici presentati alla triennale di Milano dall’inizio del novecento sino ai giorni nostri.

Rowan Moore and Raymond Ryan, “Building Tate Modern: Herzog & De Meuron Trasforming Giles Gilbert Scott”, Tate, London 2000

La riconversione dell’ex centrale elettrica londinese a galleria d’arte, ad opera degli architetti svizzeri Herzog e de Meuron, è caratterizzata da un’estrema semplicità; prima di tutto enfatizzando la fisicità dell’edificio preesistente trasformando però completamente lo scheletro dagli inaccessibili interni in un luogo totalmente fruibile e guidato dalla luce naturale che lega le sale espositive. La formidabile affinità fra l’arte contemporanea e l’ex architettura industriale ha ispirato un design unico che ha mantenuto la scala monumentale della “Turbine Hall” e ha inoltre creato nuovi spazi sapientemente progettati per ospitare differenti tipi di arte. Questa pubblicazione segue la storia del Bankside project e presenta splendide fotografie di ogni fase della sua trasformazione. Si include un’intervista fatta a Jacques Herzog e Nicolas Serota (direttore del Tate), proponendo una descrizione dettagliata del progetto di riconversione e anche una spiegazione del nuovo ruolo assunto dal Tate Modern come polo artistico di importanza internazionale.

Gianni Calzà, “Mies Van der Rohe: La Galleria Nazionale di Berlino”, Alina, Firenze 1988

La Galleria nazionale di berlino, ultimo fra i capolavori di Mies van der Roh esprime l’estrema sintesi del rapporto fra tecnologia e linguaggio architettonico e concretizza il concetto miesano di spazio universale. Il libro descrive e racconta il progetto e la sua evoluzione in

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un contesto temporale e geografico particolare.

V. M. Lampugnani, B. Bergdoll, R. H. Bletter, “Mies Van der Rohe: Mies in Berlin”, NY: Museum of Modern Art, New York 2001

Il volume guarda all’opera di Mies sin dai suoi albori, facendo un excursus dei suoi lavori contestualizzati rispetto al background socio-culturale che li ha caratterizzati.

Bruno Zevi, “Frank Lloyd Wright”, Zanichelli, Bologna 1979

“Genio eretico, tra i massimi protagonisti della vicenda architettonica di tutti i tempi, Wright ha anticipato e poi oltrepassato i maestri europei del movimento moderno: una lunga e affascinante avventura umana, che si lega strettamente ad una produzione inesauribile che ha costellato l’America di centinaia di capolavori. E chi meglio di Bruno Zevi può guidare a riscoprire e rileggere Wright? Questo libro è una guida per le nuove generazioni, ma anche, finalmente, il compendio che è sempre mancato nella mai completa pubblicistica sul genio di Taliesin.”

Bruce Brooks Pfeiffer, “Frank Lloyd Wright: i Capolavori”, Rizzoli, Milano 2006

Il volume presenta i capolavori di Frank Lloyd Wright, dalle prime costruzioni degli anni intorno al 1890 fino agli anni Cinquanta del nostro secolo. Le immagini sono state eseguite appositamente per quest’opera da due famosi fotografi di architettura, Paul Rochelau e Michael Freeman, sotto la direzione di David Larkin che ha curato anche il progetto grafico del volume. Ogni edificio presente nell’opera, viene esaminato nel suo completo sviluppo progettuale: dai primi schizzi e dalle piante fino al progetto definitivo e alla realizzazione. Il tutto è accompagnato da ampi estratti della corrispondenza fra architetto e committente e da citazioni dagli scritti di Wright, che dimostrano quale fossero i principi ispiratori di ogni progetto.

Barbara Bogoni e Marco Lucchini, “Architettura Contesto Cultura: intersezioni d’arte nel progetto”, Alinea editrice, Firenze 2011

Il testo raccoglie alcuni contributi di studiosi e ricercatori sul tema della complessità del progetto architettonico, che, nel suo definirsi, si “interseca” e “collabora” con linguaggi, strutture e tecniche di altre discipline e, nel suo divenire, si “contamina” e, in questo contaminarsi, si arricchisce di nuove forme e nuovi significati. Composizione per contaminazione, per sinergia e interazione artistica, e il saggio che ispira questa pubblicazione. Lasciato nelle mani dei suoi curatori dal professor Alberto Ferrari esso rappresenta un contributo alla loro formazione e un tributo alla sua cristallina visione dell’architettura intesa come complessità: tutte le sinergie possibili (sapienti e colte) tra i molti campi dell’operare artistico, dalla letteratura alla musica, dalla danza al teatro, alla fotografia, possono introdurre nella progettazione architettonica fruttuose contaminazioni in grado di arricchire il contenuto semantico del progetto.

Francesco Poli, “Arte Contemporanea. Le ricerche internazionali dalla fine degli anni ’50 ad oggi”, Electa, Milano 2005 Attraverso la coniugazione di diversi saggi, scritti da diversi esperti in materia di arte contemporanea, Francesco Poli cerca di far capire le dinamiche, l’evoluzione e le forme più attuali sotto le quali questa forma artistica si esprime.

Anna Chiara Cimoli, “Musei Effimeri. Allestimenti di mostre in Italia 1949/1963”, Il Saggiatore, Milano 2007

Il dopoguerra italiano ha visto nascere una nuova forma d’arte: l’allestimento. Nuovi codici di comunicazione sono stati introdotti da progettisti di grande bravura che hanno creato

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allestimenti di eccellenza, ancora oggi riconosciuti e apprezzati in tutto il mondo. Il testo prova a capire quali sono stati i motivi di tale eccellenza attraverso l’analisi di alcuni significativi esempi e il racconto del background culturale nel quale si svilupparono.

Renato De Fusco, “Storia dell’arte contemporanea”, Editori Laterza, Milano 1993

La storia dell’arte a partire dalle prime avanguardie, quelle di inizio novecento, viene raccontata e analizzata attraverso lo studio delle diverse correnti artistiche, suddivise però non attraverso un ordine cronologico, ma attraverso delle linee di tendenza che le accomunano: arte espressiva, formativa, onirica, sociale, utile, della riduzione. Viene spiegata qui l’arte che attraversa il secolo fino alle correnti nate negli anni ottanta.

Ludovico Pratesi, “I Musei d’Arte Contemporanea in Italia”, Skira, Milano 2006

Il libro, dopo un’introduzione sullo sviluppo del museo dalla sua nascita fino ai giorni nostri, espone una serie di musei italiani che ospitano l’arte contemporanea, mostrandone la descrizione ma anche indirizzo e contatti, formando così una vera e propria guida al museo contemporaneo.

Marco Borsotti e Glenda Sartori, “Il progetto di allestimento e la sua officina. Luogo, memoria ed evento: mostre alle Fruttiere di Palazzo Te, Mantova”, Skira, Milano 2009

Il progetto di allestimento contemporaneo rappresenta un luogo privilegiato di confluenza di molteplici saperi che concorrono a definire differenti modalità d’espressione della cultura. Questa convergenza multidisciplinare rende l’atto del mostrare un evento intensamente attuale ed estremamente complesso nella sua concettualizzazione e realizzazione. Il suo compiersi presso un unico, affascinante luogo espositivo, pressoché invariato nel tempo, rappresenta la caratteristica fondamentale di questa pubblicazione che indaga i principali eventi espositivi svoltisi presso l’antica officina botanica delle Fruttiere, annessa alla residenza realizzata da Giulio Romano per Federico II Gonzaga, duca di Mantova e che dal 1990 ha ospitato oltre trenta mostre tra arte antica, moderna ed architettura, organizzate dal Centro Internazionale d’Arte e Cultura di Palazzo Te.

Martin Heidegger, “L’arte e lo spazio”, il Melangolo, Genova 2000

Questo breve scritto di Heidegger si presta a fare delle osservazioni a riguardo dello spazio, sull’arte e sul gioco di relazioni che li coinvolge entrambi, che diventano problemi da risolvere secondo l’autore.

M. Teresa Balboni Brizza, “Immaginare il Museo: riflessioni sulla didattica e sul pubblico”, Jaca Book, Milano 2006

Questo volume nasce da oltre trent’anni di esperienza nel campo della conservazione e della didattica in un importante museo milanese. Si rivolge agli esperti del settore, ma anche ai tanti giovani che vorrebbero diventare operatori didattici; agli insegnanti che sempre più utilizzano il museo come libro di testo, ma anche a coloro che, con motivazioni diverse, ne varcano la soglia come visitatori. Immaginare il museo significa pensarlo innanzitutto nel suo rapporto con il pubblico e dunque confrontarsi con le nuove tecnologie, gli apparati didattici, la comunicazione, i problemi espositivi. Ma immaginare il museo significa, altrettanto, considerare questo particolarissimo contenitore dal punto di vista dell’immaginario collettivo. Occorrerà dunque riflettere sui luoghi comuni che ancora si accompagnano alla parola museo, sulle attese, la soddisfazione e le delusioni dei visitatori, condizionati tanto dai nuovi modelli imposti dal consumo culturale e dal turismo di massa, quanto dalla tipologia psicologica individuale.

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Maria Mercede Ligozzi e Stefano Mastrandrea, “Esperienza e conoscenza del museo. Indagine sui visitatori della Galleria Nazionale d’arte moderna e contemporanea”, Electa, Milano 2008

Nel 2006 la Soprintendenza alla Galleria nazionale d’arte moderna e contemporanea di Roma ha avviato un’indagine conoscitiva sui visitatori del museo. La ricerca è stata svolta da agosto 2006 a settembre 2007 e comprende anche i risultati di uno studio specifico sul pubblico della mostra “Il Simbolismo. Da Moreau a Gauguin a Klimt”. L’indagine è stata condotta con la metodologia della ricerca sociale e psicologica utilizzando sia tecniche quantitative, con la somministrazione di 2603 questionari a visitatori italiani e stranieri, sia tecniche qualitative (focus group, interviste e indagine osservante). Dall’esperienza della visita museale, quale relazione tra l’”arte e il mondo vissuto”, analizzata secondo le categorie dell’antropologia, della psicologia e della comunicazione museale, emerge l’universo simbolico del pubblico dell’arte che si rileva anche nell’espressione “imparare ammirando”, quale apprendimento di tipo informale nel processo di costruzione dell’esperienza estetica.

Brian O’Dhoerty, “Iside the white cube: the ideology of the gallery space”, University of California Press, San Francisco 1999. Il libro compie una brillante analisi del contesto sociologico, economico ed estetico all’interno del quale noi fruiamo dell’arte. L’autore critica le relazioni instaurate nel contesto museale odierno, soffermandosi sugli spazi museali e le gallerie che hanno fatto della neutralità il loro punto cardine. Il saggio introduce numerose analisi e considerazioni che sono state un punto fondamentale della ricerca contemporanea per quanto riguarda la definizione delle esposizioni artistiche.

W. Benjamin, “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Arte e società di massa”, trad. it. di Enrico Filippini, Einaudi, Torino 1966, 1991 e 1998

In questo saggio, Walter Benjamin sostiene che l’introduzione, all’inizio del XX secolo, di nuove tecniche per produrre, riprodurre e diffondere, a livello di massa, opere d’arte ha radicalmente cambiato l’atteggiamento verso l’arte sia degli artisti sia del pubblico. Secondo Benjamin, tecniche quali il cinema, il fonografo o la fotografia invalidano la concezione tradizionale di “autenticità” dell’opera d’arte. Infatti, tali nuove tecniche permettono un tipo di fruizione nella quale perde di senso il distinguere tra fruizione dell’originale e fruizione di una copia. In forza di ciò, si realizza il fenomeno che Benjamin chiama la “perdita dell’aura” dell’opera d’arte. L’aura (concetto che Benjamin elabora partendo da un’intuizione di Baudelaire) era una sorta di sensazione, di carattere mistico o religioso in senso lato, suscitata nello spettatore dalla presenza materiale dell’esemplare originale di un’opera d’arte.

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