L'anacoluto non è una parolaccia

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Indice

Presidente On. Ombretta Colli Assessore alla cultura e beni culturali Paola Iannace Direttore Centrale Turismo e Cultura Pia Benci Direttore Settore Cultura Massimo Cecconi

Introduzione

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La lingua la sa lunga

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Conviene darsi una regolata

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Fidarsi è bene, controllare è meglio

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Si scrive perché o perchè? Boh!

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La Maria è promossa, il Paolo invece no

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I Santi si distinguono anche dall’apostrofo

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Assassinii e assassini. A volte il plurale è micidiale

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I pronomi: un argomento scottante

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M o N? Scopriamo la differenza

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Ufficio Stampa Pinuccia Merisio, Marco Piccardi, Veronica Sebastianelli

L’anacoluto non è una parolaccia

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La congiuntivite e altre patologie verbali

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Concept, progetto grafico e illustrazioni DBM Comunicazione

Le maiuscole. Attenzione alle stonature!

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I punti cardinali della punteggiatura

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Revisione editoriale DBM Comunicazione

Parole ed espressioni da rottamare

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La d eufonica: una consonante dalla vita sregolata

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In copertina Elaborazione grafica Linda Berardi

Come prendere le preposizioni per il verso giusto

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Salviamo il mondo dal cerchiobottismo

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L’Italiano è wonderful

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Dulcis in fundo

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Appendice

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Servizio Biblioteche Cristina Borgonovo, Osvaldo Carpinelli, Patrizia Salerni, Dario Salvetti, Alessandra Scarazzato

Copyright © 2004 Provincia di Milano Finito di stampare da Arti Grafiche Stefano Pinelli Srl, Milano, nel mese di aprile 2004

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Introduzione

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Questa breve pubblicazione nasce con lo scopo di offrire un aiuto semplice e pratico a quanti, giovani e adulti, sono interessati ad approfondire le loro conoscenze sul corretto uso della nostra lingua e delle regole che la governano, o sentono il bisogno di risolvere perplessità e dubbi linguistici, consapevoli dell’importanza rappresentata dalla forma in cui ci si esprime o si scrive. Chi ascolta un’esposizione verbale o legge uno scritto è infatti spinto, di primo acchito, a giudicare l’educazione e il grado di cultura del proprio interlocutore o dello scrivente attraverso la valutazione di ciò che sente o legge. Questo piccolo manuale non ha la pretesa di essere un testo di grammatica completo e organico: come potrebbe esserlo del resto con le sue ridottissime dimensioni? È invece solo un semplice vademecum, di agevole consultazione, un insieme di consigli riguardanti alcuni punti chiave su cui si regge la struttura della nostra lingua, che, secondo i più autorevoli linguisti, ha purtroppo subìto negli ultimi tempi un lento degrado che si riflette anche in una banalizzazione del linguaggio. La cultura è anche e soprattutto rispetto dei fondamenti e della ricchezza della lingua, intesa come insieme delle leggi che la governano, nate non per caso ma per necessità funzionali, eredità di una tradizione colta, diventata popolare quando è stata recepita come patrimonio comune. Al fine di contribuire al recupero di un valore giustamente considerato irrinunciabile, nel dicembre 2002 è stato presentato a Roma, dal Presidente della Commissione Affari Costituzionali, un Disegno di Legge riguardante l’istituzione di un Consiglio Superiore della Lingua Italiana, massima espressione dell’identità nazionale e ricchezza che non può essere trascurata. L’iniziativa si affianca a quella delle maggiori Istituzioni Culturali che nel nostro Paese sono impegnate nella difesa della nostra lingua: in particolare l’Accademia della Crusca e la Società Dante Alighieri. Il primo obiettivo del nuovo organismo è l’elaborazione di una grammatica ufficiale; nell’attesa, la Provincia di Milano ha inteso precorrere i tempi con questa piccola guida, che per sua natura ha necessariamente trascurato tanti argomenti, ma che può comunque rappresentare un simpatico manuale di pronto soccorso, per sgombrare il campo da tante incertezze e soddisfare dubbi e curiosità, per alcuni, fin qui irrisolte. Paola Iannace Assessore alla cultura e beni culturali Provincia di Milano 8

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La lingua la sa lunga Tutto muta e si evolve intorno a noi, con una rapidità a volte sconcertante: il paesaggio urbano, gli stili di vita, gli atteggiamenti, gli interessi, le propensioni, le mode, le tecnologie sempre più sofisticate. Anche la lingua, sia pure più lentamente, cambia, non essendo materia statica ma un elemento in continuo divenire: per l’introduzione di nuovi vocaboli, per la costruzione dei periodi che oggi si fanno più concisi e riflettono, adeguandosi, i ritmi della vita moderna. La forma è più incalzante, più diretta, volta al nucleo della comunicazione. È questo soprattutto il linguaggio delle nuove generazioni, che intendono così trasferire nella lingua il loro dinamismo, la passione per la velocità, il bisogno di immediatezza. Ci possiamo rendere conto della trasformazione consultando testi di autori noti risalenti a poche decine di anni fa: non corrispondono più alle attuali abitudini espressive. Leggendo invece una pagina de I promessi sposi si scopre sùbito la modernità e la limpidezza della prosa del Manzoni, che lo fanno apparire contemporaneo. Questo accade ai “grandi”, che hanno saputo adottare un linguaggio in grado di sfidare i secoli. Nonostante la lingua si adegui alla trasformazione dei tempi, comunque, non dovrebbe perdere i puntelli rappresentati dalle regole di base, che sono come le chiavi di volta o i muri maestri senza i quali un edificio non si regge in piedi. Quando non sono rispettate le regole, comunque necessarie in ogni forma di vita sia fisica che sociale, da un cedimento all’altro si assiste all’impoverimento progressivo della lingua, all’arbitrio di ciascuno di procedere al suo smantellamento, per evitare lo sforzo di apprenderne i dettami, e l’impegno nel rispettarli. Ma sono davvero così difficili le norme sulle quali questo manualetto intende richiamare l’attenzione? L’Assessore Paola Iannace pensa di no. Per dimostrare la propria convinzione ha dato inizio alla sfida, nella certezza che sia indispensabile continuare a mantenere vitale un emblema della nostra “italianità”: la lingua dei padri; la sua conoscenza corretta è una ricchezza che permette a ciascuno di esprimersi in modo chiaro e completo, e anche questo è un segno di civiltà e di democrazia. 10

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Conviene darsi una regolata

LE RAGIONI DELLE REGOLE Molti si saranno domandati fin dai tempi della scuola quali siano i motivi per i quali è indispensabile rispettare le regole della lingua. Tenteremo allora di offrire qui una risposta, ricordando che perfino nell’universo tutto si muove seguendo un ordine preciso, e che l’uomo preistorico ha iniziato a evolversi solo quando ha sentito la necessità di organizzarsi secondo leggi e ordinamenti. La lingua non è una scienza esatta, d’accordo, ma deve pur sempre essere sorretta da norme, le regole appunto, e da princìpi che ne sorreggano l’impalcatura. Da questo si deduce che le regole non sono nate per capriccio di qualche mente sadica, come possono pensare gli studenti, allo scopo di complicare la loro vita; no: hanno tutte una funzione logica, di cui possiamo qui ricordare almeno tre punti basilari:

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Doverosa fedeltà alla costruzione originaria o al vocabolo da cui il termine italiano deriva: dal Latino e dal Greco soprattutto, ma anche dall’Arabo o da altra lingua straniera, fatto molto comune in Italia, che fu per secoli teatro di scontri e occupazioni da parte di Francesi, Tedeschi, Spagnoli, e Arabi in Sicilia, i quali ci lasciarono in eredità tra l’altro una parte del loro lessico.

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Necessità di chiarire opportunamente un significato, un concetto, un pensiero, attraverso la scelta dell’una o dell’altra forma grammaticale, come appare, per esempio, nell’utilizzo dell’indicativo o del congiuntivo (vedi pag. 53).

pag. 53

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Esigenze eufoniche, (dal Greco eufonìa = bellezza di suono) per evitare una pronuncia sgradevole o difficoltosa.

Infine, un quarto pittogramma inviterà i lettori a fermare l’attenzione su argomenti di primaria importanza, quali regole, dubbi, scorrettezze ed errori da evitare assolutamente.

Nel corso della trattazione si farà spesso riferimento a queste tre ragioni fondamentali, cui se ne aggiungeranno di volta in volta altre, dettate soprattutto da un bisogno di precisione o di eleganza espressiva. Il proposito è comunque quello di spiegare sempre i vari perché: dopo averli compresi, diventerà più facile per ciascuno ricordare e mettere in pratica ogni regola. Per rendere immediata la comprensione delle regole citate si utilizzeranno, a supporto del testo, i seguenti simboli visivi, anche detti pittogrammi:

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regola

1

regola

2

regola

3

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Fidarsi è bene, controllare è meglio

GLI STRUMENTI INDISPENSABILI L’amore e il rispetto per l’Italiano si avvalgono di un supporto prezioso e di pronto utilizzo: un ottimo vocabolario in cui i lemmi (vocaboli), accentati per indicare la corretta pronuncia, vengono definiti con precisione, oppure un dizionario, solo apparente sinonimo del precedente, in quanto si tratta di un testo di uso più ampio, che può contenere anche derivazioni etimologiche, regole e irregolarità grammaticali, ausiliari dei verbi irregolari e altro ancora. In nessuna casa dovrebbe mancare almeno una copia dell’uno o dell’altro, ampia e aggiornata. Si raccomanda inoltre l’aggiunta di un dizionario dei sinonimi e dei contrari, indispensabile nella forma scritta per evitare ripetizione di termini, che conferiscono ai periodi un andamento sciatto. La straordinaria ricchezza della nostra lingua, che possiede decine di sinonimi per la maggioranza dei vocaboli, così da poter scegliere la sfumatura di significato più adatta caso per caso, permette di usufruire di una eccezionale varietà espressiva; eppure molti si accontentano di utilizzare un numero ristretto di parole, per pigrizia mentale o scarsità di fantasia o disinteresse, ed è un peccato: agendo così si rinuncia a un bene alla portata di tutti, prezioso poiché permette di trasmettere pensieri, emozioni, sentimenti con una gamma infinita di alternative. È come se avendo a disposizione un magnifico pianoforte a coda ci si limitasse a trarne alcune semplici canzoncine infantili. Un valido dizionario dei sinonimi e dei contrari può servire quando, rileggendo uno scritto, ci si rende conto di una o più ripetizioni di parole: se non vengono in mente alternative, lo si consulterà allora alla ricerca di possibili varianti. 17


Potremmo citare l’esempio del verbo “fare”, che di per sé significa soltanto operare, agire, eseguire, mentre viene solitamente adoperato in un grande numero di occasioni con uno squallido appiattimento del linguaggio. Poiché possiede una settantina di sinonimi, sarà opportuno scegliere quello più adatto caso per caso, così da rendere l’espressione più colorita e appropriata. ESEMPI DI SINONIMI APPROPRIATI

Non si speri per esempio che sia in grado di distinguere tra: da preposizione, che rifiuta l’accento, dà presente indicativo di 3a persona del verbo dare, che invece lo esige, da’ imperativo di 2a persona dello stesso verbo, che richiede l’apostrofo (vedi pag. 35).

pag. 35

In casi simili, per riconoscere il valore di ciascuno, occorre l’intervento dell’intelligenza personale di chi scrive, che dimostrerà una volta di più la propria superiorità su quella della macchina, la quale ha pur sempre dei limiti.

fare la prima elementare → frequentare fare il medico → esercitare, svolgere la professione di.. fare domande → rivolgere, porre, presentare, compilare fare un’alleanza → stringere, concludere fare un discorso → pronunciare, intavolare, improvvisare

FIDARSI TOTALMENTE DEL “CORRETTORE” DEL PC? Il personal computer si sta diffondendo rapidamente, e rappresenta un aiuto senza dubbio utile per coloro che amano scrivere o devono farlo per ragioni di lavoro. Molti apparecchi sono dotati di correttore automatico che avvisa degli errori grafici, ma anche di quelli ortografici e grammaticali. Tuttavia non si può pretendere che l’intelligenza artificiale del pc arrivi a scegliere opportunamente tra le varie grafie che alcuni vocaboli possiedono, dovute alle diverse funzioni da essi esercitate nel discorso. 18

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Si scrive perché o perchè? Boh!

VOCALI ACCENTATE La lingua italiana, a differenza della francese e della spagnola, fa un parco uso del simbolo grafico dell’accento, chiamato tonico quando serve per indicare la vocale su cui appoggia il tono di voce, fonico quando riguarda il suono aperto o chiuso della o e della e, le uniche vocali italiane che possiedono doppia pronuncia. Due sono i tipi di accento fonico: acuto, con vertice alto verso destra, per indicare suono chiuso (perché, quésto) oppure grave, con vertice alto verso sinistra, per indicare suono aperto (cièlo, tè, cioè, pòrto). In pratica la lingua italiana pone l’accento tonico soltanto sull’ultima vocale delle parole tronche (esempio pietà), sull’unica vocale di alcuni monosillabi (vedi paragrafo seguente) o all’interno di parole che mutano significato con lo spostamento dell’accento (vedi tabella seguente), benché ormai tale pratica sia poco usata, dal momento che il senso stesso della frase serve a stabilire l’accentazione corretta. Nessuno dirà infatti: “Vieni subìto!” come si ode nei vecchi film di Stanlio e Ollio, che anche su certe storpiature di vocaboli italiani puntavano la loro comicità.

pag. 23

Esempi di spostamento di accento su parole omonime (aventi la stessa grafia) che produce cambiamento di significato: àncora (strumento per imbarcazioni) ancòra (avverbio di tempo) càpitano (verbo “capitare”) capitàno (grado di comando) 21


Ci sarebbe poi l’accento circonflesso (con congiunzione al vertice degli accenti acuto e grave), tuttavia ormai pressoché scomparso: può ancora accadere di incontrarlo in poesia, per indicare una contrazione di lettere o per sostituire la doppia i nel plurale delle parole terminanti in io accentata.

sùbito (avverbio di tempo) subìto (verbo “subire”) prìncipi (plurale di “principe”) princìpi (plurale di “principio”) E inoltre: benché l’indicazione dell’accento fonico per segnalare la pronuncia aperta o chiusa della o e della e appaia esclusivamente su vocabolari e dizionari, si ricordi che la scelta dell’una o dell’altra pronuncia è importante per chiarire il significato di alcune parole omonime: accétta (strumento di taglio) accètta (verbo “accettare”) ésca (verbo “uscire”) èsca (cibo per attirare i pesci)

L’ACCENTO SUI MONOSILLABI Nei vocaboli con una sola vocale l’accento tonico non dovrebbe essere necessario, poiché è evidente che non può esistere dubbio di pronuncia: “per”, “il”, “no”, “re”, ecc. non potranno che essere pronunciati in un solo modo, quindi l’accento non serve. Tuttavia esiste un gruppetto di monosillabi che esigono ugualmente l’accento, per distinguerli dai loro omonimi, vocaboli aventi la stessa grafia, ma diverso significato. Esaminiamoli

bótte (recipiente di legno) bòtte (percosse)

MONOSILLABI ACCENTATI

Nelle parole tronche la vocale o possiede sempre accento grave, mentre la vocale e può avere accento acuto o grave; in caso di dubbio è opportuno affidarsi a un vocabolario, per prendere atto della grafìa e quindi della pronuncia più corretta.

→ verbo essere

→ congiunzione

sì → avverbio di affermazione

si

→ pronome o particella pronominale

dà → 3a persona presente

da → preposizione

indicativo verbo dare dì → giorno (poetico) lì

Riassumendo PAROLE TRONCHE CON LA VOCALE O: falò

comò

però

paltò

pedalò

PAROLE TRONCHE CON LA VOCALE E: noè

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cosicché

lacchè

viceré

bebè

MONOSILLABI SENZA ACCENTO e

è

→ avverbio di luogo

di → preposizione li

→ pronome

là → avverbio di luogo

la → articolo o pronome personale femminile

ché → congiunzione “perché” (poetico)

che → congiunzione o pronome relativo

tè → bevanda

te → pronome

sé → pronome

se → congiunzione

né → congiunzione negativa

ne → pronome o avverbio

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Nota Bene Quando il pronome sé è accompagnato da stesso o medesimo non dovrebbe essere accentato, essendo già sufficiente il termine che l’accompagna per chiarire la sua natura. Alcuni linguisti non sono d’accordo, e insistono sulla legittimità dell’accento, che tuttavia sarebbe meglio eliminare poiché superfluo, dal momento che la sua unica funzione è quella di distinguere il pronome sé dalla corrispondente congiunzione, distinzione già effettuata dagli aggettivi dimostrativi stesso o medesimo.

Già, ma perché? Infatti la regola non dovrebbe essere accettata come una verità rivelata, ma per un motivo logico: questi due monosillabi non hanno omonimi, a meno che non si voglia fare riferimento per uno di essi al suono emesso dall’oca. Come già è stato chiarito a proposito delle note musicali, anche le voci cosiddette onomatopeiche, che riproducono cioè suoni o rumori, non rientrano nel novero delle “parti del discorso” vere e proprie.

A questo proposito qualcuno potrebbe obiettare che i nomi delle note musicali sono tutti omonimi di altrettanti vocaboli, i quali dovrebbero quindi essere accentati per la regola sopra esposta; si noti tuttavia che le note musicali non sono classificabili come “parti del discorso”, quindi nel nostro caso non se ne deve tenere conto. Un accento irragionevole, che ancora si legge nelle date, usato soprattutto in corrispondenze commerciali, riguarda uno strano lì collocato tra l’indicazione del luogo e la data stessa. Esempio Palermo, lì 30 aprile 2004 È eredità di una forma arcaica priva ormai di giustificazione. Per concludere non possiamo dimenticare i due avverbi di luogo qui e qua sulla cui assenza di accento nessuno ha dubbi per merito di un certo ritornello, ben chiaro nella mente di tutti fin dalla prima elementare:

Su qui e qua l’accento non va

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La Maria è promossa, il Paolo invece no

L’ARTICOLO MASCHILE L’uso appropriato degli articoli determinativi maschili il, lo (sing.), i, gli (plur.), e degli articoli indeterminativi maschili un, uno, può a volte generare dubbi: per questo conviene esaminarne il corretto utilizzo. Lo, il suo plurale gli e i loro composti si usano con nomi maschili inizianti con vocale (in tale caso lo si elide, cioè si apostrofa, come vedremo tra poco (pag. 31), mentre gli si elide solo davanti a i). Si usano inoltre con i nomi inizianti con le consonanti x, z, s impura (seguita cioè da consonante):

pag. 31

lo xenofobo → gli xenofobi lo zio → gli zii lo sciatore → gli sciatori Lo stesso accade coi gruppi di consonanti pn, ps, gn, per ragioni eufoniche: lo pneumatico → gli pneumatici lo psicologo → gli psicologi lo gnomo → gli gnomi Il, il suo plurale i e i loro composti si usano con nomi maschili inizianti per consonante, con esclusione dei già citati pn, ps, gn, x, z, s impura. La ragione è semplice: per evitare l’accostamento della lettera l, terminale di il, con le consonanti e i gruppi di consonanti precedenti, che produrrebbe un suono estraneo alla dolcezza della lingua italiana. 27


Il psicologo, per esempio, o il gnomo hanno un suono veramente sgradevole. Nel rispetto della regola, suocero, iniziante per s pura, cioè seguita da vocale, esige l’articolo il e non l’articolo lo, come si sente e si vede scritto spesso. L’articolo indeterminativo uno si adopera unicamente davanti ai nomi maschili che iniziano con le consonanti o i gruppi di consonanti citati a proposito dell’articolo lo (pn, ps, gn, x, z ed s impura) mentre in tutti gli altri casi si usa l’articolo indeterminativo un (troncamento di uno). Avremo perciò un artista, un usciere, un cane, ecc., ma anche uno gnomo, uno sciocco, uno zotico, ecc., poiché la lettera n, terminale di un, accostata a pn, ps, gn, ecc., rappresenta una stonatura.

Esempio L’ALIGHIERI, ma non IL DANTE ALIGHIERI Nel linguaggio familiare, tuttavia, è concesso l’articolo con nomi e cognomi femminili. Esempio LA MARIA, LA BRAMBILLA, ecc. Benché si stia diffondendo l’uso dell’articolo anche coi nomi propri maschili, si ricordi che si tratta di forma scorretta. I nomi di parentela primitivi accompagnati dal possessivo rifiutano l’articolo (mia madre, tuo zio, nostro nonno), mentre se sono alterati (vezzeggiativi, diminutivi, ecc.), o ottenuti con l’aggiunta di prefissi (prozio, bisnonno, ecc.) o suffissi (sorellastra, ecc.), lo esigono. Esempio

L’ARTICOLO FEMMINILE

pag. 31

Mentre gli articoli determinativi femminili la, le non creano problemi, le perplessità nascono a volte con l’utilizzo dell’articolo indeterminativo femminile una, che dinanzi a parole inizianti con vocale perde la a finale sostituita dall’apostrofo, a causa della necessità dell’elisione (vedi pag. 31).

L’ARTICOLO CON NOMI PROPRI DI PERSONA E CON NOMI DI PARENTELA

LA NOSTRA CUGINETTA, LA TUA NONNINA, IL VOSTRO BISNONNO Attenzione! “mamma”, “papà” e “babbo” sono considerati vezzeggiativi, e come tali richiedono l’articolo in presenza del possessivo: LA MIA MAMMA, e non MIA MAMMA

Si eviti l’articolo dinanzi ai nomi propri di persona, a meno che non si tratti di personaggi celebri, nel quale caso lo si userà dinanzi al solo cognome.

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I Santi si distinguono anche dall’apostrofo

L’APOSTROFO, SEGNO DELL’ELISIONE È il segno che si colloca in alto a destra in fine di una parola, per indicare la caduta della vocale o della sillaba finale dinanzi ad altra parola iniziante per vocale; tale soppressione prende il nome di elisione (da elidere, cioè sopprimere). Lo scopo è quello di evitare per ragioni eufoniche (vedi pag. 14) l’incontro di due vocali che produrrebbe iato (dal Latino hiatus “apertura della bocca”), con leggera difficoltà di pronuncia. È evidente che riesce più agevole dire l’oceano, anziché lo oceano: per questo la o dell’articolo cade, si elide.

pag. 14

Si faccia attenzione ai seguenti casi L’elisione dell’articolo indeterminativo femminile una dinanzi ai nomi femminili inizianti per vocale, con necessaria introduzione dell’apostrofo, potrebbe spingere a volte a tralasciare quest’ultimo; infatti tale articolo, diventando un per la perdita della a finale, viene spesso erroneamente confuso col corrispondente maschile, che non richiede l’apostrofo. Esempio un’anatra, un’ostrica, un’unghia, un’estate Dimenticare l’apostrofo, in questi e in altri casi simili, costituisce grave errore. Gli articoli gli e le e i loro composti si possono elidere (ma è preferibile evitarlo), soltanto davanti a nomi plurali inizianti rispettivamente per i ed e, mentre non si possono elidere dinanzi alle altre vocali. 31


Esempio CORRETTO: ERRATO:

gl’Inglesi, l’estati gl’amici, l’ultime provviste

Si noti anche che quando le assume funzione di pronome, non si può mai elidere. Esempio CORRETTO: ERRATO:

Le esternai (a lei) la mia perplessità L’esternai la mia perplessità

Abbiamo visto che l’elisione avviene in fine di parola: la si può tuttavia trovare anche all’inizio, quando si citano anni passati, eliminando le prime due cifre. Esempio il ’45, il ’68, nel ’99, ecc. La soppressione è tuttavia concessa soltanto quando si fa riferimento al secolo precedente, perciò non è più consentito, negli anni 2000, scrivere il ’48 per indicare il 1848.

IL TRONCAMENTO: QUANDO L’APOSTROFO NON È AMMESSO Si dice troncamento la soppressione della vocale finale oppure dell’ultima sillaba di un vocabolo, purché non accentate, che avviene senza apostrofo, il cui inserimento rappresenterebbe un errore. Ecco i casi più comuni di parole soggette a troncamento: tal, qual, ben, buon, nessun, mar, signor, suor, amor, fior e gli aggettivi indefiniti maschili alcun, ciascun, nessun, qualcun. A questi si aggiungono gli infiniti di alcuni verbi 32

che possono perdere, in base al gusto di chi scrive, la vocale finale: venir meno, poter dire, ecc. Non esistono dubbi quando la parola seguente inizia per consonante; chi penserebbe infatti di scrivere per esempio buon’ cavallo o mar’ Mediterraneo, nonostante la caduta delle vocali finali? L’incertezza sorge (apostrofo sì, apostrofo no?, quindi elidere un termine o troncarlo, evitando l’apostrofo?) dinanzi a vocaboli inizianti per vocale. Il consiglio pratico è il seguente si provi a porre il termine su cui si è dubbiosi dinanzi ad altro dello stesso genere che inizi per consonante: se l’accostamento è compatibile si tratta di troncamento (quindi l’apostrofo sarebbe errato), altrimenti occorre elidere, inserendo l’apostrofo. Si noti che lo stesso termine può utilizzare il troncamento dinanzi ai nomi maschili, e l’elisione dinanzi ai femminili. Pare complicato, ma in pratica non lo è. Vediamo qualche esempio: tal uomo non richiede l’apostrofo perché posso scrivere tal dispiacere; qual esempio non richiede l’apostrofo, perché posso scrivere qual buon vento. Si faccia particolare attenzione all’indispensabile troncamento (quindi non elisione) di qual dinanzi al verbo essere, nelle forme inizianti con la vocale e. Esempio: qual è, qual era, ecc. Ben arrivato non richiede l’apostrofo, perché posso scrivere ben detto. Nessun esito non richiede l’apostrofo, perché posso scrivere nessun dolore. Invece, pover’uomo richiede l’apostrofo, perché non potrei scrivere pover ragazzo. 33


E passiamo ai femminili: nessun’amica richiede l’apostrofo, perché non potrei scrivere nessun compagna. Buon’idea richiede l’apostrofo, perché non potrei scrivere buon famiglia. Tal amica non richiede l’apostrofo, perché posso scrivere tal ragazza. Riassumendo APOSTROFO NO

APOSTROFO SÌ

tal uomo qual esempio qual è, qual era ben arrivato nessun esito tal amica

pover’uomo nessun’amica buon’idea

Un’osservazione particolare merita san, troncamento di santo, che si tronca dinanzi a nomi propri inizianti per consonante: san Gerolamo, san Pancrazio, san Luca, san Gennaro mentre riprende la sua struttura originaria dinanzi a quelli che cominciano per vocale, ovviamente con l’elisione della vocale finale: sant’Ambrogio, sant’Onofrio, sant’Antonio Per concludere l’argomento ricordiamo che davanti a s impura non c’è né elisione, né troncamento, come accade con santo Stefano.

TRONCAMENTI IRREGOLARI Nonostante il troncamento rifiuti l’apostrofo, alcuni vocaboli lo esigono, benché la caduta della vocale o della sillaba finale non sia stata provocata da ragioni eufoniche, come accade con l’elisione di cui abbiamo appena trattato. Attenzione: si tratta di eccezioni che richiedono l’apostrofo, ma non l’accento, che rappresenterebbe un errore. Un po’ → sta per un poco A mo’di → sta per a modo di Pie’ → sta per piede (a ogni pie’ sospinto, a pie’ di pagina) Fe’ → sta per fede (forma antiquata usata un tempo in poesia) Be’ → sta per bene! (avverbio di modo) Molti, spesso anche giornalisti o scrittori di un certo nome, scrivono questa esclamazione in forma discutibile: bè, beh. Il primo caso (bè) è elencato nei vocabolari come voce imitativa del belato, scritta anche con prolungamento della vocale, mentre beh, assimilato da alcuni grammatici ad altre esclamazioni accompagnate dall’h finale (ah!, oh!, ecc.), è accettato con la solita scusa che “si tratta ormai di uso comune”. Chi intende scrivere correttamente, sceglierà comunque la forma col troncamento irregolare: be’! Particolarmente incerta per i più, inoltre, la grafia di alcuni imperativi, che a volte sono erroneamente scritti con l’accento, mentre richiedono l’apostrofo.

Il femminile santa resta di solito invariato:

Eccoli

santa Matilde, santa Chiara, santa Lucia con poche eccezioni dinanzi ad alcuni nomi inizianti per vocale: sant’Anna, sant’Elena, sant’Orsola Ci si affiderà in questi casi alla tradizione. 34

Da’ → dai Fa’ → fai To’ → togli, tieni

Di’ → dici Sta’ → stai Va’ → vai

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Assassinii e assassini. A volte il plurale è micidiale

PLURALE DEI VOCABOLI TERMINANTI IN CIA, GIA, IO Ecco un altro argomento che crea spesso perplessità in chi è rispettoso della lingua italiana, mentre i più, ignorando beatamente il dubbio, seguono l’istinto, che non sempre è buon consigliere. Eppure la regoletta, che riguarda sia i nomi che gli aggettivi, è semplice e richiede solo un’attenzione minima. Eccola: Quando l’accento tonico cade sulla i finale dei vocaboli terminanti in cia o gia, la vocale resta anche nel plurale. Esempio farmacìa bugìa

→ →

farmacie bugie

Se la i finale è atona, cioè non accentata, si osservi allora se il gruppo cia o gia è preceduto da vocale. In tale caso si conserva la i al plurale; diversamente la si elimina. Esempio ciliegia frangia provincia camicia

→ → → →

ciliegie frange province camicie

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I vocaboli terminanti al singolare in io perdono la i al plurale se questa è atona (non accentata), mentre la mantengono quando è tonica (accentata), nel quale caso si avrà il plurale con la doppia i. Esempio fìglio scòppio zìo formicolìo

→ → → →

figli scòppi zii formicolii.

Un’incertezza potrebbe nascere quando un plurale correttamente scritto con una sola i è in grado di generare omonimia, cioè suono uguale ad altra parola affine, ma con diverso significato. Per esempio, condominio e condomino hanno il plurale graficamente identico. Come risolvere il problema? Semplicemente attraverso l’indicazione dell’accento tonico interno al vocabolo: condomìni nel primo caso, e condòmini nel secondo. Tuttavia non mancano occasioni in cui neppure tale soluzione è sufficiente: vedasi l’esempio di assassìnio e assassìno, omicìdio e omicìda, ugualmente accentati; se si seguisse la regola, i plurali di ogni gruppo si confonderebbero tra loro. E allora? Si userà al plurale la doppia i per il vocabolo che tra i due termina in io, benché non accentato, contraddicendo quanto affermato in precedenza: del resto non si dice comunemente che l’eccezione conferma la regola?

CONCORDANZE Come ci si comporta quando si devono concordare aggettivi riferiti a un insieme di nomi maschili e femminili? La regola è chiara: quando si tratta di persone, prevale il maschile (ebbene, sì!). Esempio Marco e Maria sono buoni Tuttavia a volte quel maschile stona; allora si può ricorrere a scappatoie del tipo: Marco è buono, e anche Maria. Se invece si fa riferimento a cose, la concordanza può avere luogo anche col termine più vicino. Esempio I libri e le riviste erano ammucchiate in terra (oppure ammucchiati)

Riassumendo assassìnio assassìno omicìdio omicìda

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→ → → →

assassìnii assassìni omicìdii omicìdi

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I pronomi: un argomento scottante

I PRONOMI PERSONALI Si nota a volte uno scambio scorretto tra maschile e femminile, tra singolare e plurale, tra soggetto e complemento. Osserviamo alcune possibilità di errore. Soprattutto nel linguaggio parlato c’è chi utilizza te in luogo di tu come soggetto. Esempio te sei sempre in ritardo tu sei sempre in ritardo

→ →

ERRATO CORRETTO

Lui e lei, complementi di egli ed ella, sono usati sempre più spesso anche con funzione di soggetto: “lui ha detto che..” è forma propria del linguaggio parlato. Molto più corretto “egli ha detto che..” Ormai tollerati, non rappresentano però esempi di bello stile. Accade anche di udire scambi di genere tra pronomi personali. Frequente gli per il femminile e le per il maschile. Dovrebbe essere inutile raccomandare di rifuggire da simili licenze. Esempio gli ho portato un dono (alla mamma) le ho portato un dono le ho dato un consiglio (a un amico) gli ho dato un consiglio

→ → → →

ERRATO CORRETTO ERRATO CORRETTO

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Loro, complemento di 3a persona plurale sia maschile che femminile, a volte è usato come soggetto, ma è forma meno corretta di “essi”, “esse” che hanno invece precisa funzione di soggetto.

preposizione a in presenza di un complemento di termine, restando fedeli all’origine latina del termine.

Lo stesso dicasi quando al posto del corretto plurale a loro si usa gli che è invece singolare.

Ho incontrato l’amico, cui avevo affidato i saluti per te.

Esempio

Lo stesso accade quando cui è accompagnato dalla preposizione di, che è preferibile tralasciare quando il pronome è collocato tra l’articolo e il nome.

gli ho dato (ai miei figli) ho dato (a) loro

→ →

ERRATO CORRETTO

Ugualmente errato l’utilizzo del pronome ci in luogo dei pronomi gli o le.

Esempio

Esempio Mario, la di cui moglie è un’ottima cuoca.. → PEGGIO Mario, la cui moglie è un’ottima cuoca.. → MEGLIO

Esempio l’ho incontrato, e ci ho detto l’ho incontrato, e gli ho detto l’ho incontrata, e le ho detto

→ → →

ERRATO CORRETTO CORRETTO

I PRONOMI RELATIVI I pronomi relativi che, il quale, i quali, la quale, le quali, cui e chi sono utili per rendere più agile il discorso, evitando la ripetizione del nome. Il pronome relativo che (da usare unicamente come soggetto o complemento oggetto) può essere sostituito con il corrispondente il quale (la quale, ecc.), più elegante e preciso, usato soprattutto nella forma scritta. Si noti il pronome relativo cui, che svolge sempre funzione di complemento, identificabile attraverso la preposizione che lo accompagna. In certi casi si può tralasciare la 42

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M o N? Scopriamo la differenza

LA VECCHIA STORIELLA DEL SERVITORE CON TRE GAMBE Molti ricorderanno la storiella del servitore con tre gambe di nome emme, che faceva da battistrada ai padroni p e b, dopo che questi avevano licenziato un domestico di nome enne, provvisto di due sole gambe, e perciò meno efficiente. La si poteva trovare nei sussidiari di una volta per la prima classe elementare, ed era efficace, perchÊ dopo averla conosciuta era difficile che gli alunni sbagliassero. Quindi si deve scrivere m anzichÊ n, (nel linguaggio parlato la differenza non si nota), quando la consonante precede p e b. Esempio CORRETTO

ERRATO

imbavagliare amputare imbottitura simpatia improbabile composto imbroglio

inbavagliare anputare inbottitura sinpatia inprobabile conposto inbroglio

La regola vale anche per i nomi propri maschili quali Giambattista, Giampiero, ecc., anche se qualcuno, per essere originale, sceglie uno scorretto Gianbattista o Gianpiero. 45


Se quella m non soddisfa, si possono scrivere i due nomi separati, nel quale caso la n va benissimo, mentre Gianluigi, Gianantonio, Giangiacomo ecc. non hanno problemi: la n è perfetta.

Si notino inoltre i verbi: piacere, nascere, tacere, giacere, che nella 1a e 3a persona singolare e nella 3a persona plurale del passato remoto introducono il gruppo cqu: piacqui, piacque, piacquero; nacqui, nacque, nacquero; tacqui, tacque, tacquero; giacqui, giacque, giacquero.

Riassumendo CORRETTO

ERRATO

IN ALTERNATIVA

Giambattista Giampiero

Gianbattista Gianpiero

Gian Battista Gian Piero

CQU, CCU, CU, QU, QQU: UNA SCELTA CHE RICHIEDE ATTENZIONE Per gli stranieri deve trattarsi di un vero rebus, che fa ritenere difficile e complicata la lingua italiana; anche per noi in questo caso la distinzione tra le varie grafie può rappresentare motivo di incertezza, che tuttavia apparirà facilmente risolvibile per chi ha studiato (e ancora ricorda) il Latino: infatti la scelta dell’uno o dell’altro gruppo si rifà generalmente ai vocaboli corrispondenti della nostra lingua madre. In caso contrario sarà il vocabolario a venire in aiuto, o il ricordo delle regole impartite dalle maestre delle elementari. Non ci soffermeremo sulla corretta grafia di “cuore”, “cuoio”, “cuoco”, “acqua” e “scuola” per non offendere i lettori, limitandoci a richiamare l’attenzione su alcuni vocaboli di uso più raro, su cui possono nascere dubbi. Forme corrette soqquadro, taccuino, innocuo (dal Latino innocuus), iniquo (dal Latino iniquus), proficuo, quota, quotidiano, scuotere, riscuotere, percuotere

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L’anacoluto non è una parolaccia

L’ANACOLUTO E IL PLEONASMO A volte si sentono citare questi termini, usati per indicare forme scorrette, proprie del linguaggio popolare. L’anacoluto, dal Greco “sconnesso”, “non corrispondente”, consiste nella mancanza di legame tra l’inizio di un periodo e la parte seguente, che introduce un soggetto diverso. Esempi ANACOLUTO:

Un soldato che fugge, tutti pensano che sia un vigliacco.

FORMA CORRETTA: Tutti pensano che un soldato che fugge sia un vigliacco. ANACOLUTO:

La casa che ho costruito con tanti sacrifici, i miei figli credono che valga poco.

FORMA CORRETTA: I miei figli credono che la casa che ho costruito con tanti sacrifici valga poco. ANACOLUTO:

Quelli che pregano, io spero che il Cielo ascolterà le loro parole.

FORMA CORRETTA: Io spero che il Cielo ascolterà le parole di quelli che pregano.

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Come si vede, le frasi iniziano con un soggetto che poi viene abbandonato per passare a una nuova costruzione, il che rappresenta una sgrammaticatura. Si cita spesso come esempio di anacoluto Io mi piace.., in cui il soggetto non è il pronome personale, ma ciò che rappresenta il motivo del gradimento; è questo un errore che, per la più diffusa alfabetizzazione attualmente in atto, sta finalmente scomparendo. Meno grave e addirittura perdonabile, ma solo nella forma orale, è il pleonasmo, altro termine di derivazione greca, che significa “superfluità”, “aggiunta inutile”. Sono pleonasmi molto comuni “ma però”, unione di due congiunzioni entrambe avversative, dove una sola sarebbe sufficiente, e quell’a me mi che qualche grammatico accetta come rafforzativo, anche se di questo passo, trovando giustificazioni a ogni possibile distacco dalle regole, si finisce con l’affidarsi all’arbitrio di chi parla o scrive.

Altri esempi Entra dentro il salotto, e apri le finestre

ANACOLUTI D’AUTORE Calandrino, se la prima gli era paruta amara, questa gli parve amarissima. G. Boccaccio Quelli che muoiono, bisogna pregare Iddio per loro. A. Manzoni Un religioso che, senza farvi torto, val più un pelo della sua barba che tutta la vostra. A. Manzoni Piero era il suo genere spaventare la gente. C. Pavese Era un giovane che, come suol dirsi, gli puzzavano i baffi. T. Landolfi

Esci fuori subito da lì Sali su con me per salutare mia madre Aveva due occhi bellissimi (verrebbe da chiedersi se il terzo, invece..)

È vero che pleonasmi e anacoluti si possono trovare in scritti di letterati e poeti di tutti i tempi, ma ricordiamo che essi, per la profonda esperienza, hanno sempre avuto la capacità di utilizzare perfino le imperfezioni linguistiche per creare dissonanze utili per gli effetti che hanno inteso ottenere; infatti sono come l’Agente 007: hanno la licenza. Meglio comunque non tentare in questo caso di imitarli. 50

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La congiuntivite e altre patologie verbali

UTILIZZO DEL CONGIUNTIVO Per la solita tendenza alla semplificazione, sinonimo in questo caso di impoverimento della lingua, l’Italiano sta perdendo gradualmente l’utilizzo del congiuntivo, forma di rara limpidezza espressiva derivata direttamente dal Latino, che attraverso essa manifestava possibilità in luogo di certezza. Indro Montanelli scrisse un giorno che il congiuntivo si sta avviando a diventare quello che le posate d’argento sono per certe famiglie: un segno di distinzione; continuare a utilizzarlo non dovrebbe rappresentare tuttavia uno snobismo, ma una scelta di coerenza, di chiarezza, perfino di fedeltà alle proprie radici e di contrasto all’appiattimento, che non è mai segno di qualità. Dal momento che esistono associazioni interessate alla difesa di ciò che deve essere protetto, varrebbe la pena di istituirne una per la salvaguardia del congiuntivo. Qualcosa del resto si sta già facendo in questo settore: gli insegnanti coi loro alunni di una scuola di Treviso si sono impegnati in una campagna simile a quella per impedire l’estinzione dei panda, avendo come slogan (antico grido di guerra dei clan scozzesi): Il congiuntivo non deve morire! Complimenti: faremo il possibile per combattere insieme con loro. Dopo questa notizia che rincuora, passiamo quindi all’esposizione della regola, che più di ogni altra è affidata al significato che chi parla o scrive intende dare al proprio pensiero. 53


Il congiuntivo è il modo verbale che esprime dubbio, eventualità, ma anche desiderio o timore che si verifichi un fatto: si utilizza in dipendenza di una proposizione principale, che determina la scelta successiva tra l’indicativo e il congiuntivo.

1a persona plurale dell’indicativo presente), e non “insegn-amo”. Allo stesso modo scriveremo: “noi spegn-iamo” e non “spegnamo”, “che noi sogn-iamo” (perché -iamo è la desinenza della 1a persona plurale del congiuntivo presente), “che voi sogn-iate” (essendo -iate la desinenza della 2a persona plurale del congiuntivo presente), e non: “che noi sogn-amo”, “che voi sogn-ate”.

Esempio

Riassumendo

Penso (quindi immagino, ma non ne sono certo) che tu mi abbia tradito. Se invece intendo attribuire certezza alla mia ipotesi, userò in questo caso l’indicativo, dicendo o scrivendo: Penso che mi hai tradito. Sfumature, certo, ma preziose per manifestare compiutamente un pensiero, pur senza utilizzare tante parole.

OSSERVAZIONI SU ALCUNI VERBI SPECIALI Qualche perplessità nasce a volte sulla grafia di certi verbi. Eccone alcuni. I verbi che terminano all’infinito in ci-are e gi-are perdono la i della radice (la parte invariabile del vocabolo), dinanzi alle desinenze (le parti variabili) che iniziano con i ed e, poiché la vocale i della radice non è più necessaria per mantenere il suono dolce o palatale della c o della g precedente. Si dovrà quindi scrivere: noi cominc-iamo, noi cominc-eremo, io cominc-erei, noi mang-iamo, noi mang-eremo, io mang-erei mentre sarebbe errato scrivere: cominci-eremo, mangi-erei, ecc. I verbi che terminano all’infinito in gn-are e gn-ere sono regolari, e pertanto mantengono la i delle desinenze quando queste compaiono. Quindi: “noi insegn-iamo” (perché iamo è la desinenza della 54

CORRETTO insegn-iamo spegn-iamo che noi sogn-iamo che voi sogn-iate

ERRATO insegn-amo spegn-amo che noi sogn-amo che voi sogn-ate

I composti con fare, dire, venire richiedono attenzione, poiché seguono la coniugazione dei verbi che ne costituiscono la base. Esempi: il presente indicativo di disfare è “io disfaccio”, e non “io disfo”, come dovrebbe essere se non seguisse la regola sopra citata. Allo stesso modo si dirà e si scriverà: “io disfacevo”, “io disfeci”, “disfacendo”, ecc. e non “io disfavo”, “io disfai”, “disfando”. Passiamo quindi ai composti del verbo dire: l’imperfetto indicativo di maledire è “maledicevo” e non “maledivo”. Allo stesso modo si dirà e si scriverà: “maledissi” e non “maledii”, “maledicendo”, e non “maledendo”. Il verbo pervenire presenta qualche difficoltà nel passato remoto, dove spesso si sente dire o si vede scritto “pervenii”, “pervenì”, “pervenirono”, in luogo di “pervenni”, “pervenne”, “pervennero”, che sono le uniche forme corrette del passato remoto del verbo venire, da cui pervenire deriva. Riassumendo: CORRETTO disfaccio disfacevo disfeci disfacendo maledicevo

ERRATO disfo disfavo disfai disfando maledivo

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CORRETTO maledissi maledicendo pervenni pervenne pervennero

ERRATO maledii maledendo pervenii pervenì pervenirono

La regola è semplice, e come al solito risponde alla logica: l’ausiliare dei verbi servili deve essere lo stesso richiesto dal verbo al quale il servile è unito. Le forme esatte sono perciò: sarei potuto fuggire, sarei dovuto essere castigato, con l’ausiliare essere in entrambi i casi, poiché fuggire è intransitivo, e castigare è usato in forma passiva, ma: avrei dovuto castigare, poiché castigare è usato in questo caso in forma attiva, e quindi richiede l’ausiliare avere.

GLI AUSILIARI ESSERE E AVERE Essere e avere, come è noto, servono tra l’altro per la coniugazione dei verbi, e per questo sono definiti ausiliari. Il verbo avere si usa per i tempi composti delle forme attive dei verbi transitivi, quelli che esprimono un’azione che passa, cioè transita o può transitare su un complemento oggetto (“Ho sconfitto la malattia”). Il verbo essere si usa per le forme passive, nei tempi semplici e composti (“sono amato”, “ero stato amato”), e inoltre per i tempi composti dei verbi intransitivi, quelli che esprimono azione ferma sul soggetto, come nascere, vivere, morire, tornare, ecc. (esempio: “sono arrivato”, “ero tornato”). Si adopera anche per i tempi composti dei verbi impersonali, usati per indicare fenomeni atmosferici (piovere, nevicare, albeggiare, ecc.), quindi occorre dire o scrivere: “È piovuto per breve tempo”. In alcune regioni si usa però in questi casi soprattutto l’ausiliare avere, ma in Toscana, dove il rispetto per la purezza è innato, ciò non accade, neppure tra le persone meno colte, e questo dovrebbe bastare per tenerci lontani da una forma poco corretta. Non mancano tuttavia alcuni verbi intransitivi che utilizzano l’ausiliare avere (“ho dormito”, “ho passeggiato”); in caso di dubbio converrà quindi ricorrere al dizionario, che segnala sempre l’ausiliare corretto da usare coi verbi irregolari. Le incertezze maggiori possono nascere per la scelta dell’ausiliare nei tempi composti dei verbi cosiddetti servili potere, volere e dovere che accompagnano altri verbi. Qual è la frase giusta? avrei potuto fuggire oppure sarei potuto fuggire? avrei dovuto essere castigato oppure sarei dovuto essere castigato? 56

PASSATO PROSSIMO O PASSATO REMOTO? Il nome di questi tempi dell’indicativo, indistinti tra loro nella lingua latina, può trarre in inganno: prossimo infatti sembra fare riferimento a un’azione avvenuta di recente, remoto a un’azione lontana. In realtà non è così. Il tempo passato remoto si usa per indicare un’azione conclusa, non importa se accaduta recentemente o molto tempo prima, mentre il tempo passato prossimo indica avvenimenti anche lontanissimi, i cui effetti continuano ancora nel presente. Esempi Garibaldi morì nel 1882 Dante Alighieri nacque nel 1265 Mia figlia (tuttora vivente) è nata nel 1958 Tre mesi or sono è venuto ad abitare presso di noi mio fratello (il fatto perdura) Ieri incontrai Maria (azione vicina, ma completamente trascorsa) L’utilizzo appropriato dei due tempi verbali non sempre è rispettato nelle varie regioni italiane: nel Nord si preferisce il passato prossimo (nel dialetto milanese il passato remoto addirittura non esiste), mentre nel Sud il passato remoto è abituale. Con un po’ di attenzione si potrà rimediare, almeno nel linguaggio scritto, alle inesattezze dovute alle abitudini locali. 57


Le maiuscole. Attenzione alle stonature!

Raduniamo qui alcuni esempi di scorrettezze e stonature da evitare.

LE MAIUSCOLE NEI TITOLI ACCADEMICI, NOBILIARI, ONORIFICI Trattandosi di appellativi che rappresentano una qualifica particolare, per nascita o benemerenza o titolo accademico, si dovrebbero scrivere con la lettera maiuscola. Si scriverà quindi: il Ministro l’Onorevole il Papa il Preside il Professore Quando tuttavia sono accompagnati dal nome proprio, è preferibile usare la minuscola: il ministro Rossi l’ing. Bianchi il dott. Brambilla il conte Cavour il re Vittorio Emanuele II Per regola si dovrebbe quindi scrivere anche: il papa Giovanni XXIII, benché in tale caso molti usino la maiuscola in segno di rispetto. Con significato generico, i diversi appellativi si scrivono con la lettera minuscola: il ministro, i senatori, ecc. 59


LE MAIUSCOLE NELLE PAROLE INDICANTI NAZIONALITÀ E APPARTENENZA RELIGIOSA O POLITICA La regola è affine alla precedente: se il termine è solo, e quindi è usato come sostantivo, si deve scrivere con la lettera maiuscola. Esempio l’Italiano (lingua), i Russi (popolo), i Cattolici, i Liberali, ecc. ma: la lingua italiana, la cultura russa, la religione cattolica, la dottrina liberale, ecc. poiché nei casi appena citati il termine assume funzione di aggettivo qualificativo, e quindi la maiuscola non è appropriata.

sono portare nella cura della res publica con la cultura ormai generalizzata, l’impegno puntiglioso, la tenacia e quello spirito materno che fa parte della loro natura. Ecco allora il bisogno di coniare termini adatti alle nuove funzioni, e per questo si è fatto ricorso alle regole già esistenti riguardanti il femminile dei corrispondenti nomi comuni maschili. Abbiamo così la Presidentessa (la dottoressa), la Deputata (la scolara), la Senatrice (l’istitutrice). In altri casi meno usuali, tuttavia, invece di ricorrere alla femminilizzazione del termine, non sempre gradevole, (l’Assessora? la Ministra? o peggio: la Pubblica Ministera?), sarebbe meglio lasciare invariato il titolo: basterà accompagnarlo col nome e cognome dell’interessata (l’assessore Maria Rossi, il ministro Maria Bianchi, ecc.), sufficienti a chiarire il sesso.

Richiedono inoltre la maiuscola i periodi storici, i secoli, i movimenti culturali, le solennità religiose, i titoli di libri, giornali, opere d’arte, associazioni, società, uffici pubblici, istituzioni, mentre si usa la lettera minuscola per i nomi di stagioni, mesi e giorni. Si scriverà perciò: il Rinascimento, l’Ottocento, il Romanticismo, l’Ascensione, il Parlamento, primavera, marzo, mercoledì

TITOLI PUBBLICI AL FEMMINILE Un tempo non era necessario porsi il problema, poiché le donne non rivestivano cariche politiche o istituzionali, anche se in realtà molte di loro erano spesso ispiratrici di decisioni e di manovre che si compivano in alto loco. Dalla metà del secolo appena trascorso, tuttavia, si è finalmente compresa l’importanza dei benefìci che le donne pos60

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I punti cardinali della punteggiatura

La punteggiatura, attraverso i diversi segni di interpunzione, ha lo scopo di conferire allo scritto le pause necessarie per rendere evidente il significato dell’esposizione. Ci sono tuttavia autori notissimi che hanno eliminato a volte la punteggiatura dai loro scritti (Giuseppe Berto, James Joyce, per esempio) anche se in tale caso la lettura e la comprensione dei testi appaiono meno agevoli. Si tratta comunque di una scelta che solo chi possiede una padronanza profonda della lingua si può permettere. A tale proposito è giunta notizia che le autorità inglesi che si occupano della difesa della Cultura nazionale, sentendo a loro volta la necessità di porre un freno al degrado cui è sottoposta anche la loro lingua, si sono impegnate recentemente nella difesa della punteggiatura, ricordando come questa sia importante per chiarire il senso delle frasi. Noi non intendiamo certo essere da meno: abbiamo quindi raccolto qui le regole principali, pur avvertendo che non sono tassative.

VIRGOLA Cominciamo con lo sfatare una leggenda dura a morire, inculcata nelle teste degli alunni fin dai primissimi anni di scuola dalle maestre di una volta, tramandata in seguito da una generazione all’altra: davanti alla congiunzione “e” non si può mettere la virgola. In realtà la virgola non si dovrebbe usare davanti alla congiunzione “e” solo nell’ultimo termine di un elenco, benché a volte la virgola finale possa servire per accentuare una distinzione, ma questo è solo un espediente letterario. L’equivoco potrebbe nascere dal fatto che la “e”, essendo 63


congiunzione, serve a unire i termini di una frase, mentre la virgola indica una separazione: l’utilizzo contemporaneo potrebbe dunque apparire una contraddizione, mentre in realtà non è così. Ecco dunque la semplice regola La virgola, che ha lo scopo di indicare una pausa breve nel fluire del discorso, dovrebbe precedere la “e” e altre congiunzioni (esempio: ma, benché, perciò, ecc.) quando queste danno inizio a una nuova proposizione, cioè a una frase di senso compiuto in cui siano presenti almeno un verbo e un soggetto, espresso o sottinteso.

Vedasi l’esempio seguente, in cui tra il soggetto e il verbo è inserita un’incidentale: L’uomo, che avanzava a piccoli passi faticosi, aveva negli occhi la fredda determinazione di chi è deciso a raggiungere la propria meta. Errato sarebbe invece scrivere: L’uomo, avanzava a piccoli passi faticosi.. come purtroppo spesso si legge.

Esempio

IL PUNTO FERMO Sono tornato a casa, e ho saputo la buona notizia. Si noti comunque che si potrebbe fare a meno della virgola se si volesse evidenziare una contemporaneità di azione tra i due fatti. Viene utilizzata anche per separare un vocativo dal resto della frase. Esempio

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Indica la conclusione di un periodo. Nella prosa moderna si preferiscono frasi brevi, che conferiscono un ritmo più vivace e dinamico al discorso.

IL PUNTO E VIRGOLA

Ricordate, figli miei, le parole di vostro padre!

La sua stessa forma grafica, risultante dall’unione di un punto con una virgola, indica che si tratta di un segno di interpunzione il cui valore sta tra l’uno e l’altra. Si usa per una pausa più decisa di quella indicata dalla virgola, ma meno forte del punto fermo.

La virgola non dovrebbe mai stare dopo il soggetto, poiché lo separerebbe dal verbo di cui fa parte integrante. Esistono tuttavia delle eccezioni chiaramente identificabili: se dopo il soggetto si trova un’incidentale, la virgola diventa necessaria, accompagnata da un’altra virgola al termine dell’incidentale stessa, con funzione di doppia parentesi.

I DUE PUNTI Servono sia per introdurre un discorso diretto, che una spiegazione o un elenco. 65


IL PUNTO ESCLAMATIVO E IL PUNTO INTERROGATIVO Non intendiamo certo soffermarci sul loro notissimo utilizzo, limitandoci a una raccomandazione: si eviti di raddoppiarli o triplicarli, o peggio di usarli insieme per accentuare un’esclamazione o una domanda, con un eccesso di enfasi che non è mai indice di buon gusto.

LE VIRGOLETTE Le virgolette (“ ”) si utilizzano per racchiudere un discorso diretto o per riferire un pensiero, e possono essere sostituite dalle lineette (- -). Le virgolette servono inoltre per evidenziare titoli (di libri, di opere musicali o artistiche), epoche storiche, modi di dire, frasi convenzionali, parole sulle quali si richiama l’attenzione, ecc.

LE ABBREVIAZIONI Devono essere seguite dal punto fermo. Si ricordi tuttavia che le forme abbreviate riguardanti misure, pesi e capacità (km, gr, dl, ecc.) sono al contrario considerate termini compiuti e pertanto rifiutano il punto. Attenzione! Il titolo di “dottore” che precede un nome proprio spettante di diritto solo a chi ha conseguito una laurea, o l’ha ottenuta honoris causa, può essere abbreviato in due modi: dott. (quindi seguito dal punto fermo), per indicare la caduta della seconda parte del vocabolo; oppure dr, nel quale caso il punto finale sarebbe un’incongruenza, dal momento che si tratta di una soppressione interna al vocabolo e non di un’abbreviazione.

I PUNTINI DI SOSPENSIONE I puntini di sospensione (bastano due, come diceva la scrittrice Françoise Sagan, e ce n’è d’avanzo) servono per indicare un’incertezza, una reticenza, una pausa quando si riporta un discorso diretto o si esprime un pensiero. Si raccomanda però un uso molto parco di questo segno grafico: l’eccesso è sgradevole, poiché imprime alla prosa un andamento zoppicante.

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Parole ed espressioni da rottamare

CIOÈ & CO. La nostra lingua da qualche tempo è soggetta a curiosi innamoramenti di termini che solitamente si diffondono tra i giovani, e che di solito si esauriscono, anche se non sempre rapidamente. C’è stato il dilagare di un cioè che si infilava pervicacemente ogni due, tre parole senza un nesso logico con la frase, dal momento che si tratta di una particella esplicativa volta a chiarire il significato di quanto espresso immediatamente prima: deriva infatti dall’unione del pronome dimostrativo ciò con è, 3a persona del presente indicativo del verbo essere. In realtà era segno di incertezza, di scappatoia per prendere tempo nel seguire il filo logico del pensiero, a volte di timidezza: infatti quando chi parlava era sicuro di sé e procedeva spedito nel discorso, il famigerato, inutile cioè non compariva. Divenne presto un’abitudine, un’intrusione irritante che restò tuttavia confinata nell’espressione verbale, finché si attenuò fino a scomparire quasi del tutto. Si potrebbero citare altri vezzi simili, come attimino, grazioso diminutivo-vezzeggiativo che dovrebbe indicare un tempo brevissimo, mentre in realtà la sua durata potrebbe non avere limiti. Un’altra inutile intrusione è rappresentata dall’avverbio assolutamente, superfluo rafforzativo di affermazioni o negazioni, come se sì o no non fossero più che sufficienti a manifestare assenso o dissenso. Appartiene allo stesso genere un intercalare che persone di buona cultura introducono a volte in continuazione nel loro discorso; si tratta di un inciso solitamente inopportuno che “infiora” il loro eloquio: per così dire o diciamo così. Forma nervosa, segno di imbarazzo? 69


Il fatto è che l’inutile insistenza di certe ripetizioni ottiene soltanto lo scopo di distrarre dal contenuto del discorso e di infastidire l’ascoltatore. Si presti dunque attenzione alla necessità di controllare il proprio modo di esprimersi, anche evitando l’utilizzo di termini che improvvisamente diventano di moda e che banalizzano la lingua, con intromissioni non giustificate dal loro significato letterale.

ESPRESSIONI “A VANVERA”

pag. 50

Tra le molte ben più gravi scorrettezze che deprimono la nostra lingua, si nota a volte l’utilizzo di voci improprie, su cui sarebbe opportuno riflettere. Si dice per esempio persona umana, con l’inutile aggiunta di un aggettivo qualificativo che rappresenta un pleonasmo (vedi pag. 50); si tratta di una formula ormai entrata nel linguaggio colto di conferenzieri e predicatori, usata perfino in più occasioni dal Pontefice, eppure, se consultiamo un dizionario, vediamo che il termine persona corrisponde a individuo, uomo o donna. Allora che bisogno c’è di quell’aggiunta? A nessuno verrebbe in mente di definire persona un oggetto o un animale. Un altro uso indiscriminato ben più grave viene consumato con il verbo giustiziare: La mafia ha giustiziato un quindicenne, facendolo sciogliere nell’acido.. Ma siamo matti? Che giustizia sarebbe questa? Eppure lo si legge e lo si sente dire e ripetere, soprattutto nei telegiornali. E questi sono solo due esempi..

LA FREQUENTE PERDITA D’IDENTITÀ DEL “CHE” pag. 42

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Innanzi tutto il “che” possiede molte funzioni: può essere congiunzione, e in tale caso può introdurre sia il modo indicativo che il congiuntivo, e perfino il condizionale. Può sostituire la congiunzione perché nella forma letteraria, richiedendo però di essere accentato. È poi anche pronome relativo plurivalente, giacché resta invariato nel maschile e nel femminile, nel singolare e nel plurale. Inoltre non muta nemmeno se usato come soggetto o come complemento oggetto, potendo assumere infine anche funzione di pronome neutro o di aggettivo esclamativo. Esempio: Che bella notizia! Attenzione però: in quest’ultimo caso non dovrebbe essere unito soltanto a un aggettivo, come si sente spesso nel Settentrione. È per esempio scorretto esclamare: Che noioso! Che brutto! Occorrerà invece aggiungere un sostantivo (Che discorso noioso! Che brutto esempio!), oppure si dovrà sostituire il “che” con un termine diverso, inserendo inoltre un verbo: Quanto risulta noioso! Come è brutto! Ecco infine alcune frasi la cui pessima riuscita è dovuta al distratto utilizzo del “che”, usato appunto a vanvera, quindi da rottamare: Siccome che ho la febbre, non potrò uscire. Il “che” in questo caso ha una funzione indefinibile, poiché la congiunzione causale che lo precede è già più che sufficiente per chiarire il significato della frase. Allo stesso genere appartiene il “che” usato in una frase di questo tipo: Sta’ attento, che il pericolo è sempre in agguato! Abbiamo qui un “che” clandestino, infilatosi impropriamente in un periodo che non sentiva affatto la necessità del suo intervento. Sarebbe bastato porre due punti dopo la seconda parola, sopprimendo l’intruso: Sta’ attento: il pericolo è sempre in agguato!

Abbiamo già accennato brevemente a pag. 42 a questa paroletta dall’apparenza modesta, ma dall’importanza solitamente determinante nell’evolversi del discorso: tuttavia è opportuno ampliare l’argomento, che presenta vari aspetti.

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La d eufonica: una consonante dalla vita sregolata LA D EUFONICA CON LA CONGIUNZIONE “E” E LA PREPOSIZIONE “A” La consonante d, aggiunta alla congiunzione e e alla preposizione a, quando sono seguite da parola iniziante per vocale, è detta eufonica, cioè utilizzata per rendere più armoniosa la pronuncia. Un tempo si consigliava di adoperare la d anche con la congiunzione o, che diventava od con un suono per nulla gradevole, quindi l’idea è stata in seguito giustamente abbandonata. L’argomento è stato a lungo controverso: meglio e ultimo o ed ultimo, e anche o ed anche, a ogni o ad ogni? Di solito alle elementari si insegna il rispetto della regola di base, quindi sempre ed e ad dinanzi a vocale. Alcuni grammatici moderni, invece, suggeriscono di usare la d eufonica solo quando si incontrano vocali uguali, per ottenere la massima semplificazione. Si dovrebbe essere d’accordo con loro: il suono duro della consonante dentale, introdotta a forza là dove non appare necessario, toglie armonia al fluire del discorso. Del resto già il Manzoni, nella revisione del suo romanzo, si preoccupò di togliere la maggior parte delle d eufoniche esistenti nel testo primitivo.

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n

Come prendere le preposizioni per il verso giusto L’USO A VOLTE SCORRETTO DI ALCUNE PREPOSIZIONI Soltanto errori veniali, d’accordo, ma basta poco per scegliere la forma giusta, quella più vicina alle migliori tradizioni della nostra lingua, evitando le forme che hanno subìto l’influenza di altri idiomi, soprattutto di quello francese. Insieme con è la forma più corretta, di classica derivazione latina, che usava una cum per indicare unione. Insieme a è invece espressione meno appropriata. Pasta col burro è il termine esatto che indica il condimento aggiunto alla pasta, mentre pasta al burro non ha un significato grammaticalmente giustificabile. Biglietto di visita dovrebbe essere usato in luogo di biglietto da visita, in quanto il suo utilizzo è di presentazione, mentre la preposizione da indicherebbe un fine, uno scopo inesistente. Macchina per scrivere e macchina per cucire, dove la preposizione per indica giustamente lo scopo per cui la macchina viene utilizzata, dovrebbero sostituire le più comuni ma meno corrette diciture: macchina da cucire e macchina da scrivere. Per esempio è forma molto migliore di a, ad esempio. Nel primo caso la preposizione per chiarisce lo scopo per cui si cita un esempio, mentre la preposizione a è priva di giustificazione.

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Associazione per delinquere è la sola forma corretta. Ancora una volta il fine è indicato dalla preposizione semplice per, mentre associazione a delinquere non è altro che la trasposizione pedissequa in Italiano dell’uso francese. Per indicare il materiale con cui un oggetto è fabbricato si dovrebbe sempre usare la preposizione di e non la preposizione in, il cui significato è ben diverso. Quindi scultura di marmo e non in marmo, giacca di lana e non in lana, borsetta di pelle e non in pelle, ecc. Il moto da luogo richiede la preposizione da. Attenzione quindi: Me ne vado di Milano, è uscito di qui, ecc. sono forme scorrette. Un caso particolare è rappresentato dalla preposizione impropria fuori, che esige di essere accompagnata dalla preposizione semplice da quando indica uscita, movimento (esempio: lo hanno buttato fuori dall’uscio), ma si costruisce con la preposizione di negli altri casi: fuori di senno, fuori di metafora, ecc. Difficile? No: basta solo un po’ di attenzione.

Si vedano gli esempi: con dei, per delle, a degli, dove dei, delle, degli significano alcuni, alcune. Allora è meglio usare gli aggettivi indefiniti, senz’altro più corretti. Quindi si eviterà di dire o scrivere, per esempio: Sono uscito con degli amici. Più appropriato e preciso: Sono uscito con alcuni amici. Da evitare anche l’accostamento delle preposizioni “proprie” più volte citate (di, a, da, in, con, su, per, tra, fra) con altre “improprie” (davanti, dietro, contro, ecc.). Esempio Una borsa con dentro un fascicolo → espressione popolare Una borsa contenente un fascicolo → più corretto

Si ricordi che mentre quasi tutte le preposizioni proprie possono diventare articolate unendosi a ogni articolo determinativo, per, tra e fra, gelose della propria indipendenza, rifiutano il connubio; quindi tra le, per i, fra gli, ecc. Infine la preposizione con si può accoppiare soltanto con il e con i, nel quale caso perde la n (coi, col). Negli altri casi si dirà e si scriverà: con lo in luogo di collo, con la in luogo di colla, con gli in luogo di cogli.

UNIONE DI DUE PREPOSIZIONI: MEGLIO SAREBBE EVITARE Non si tratta di veri e propri errori, ma di stonature. Si fa qui riferimento al consiglio di astenersi dall’accostamento di due preposizioni, salvo casi particolari tra cui quelli già citati in precedenza (fuori da, ecc.). 76

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Salviamo il mondo dal cerchiobottismo

I NEOLOGISMI Abbiamo detto all’inizio che la lingua è viva, poiché si arricchisce continuamente di termini e di espressioni prodotte dal desiderio di rinnovamento, dall’evoluzione delle tecnologie, dalla necessità di definire in forma concisa una gamma di situazioni nuove, o inusuali fino a qualche tempo prima. Mai come negli ultimi anni questo fenomeno si è fatto intenso e pressante, accettabile quando non dipende dall’estro di persone ansiose soltanto di essere originali e creative. L’ultimo termine, tipico della pubblicità, ci porta a ricordare che molto spesso è il linguaggio pubblicitario a fornirci vocaboli nuovi; agli ideatori non interessa tuttavia la correttezza del neologismo: essi tendono soprattutto a colpire l’immaginazione, a farlo ricordare insieme col nome del prodotto sul quale intendono richiamare l’interesse. Ormai sono passati i tempi in cui erano gli artisti o i letterati che inventavano parole nuove, nelle quali trasferivano il loro estro imaginifico. Oggi non c’è più D’Annunzio, né altri geniali creatori di ideazioni linguistiche, perciò ci sentiamo bombardati da locuzioni orrende in cui anche i politici si stanno specializzando, alla ricerca di un’originalità che dovrebbe farli ricordare, secondo loro, agli elettori. Basti citare cerchiobottismo o reistituzionalizzazione, una delle tante –creature– del nuovo lessico giornalistico-parlamentare, che senz’altro rimandiamo al mittente. Mentre il primo vocabolo è già entrato in un autorevolissimo dizionario (vedi oltre), il secondo non ha ancora fatto la sua comparsa ufficiale. Speriamo che svanisca nel nulla da cui è venuto prima di essere legittimato. 79


Non lasciamoci sedurre da uno –stupidario– (voce nuova efficace nella sua concisione) che con la lingua di Dante non ha nulla in comune, accettando soltanto i neologismi prodotti da quanto la tecnica e la scienza o le nuove esigenze della vita moderna hanno creato.

Dal Vocabolario della lingua italiana di Nicola Zingarelli, Zanichelli, Bologna, 2004 Cerchiobottismo [comp. col suff. cerchio e botte, sostantivo tratto dalla loc. dare un colpo al cerchio e uno alla botte;1996 ] s.m. • Nel linguaggio giornalistico atteggiamento di chi rivolge contemporaneamente apprezzamenti e critiche sia a una parte che a un’altra in contrasto con la prima. Cerchiobottista [1996] A s. m. e f. (pl. m. -i) • Chi dà prova di cerchiobottismo. B anche agg.: commentatore cerchiobottista.

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L’Italiano è wonderful

I VOCABOLI STRANIERI: INTRUSIONI A VOLTE ILLEGITTIME Esistono vocaboli di origine straniera, soprattutto inglese, che fanno parte ormai della nostra lingua, apprezzati per l’efficacia e l’immediatezza; tra questi, numerosi termini sportivi o tecnici, alcuni dei quali di recente introduzione (web, software, ecc.). Si ricordi che al plurale i vocaboli stranieri, appunto perché ormai italianizzati, rifiutano la forma caratteristica della lingua di origine: non films, goals, ecc., quindi, ma è sufficiente il cambiamento dell’articolo per indicare il numero. Sembra opportuno segnalare a questo proposito la recente invasione, sia pure pacifica, di voci straniere entrate nella nostra lingua senza reale necessità, in sostituzione di parole italiane perfettamente corrispondenti al significato che devono esprimere. La ragione non è chiara: snobismo, esibizionismo, esterofilia? Senza arrivare agli eccessi del nazionalismo francese, che si spinge a rifiutare l’inglese “computer”, sostituendolo con “ordinateur”, ci permettiamo sommessamente di suggerire ove possibile la preferenza per “la lingua dove il bel sì suona”, anche perché l’utilizzo eccessivo dei termini stranieri non nobilita affatto il linguaggio, come qualcuno potrebbe credere, ma è soltanto indice di cattivo gusto.

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Dulcis in fundo

Giunti al termine di questa breve trattazione, ci congediamo dai lettori parafrasando la formula in uso nella Commedia dell’Arte del passato: porgiamo molte scuse per la schematicità delle informazioni, eppure ci auguriamo che le molte, purtroppo necessarie lacune rappresentino uno stimolo ad approfondire e ad ampliare gli argomenti per proprio conto, attraverso la consultazione di un testo di grammatica ben più ampio poiché la lingua italiana, la più dolce, armoniosa ed espressiva del mondo, lo merita veramente.

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Appendice

MOSTRICIATTOLI QUOTIDIANI È questa la parte divertente del manuale, poiché è piacevole ridere degli errori che sembrano sempre “degli altri”. Eppure, in seguito a un opportuno esame di coscienza, si scoprirebbe che qualche volta anche noi.. Allora si faccia un proponimento: si dedichi un minuto alla consultazione di un vocabolario per scoprire la grafia esatta di ogni termine che suscita perplessità, e si dubiti, sempre, ogni volta che ci si trova dinanzi a una parola su cui non si possiedono certezze. Aggiunta o raddoppiamento arbitrario • Dinnanzi: errato. Il vocabolo corretto è dinanzi, costituito da di+nanzi, mentre va bene innanzi, costituito da in+nanzi. • Aereoporto, aereoplano, ecc.: errati. Sono corretti aeroporto, aeroplano, ecc., dove il prefisso aero deriva dal nome latino aer = aria e non da aereo. • Obbiettivo e obbiettivamente: errati. Sono corretti con una sola b. Anche in questo caso si dovrebbe fare riferimento all’originario obiectivus, Latino medievale, derivato dal Latino classico obiectum, dove il raddoppiamento non esiste; del resto non si può nemmeno accusare la più volte deprecata, acritica dipendenza dalla lingua francese, che mantiene la singola b latina. Eppure qualche dizionario moderno pone il termine con la b raddoppiata tra parentesi accanto a quello corretto, accettandolo come variante, senza nemmeno accennare a un uso diventato ormai comune. Uno scrittore o un giornalista famoso ha sbagliato un giorno la grafia, e come il pifferaio di Hamelin della celebre fiaba ha trascinato con sé una folta schiera di imitatori, fiduciosi nella sua autorevolezza: è nata così la legittimazione acritica, che tuttavia è priva di fondamento. 87


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Grattuggiare: errato. È corretto grattugiare, da grattugia, senza alcuna giustificazione del raddoppiamento della g. Affezzionato: errato. È corretto affezionato, poiché la zeta non si raddoppia nelle sillabe zio e zia (vedi per esempio equinozio e non equinozzio, spaziale e non spazziale, ecc.).

Annunci economici con difetto • Nelle inserzioni commerciali e nei cartelli riguardanti offerte di locazione si legge spesso: Affittasi appartamenti: errato. Se il soggetto è plurale anche il verbo dovrà esserlo, perciò: Affittansi o si affittano. • Vendesi mobili usati : errato. È corretto vendonsi o si vendono.

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Confusione bizzarra di ruoli • Dal “Giornale di Sicilia” dell’agosto 2003 un titolo inquietante: “Boss malavitoso ucciso dal barbiere”. La preposizione articolata colpevolizza, trasformandolo in assassino, il povero barbitonsore del tutto innocente, e certo terrorizzato per il fatto di sangue avvenuto nel suo negozio; sarebbe bastato qualche carattere di stampa in più per chiarire la vicenda. Tuttavia si sa: la necessità di concisione non sempre è buona consigliera. Divisione arbitraria • Tutt’ora: errato. È corretto tuttora.

Antiquata formula, segno di cattivo gusto • La mia signora: errato. È corretto mia moglie. Un marito che usa in pubblico il termine signora riferito alla moglie, nome di perfetta trasposizione dal vocabolo latino mulier, il quale già di per sé esprime massimo rispetto, non dimostra come egli crede particolare deferenza verso di lei, ma solo affettazione e snobismo (dal Latino sine nobilitate, che chiarisce alla lettera l’educazione di chi si esprime così). Un estraneo potrà invece utilizzare il termine, quando non si trova in condizione di confidenza, sia nella corrispondenza che nei convenevoli, evitando possibilmente il possessivo: la sua signora indica forse ironicamente che si tratta della sua padrona, o meglio di colei che in casa porta i pantaloni, come si usa dire con una caratteristica espressione popolare?

Errore nello spostamento dell’accento tonico: difetto nella pronuncia • Rùbrica: errato. È corretto rubrìca, poiché conserva l’accento della parola latina da cui deriva. Lo stesso dicasi per édile, (corretto: edìle), sàlubre (corretto: salùbre), mòllica (corretto: mollìca), zàffiro (corretto: zaffìro), antesìgnano (corretto: antesignàno), incàvo (corretto: ìncavo), guàina (corretto: guaìna), ecc. I precedenti sono una parte degli errori di pronuncia diffusi specialmente nel Settentrione. L’unica salvaguardia consiste nella consultazione del vocabolario. • Nocciòlo è la pianta che produce nocciòle, mentre il seme legnoso che si trova all’interno di alcuni frutti è il nòcciolo. • Cògnac: errato. È corretto cognàc. Essendo termine francese lo si deve pronunciare come richiesto dalla lingua di origine.

Confusione di verbi • Imparare e insegnare non sono intercambiabili: il primo rappresenta l’azione di colui che apprende, il secondo di colui che dispensa nozioni. È quindi errato dire o scrivere, come spesso accade nel Sud: mi impara il Francese. La forma corretta è invece: mi insegna..

Errore nell’inserimento arbitrario dell’accento tonico: difetto nella scrittura • Menù: errato. Si deve scrivere senza accento, adeguandosi al termine francese da cui deriva, che appunto lo rifiuta. Peccato che quell’inutile segno grafico si trovi troppo spesso su libri e giornali, in liste delle vivande e

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perfino in insegne luminose di ristoranti nostrani, producendo perplessità negli eventuali avventori stranieri. • Errore nella pronuncia della e aperta o chiusa • La pésca indica l’azione di pescare, il frutto richiede la è aperta. • Sono numerosissimi i vocaboli italiani pronunciati erroneamente per quanto riguarda il suono delle e, nonché delle o. La soluzione? Il ricorso al vocabolario o un lungo soggiorno didattico a Siena, dove la lingua sgorga spontaneamente purissima dalla bocca dei locali, per farsi l’orecchio. Errore nell’utilizzo del plurale dei nomi sovrabbondanti (quelli cioè che al plurale possono cambiare genere, con significati diversi): • “I nemici avevano circondato i muri della città”: errato. È corretto le mura, poiché i muri sono quelli di un edificio. • “Fu necessario suturare le labbra della ferita”: errato. È corretto i labbri, mentre le labbra appartengono agli esseri umani. • “Dalla strada salivano i gridi della folla”: errato. È corretto le grida, essendo il termine riferito a esseri umani, mentre i gridi è usato per gli animali. • “Per la febbre sentiva tutti gli ossi rotti”: errato. È corretto le ossa, quando si intende l’insieme. Gli ossi si usa per una parte del tutto. Esempio: “gli ossi del piede”. Impropria femminilizzazione di termini • La soprano, la contralto: errato. È corretto il soprano, il contralto, poiché il termine fa riferimento al –registro– sia della voce, che può appartenere anche a un uomo, che di certi strumenti (sassofono soprano, ecc.). Plurale: i soprani, i contralti. In questo, come in altri casi già citati, saranno il nome e il cognome che determineranno il sesso. Anche sosia è maschile, essendo derivato dal

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nome proprio di un personaggio teatrale. Si dirà e si scriverà perciò: Maria è il sosia della Gioconda di Leonardo, e non la sosia. La tomaia: errato. Il termine, indicante la parte superiore della scarpa, appartiene al genere maschile, quindi la forma corretta è il tomaio, mentre al plurale diventa femminile: le tomaia. Spiace che pur autorevoli dizionari moderni accettino il singolare femminile, definendolo la forma più diffusa, il che non dovrebbe rappresentare una giustificazione valida. Ecco un altro curioso cambiamento di genere, in questo caso dal femminile al maschile, che molti uomini attribuiscono alle automobili prodotte da una nota azienda tedesca. Queste vetture subiscono spesso nel linguaggio comune una mascolinizzazione che pare voler mettere in rilievo le doti di potenza e grinta, ma anche di prestigio di quelle auto, quasi un tentativo di orgogliosa identificazione tra il possessore e la vettura. Prima di concludere l’argomento, vale la pena di ricordare l’incerta attribuzione del vino Barbera, per alcuni maschile e per altri femminile. Perfino i dizionari più prestigiosi non sono d’accordo: chi lo ritiene un vino –coi baffi–, chi una nobile signora dal carattere robusto e imperioso. Che fare? In Piemonte è senz’altro femminile, e poiché in questa regione la Barbera è uno dei vini più tipici, dovremmo seguire l’uso locale, così come fanno molti esperti: a ciascuno comunque la sua scelta.

Inutile sovrappiù • Ma però: errato. Sono corretti o l’uno, o l’altro. Abbiamo già fatto cenno a questo pleonasmo a pag. 50. • Mentre invece: errato. Come sopra, si usino soltanto o l’uno, o l’altro, in quanto entrambi gli avverbi possiedono la stessa funzione avversativa.

pag. 50

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Mancanza di una lettera • Sopratutto: errato. È corretto soprattutto. • Allo stesso modo: soprammobile, sopracciglio, sopraddetto, sopraffare, sopraffino, ecc. Sopra e sovra infatti, in unione con vocaboli inizianti per consonante (tranne s impura, x, z, gn) di cui costituiscono il prefisso, richiedono il raddoppiamento della consonante stessa. Ore e loro suddivisione • Per indicare il numero di minuti successivi all’ora, si possono usare sia i numerali cardinali che le frazioni, quando si tratta di multipli di 15 minuti: dodici e un quarto, dodici e tre quarti. Tuttavia, per indicare trenta minuti, alcuni passano stranamente a dodici e mezza, sottintendendo mezza ora. In realtà la locuzione esatta è (un) mezzo, quindi per coerenza si dovrebbe dire e scrivere dodici e mezzo, che mantiene l’uso della frazione. Plurale fuori luogo • Seni: scorretto. Il singolare seno comprende già entrambe le mammelle, mentre il plurale non è altro che il solito francesismo. Anche in questo caso non mancano comunque esempi illustri di scrittori che hanno eluso la regola. Scambio di desinenze di verbi • Nella prima e seconda persona plurale dell’imperfetto indicativo dei verbi della prima coniugazione (infinito are) e della seconda (infinito ere), accade a volte di udire un curioso scambio di desinenze. Capita così che qualcuno dica parlevamo, portevate, ecc., oppure vedavamo, perdavate, ecc., dimenticando che i verbi regolari della prima coniugazione quali sono parlare, portare,ecc. mantengono nelle desinenze la vocale a, mentre quelli della seconda coniugazione quali sono vedere, perdere, ecc. vogliono la vocale e. Basta solo un po’ di attenzione per controllare il proprio modo di esprimersi;

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comunque è più difficile che lo stesso sbaglio appaia nella forma scritta. Sostituzione di consonante • Pultroppo: errato. È corretto purtroppo, ma questo è un errore che si spera sia solo verbale, sentito spesso dalla bocca di presentatori di telegiornali e di spettacoli televisivi. Unioni arbitrarie • Peraltro: errato. È corretto per altro. • Tuttaltro: errato. È corretto tutt’altro. • Tuttalpiù, perlopiù: errati. Sono corretti tutt’al più, per lo più. • Presempio: errato. È corretto per esempio. Uso errato dell’avverbio più • Unito a un nome comune con idea accrescitiva: “Vorrei più trasparenza”: errato. È corretto maggiore trasparenza. Infatti “più” con funzione accrescitiva si utilizza solo con gli aggettivi o con gli avverbi. Esempi: più dolce e più velocemente (comparativi di maggioranza), il più dolce (superlativo relativo). Vocaboli e termini insidiosi • Album, ormai utilizzato per indicare anche un solo disco contenente vari brani musicali, di solito di uno stesso autore: errato. L’album è una custodia a libro in cui si ripone una collezione di dischi, di foto o di altro. • All’incontrario: errato, è forma trasandata, propria del linguaggio familiare. L’espressione giusta è: al contrario. • Cosa fai? Tollerabile nel linguaggio parlato popolare, ma improprio nella forma scritta, dove occorre anteporre al nome cosa l’aggettivo interrogativo che. Si dirà e si scriverà quindi correttamente: “Che cosa fai?” oppure: “Che fai?” passando dall’aggettivo al pronome interrogativo, col nome cosa sottinteso.

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I curriculum (plurale): errato. È corretto i curricula. È voce latina, e come tale conserva il plurale tipico della lingua madre, con terminazione in a perché di genere neutro. Le altre numerose parole latine, passate inalterate nella lingua italiana, invece, restano di preferenza invariate, e il loro plurale si riconosce dall’articolo. Esempio: il (o i) post scriptum, il (o i) referendum, l’(o gli) ultimatum, ecc. Anche gratis è un termine latino che ha subìto la contrazione della doppia i originaria (da gratiis = per le liberalità). È dunque errore dire e scrivere a gratis. Numerose incertezze sta suscitando il vocabolo Euro, cui molti attribuiscono il plurale euri. Il Presidente dell’Accademia della Crusca ha dichiarato che si tratta di nome indeclinabile, il quale quindi resta invariato. Esempio: quella borsa è costata molti Euro. Poco a poco: errato. La forma corretta è a poco a poco, con la ripetizione della preposizione a dinanzi a entrambi i termini. Pulman: errato. È corretto pullman. Il nome deriva dall’americano George Pullmann, che creò carrozze ferroviarie di lusso in cui non si avvertiva alcuno scotimento durante il percorso. In seguito la doppia n finale si ridusse a una sola, ma la doppia l interna deve restare. E pensare che chi lo vede scritto correttamente può immaginare che si tratti di uno sbaglio.. Salciccia: errato. È corretto salsiccia, dai vocaboli latini sal + insiccia, carne tagliuzzata. Il primo è termine dialettale da evitare. Succube è francesismo: più corretto l’italiano succubo–succuba; plurale succubi–succube. Succo di arancio: errato. L’arancio è la pianta, incapace di offrire succo. Si dirà quindi di arancia, essendo il frutto di genere femminile, come del resto la maggioranza dei prodotti commestibili generati dagli alberi, mentre quelli orticoli sono soprattutto maschili (il pomodoro, il peperone, ecc.). Scenza: errato. È corretto scienza. Il gruppo sce solo in questo caso e in pochi altri richiede la i, così come i derivati scienziato, scientifico, ecc. Allo stesso modo si

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comportano i seguenti vocaboli: usciere, coscienza e derivati. In tutti gli altri casi il gruppo sce rifiuta l’aggiunta della i, quindi si scriverà scellerato, scena, scemo, cosce, ecc. The (bevanda): errato. È corretto tè, vocabolo inglese che scritto con l’h centrale diventerebbe l’articolo determinativo. Zabaglione: errato. È corretto zabaione, dall’illirico sabaia.

Per concludere, si noti che i dizionari moderni accettano troppo spesso le espressioni dialettali, definendole “le più diffuse” e citandole accanto a quelle corrette. Purtroppo però, da una concessione all’altra, si troveranno prima o poi ufficializzati errori comuni, mentre tutti insieme dovremmo difendere la nostra lingua dall’assalto globalizzante in atto, poiché anche in essa si identifica l’orgoglio nazionale, la nostra identità, la nostra storia, il nostro passato, un’eredità che dovremmo impegnarci a passare intatta a quanti verranno dopo di noi.

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Nota sull’autrice Il testo è stato redatto dalla prof. Armanda Capeder, già docente di Lettere in Istituti statali, da anni responsabile a Milano di Corsi di scrittura creativa, organizzati da un Ente a partecipazione comunale. Giornalista e scrittrice, da sempre studiosa di questioni linguistiche, ha tratto questo manuale dalla sua esperienza didattica e dall’osservazione di tante lacune ortografiche e grammaticali che purtroppo deprimono a vari livelli l’espressione orale e scritta.

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