tesori d’Abruzzo anno 4, numero 14 ottobre-dicembre 2009 Direttore responsabile Paolo de Siena Coordinamento editoriale Giovanni Lattanzi Art Direction Andreas Waibl Fotografia Luana Cicchella Alfredo Corrao Paolo Jammarrone Giovanni Lattanzi Luigi Todisco Impaginazione Monica Leone Hanno scritto in questo numero Alessandra Angelucci, Luana Cicchella Mauro Di Cola, Ermanno de Pompeis Leonello Farinacci, Francesca Larcinese Ivan Masciovecchio, Maddalena Monaco Nicoletta Travaglini Tesori d’Abruzzo Viale Giovanni Bovio, 111 65124 Pescara Tel 085.4221643 - fax 085.2909114 cell. 337.666543 www.tesoridabruzzo.com redazione@tesoridabruzzo.com grafica@tesoridabruzzo.com abbonamenti@tesoridabruzzo.com Registrazione presso il Tribunale di Pescara n. 9/06 del 22/06/2006 Registro degli Operatori di Comunicazione ROC: n. 18293 Editore Paolo de Siena Editore srl Pescara Stampa e allestimento Brandolini - Sambuceto (Ch) © Copyright Paolo de Siena Editore srl Tutti i diritti riservati in copertina
La Presentosa realizzata dell’orafo Italo Lupo, Pescara foto di Paolo Jammarrone
editoriale
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di Paolo de Siena
Onna
6
l’affresco ritrovato di Luana Cicchella
Gioielli pastorali
14
Magliano dei Marsi
22
Giulianova
30
Pescara
40
Trasacco
50
Roccascalegna
58
Bominaco
64
Farindola
70
preziosi sentimenti di Gabriella Cetorelli Schivo
montagna, arte e fiori di Maddalena Monaco
il Duomo del patriarca di Alessandra Angelucci
luogo, memoria, dinastia: i Cascella di Mauro Di Cola e Ermanno de Pompeis
luce e splendore di Leonello Farinacci
il castello tra mito e realtà di Nicoletta Travaglini
Santa Maria Assunta, crocevia di arte e storia di Francesca Larcinese
quando il pecorino si fa buono di Ivan Masciovecchio
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G
uardare alle espressioni artistiche del passato, saperle leggere, significa comprendere l’essenza di altri tempi. Imbattersi perfino nella vita quotidiana delle persone, condividerne le storie, le aspirazioni, i sogni. Immaginare, confrontare, analizzare: insomma, fare tesoro di un patrimonio. Ma le testimonianze non sempre sono evidenti, vanno cercate, scovate. E spesso queste scoperte avvengono in circostanze forse prima di allora inimmaginabili. E l’affresco ritrovato di Onna ne è esempio superbo. Laddove le macerie ormai hanno invaso tutto, ecco mostrarsi, emergere - proprio a seguito delle violente oscillazioni della terra - l’ornamentazione pittorica che rivestiva le pareti della chiesa di San Pietro Apostolo. Un servizio emozionante
arriva poi il duomo di San Flaviano a Giulianova, nel bel centro storico sviluppatosi nel corso dei secoli sul dorso di un’altura da dove si scorge la costa adriatica. Da un duomo massiccio, passiamo a un edificio di più ristrette dimensioni, fino ad assumere la formula di scrigno. E’ qui, in un angolo seminascosto fra il caos cittadino di Pescara, oasi di creatività che risuona ancora oggi, che il Museo Basilio Cascella tramanda la potenza di generazioni di artisti. Con Trasacco nuove storie i recuperi e modifiche nel tempo, fino al parroco di oggi e alla sua continua opera di scavo. Qui, da un luogo teatro di martirio per i primi cristiani, intrecciando la storia con il prosciugamento del fucino e il terremoto del 1915, nasce il centro di culto dedicato ai santi martiri
Abruzzo tra arte storia e gusto
corredato da foto esclusive, racconta quell’incredibile giornata. Le emozioni proseguono con l’autorevole articolo - anche questo con foto di prim’ordine - sui gioielli pastorali. A proposito di vita quotidiana, ce li immaginiamo nel loro contesto, ad accompagnare amori, augurio di buona sorte, desiderio di salute, fino a costituire un inestimabile tesoro di famiglia. Ecco, ascoltiamo le loro filigrane. Come le bellezze architettoniche di Magliano dei Marsi, incastonate in un paesaggio lunare nel cuore del Parco regionale Sirente-Velino. Qui le pagine scorrono dagli insediamenti romani alle manifestazioni di oggi. A proposito di imponenza dell’antichità e di autorità spirituale,
Cesidio e Rufino. Se il duomo di San Flaviano è testimonianza di un massiccio edificio religioso, ecco arrivare il castello di Roccascalegna, esempio magistrale, superbo, dei castelli d’Abruzzo. Fra costoni di roccia che sfidano la gravità, qui si rincorrono storie di signorotti locali, ribellioni, scontri tra autorità religiose e militari. Letto l’articolo, da oggi ogni corvo porterà alla mente questo posto. La strada prosegue fino al crocevia tra arte e storie della sublime Abbazia di Santa Maria Assunta a Bominaco. E come ogni visita che si rispetti, ecco il momento della tavola. Con il pecorino di Farindola, dove il gusto si arricchisce con i segreti tramandati dalle donne.
Onna
l’affresco ritrovato testo e foto di Luana Cicchella
Nel tormento del dopo terremoto, un giorno, timidamente, alla perdita evocata fino allo stremo si affianca l’emozione di un ritrovamento. Una scena, maestosa e pacata insieme, emerge dall’intonaco della chiesa di San Pietro Apostolo. Il racconto di quel giorno di agosto, fra valore, potenza dell’arte e filo di speranza.
Tesori d’Abruzzo
F
ino a poche settimane fa, parlando del patrimonio storico artistico abruzzese colpito dal terremoto, una delle constatazioni più amare riguardava la “perdita”. Nonostante ciò da un po’ di tempo la situazione sembrerebbe aver assunto se non un’inversione di marcia, del resto impossibile, almeno un’apparente spostamento verso risvolti finalmente positivi. Lo scorso undici agosto, infatti, durante una delle tante giornate di recupero e messa in sicurezza delle opere danneggiate dal sisma, alla parola “perdita” si è potuto sostituire il termine “ritrovamento”. All’interno della chiesa di San Pietro Apostolo ad Onna (Aq), località simbolo del disastro seguito alla scossa dello scorso sei aprile, è stata rinvenuta una parte dell’ornamentazione pittorica che un tempo rivestiva le pareti interne dell’edificio religioso. Dopo la violenta oscillazione delle strutture architettoniche, buona parte dell’intonaco delle pareti si è staccato, così che dalle lacerazioni sono riemersi i frammenti di colore sugli strati murari più antichi. I dipinti murali, celati per secoli sotto il rivestimento barocco, fatto di vernice monocroma grigia, stucchi ed elementi architettonici decorativi come nicchie d’altare e paraste, consistono in immagini sacre devozionali. Per il momento l’unica porzione leggibile è quella con la scena della Crocifissione. L’opera, come si diceva, è stata scoperta durante una delle missioni di recupero del patrimonio che da quasi sei mesi la Soprintendenza locale, insieme con i Vigili del Fuoco ed i volontari di Legambiente stanno portando avanti. Ad Onna queste attività di recupero e messa in sicurezza, sono svolte in collaborazione con i volontari tedeschi che ogni giorno lavorano infaticabilmente alla rimozione delle macerie; grazie a loro sono stati rimossi tutti i detriti della
calotta crollata nella zona absidale e sono state recuperate due statue lignee di Santo Stefano e San Emidio. Nell’ambito dei ritrovamenti in Abruzzo, a parte le straordinarie scoperte archeologiche, quello dell’affresco di Onna è forse uno dei più emozionanti degli ultimi anni. L’entusiasmo per un tale
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La Crocifissione posta sul lato destro della controfacciata nella chiesa di San Pietro Apostolo
Gioielli
pastorali Decorativi o funzionali, come i fermagli per le cappe. Scaramantici, promessa d’amore o indicativi del patrimonio famigliare. Dal mondo della transumanza, passando per i registri dei notai e gli elenchi della dote, ecco oggi la storia dei gioielli pastorali. Fra riti di nascita e morte, scintillio di sacro e profano, ex-voto d’oro e argento, orecchini, anelli e collane per raccontare la vita quotidiana dell’ Abruzzo che fu
di Gabriella Cetorelli Schivo foto Alfredo Corrao
Presentosa in filigrana d’oro, nella versione “classica” (Fig. 1)
preziosi sentimenti
“Portava agli orecchi due grevi cerchi d’oro e sul petto la Presentosa una grande stella di filigrana con in mezzo due cuori” da Il trionfo della morte, di Gabriele D’Annunzio
Origini antiche I gioielli d’Abruzzo hanno una singolare matrice culturale che affonda le proprie radici in tempi remoti: è infatti legata alla diffusione della pastorizia che, dal Seicento in poi, muovendosi sui grandi percorsi tratturali verso l’Italia meridionale, portò alla realizzazione di cospicui patrimoni derivati dall’allevamento e dal commercio delle greggi. Il raggiungimento di uno status di agiatezza condusse ben presto alla necessità sociale dell’ostentazione dei propri beni tramite oggetti che attestassero il lusso e la prosperità conseguiti. Nacque così la volontà di esprimere, anche attraverso l’artigianato orafo, manifestazioni distintive delle diverse comunità abruzzesi. Tramite oggetti di grande pregio si raggiunse l’espressione più intima e spontanea dell’antica cultura pastorale, creando, ideando e preparando manufatti tesi a rappresentare un mondo dalle tradizioni intatte. Il gioiello divenne così raffinato “utensile”, elaboratore di immagini e di tecniche connesse ai sentimenti più profondi e radicati di un’intera comunità. Compito del gioiello, infatti, è quello di comunicare valori, esprimere il patrimonio familiare, contrastare la malasorte, enfatizzare gli abiti, indirizzare gli sguardi sulla grazia femminile. L’osservazione degli antichi gioielli d’Abruzzo trasmette importanti indizi sulla vita quotidiana femminile, come pure sulle manifestazioni di un’intera società, basata sul sistema delle famiglie e sui riti collegati agli eventi ciclici di nascita, matrimonio, maternità e morte, in un insieme di icone utilizzate per configurare l’immaginario collettivo sulla ricchezza, sul desiderio, sul culto, sulle credenze.
Cannatora con presentosa in filigrana di oro, sec. XIX (Fig. 2)
Nascita, matrimonio, maternità e morte. I gioielli scandiscono l’intera vita della donna che, nel caso di perdita di un parente stretto rinuncia addirittura, in segno di dolore e contrizione, ad indossarli per almeno tre anni, quando non trova il pretesto di esibirli con pietre nere, sottolineandole il valore di “ricordo”. Feste, processioni, cerimonie, tutto rappresenta l’occasione per ostentare, con compiacimento, la propria dotazione personale. Il repertorio dei gioielli è infatti uno degli insiemi che maggiormente le comunità allestiscono, tramandano e trasformano per stabilizzare la propria immagine e darle una continuità nel tempo. Così troviamo ad esempio i gioielli maschili, di tipo funzionale o apotropaico, come i fermagli d’argento (fig. 10) che chiudevano le grandi cappe dei pastori abruzzesi oppure l’orecchino d’oro a forma di bottoncino, cerchio o navicella.
Magliano montagna, arte e fiori Tra le valli del Salto e del fiume Velino, nel cuore del Parco regionale Sirente-Velino che si estende a cavallo tra Abruzzo e Lazio. Ecco Magliano dei Marsi, con le sue bellezze architettoniche incastonate in un paesaggio lunare. Dagli insediamenti romani alle manifestazioni di oggi di Maddalena Monaco foto Luigi Todisco
dei
Marsi
È dedicato a San Flaviano uno dei monumenti religiosi più importanti e simbolici della città di Giulianova. L’imponente duomo sorge nel caratteristico centro storico cittadino, sviluppatosi nel corso dei secoli sul dorso di un’altura da dove si scorge la costa adriatica. A testimonianza dell’autorità spirituale.
il Duomo del
Patriarca di Alessandra Angelucci foto Giovanni Lattanzi
S
econdo le fonti storiche il duomo fu realizzato nel decennio 1472-1481 seguendo inizialmente il progetto di Francesco di Giorgio Martini, famoso architetto e trattatista del Rinascimento, dalle cui idee iniziali, però, ci si distaccò, apportando modifiche al disegno originario. Come arriva, dunque e in quale epoca si diffonde a Giulianova il culto di San Flaviano? Secondo una leggenda, le spoglie del Santo vennero imbarcate per volere dell’imperatrice Galla Placidia per essere inviate a Ravenna. Durante il tragitto in mare, la nave, forse dopo una tempesta, approdò senza equipaggio sulla costa di Castrum Novum Piceni, l’odierna Giulianova, che da quel
momento prese il nome di Castel San Flaviano. Sulle sponde venne costruito un grande tempio dedicato al Santo patriarca e i suoi resti vennero collocati in un’arca di marmo. All’arricchimento del tempio, oggi non più esistente, contribuirono personaggi illustri come Carlo Magno. Attualmente le ossa del patriarca riposano a Giulianova, in luogo sicuro, in una cassetta-reliquiario d’argento, lavorata a sbalzo con indorature mentre è all’interno del duomo che da pochi anni è stata ricollocata, in tutto il suo splendore, la Statua del Santo, a seguito di un lungo restauro eseguito minuziosamente dall’artista locale Roberto Macellaro.
luogo, memoria, dinastia
i Cascella
Visitare il museo civico Basilio Cascella di Pescara è, per un appassionato d’arte, come visitare un luogo di “culto”. Racchiude la maggior parte delle opere di una delle “dinastie” artistiche più importanti d’Italia che opera, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, spaziando dal verismo di scuola napoletana, passando per il simbolismo, fino a giungere alle moderne tecniche di arte digitale, ovvero quella dei Cascella. di Mauro Di Cola foto Giovanni Lattanzi
D
a Basilio, il capostipite, poliedrico artista a tutto tondo, passando per i figli Tommaso, Michele e Gioacchino, che hanno spaziato con il loro gesto artistico sia nella pittura su tela, sia su maiolica, sia nel disegno, continuando con Andrea e Pietro (figli di Tommaso) con la loro acclarata arte scultoria, per poi giungere a Marco (figlio di Andrea) che si dedica
anch’esso alla pittura, come Tommaso Jr. (figlio di Pietro), pittore e scultore e Jacopo (figlio di Pietro) impegnato nelle incisioni d’arte. Infine, le ultime generazioni della stirpe dei Cascella, ovvero Matteo Basilè e Davide Sebastian (figli di Tommaso Jr.) che ripercorrono le “orme” della famiglia ma con un occhio ed una impronta rivolte alla moderne tecniche d’espressione artistica.
Sono ben 550 le opere contenute in questo scrigno d’arte, tra dipinti, maioliche, sculture - su tutte Il cavaliere nero di Andrea, vincitore alla Biennale di Venezia del 1964 -, disegni, litografie, bozzetti vari, poste sui due livelli dello storico edificio che fu, un tempo, solitaria officina di idee e di ispirazione artistica, antico spazio di lavoro e di vita, in cui prima Basilio vi si stabilì per lungo tempo
Il dipinto “Il bagno della pastora”.
luce e splendore a
Da un luogo teatro di martirio per i primi cristiani, intrecciando la storia con il prosciugamento del fucino e il terremoto del 1915, nasce il centro di culto dedicati ai santi martiri Cesidio e Rufino. Storie di recuperi e modifiche nel tempo, fino al parroco di oggi e alla sua continua opera di scavo di Leonello Farinacci foto Giovanni Lattanzi
Trasacco
T
ra le tante leggende che aleggiano intorno alla fondazione del borgo, la più famosa di queste racconta che i cittadini di Amnium, città romana fondata intorno al 300 a.C. vicino al fiume Sangro, per sottrarsi alle continue incursioni di pirati e banditi, si trasferirono verso l’interno dando vita a diversi villaggi, tra cui Roccascalegna. 58
La tradizione popolare vuole che i “fantasmi” degli antichi abitanti di Aminium vaghino ancora nei territori bagnati dal fiume Sangro. L’etimo di Roccascalegna, secondo alcune fonti, deriva dal nome proprio di un nobile longobardo, “Aschari”; secondo altri, dal termine “Scarenna”, ovvero fianco scosceso di una montagna.
il castello di
Roccascalegna di Nicoletta Travaglini foto Paolo Jammarrone
Adagiato lungo le pendici di un colle, ai piedi della “Grande Madre”, la Majella, tra i fiumi Sangro e Aventino, sorge il borgo medioevale di Roccascalegna. Spicca, dominando in tutta la sua maestosità, immerso tra boschi di macchia mediterranea, uliveti e querce, la ieratica sagoma di un magnifico castello costruito su uno sperone di roccia calcarea.
tra mito e realtà La trasmissione di memorie vuole invece che il nome derivi dal fatto che, per accedere alla torre del castello, vi fosse in passato una scala di legno, come riportato sullo stemma del paese. Roccascalegna era delimitata in passato da due porte d’accesso, “Porta del Forno” e “Porta della Terra”. Attraverso la prima, così chiamata perché posta nelle vicinanze di un forno, oggi si
accede al borgo vero e proprio. La parte antica di questo meraviglioso angolo d’Abruzzo si sviluppa ai piedi della roccia calcarea alla cui sommità svetta il maestoso castello a cui è legato “un misterioso fatto di sangue”. Sulle origini del maniero non vi sono elementi precisi, ma dalle fonti storiche si ne deduce che esistesse già nel XIV sec. 59
crocevia di arte e storia di Francesca Larcinese foto Giovanni Lattanzi
A
ffidandoci alla puntigliosa indagine storica dell’Antinori apprendiamo, che un monastero, in Mamenacus, antico nome di Bominaco – fra i borghi più suggestivi della piana di Navelli esisteva certamente già nell’anno 1001 quando ricevette una donazione da parte di Oderisio, conte di Valva. Ma la storia del monastero con la sua abbazia ed il
piccolo oratorio è una storia che oggi definiremmo ”tormentata”: divenuta dipendenza dell’abbazia di Farfa, al principio dell’XI secolo, già nel 1093 il monastero venne donato al capitolo di San Pelino e al vescovo di Valva: i monaci tuttavia non vollero mai soggiacere a tale decisione al punto che la definitiva sottomissione al vescovo valvense avvenne soltanto nel 1342. Di lì a poco il monastero venne assegnato da papa Martino V alla diocesi dell’Aquila, cosicché, quando il condottiero Braccio da Montone iniziò nel 1426 la propria guerra contro la città dell’Aquila, anche Bominaco ed il suo cenobio ne rimasero coinvolti, risultandone fortemente danneggiati. La vita del monastero proseguì ancora per tutto il XV secolo, ma l’assoggettamento diretto alla Santa Sede voluto nel 1456 da papa Callisto III diede ai monaci l’impulso all’abbandono del cenobio che così si estinse nel suo aspetto di complesso monastico, proseguendo invece la propria esistenza come semplice parrocchia. Nonostante la fierezza dei monaci e la resistenza alle decisioni pontificie, essi trassero taluni benefici dall’appartenenza alla diocesi di Valva, che fornì loro, già sul finire dell’XI secolo, i fondi necessari per la costruzione di un grande edificio ecclesiale, la chiesa di Santa Maria Assunta: esso costituì il perno del monastero, eretto alla sua destra, di cui oggi non rimangono che scarse tracce delle mura. continua a pag. 69
Santa Maria Assunta di Bominaco Uscita pressochĂŠ indenne dai danneggiamenti del sisma del 6 aprile 2009, rimane ancora oggi a testimonianza della grandezza di un ordine, quello dei monaci benedettini e della forza di un popolo, come quello abruzzese, capace, con la propria caparbietĂ di fronteggiarsi non solo con le piĂš alte istituzioni della storia, ma anche con le piĂš violente forze della natura
ph. Andreas Waibl
quando il
pecorino si fa buono di Ivan Masciovecchio
Tesori d’Abruzzo Superato il comune di Penne, lungo la strada che conduce sul versante orientale del Gran Sasso, Farindola sembra non arrivare mai. Ma è proprio qui, tra le pieghe tortuose delle curve a gomito, i prati a perdita d’occhio e le verdi montagne che prende forma - e sapore - quello che nel giro di pochi anni è diventato il suo fiore (o sarebbe meglio dire ‘cacio’) all’occhiello. Vera gioia del palato e prelibatezza gourmet
C
onosciuto ed apprezzato già in epoca romana con il generico nome di “formaggio dei Vestini”, il Pecorino di Farindola acquisisce nome proprio ed esplicita cittadinanza nei primi anni del secolo scorso, quando il paese vantava la più alta concentrazione di ovini della zona, oltre ad una vasta disponibilità di pascoli rigogliosi. Negli anni successivi alla seconda Guerra mondiale, il progressivo spopolamento dell’area ne ridusse drasticamente la produzione, determinando il crollo del suo valore commerciale e la sostanziale scomparsa. Meritoriamente, sul finire degli anni novanta, si è avviato un lento processo di recupero e valorizzazione, grazie anche all’interessamento e all’opera dell’associazione Slow Food, culminato nel 2001 con l’istituzione del Presidio a garanzia della sua qualità e biodiversità. Da allora, il Pecorino di Farindola è diventato una riconosciuta eccellenza alimentare della nostra regione, ambito ed apprezzato dai buongustai di tutto il mondo. La sua caratteristica principale consiste nell’essere probabilmente l’unico formaggio al mondo, sicuramente il solo in Italia, ad utilizzare il caglio liquido di suino. Il Consorzio di Tutela, nato nel 2002 grazie alla collaborazione tra i comuni dell’area tipica di produzione (Farindola, Montebello di Bertona, Penne, Villa Celiera, Civitella Casanova, Carpineto della Nora in provincia di Pescara e Arsita, Bisenti e Castelli in quella di Teramo), il Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga,
l’Arssa - Agenzia regionale per i servizi di sviluppo agricolo e Slow Food, prevede un disciplinare di produzione particolarmente rigido, a cominciare dalla materia prima, ovvero il latte. Che deve essere munto a mano, derivante da pecore di razza Pagliarola Appenninica allevate il più possibile allo stato brado sulle alture della fascia pedemontana vestina ed alimentate solo con erba, fieno e concentrati tradizionali (mais, orzo, grano, fave, ecc.). Una volta raccolto, opportunamente filtrato, viene portato a circa trentasei-trentasette gradi, mescolandolo continuamente.
È qui, in questa fase della lavorazione, che entra in gioco il caglio di maiale che permette al latte di coagulare e di formare la cosiddetta cagliata. Il caglio è ottenuto dalle mucose dello stomaco del maiale, lavate, tagliuzzate a listarelle, salate e messe in infusione con una miscela di aceto e vino bianco per circa tre-quattro mesi. Rotta la cagliata, sempre rigorosamente a mano, la massa viene posta in fiscelle o canestrelli dove viene salata alternativamente su entrambe le facce e fatta riposare. Estratta dalla fiscella, la forma inizia il processo di stagionatura, che può durare da quattro mesi ad un anno, durante il quale verrà unta periodicamente con un mix di olio extravergine di oliva ed aceto per evitare la formazione di muffe e, allo stesso tempo, conferire alla pasta morbidezza ed aromi. Quello che, però, rende davvero unico il Pecorino di Farindola è la sua straordinaria capacità di saper raccontare un territorio, la sua storia millenaria giunta fino ai nostri giorni, i gesti semplici e i piccoli segreti di una lavorazione lenta e meticolosa, riservata esclusivamente alle mani di donne capaci di trasmettere alla “forma di cacio” il proprio sapere antico, tanto da imprimere il proprio nome sull’etichetta del prodotto finito. Paolina, Domenica, Ioletta e le altre; sono loro le artefici di questa meraviglia, le madri di questo ambasciatore del gusto. Ed è a loro che dobbiamo dire grazie se ancora oggi il miracolo si rinnova. 71
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