“IL RITMO è COSTITUTIVO DELL’ESTETICO” Tesi di Laurea Triennale di Graphic Design di Debora Pasotti A cura di Massimo Marra
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SOMMARIO Premessa pag. 7 1. Il ritmo è costitutivo dell’estetico pag. 9 1.1. Collaborazioni artistiche pag. 14 2. Modelli di Ritmo pag. 16 2.1. Cinema pag 16 2.2. Parate militari pag. 18 2.3. Religione pag. 18 2.4. Le comiche pag.18 3. Storia (dell’arte) del ritmo pag. 21 3.1. In conclusione pag. 26 4. Leggere un’opera d’arte pag. 29 4.1. Vedere - Guardare -Osservare pag. 30
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4.2. Superamento degli stereotipi pag. 32 4.3. Da denotativo ad estetico: superamento dell’individuazione isolata pag. 32 + Lo stereotipo e l’individuazione isolata pag. 33 4.4. Principio di economia della mente pag. 35 + Gli esperimenti di Yarbus pag. 36 4.5. Composizione pag. 38 4.6. Aspetto cromatico pag. 38 4.7. Peso visivo pag. 40 5. Il ritmo nelle opere d’arte pag. 45 5.1. Inquadramento Desemantizzazione - Trasgressione pag. 50 Bibliografia pag. 57 Ringraziamenti pag. 59
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PREMESSA A primo impatto sono rimasta colpita e con un enorme punto interrogativo sulla testa. Da una semplice ma allo stesso tempo alquanto complessa frase: “Il ritmo è costitutivo dell’estetico” dovevo trovare qualcosa di buono, qualcosa di comprensibile, concreto ma soprattutto convincente. Digitando questa frase su Google sono subito risalita a Silvio Ceccato, illustre filosofo, musicista, saggista, e studioso di Milano che si è occupato dei processi mentali. La NATO gli ha commissionato la “Macchina Pensante” che non fu mai realizzata ma ne rimangono incompiuti gli studi. In questa tesi si parla di arte, trattando principalmente il tema del ritmo applicato all’arte, alla musica, al cinema, alla filosofia seguendo gli studi di Ceccato, Parini, ma anche di alcuni filosofi che grazie alle loro teorie, mi hanno permesso di capire al meglio questo tema, la sua origine. Lo scopo principale è quello di sollecitare la vostra mente ad operazioni mentali in grado di farvi vedere le cose da un altro punto di vista. Per quanto le operazioni mentali siano spontanee, deliberate, vanno sorrette da una nostra disponibilità che è, più che un dono, un compito, una educazione. In questa mia ricerca cercherò di esaudire tutte le questioni in merito al ritmo, partendo dalle sue origini radicate nell’antica grecia, parlando della composizione, dei vari atteggiamenti con i quali ci approcciamo all’arte e per finire con alcuni esempi di ritmo applicato all’arte. Vedremo come la realtà non è tutto ciò che ci circonda, poichè ognuno vede ciò che vuole vedere, che conosce perché la nostra visione della realtà dipende dalle nostre conoscenze. Più attenzione è uguale a più osservazione che è uguale a più conoscenza. Concludo dicendo che il futuro è di chi sa osservare, comprendere, di chi non smette di voler conoscere.
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1. IL RITMO è COSTITUTIVO DELL’ESTETICO
“Nessuna gioia è più grande del sentire la propria mente che si espande.” Silvio Ceccato da “Mille tipi di bello”
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“Il ritmo è costitutivo dell’estetico e solo in parte dell’artistico” con questa frase, Sivio Ceccato vuole affermare che per avere l’artistico occorre arricchire quel che facciamo in atteggiamento estetico con l’aggiunta di ulteriori atteggiamenti e quindi valori. Possiamo affermare che il ritmo è alla base d’ogni forma d’espressione, artistica e non, anche se spesso non ne siamo consapevoli. Il ritmo si costituisce grazie all’attività dell’attenzione e della memoria, i due organi costitutivi della mente che operano sempre in sinergia, con quello che Ceccato chiama “modulo sommativo”. Alcuni rumori non sono propriamente un ritmo ma nell’udirli siamo capaci di organizzarli in una “successione”, possiamo collegarli secondo una certa regola: questa regola è appunto il ritmo, il nostro ritmo costruito su quei rumori (Leonardo da Vinci aveva notato, per esempio, come la mente riesce ad immaginare parole e frasi nel suono delle campane). Pensando ai fenomeni fisici come dati oggettivi, viene spontaneo attribuirgli leggi, strutture, ritmi, come fossero loro proprietà naturali. L’atteggiamento scientifico scaturisce proprio da questo assumere una incognita per volta e dal rendere ripetibili le operazioni svolte. I suoi valori sono “vero” e “falso”, ma non il Vero e Falso assoluti, bensì un “vero” e “falso” risultanti dal confronto tra due operare consecutivi per vedere se i risultati in entrambe i momenti sono trovati uguali (“vero”) o diversi (“falso”).
Quindi due valori perfettamente controllabili. Quando invece ci chiediamo se qualcosa ci piace o no, se qualcosa è bella o brutta, di fatto assumiamo l’atteggiamento fondamentale per comprendere meglio l’arte: l’atteggiamento estetico. Sin dai tempi dell’analisi operativa, era emerso come nell’atteggiamento estetico si operasse una sorta di seconda percezione sulla prima, ovvero su quella che ci permette di descrivere le cose sul piano di cronaca. L’osservatore osserva se stesso che sta osservando, e da questa seconda osservazione ricava le sue sensazioni piacevoli o spiacevoli, nonché la sua prima impressione che può essere tanto quella di un distacco dall’opera d’arte quanto quella di immedesimazione. Per ogni cosa che ci troviamo davanti possiamo chiederci se ci può piacere o meno, per le opere d’arte il “mi piace” o il “non mi piace” spesso prende il posto di “bello” e “brutto” come giudizio chiaramente personale. Nell’estetica si è avuta anche una corrente edonistica e si è giunti persino a indentificare nel piacere l’estetico o l’artistico (questo è dovuto principalmente agli indirizzi di pensiero positivistici, sensistici e vitalistici; per citare dei nomi Guyau, Taine, Nietzsche, Darvin ecc.) Un possibile accompagnarsi dell’estetico, sia per il creativo che per il fruitore, va ai sentimenti, alle emozioni, agli stati d’animo di ogni genere.
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Con essi si modifica il funzionamento di certi organi il cui andamento è ritmico, o almeno ciclico: il cuore pulsa più o meno velocemente, il respiro si fa corto o lungo, il corpo si muove con nervosismo, compaiono dei tic, ecc. La tecnica d’indagine è di assumere diversi atteggiamenti, con alcune cose il più possibile neutre: dapprima come semplici oggetti di percezione o rappresentazione; poi come oggetti estetici ed infine come oggetti belli o brutti, piacevoli o spiacevoli. Nel caso del “bello” e del “mi piace” il ritmo della frammentazione estetica, pur ristrutturando l’oggetto, non va a scontrarsi con l’articolazione dovuta alle attività percettiva o rappresentativa o di pensiero che costituiscono quanto si giudica; anzi, esso vi si trova sostenuto, avendo l’impressione potersi lasciare andare risultando, tonificati od almeno rasserenati. Nel caso invece del “brutto” e del “non mi piace” ci si sente frenati o sospinti, da attività in contrasto tra loro, in un certo caso ritratti nel nostro ritmare che dobbiamo così tenere in piedi da soli. L’analisi operativa di queste nozioni mostra però come anch’essere risultino rispettivamente da una compiutezza o incompiutezza, cioè da un nostro non dover- poter fare più nulla e da un dover-poter fare ancora qualcosa: non si ha più il senso di una concezione dinamica della mente, se non proprio in riferimento a due attività sotto qualche aspetto rispettivamente coincidenti o contrastanti, e non essendo distinte le due attività, si vedrebbe altra loro coincidenza se non quella temporale. Ritornando ai primi tempi dell’analisi operativa, ove, per carenza di analisi, l’attività attenzionale era rimasta fusa con il funzionamento degli organi ed era divenuta un “differenziare” cui si doveva attribuire anche la funzione di frammentare il loro flusso, non era facile compiere un ulteriore passo per l’individuazione dell’originalità dell’atteggiamento estetico. Una volta isolata l’attività attenzionale, il gioco sperimentale doveva portare a cogliere l’operare caratteristico dell’estetica. Per fare un semplice esempio, possiamo fare riferimento ad un suono uniforme come quello scaturito dalle pale del ventilatore da soffitto, una volta ascoltato, potremmo chiederci se ci piace o no, se è bello o brutto: ciò che prima fluiva informe, ora veniva articolato, e precisamente frammentato secondo un ritmo. Per rendere ancora più chiaro questo concetto possiamo provare con un esperimento ottico: guardando una parete di un colore omogeneo, poniamoci le stesse domande, aggiungendo magari il proposito di considerarla un’opera d’arte. Possiamo notare come ritroviamo quella frammentazione ritmica, con due possibilità, ovvero di non spostare l’attenzione sicché la scansione si limita nel tempo, oppure di lasciarla vagare sulla parete, quando questa si spostava nello spazio. Questo tipo di esperimenti può essere praticato con tutti i sensi e una volta indentificato il ritmo in queste situazioni, non è difficile applicarlo anche nelle situazioni più complesse e distraenti, per esempio nei tracciati di ogni genere, nella quotidianità, nella pittura e nella scultura, nella musica, analizzandole nelle sue forme e nei suoi colori. Possiamo quindi trovare una soluzione anche per la questione del contenuto e della forma. Le difficoltà a risolverla nascono, molto probabilmente, dall’impossibilità sui presupposti naturalistici di tener separati
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due contenuti: quello pretestuale, di cronaca, quando è presente, e quello risultante della frammentazione ritmica, cioè il contenuto dei singoli passi di frammentazione. Solo quest’ultimo appartiene di diritto all’artista; il primo non solo non può esserci, come per esempio nel caso dell’arte astratta, informale ecc., o della musica cosiddetta pura, cioè non accompagnata da parola, non imitativa o di poema, ma rientra di volta in volta, nei vari domini, nella vita quotidiana, della scienza, della magia, della politica, della religione e simili. Si comprende anche come la tesi dell’arte quale imitazione di natura o si qualsiasi realismo siano del tutto fuori proposito: non si tratta ne di copiare ne di non copiare, perché in ogni caso la frammentazione ritmica ha una vita sua. La consapevolezza operativa a proposito di estetica ci suggerisce di allargare il campo in tre direzioni: studio dei giudizi di bello e brutto, di mi piace e non mi piace, e lo studio dell’arte in relazione con gli stati affettivi, emotivi sentimentali.
Come abbiamo già detto, per quanto riguarda il “bello” e il “brutto” è possibile farli dipendere da una coincidenza in modo tutt’altro che elementare poiché, fra i tempi di frammentazione, da un lato ci troviamo al fatto di cronaca, percettivo, rappresentativo, di pensiero ecc., e dall’altro al ritmo che ad esso si sovrappone assumendo l’atteggiamento estetico. Inoltre possiamo notare come la nostra mente sia fortemente influenzata dalla simmetria, che è forse una delle leggi più importanti della nostra esistenza, una legge che affonda le radici nella memoria biologica, che altro non è se non una ripetizione variata che assicura insieme con l’eguaglianza la continuità, la coerenza, l’economia, e con la differenza ogni possibile sviluppo. La simmetria è anche la prima legge con cui costruiamo trasformando le cose, cioè dell’operare con le mani; è la legge del cosmo contro il caos. È prevedibile come che la frammentazione ritmica segua l’operare percettivo, di pensiero ecc., rendendo l’opera monotona, per nulla interessante; sia che la frammentazione ritmica entri in contrasto con l’operare percettivo ecc., rendendo l’opera oscura, ostile ecc., e comunque in entrambi i casi con un giudizio negativo. Oppure può succedere che le due frammentazioni si sostengano, si integrino, in modo che il giudizio finale sarà positivo. Come è possibile notare da quello scritto sino ad ora, sulla nozione di “ritmo” si possono fare molte riflessioni interessanti. Va chiarita la questione della sua oggettività o soggettività, perché sicuramente non tutti sono d’accordo nell’accettare né l’origine mentale del ritmo né l’origine mentale dei giudizi di oggettività e soggettività, che sono sempre stabiliti in base a dei criteri. Se qualcuno sostiene per esempio che sono dei ritmi naturali: il moto periodico della Terra e dei pianeti sul loro asse, il loro moto periodico intorno al sole, l’alternarsi regolare delle stagioni, ecc., ad essi obietto dicendo: minuti, ore, giorni, mesi, stagioni, anni, ecc. sono principalmente una mirabile costruzione culturale, un reticolo di relazioni temporali fatto dall’uomo per l’uomo. Se infatti è vero che tali relazioni sono state poste tra osservati ciò non le trasforma in dati osservativi. Analogamente, quando giudichiamo una successione di elementi come “periodica”,
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di fatto, siamo sempre noi che abbiamo posto come “stesso” l’elemento considerato “inizio” e poi “fine” della successione medesima. Se ci si sofferma sull’idea di poter osservare in modo oggettivo, è impossibile negare come ciò appaia una palese contraddizione. Il primo termine implica un soggetto osservatore, il secondo tende ad escluderlo. Nell’analisi operativa la distinzione fra “soggettivo” ed “oggettivo” corrisponde a due modi di operare del soggetto, la presenza di questo non può essere eliminata ma nell’oggettivo essa è comunque sottratta al valore dato ai risultati dell’operare. Nella soggettività la cosa è assunta come uno svolgimento al quale è dato come soggetto l’io, nell’oggettività operiamo invece facendo seguire alla categoria dell’io quella di oggetto. Quando prendiamo in considerazione qualcosa per giudicarla esteticamente possiamo operare in chiave soggettiva, e allora diciamo che “ci piace o non ci piace”, oppure operare in chiave oggettiva, e diciamo allora che “è bella o brutta”, in entrambe i casi noi operiamo frammentando ritmicamente con l’attenzione quella cosa. Se vogliamo fare qualcosa che ci piace, qualcosa di bello, con le note, i colori, le linee, ecc., operiamo sempre con l’attenzione per organizzare queste in un ritmo, attraverso il modulo sommativo. Sia nel primo caso che nel secondo non è necessario che i vari frammenti attenzionali contengano sempre la stessa cosa o più cose uguali, oppure necessariamente sempre una cosa diversa o più cose diverse, quello che conta è che i frammenti attenzionali siano considerati uguali. Poeti, musicisti, pittori, scultori, architetti, registi, ed in genere tutti quelli che ope-
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rano assumendo l’atteggiamento estetico, usano l’attenzione per costituire dei ritmi. La ritmicizzazione si sviluppa nel tempo, perché i frammenti attenzionali vengono sommati in successione temporale, da un prima ad un poi, ma non sul tempo perché la mente adotta il modulo sommativo senza la necessità di costituire anche la categoria di “tempo”. I complessi calcoli della suddivisione metrico-temporale del Solfeggio non coincidono con il senso ritmico-musicale, non a caso il computer che rispetta perfettamente le durate delle note e delle pause non produce musica piacevole. Il computer non ha programmi che gli conferiscano un proprio senso ritmico. Pur consapevole di ciò il teorico condizionato dal conoscitivismo non riesce ad individuare la ragione per la quale metro e ritmo non sono la stessa cosa. Una soluzione apparente è stata quella di assegnare oggettività al metro e soggettività al ritmo, ma essa non è soddisfacente proprio perché si basa sul presupposto filosofico del raddoppio conoscitivo del percepito, con una presunta diversa localizzabilità del metro, dato in un ipotetico esterno, e del ritmo, dato in un altrettanto supposto interno dell’uomo. Le illimitate scansioni temporali del metro si possono elaborare con il metronomo, con l’orologio, esse hanno la funzione di stimolare e sostenere il ritmo ma non corrispondono ad esso, la frammentazione ritmica è eseguita soltanto dalla mente quando assume l’atteggiamento estetico.
A lato: Fontana, coi suoi fendenti sulla tela squarciava lo schermo dove ci si illudeva di poter rappresentare la “realtà” della quale saremmo i passivi osservatori, quella che Ceccato definiva la “svista conoscitivistica”.
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Possiamo attribuire gran parte dei risultati dell’analisi sull’attività figurativa in atteggiamento estetico ad alcuni insegnanti e artisti, in particolare, ad un “seguace” di Ceccato, il professor Parini Pino, artista, coordinatore, sperimentatore di applicazioni didattiche nonché mio docente. Parini descrive la sua esperienza con queste parole: “L’incontro che a prima vista potrebbe essere sentito limitante, mostra all’opposto lo possibilità di dare all’artista una più profonda consapevolezza del suo operare facendogli acquisire un impareggiabile strumento di educazione delle sue capacità intellettuali ed espressive. La difficoltà maggiore, avvertita all’inizio, proviene dalla abitudine di considerare le cose date a noi in blocco, sia nella percezione che nella rappresentazione, per cui sarebbe dinamica soltanto la manipolazione del materiale impiegato per riprodurle.” Ed ancora: “Ci si deve presto convincere che ogni oggetto presenta una sua struttura specifica, per la quale appartiene una certa specie, almeno per noi, dopo secoli di civiltà e di uso delle parole. Si nota inoltre come queste operazioni si inseriscano fra movimenti privilegiati, quali il verticale, l’orizzontale o lo spostamento a destra e sinistra. Nell’attività figurale influiscono anche elementi di simmetria, cioè di ripetizione variata. Una simmetria che viene però in un certo senso rotta e ricostituita dalla frammentazione ritmica, tipica di chi si atteggia esteticamente”. Grazie a Parini e al suo gruppo di ricerca, si è in grado di avere in mano degli strumenti che
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ci permettono di analizzare ciò che ci circonda, con occhio critico, e se dotati di impegno, analizzando quanto si è trovato nella sperimentazione, saggiandone la validità al mutare di contesto, sino ad indagare le categorie in esame al di fuori del contesto applicativo, ponendosi delle domande. È possibile raggruppare gli esperimenti condotti dal gruppo di Rimini in diversi punti: a) Studio delle operazioni costitutive della figurazione, intesa come attività dell’attenzione che si appoggia su un posto, e si muove da posto a posto mantenendo i precedenti, con tutto un gioco temporale di accelerazioni, rallentamenti, arresti e riprese. b) Individuazione degli elementi costitutivi delle varie figure o forme dotate di nome, con formulazione di domande come: Quali sono le operazioni con cui riconosciamo-costruiamo la forma, per esempio, di un bue? Quali sono i punti essenziali per la costruzione? Di quali rapporti si deve tener conto? Come avviene la sua elaborazione volumetrica? c) Ricerca di figure alternanti in cui sia particolarmente evidente il gioco attenzionale del “tenere” e “lasciare”, del “comporre” e dello “scomporre” i frammenti attenzionali ottenuti. d) Adozione di una figura geometrica cui fare assumere diversi orientamenti spaziali che rispondono con maggiore o minore felicità a categorizzazioni quali: “pesante”, “leggero”. “elegante”, “goffo”, “slanciato”, “tozzo”. e) Mantenimento di un’unica figura con un solo orientamento, forzandone le differenti catego-
rizzazioni, per mezzo di domande quali: che cosa facciamo di diverso per vederla una volta come pesante ed una volta come leggera? f) Induzione di interpretazioni-operazioni diverse per mezzo di differenti designazioni. Ad esempio:
Foglia Frattura di vetro Rondine
Fantasma
Stella
g) Osservazione dello stesso oggetto o figura in atteggiamento di descrizione semplice o di cronaca, e in atteggiamento estetico. Per esempio un vaso, analizzato nel primo caso per le sue parti funzionali (bocca, manici, base, capienza) e nel secondo ponendo rapporti di simmetrie, contrapposizioni ecc.
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2. MODELLI DI RITMO
In tutto ciò che ci circonda, se siamo predisposti all’analisi e ad uno studio più approfondito, possiamo notare la presenza del ritmo.
2.1. - CINEMA Per esempio, una fondamentale presenza del ritmo la possiamo trovare nell’arte cinematografica, per esempio nella scrittura della sceneggiatura, nelle fasi di ripresa e di montaggio. Il problema dei vari operatori è quello di costituire un ritmo adeguato, previlegiando alcuni criteri piuttosto che altri, tagliando ciò che è considerato inutilmente ripetitivo, prolisso, ecc., mantenendo un sostanziale equilibrio tra le singole scene e la struttura complessiva da dare al film. Nel calcolare la lunghezza di ogni scena devono essere affrontati diversi problemi, per esempio: stabilire la durata dei dialoghi e delle sue pause; decidere quali movimenti degli attori e della telecamera sono più efficaci, in base a certi criteri anziché ad altri; ecc.. La lunghezza di una scena deve poi essere rapportata a quella delle altre, evitando sproporzioni che renderebbero sbilanciato e magari poco credibile l’insieme, se non addirittura noioso il film. Utilizzare un ritmo diviene di fondamentale utilità per sincronizzare i movimenti e gli sforzi di più persone nel lavoro; per ottimizzare l’uso dei propri sforzi svolgendo attività fisica; per mantenere un
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certo equilibrio; ecc. . La questione del rapporto tra l’arte e la vita sociale ha svolto sempre un ruolo di notevole importanza in tutte le letterature che abbiano raggiunto un certo grado di sviluppo: per fare un esempio l’antropologo russo Georgij Plechanov (1856-1918) nel suo scritto “Studio sullo sviluppo della concezione monistica della storia”, studiando i comportamenti gestuali degli uomini di varie popolazioni, ha concluso che la scelta dei gesti e dei loro ritmi non è del tutto arbitraria ma è legata alle attività di sopravvivenza. Nella costruzione degli oggetti l’assunzione di un ritmo costituisce un principio di economia, perché consente di ripetere le stesse operazioni non dovendo cambiarle ogni volta. L’invenzione e l’utilizzo delle macchine non sono altro che la trasposizione automatizzata delle operazioni ripetitive prima svolte dagli uomini o dagli animali.
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2.2. - PARATE MILITARI
2.4. - LE COMICHE
Un altro esempio di ritmo nella quotidianità lo possiamo vedere nelle parate militari ove i ritmi sono fortemente scanditi, schematici, ripetitivi. I soldati, come automi, eseguono all’unisono gli stessi medesimi movimenti meccanici. Nella colossale macchina della guerra essi come individui contano poco o nulla, sono soltanto un ingranaggio. Privi di una volontà propria devono obbedire impavidi, con l’imperturbabilità di un carro armato.
Un altro esempio lo possiamo trovare nelle Comiche ove le azioni sono caratterizzate da ritmi veloci, scattanti, i fatti si susseguono in modo rocambolesco, con errori a catena il cui esito non è mai catastrofico, risulta invece sempre miracolosamente positivo. La comicità è paradossale, si basa sul ribaltamento logico delle situazioni più comuni, pare spontanea ma di fatto è un calcolo perfetto dei tempi. Per comprendere questo basta pensare alle geniali gag di Charlie Chaplin, del meno fortunato Buster Keaton e dell’ancor più sventurato Larry Semon, noto in Italia come Ridolini. Chaplin, Keaton e Semon si sono accorti che anche l’azione considerata più banale poteva diventare ridicola semplicemente accelerandola, attribuendole un ritmo fuori dal normale. Nel film del 1940 “Il Grande dittatore” Chaplin veste i panni di un barbiere ebreo che rade un preoccupato cliente al ritmo frenetico della famosa Danza Ungherese n.5 di Brahms; sia la sequenza di gag del film “Tempi Moderni” in cui Chaplin nel ruolo di un imbranato operaio è alle prese con gli insostenibili ritmi della catena di montaggio. È un passo antifilosofico importantissimo quello di comprendere il ruolo dell’assunzione del modello anche nella costiturzione delle situazioni comiche
2.3. - RELIGIONE Nei rituali religiosi e regali i ritmi sono in genere caratterizzati da relativa lentezza. La solennità è stata associata alla gravità, alla pesantezza, non di ciò che è considerato monotono bensì di ciò che è giudicato importante e che perciò può svolgersi lentamente. Una certa lentezza amplifica ed evidenzia l’importanza delle azioni perché chi comanda può permettersi di prendere tutto il tempo che vuole. I tempi lenti si addicono alle persone, ai gesti ed alle azioni nobili, favoriscono la riflessione, aiutano a mantenere il controllo della situazione e quindi il decoro, la dignità (penso al modo in cui parlano certi politici o intellettuali che contano).
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e umoristiche. Solo assumendo dei ritmi come modello di normalità possiamo costituire in rapporto ad essi dei ritmi innaturali, caricaturali, stravaganti, ecc., a seconda delle correlazioni consecutive implicate. Gli sketck comici, le barzellette, le battute di spirito, si reggono su precisi ritmi, tanto che si parla di “tempi comici”, questi hanno la funzione di accumulare attenzione negli spettatori e auditori, portandoli alla fase finale, in cui si ha la ricategorizzazione valoriale, fase caratterizzata da rapidità e imprevedibilità. Solo in seguito a questo, come un’esplosione irrefrenabile, scatta la risata. Negli “scherzi” l’azione in essi deve essere caratterizzata da leggerezza, ottenuta depistando brevemente l’amico per sorprenderlo in modo positivo, per ridere insieme ad esso. Quando invece ci troviamo nella situazione in cui l’azione è appesantita lunghe attese e con esiti di cattivo gusto, per ridere della persona anziché con lei, non si tratta più di uno “scherzo” perché l’azione diventa causa d’umiliazione e non è più divertente. Parliamo allora di “beffa”, che implica un particolare compiacimento in chi deride o
raggira, oppure di “scherno”, che comporta disprezzo e volontà di recare offesa, d’insultare, ecc.. L’ironia si costituisce con una particolare intonazione della voce e con un ritmo leggermente alterato, affermando il contrario di quello che si vuol dire. Solo le differenze di tono e ritmo rivelano che la frase non va presa alla lettera. Sulla base di un certo stimolo fisico noi operiamo con il modulo sommativo la costituzione del ritmo, parallelamente a ciò siamo indotti ad aggiungere altri elementi tratti dalla nostra memoria, dalla rete delle correlazioni consecutive. La costituzione del ritmo risulta perciò direzionata, e in un certo senso condizionata dal nostro bagaglio mnemonico, ovvero dalle azioni compiute in precedenza. Questo ci aiuta a comprendere il perché gli stessi stimoli fisici, non ancora categorizzabili come “ritmi”, possano stimolare l’interesse di alcuni, suscitare noia in altri, provocare divertimento o irritazione, oppure indurre veri e propri stati ipnotici. Sotto a sinistra: parata militare, ritmi sono fortemente scanditi, schematici, ripetitivi. Sotto a destra: Charlie Chaplin in “Tempi Moderni” nel ruolo di un imbranato operaio è alle prese con i ritmi frenetici della catena di montaggio.
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3. STORIA (DELL’ARTE) DEL RITMO
Nell’arte contemporanea, almeno in certe sue manifestazioni (Arte Concettuale, Minimale, ecc.) è emerso spesso in modo preponderante l’aspetto contenutistico, teorico, quindi intellettualistico, a scapito della componente più propriamente estetica del ritmo. Tale componente tuttavia, proprio perché costitutiva dell’atteggiamento estetico, non può mai mancare, neppure nei casi più estremi. Il ritmo è il punto di partenza di ogni composizione musicale ma anche di ogni opera d’arte. Tutto ciò che ci piace diventa ritmico, in modo inequivocabile, e questo perché quando valutiamo esteticamente qualcosa abbiamo operato su di essa, con l’attenzione, una frammentazione ritmica. Grazie a certe forme d’arte moderna (Espressionismo, Cubismo, ecc.) alcuni sostengono che “anche la bruttezza è entrata a pieno titolo nel mondo dell’arte, del bello”, come se questo mondo fosse stato sempre e soltanto il dominio della bellezza. Ma affermare che essi dimenticano Leonardo, Bosch, Goya, ed il loro interesse estetico per le deformità fisiche, anche se utilizzate principalmente come indice delle aberrazioni morali dell’uomo, non è una obiezione soddisfacente. L’atteggiamento estetico non va confuso con il bello o il brutto, essi ne sono soltanto i due valori principali, positivo il primo, negativo il secondo. L’arte ogni qualvolta che sono state presentate novità eclatanti ha suscitato quasi sempre reazioni negative: a tal riguardo basti ricordare
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che alla prima mostra degli impressionisti aperta a Parigi il 15 aprile 1874 nello studio del fotografo Nadar, alla quale parteciparono artisti del calibro di Cezanne, Degas, Monet, Pisarro, Silsley, Renoir, gran parte dei visitatori rimase turbata, scandalizzata. Attraverso le loro “deformazioni” i cubisti hanno costruito nuovi equilibri e squilibri, nuove armonie, ed anche se queste in rapporto a quelle della tradizione classica possono apparire deformi, poco piacevoli ad un primo sguardo, deformi, ma restano pur sempre nuove armonie. Con il susseguirsi degli eventi, si finisce per accettare, e magari gradire, anche le novità inizialmente più sconcertanti. Il fatto che si possa definire “bello” un film di George Romero, considerato il padre dei film horror con gli zombie, che utilizza scene di violenza estrema; un piercing inserito nella viva carne; un brano musicale in grado di fondere i timpani con suoni ripetuti in modo martellante, ossessivo; girare con una pelliccia fatta di pelli di poveri animali uccisi ecc.; non dovrebbe quindi stupirci. L’origine di tutti questi studi sul ritmo, sul concetto di “mi piace” “non mi piace”, “bello” o “brutto” è collocabile a secoli fa, precisamente nella Grecia antica e di come nella cultura spesso il termine bello sia stato affiancato al termine buono; possiamo notare come il termine “Kalos” che vuol dire “bello” abbia profonde connessioni con “buono”. Bello è quindi ciò che merita sempre di
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essere perseguito. Le azioni belle sono quelle moralmente ineccepibili, che costituiscono un modello da imitare. Con la scuola di Pitagora (Magna Grecia VI-IV sec. a.C.) il concetto di “bello” viene affiancato a quello di “vero” e di “buono”, istituendo una sorta di triade valoriale. La massima Pitagorica per cui “Tutto è numero” è traducibile in ambito artistico, etico e filosofico-scientifico, in una identificazione del bello, del buono e del vero, attraverso l’uso della misura. Secondo tale concezione, nell’arte convivono in modo equilibrato esattezza e pathos; la virtù sta nel senso della misura, nel non cadere mai negli eccessi; la verità non può essere fuori dalla portata dell’uomo perché è commisurata ad esso, intelligibile. Gli antichi presupponevano l’esistenza di un bello assoluto, che corrispondesse a dei canoni oggettivi, in virtù dei quali la bellezza poteva essere universalmente riconosciuta ed apprezzata. Compito dell’artista era quello di ricercare, di riprodurre, con la propria intelligenza ed abilità, questi canoni, basando su di essi le proprie creazioni.
di preconcetti, dotato di regole universali, ma l’atteggiamento conoscitivo li ha indotti alla conclusione che il bello ha a che fare con l’infinito perché non può essere esaurito né da ciò che si fa nella pratica né da ciò che si può trasmettere intellettualmente, con l’uso della parola, con schemi, attraverso la codificazione di precetti teorici. Nell’arte c’è una componente che sfugge sempre alla ragione, al calcolo, alla misura, e questa componente la chiamiamo genialità e non si può in alcun modo insegnare. Riprendendo una precedente affermazione: “anche la bruttezza è entrata a pieno titolo nel mondo dell’arte, del bello”, si può notare quanto questa sia piuttosto frivola e fuorviante. La frase lascia supporre da un lato l’esistenza oggettiva della bellezza e del suo opposto, la bruttezza, dall’altro genera un’aporia facendo credere che si possa trovare in sé bello e piacevole, artistico, ciò è in sé brutto e disgustoso, non-artistico. Bisognerebbe infatti immaginare, contraddittoriamente, una sostanziale indipendenza, estraneità, tra la cosa che sarebbe brutta e disgustosa in se ed il piacere estetico provato individualmente di fronte ad essa. Come se “bruttezza”; “disgustosità”; “bellezza”; “piacevolezza”; ecc., non fossero valori risultanti dalle operazioni mentali svolte nell’atteggiamento estetico.
Le prime e più potenti avvisaglie di una crisi dell’identificazione tra il bello e il misurabile, calcolabile, si trovano nell’opera più matura di Leonardo da Vinci, precisamente: nell’equilibrio da egli individuato, ben rappresentato dal “Cenacolo”, tra il concetto classico di “bellezza” come “proporzionalità delle parti” e con “vivacità dell’atto”; nell’invenzione della tecnica dello sfumato, soluzione ai problemi del passaggio dal rigore matematico della “prospettiva geometrica” alle morbidezze atmosferiche della “prospettiva aerea”; nell’elaborazione di una “prospettiva composita”, atta a risolvere certe incongruenze della “prospettiva lineare”, ricorrendo ad accorgimenti legati all’Ottica, sacrificando un po’ del rigore geometrico a vantaggio della resa delle variabili di tipo fisico ed ottico-anatomiche; nell’abbandono di un unico modello di perfezione evidenziato con le ricerche di proporzioni perfette anche negli animali, con i suoi studi di anatomia comparata; nella sua volontà di sostituire, per le proporzioni del corpo umano, il modulo tradizionale della testa, con misure più piccole, per aderire sempre di più alle forme naturali; nella complementarietà del modello di bellezza maschile, quantitativo, costituito dall’Uomo Vitruviano, e di bellezza femminile, qualitativo, rappresentato dalla Leda e dalla Gioconda; e infine nelle varie raffigurazione del diluvio universale in cui l’umanità e le opere del suo genio sono cancellate nei vortici distruttivi degli elementi caoticamente confusi.
È possibile rintracciare diverse tesi filosofiche che mirano proprio a considerare come datità sia il bello che il brutto, giocando poi sullo stravolgimento dei valori ad essi attribuiti. È certamente Hegel a rappresentare il punto d’avvio di una riflessione sulla bruttezza artistica che non è più concepita come il contrario della bellezza, ma come una delle tante forme che l’arte moderna può e deve assumere; e fu proprio un suo allievo, Karl Rosenkranz, a pubblicare un trattato nel 1883 dal titolo: “l’Estetica del brutto” ove se il bello, nella prospettiva hegeliana, appare come una manifestazione sensibile dell’Idea e della sua libertà, il brutto si presenta come ciò che nega o limita tale libertà attraverso l’asimmetria, l’assenza di forma, la deformità e lo sfiguramento. In questo percorso il brutto si pone come termine medio tra il concetto di bello e quello di comico, compiendosi nella figura del satanico. Rosenkranz opera così una straordinaria fenomenologia del diabolico, dove alla riprovazione etica si sovrappone un gusto descrittivo per tutto ciò che, pur esteticamente ripugnante, è tuttavia meritevole di attenzione estetica. Il brutto non è semplicemente il “rovescio” dialettico della bellezza, bensì un elemento metamorfico che la intensifica e potenzia, facendo risaltare la sua lotta vittoriosa contro il negativo.
La crisi del presupposto che la bellezza coincida con la misura, intuita da Leonardo, manifestata pienamente nel 500 dai Manieristi e da artisti come Tiziano, che introdusse la pittura tonale e che attraverso la quale “costruiva” l’opera, passando poi al 600, con la sensibilità barocca, riporta in auge la credenza opposta, ovvero che il bello dipenda da un qualcosa che non si può controllare in assoluto, dominare pienamente, qualcosa che sfugge sempre, in modo inevitabile, alla razionalità. Gli artisti hanno intuito più volte che la bellezza non può consistere nell’adeguamento ad un ordine fatto
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L’attualità dell’opera di Rosenkranz non si pone solo nell’indagine lungimirante sugli aspetti “brutti” dell’arte, che caratterizzano gran parte della nostra contemporaneità, ma anche nel mettere in gioco il destino stesso dell’estetica: dopo di lui, l’estetico e il bello non possono più tranquillamente coincidere, e l’estetica stessa, oltre a non presentarsi come teoria del bello o delle belle arti, apre un inquietante sguardo verso ambigui e multiformi aspetti del reale. Nel 1790 Immanuel Kant, pubblicò l’opera “La critica del giudizio” dove fece un’analisi critica del Giudizio estetico. Egli teorizza che il bello non è una qualità oggettiva (propria) delle cose, non esistono oggetti belli di per sé, ma è l’uomo ad attribuire tale caratteristica agli oggetti. Il giudizio estetico basa-
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to sul sentimento del bello è quello con cui noi avvertiamo la bellezza e l’armonia di un’opera o di un paesaggio, realizzando un accordo tra l’oggetto sensibile (ciò che percepiamo e su cui “riflettiamo”) e l’esigenza di libertà (ciò che noi liberamente sentiamo). Egli contrappone il bello al sublime, descrivendo il secondo come la forte sensazione provata davanti a qualcosa che ci intimidisce, quando non si è capaci di afferrala pienamente con la ragione, attraverso l’elaborazione di un vero giudizio. Per Kant sono sublimi sia la legge morale interiore che il cielo stellato che ci sovrasta. Egli considera il sentimento come il migliore alleato della ragione. La complementarietà della ragione e del sentimento permette infatti di valutare più compiutamente le cose della natura, dell’arte, dell’universo intero. Il concetto di sublime nel senso antico si riferisce all’effetto che le opere d’arte, in specie letterarie, provocano su di un animo nobile, quando questo, stimolato dalla retorica, sente accrescersi a tal punto da immaginarsi in grado di contenere da solo il mondo intero. Nel senso più moderno, all’opposto, il concetto di sublime risente profondamente del prodotto sviluppato dalle scoperte scientifiche che hanno stravolto la posizione dell’uomo nel creato, facendolo sentire come un granello di polvere nell’universo. Sul finire del 700, con l’affermarsi della sensibilità preromantica dello “Sturm und Drang” (“tempesta e assalto”), che valorizza il sentimento rispetto alla razionalità, il bello si trova ad essere spesso identificato col grazioso e contrapposto al subli-
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me. Il bello non riuscendo a provocare nessun turbamento, per lo spirito del tempo diviene meno interessante ed appetibile del sublime. Tra il 1750-1758 l’arte ha trovato il suo primo vero statuto nel saggio in due volumi: “Aesthètica”, di Baumgarten, opera ispirata al razionalismo di Cartesio e Leibniz. Con essa il termine “estetica” (dal greco aistesis = ‘sensazione’), viene introdotto per la prima volta nella filosofia, col doppio significato di “teoria della conoscenza sensibile” e soprattutto di “scienza dell’arte, del bello”. In questa opera l’arte non viene più considerata come un mezzo per propagandare verità religiose o uno strumento a disposizione dei poteri assoluti, essa viene intesa piuttosto come ricerca della bellezza. Quindi, non più come una qualcosa che ci eleva in un mondo irrisorio, dalle qualità superiori, divine, bensì come un’attività che ci tiene legati al mondo sensibile, mostrandoci il fascino ambiguo dei fenomeni. All’Estetica intesa come scienza filosofica che ha per oggetto lo studio del bello e dell’arte si è giunti non a caso nel 700, il secolo dell’Encyclopédie, in cui si è sentita l’esigenza di organizzare e classificare tutto lo scibile umano per categorie. Le molteplici definizioni dell’arte elaborate nei secoli dai filosofi e le manifestazioni artistiche determinatesi nel tempo,diventano come non mai oggetto di studio e di riflessione. Nel tempo il gioco dell’arte si è venuto determinando sia con le partite esclusivamente teoretiche dei filosofi sia con quelle teorico-pratiche degli artisti. In ciascuna partita ogni giocatore o gruppo di essi ha puntato, ha dovuto scommet-
tere o credere, su un sistema di pezzi giudicati portatori di valori positivi, portatori dell’artistico, e per semplice negazione anche su un sistema di pezzi portatori di valori negativi, portatori del non-artistico. È in rapporto a questi due sistemi complementari di valori (positivi e negativi) che ogni confrontato poteva essere valutato positivamente o negativamente.
Sopra: Friedrich “Viandante sul mare di nebbia”, 1818. Appartiene al movimento “Sturm und Drang” (“tempesta e assalto”), che valorizza il sentimento rispetto alla razionalità, il bello si trova ad essere spesso identificato col grazioso e contrapposto al sublime. Il ritmo in questa opera si può notare nelle linee, che , partendo dalla metà del dipinto, si incrociano in maniera alternata attraverso delle semicurve, creando movimento, in modo equilibrato.
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3.1. IN CONCLUSIONE Dopo aver spaziato tra le varie riflessioni, definizioni, teorie potrebbe sembrare che l’analisi operativa dell’atteggiamento estetico, descritto come costitutivo di ritmi, sia troppo povera e non tenga conto di molte cose. Se digitate la parola “ritmo” su un qualsiasi motore di ricerca web o se sfogliate un dizionario, troverete molteplici significati per una sola parola, il pedagogista Edgar Willems ha contato per esempio più di 400 diverse definizioni di questa parola, dagli antichi greci ad oggi, tipo: numero, movimento, ordine, organizzazione, proporzione, vita, forma, intelligenza, istinto, forza, ripetizione, alternanza, simmetria, durata, intensità, misura, riposo, volontà… ecc.; è importante notare però che i tentativi compiuti per definire il concetto di “ritmo” si sono risolti in molti casi nell’istituzione di vere e proprie metafore irriducibili. Infatti, affermare che il ritmo è vita, oppure che il ritmo è intelligenza, o ancora che il ritmo è movimento, ecc., non è altro che porre un’equazione tra due termini che solitamente hanno significati diversi, ovvero usi in giochi linguistici ben distinti. L’analisi operativa della bellezza, e della bruttezza, proposta da Ceccato, partendo dalla domanda: “Che cosa fai quando usi questa parola…?”, si conclude indicando la bellezza come il valore positivo ricavato da un rapporto posto e soddisfatto in chiave estetica, e la bruttezza come il valore negativo ricavato da un rapporto posto ma non soddisfatto sempre in chiave estetica. Questi valori si ricavano
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appunto solo quando operiamo nell’ambito dell’atteggiamento estetico, a sua volta analizzato operativamente come costitutivo di ritmi. Tutte queste definizioni non sono né povere né metaforiche, esse indicano piuttosto le operazioni che facciamo quando utilizziamo le parole correlate alle operazioni stesse. La nostra difficoltà ad analizzarci nell’assumere l’atteggiamento estetico, quindi nell’isolare il modulo sommativo con cui costituiamo i ritmi, deriva dal fatto che in genere assumiamo ogni atteggiamento in modo spontaneo, ovvero con spensieratezza, senza stare attenti a quello che facciamo. Non bisogna poi dimenticare che nell’assunzione dell’atteggiamento estetico siamo condizionati, orientati, facilitati oppure ostacolati, impediti, dal già-fatto, dal bagaglio mnemonico sviluppato in base all’educazione, alle esperienze. Si può infatti avere molta difficoltà ad atteggiarsi esteticamente davanti alla svastica della bandiera nazista, segno delle atrocità della seconda guerra mondiale, mentre è più facile farlo vedendola nella decorazione di un tempio orientale, sapendo che è un antichissimo simbolo di vita e di pace. Le tante sviste avute dai filosofi nell’affrontare anche le questioni estetiche si comprendono meglio proprio considerando il fatto che ci atteggiamo esteticamente senza una piena consapevolezza delle operazioni mentali svolte e sui condizionamenti che ci inducono o trattengono dal farlo. I filosofi in genere tendono a
ricondurre l’artisticità sempre e soltanto a questo o a quello tra gli elementi osservativi, o a questa o a quella categoria, sempre e comunque pensati come colti nella cosa giudicata bella, non volendo (né potendo) riconoscere un’attività costitutiva della mente. Di fronte a stimoli sensoriali presi come ripetitivi, grazie all’aggiunta della categoria dell’eguale, l’attenzione è in genere facilitata ad assumere il modulo sommativo, ma il ritmo non è già fatto in quegli stimoli bensì è costituito dall’attività estetizzante. Come si è già visto con le 400 e più definizioni di ritmo i filosofi prima ed i teorici della didattica musicale poi hanno cercato di collocarlo in qualcosa di osservativo o in qualche altra categoria, senza prendere in considerazione che esso non è in ciò che può stimolarne la costituzione, siano esse categorie (come il tempo) o stimoli fisici (come le vibrazioni acustiche), quanto piuttosto il risultato di una frammentazione attenzionale ottenuta con il modulo sommativo.
Pongo
Dispongo
Compongo
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4. LEGGERE UN’OPERA D’ARTE
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L'arte possiede un linguaggio universale che le permette di raggiungere il suo scopo comunicativo indipendentemente dal livello di competenza artistica del fruitore. Tale conoscenza però si ferma solamente al livello emotivo se non si conoscono adeguate metodologie di lettura che portano all'acquisizione della piena consapevolezza del valore dell'opera che si sta osservando. Ognuno di noi appartiene a percorsi conoscitivi diversi: non ci sarà mai una lettura unitaria di un’opera perché ognuno legge l’opera in base alle conoscenze che ha quindi nel momento in cui mi approccio ad un’opera d’arte devo chiarire, in quanto fruitore consapevole dell’opera d’arte quali strumenti io sto utilizzando. Per comprendere un’opera bisogna analizzare gli elementi che fanno parte del processo comunicativo e cioè i singoli elementi che vi concorrono e le regole del codice visivo, insieme alle regole compositive e percettive. Riconoscere gli elementi della grammatica visiva e le regole sintattiche dei messaggi visivi è altresì fondamentale per analizzare il testo visivo. Alla fine estrapolando da tutti gli elementi analizzati i vari significati si avrà il significato complessivo dell'opera d'arte. Operativamente per analizzare un'opera d'arte è necessario seguire un percorso che porta da una lettura di ogni singolo aspetto della comunicazione alla lettura complessiva che sintetizza l'analisi dei vari aspetti. Che caratteristiche ha un’opera d’arte?
È prima di tutto esterna perché in grado di comunicare e coinvolgere una persona dal 1500 al 2000 in modo totalmente diverso perché il contesto che ci circonda influenza la nostra lettura perché sono due persone culturalmente diverse, ma entrambi i giudizi sono validi. “L’opera comunica perché noi la facciamo comunicare”, con questa affermazione intendiamo dire che l’opera nel tempo non cambia, ma lo spettatore si. Quando visitiamo una mostra proiettiamo sull’opera le sensazioni che abbiamo in quel momento, la psicologia dello spettatore farà si che lo spettatore interpreti l’opera in un certo modo. Dipende quindi dall’atteggiamento con cui ci poniamo nei confronti dell’opera: possiamo auto-condizionarci o farci condizionare dal narratore.
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4.1 VEDERE - GUARDARE - OSSERVARE Affrontando lo studio e il controllo delle attività mentali, introdotto attraverso il rapporto di interdipendenza percezione linguaggio si entra in un dominio interdisciplinare per cui le nozioni fondamentali possono trovare una valenza comune alle varie materie di studio. Parlando della percezione non si può non tenere conto che il termine, nella storia della filosofia, ha ricevuto spesso interpretazioni antitetiche, nell’assunto che tutto ciò che si conosce viene dall’esperienza del mondo esterno (empirismo), oppure che tutto ciò che si conosce viene dalla ragione (razionalismo), ed è soltanto nel diciannovesimo secolo che la percezione diventa un capitolo specifico della psicologia. Si viene così ad imporre l’indagine sperimentale che in base ai presupposti teorici consente di distinguere le varie scuole attive nell’ultimo secolo: associazionismo, comportamentismo, gestalt, cognitivismo, fino ai più recenti sviluppi della neurofisiologia della visione e della cibernetica della mente che contraddistingue l’indirizzo della scuola Operativa Italiana. Diventa sempre più palese la tendenza al superamento della dicotomia mente-corpo, soggetto-oggetto, per cui si è indotti a riconoscere come la percezione sia il risultato di complesse attività che si svolgono a livello neurofisiologico e mentale, mettendo in discussione tutto l’apparato di conoscenze che riguardano la visione. Il primo pregiudizio da sfatare proviene proprio dall’uso che si fa della parola “immagine”, che ha certamente un senso positivo nel linguaggio comune, ma che inganna e confonde quando si tratta di spiegare la percezione visiva. Il termine, infatti, riafferma una concezione superficiale della visione, ancora sostenuta da tanti testi scolastici i quali contrabbandano lo stereotipo dell’immagine che si riflette capovolta sulla retina, nel presupposto che ciò che vediamo sia qualcosa di precostituito, dato alla nostra passiva osservazione. Al superamento di questa inveterata convinzione ha portato un contributo risolutivo la Scuola Operativa dimostrando che la forma delle cose è il risultato dell’attività mnemonico-attenzionale. Per introdurre il discorso sulla percezione visiva, un approccio che si è dimostrato alquanto efficace è stato quello di scegliere alcuni termini del lessico comune come i verbi “vedere”, “guardare”, “osservare” che sono particolarmente adatti ad affrontare i problemi della visione a partire dalle conoscenze che ciascuno possiede. Facendo riferimento alle definizioni del vocabolario “Zingarelli” possiamo vedere che: La prima definizione fa riferimento al “percepire con gli occhi”. Più direttamente esplicativa è invece l’indi-
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vedere: apprendere, percepire con gli occhi guardare: rivolgere l’occhio per vedere osservare: stare attento a vedere, guardare attentamente
cazione offerta con “guardare” in quanto viene colto il potenziale movimento dell’ occhio che è uno dei fattori di solito trascurati, ma di fondamentale importanza nella visione. Particolarmente coerente ed adatto ai nostri presupposti teorici è a proposito dell’osservare, ove si ribadisce la funzione dell’attenzione e, come questa, conviene ribadirlo, sia il fattore che la Scuola Operativa pone alla base dei processi cognitivi, nel presupposto che la consapevolezza del proprio operare mentale sia da porsi a fondamento da ogni apprendimento. E’ attraverso alcune operazioni che consentono il controllo del proprio operare mentale ponendo subito il problema di fondo quello cioè di dimostrare come le forme delle cose non sia una loro proprietà intrinseca, di cui siamo passivi osservatori, ma è invece un’attività da ricondurre alle funzioni della mente stessa. Come già enunciato in precedenza per renderci conto del nostro operare mentale ci serviamo delle figure polivalenti (pag. 15) ove la figura è sempre la stessa, ma ci si renderà conto tuttavia come, nel percepire le diverse immagini, l’attenzione si dirigerà ora su un elemento, ora su un altro, tenendo od escludendo vari aspetti, mutando i rapporti fra le varie parti, articolandole o frammentandole in vari modi. Per sollecitare le capacità di apprestarsi un ricco repertorio di aggettivi è necessario liberarsi, prima di tutto, dall’oggettività delle forme, per porsi poi, consapevolmente, nell’atteggiamento di vedere le cose secondo vari punti di vista e ciò attraverso il rapporto empatico di stati d’animo e sentimenti, ricorrendo alle analogie, alle immagini allusive, alle metafore ecc. .
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4.2. SUPERAMENTO DEGLI STEREOTIPI Senza l’intervento dell’attenzione nulla potrebbe esserci mentalmente presente. La forma delle cose osservate non è predeterminata e quindi diviene oggetto di una nostra passiva contemplazione. È indubbio che il cervello possiede strutture più specializzate per certi segni o accumuli di essi piuttosto che per certi altri e le neuroscienze e la teoria della Gestalt ce lo assicurano ampiamente. La percezione è in parte un processo basato su regole cerebrali innate o acquisite che guidano la nostra visione. E quando le entrate dal mondo esterno si armonizzano con le proprietà cerebrali, allora il circuito entra in risonanza, rispondendo ottimamente in termini di impulsi nervosi, di mediatori chimici e di sostanze ormonali, e anche le connessioni con i centri emotivi si attivano facendo nascere così l’esperienza. Da una stessa medesima situazione si possono desumere differenti aspetti derivanti da differenti atteggiamenti: atto abituario, volontario, ma può essere anche sollecitato da alcune caratteristiche. Possiamo osservare un oggetto in atteggiamento estetico, ovvero legando tra loro colori, linee, volumi da una fitta rete di relazioni. Un ruolo determinante soprattutto in questo tipo di osservazione lo svolge la parola, grazie a sostantivi e aggettivi infatti siamo in grado di modificare la forma e la struttura delle cose e di superare così gli stereotipi.
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4.3. DA DENOTATIVO AD ESTETICO: SUPERAMENTO DELL’INDIVIDUAZIONE ISOLATA La lettura in atteggiamento denotativo (descrittivo) appartiene al fruitore comune, ovvero a colui che necessita di conoscere e nominare la realtà, che usa la vero-somiglianza come criterio di valore e che non vede “lo spazio”. Questa capacità di individuare e riconoscere le singole figure viene chiamata “individuazione isolata” e si supera togliendo il significato, ovvero desemantizzare. Il superamento dell’individuazione isolata attraverso la desemantizzazione farà si che la cromia del corpo non sarà più importante della cromia di sfondo e che queste saranno fruite come macchie cromatiche. In atteggiamento estetico devo essere in grado di fruire il cromatismo assoluto dell’opera ovvero mettere in relazione tutte le parti cromatiche dell’opera, figura e sfondo diventano un tutt’uno. L’atteggiamento estetico si basa sull’analisi di: colore/cromie, tracciato, spazio e ritmo.
+ PANE BLU Man Ray nel 1960 dipinse una baguette francese di blu cobalto. Il pane era sempre pane, ottimo da mangiare ma il colore blu lo rendeva immangiabile. Pare che non ci sia nulla in natura di colore blu che si possa mangiare. Sono stati fatti esperimenti di vario tipo per studiare la relazione tra colore e mangiabilità: un risotto blu non è riuscito a mangiarlo nessuno, anche se buonissimo.
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LO STEREOTIPO E L’INDIVIDUAZIONE ISOLATA da Pino Parini - Scuola Operativa Italiana I test effettuati con il confronto di elaborati di alunni della Scuola Media per il controllo degli stereotipi grafico-pittorici hanno indotto a ritenere come sia determinante nella stereotipia la struttura costitutiva, sollecitata dal nome delle cose e vincolante la stessa percezione. Tra le varie esperienze scegliamo “il test dei fiori” con la riproduzione del celebre dipinto di Van Gogh “i girasoli” (fig.14). E’ da notare come ogni fiore tende ad una sua autonomia, ad occupare un suo proprio spazio separato dagli altri tanto che si può parlare di individuazione isolata quale comportamento percettivo determinante della stereotipia e condizionante la stessa osservazione così come si deduce da queste prove. Mentre alcuni disegni mostrano una certa sensibilità recettiva agli aspetti espressivi in altri, che sono la maggioranza, l’individuazione isolata fa emergere ampie zone di sfondo proprio nella parte del mazzo dove si fa più serrato il vortice dei petali sconvolti dal ritmo convulso che pervade tutta l’opera. (fig.16-24) L’individuazione isolata è certamente il fattore che maggiormente preclude la fruizione estetica in quanto inibisce la capacità di avere rapporti che non si acquisisce certamente con l’osservazione passiva in quanto i rapporti si colgono nelle cose soltanto se vengono sollecitate le operazioni mentali che li costituiscono.
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4.4. PRINCIPIO DI ECONOMIA DELLA MENTE Se parliamo di struttura compositiva ci riferiamo al concetto dell’oggetto, ovvero quando proietto sull’osservato l’immagine della struttura compositiva, se vedo che le parti coincidono, ottengo l’immagine finale. Quando si ottiene un risultato sul piano della comunicazione con un minimo sforzo nel campo mentale allora possiamo parlare di principio di economia della mente. Un esempio semplice possono essere i passi di una camminata, noteremo come con il minimo sforzo mentale, i passi si susseguiranno in maniera ritmica molto modulare e lineare. Per lo stesso identico principio sono costruiti i gradini di una scala, poiché se fossero uno diverso dall’altro, quasi sicuramente rischieremo di cadere a terra e farci male. Per l’analisi dei dinamismi dell’attenzione si prestano in particolare le cosidette “figure polivalenti”. Esse consentono di accedere all’attività mentale avvalendosi del rapporto che intercorre fra la percezione e il linguaggio. Ogni figura polivalente sarà pertanto presentata con un elenco di termini che si prestano a vederla in diversi modi tenendo presente tuttavia che dal punto di vista fisico la situazione resta immutabile. Ciò che cambia è invece l’attività percettiva di chi osserva e questo renderà evidente che la forma delle cose, la struttura, l’immagine ecc., sono una nostra concezione mentale. Si tratta di controllare come muta il percorso dello sguardo nell’alternarsi delle denotazioni, dove si focalizza l’attenzione e come sia l’attenzione
stessa ad articolare i tracciati a seconda che si costruiscano contorni, regioni, volumi, rapporti di figura-sfondo. Se la forma dei singoli osservati dipende dai dinamismi attenzionali, allo stesso modo è sempre l’attenzione a costituire relazioni o rapporti fra una molteplicità di osservati o di eventi. È questa la chiave per comprendere come certe leggi o principi, ritenuti comunemente proprietà intrinseche del mondo fisico, siano anch’essi riconducibili a nostre operazioni mentali, quale risultato di processi di categorizzazione. Essendo l’ordine e il disordine antietici non possono essere pertanto ritenuti una proprietà appartenenti a ciò che si osserva mentre è logico riconoscerne l’esclusiva natura mentale. Il fatto che a prima vista si costituisce la configurazione disordinata consente di poter ipotizzare l’intervento di un “principio di economia percettiva” per la quale tenfono a prevalere elementari rapporti di vicinanza e contiguità che sono propri del procedere a caso mentre per l’ordine si richiedono più articolate e complesse modalità di rapporto. Le figure polivalenti sono in definitiva un espediente particolarmente adatto a far leva sull’innata curiosità del fancuillo e tali da renderlo protagonista di un’avventura del pensiero che altrimenti non sarebbe proponibile.
Camminare e i gradini di una scala vengono fatti in modo ritmico secondo un principio di economia della mente.
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GLI ESPERIMENTI DI YARBUS
+ da Pino Parini - Scuola Operativa Italiana Yarbus è noto studioso russo, che ha condotto presso l’Accademia delle Scienze di Mosca negli anni Sessanta studi sull’importanza del movimento dell’occhio. Yarbus è stato il primo a registrare questi movimenti dimostrando inequivocabilmente che il modo di osservare muta a seconda degli interessi, delle aspettative, del quadro di cultura dell’individuo, per cui hanno trovato conferma fin da allora le ipotesi della Scuola Operativa Italiana. Nei suoi esperimenti Yarbus otteneva la registrazione del movimento degli occhi avvalendosi di un piccolo apparecchio che veniva applicato al bulbo oculare mediante una ventosa. A sua volta un minuscolo specchietto fissato alla ventosa permetteva di tracciare, mediante la riflessione di un raggio di luce la mappa completa dei movimenti dell’occhio che in termini tecnici vengono chiamate le “saccadi” . Bisogna premettere che l’aspetto più interessante di tutta la sperimentazione di Yarbus è l’avere messo in evidenza l’interazione sinergica fra l’attenzione e i movimenti dell’occhio. Con ciò si è definitivamente dimostrato quanto sia fuorviante l’opinione diffusa che la visione delle cose sia istantanea e che basta aprire gli occhi per vedere contemporaneamente tutto ciò che ci sta dinnanzi. Ce ne possiamo agevolmente rendere conto osservando qualsiasi immagine. Basta fissare un piccolo particolare per accorgersi che la visione nitida risulta limitata ad una ristrettissima zona per cui una percezione globale comporta sempre la sintesi dell’attività esplorativa dello sguardo. Un esperimento particolarmente significativo, per la nostra ricerca, è quello che Yarbus ha condotto con il controllo dei movimenti dell’occhio durante l’osservazione del dipinto di A. Repin: “L’inaspettato”. I grafici che riproducono le saccadi durante la registrazione, durata complessivamente tre minuti, mostrano come l’attenzione si concentri quasi esclusivamente sui volti delle persone e sui loro
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atteggiamenti. (fig.10 a-b-c-d-e-f) Il confronto delle sei registrazioni consente poi di constatare come lo sguardo torni ripetutamente sugli stessi elementi per cui si dimostra che una osservazione prolungata non sia di per sé sufficiente ad arricchire la percezione se non subentrano forti e stimolanti motivazioni. E’ questa una limitazione che caratterizza in particolare l’osservazione abitudinaria quella quotidiana, intesa soprattutto a riconoscere le cose per la loro utilità o funzione e che pertanto definiamo “osservazione comune” per distinguerla dall’osservazione in atteggiamento estetico quella che intendiamo promuovere con i criteri della metodologia operativa. L’incidenza più limitativa dell’osservazione comune la riscontriamo tuttavia nella fruizione dell’opera d’arte quando si privilegia il contenuto, ovvero il soggetto della rappresentazione. E’ un approccio che spesso ritroviamo anche nei testi scolastici quando, nel presentare le opere d’arte, ci si limita alla semplice descrizione o comunque ad aspetti meramente nozionistici. Il test di Yarbus è particolarmente interessante proprio perché dimostra che l’osservatore, nel rivolgere tutto l’interesse ai personaggi, finisce per ignorare gran parte della scena, quella in particolare, che comprende l’ampia area dello sfondo. E’ questa la parte che nella fruizione estetica viene invece ad assumere un valore cromatico paritetico a tutte le altre zone del dipinto per cui, restandone esclusa, l’osservatore inconsapevolmente degrada l’opera a mera illustrazione e con questo gli viene pertanto preclusa la possibilità di vedere il dipinto come opera d’arte. Sotto: Nominando ed osservando un volto si impone quello schema essenziale che stabilisce i rapporti in varianti fra gli occhi il naso e la bocca, uno schema a priori che si sottrae alla variabilità della luce, dell’ombra, e dei punti di vista. È chiaramente evidente come l’attenzione, focalizzandosi ripetutamente sugli occhi, stabilisce una relazione simmetrica con la posizione del naso e della bocca.
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4.5. COMPOSIZIONE La composizione consiste nel modo in cui sono distribuiti i vari elementi che costituiscono un’opera d’arte. La loro coordinazione risponde a precisi criteri di peso visivo, ritmo o simmetria. La composizione, però, è condizionata dallo “spazio” dell’immagine, detto campo visivo, che è un campo di forze dotato di uno scheletro strutturale, cioè una struttura più o meno complessa che ha la proprietà di attirare lo sguardo del fruitore e, di conseguenza, di evidenziare le tensioni percettive interne ad esso. Il centro del campo esercita la massima forza di attrazione e accresce l’importanza degli elementi visivi posti in sua corrispondenza. All’interno di una composizione, esistono, inoltre, delle linee immaginarie, dette linee di forza, che guidano l’occhio del fruitore lungo una direzione prediletta, comunicando una sensazione di quiete se sono orizzontali o verticali, oppure una sensazione di dinamismo se sono oblique. Tra gli innumerevoli elementi del messaggio visivo la linea, il volume, la luce, il colore, lo spazio ecc. si crea una fitta rete di relazioni, dalla quale deriva un determinato effetto d’insieme. L’artista in genere mira a determinare una situazione di equilibrio, cioè distribuisce le varie componenti dell’opera in modo che si bilancino tra di loro. Una composizione bilanciata, dato che tutti gli elementi si compensano a vicenda, risulta percettivamente stabile; una composizione sbilanciata, se troviamo elementi che mostrano una tendenza a cambiare posto o forma, risulta percettivamente instabile.
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Una composizione anche quando è relativamente semplice, è dotata di una intrinseca complessità. I vari principi strutturali si sovrappongono e dotano gli elementi visivi di più caratteristiche e funzioni, spesso contradditorie.
4.6. ASPETTO CROMATICO Il frutiore comune non da importanza allo sfondo quindi lavorando sul colore lo spazio diventa spazio cromatico cioè diventa cromie, equivalente alle altre zone cromatiche dell’opera. Il fruitore comune dice: “la sedia è rossa”, dove le caratteristiche di rosso sono delle aggettivazioni (degli attributi) dell’oggetto. Quando il colore è fruito in base alle caratteristiche del fruitore comune possiamo parlare di colore naturale o fenomenico: questo colore tendenzialmente più naturale, più simile al vero; deriva dal greco “fainomen” che significa “ciò che appare”, è il colore che i nostri sensi sono in grado di decodificare e percepire. Per fare un semplice esempio, quando dico che la sedia è di colore blu, quel blu ha a che fare con le caratteristiche costitutive dell’oggetto,
cioè lego il colore all’oggetto; prima riconosco la sedia poi il blu diventa una caratteristica della sedia. Quando stacco il colore dalle caratteristiche dell’oggetto possiamo parlare di atteggiamento estetico. Due colori sono fruiti come “coppia di colori” e vedo come si influenzano reciprocamente: mentre il fruitore comune vede la veste blu ed il blu diventa una proprietà dell’oggetto, nell’atteggiamento estetico quel blu acquista i toni in modo che possa lavorare sull’armonia, sul contrasto, sulla caratteristica delle cromie e sul ritmo.
Sopra: un particolare di una sedia blu. Se la analizziamo in atteggiamento estetico stacchiamo il colore dalle caratteristiche dell’oggetto, forma e colore si fondono e si influenzano reciprocamente.
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4.7. IL PESO VISIVO Ogni elemento di una composizione pittorica, scultorea o architettonica ha un peso visivo. Questo consiste nella sua capacità di attirare l’attenzione del fruitore. Dato che ogni immagine – ad eccezione di quelle simmetriche – presenta elementi dotati di un peso diverso, l’artista, per prevenire a una situazione di equilibrio, deve distribuirli in modo che si bilancino. Il peso visivo di un elemento dipende da una serie di fattori che interagiscono tra di loro; i principali sono: 1 - La profondità spaziale (il peso di un area aumenta in proporzione alla sua profondità); 2 - Le dimensioni (a parità degli altri fattori, il peso di una forma grande è maggiore di quello che una forma piccola); 3 - Il colore (il peso dei colori caldi è maggiore di quello dei colori freddi, il peso dei colori chiari è maggiore di quello dei colori scuri); 4 - L’ isolamento (il peso di una forma isolata è maggiore di quello di una forma inserita tra altre figure) nel caso del la “Natura morta” di Morandi gli oggetti raffigurati vengono di solito visti come se fossero semplicemente appoggiati sul tavolo. L’interesse per il soggetto porterà infatti a concentrare l’attenzione sul manichino, sulla bottiglia, sul cilindro probabilmente sarà trascurato tutto il resto. Si tratta invece di rovesciare questo approccio iniziando proprio dalle ampie zone di colore che fanno da sfondo agli oggetti per stabilire quel rapporto di compresenza figura-sfondo che consideriamo la prima operazione da porre a fondamento della fruizione estetica e che pertanto costituirà la base per introdurre la sperimentazione dei rapporti compositivi.; 5 - La forma (il peso delle forme geometriche regolari è maggiore di quello delle forme irregolari); Il peso visivo di un elemento dipende, inoltre, dall’area di campo nel quale è inserito. Il fruitore vivendo in un mondo dominato dalla forza di gravità, che esercita un’attrazione verso il centro della terra, attribuisce all’azione di salire il significato di “vincere una resistenza”, mentre quella di scendere il significato di “arrendersi alla forza di gravità”. Il fruitore occidentale è inoltre abituato a leggere seguendo un percorso che procede da sinistra a destra: in questo modo “legge” anche le opere d’arte. La parte sinistra del campo corrisponde quindi al punto di partenza della visione, mentre quella destra, all’area in cui l’occhio si sofferma maggiormente: un elemento collegato nella parte destra acquista un maggiore peso visivo.
1 - Andrea Mantegna, Morte della Vergine, 1462-64, Museo del Prado, Madrid
3 - Manet, Ritratto di Emile Zola, 1868, Musèe d’Orsay, Parigi
2 - Mirò, L’oro dell’azzurro, 1967, Fondazione Joan Mirò , Barcellona
4 - Giorgio Morandi, Natura morta, 1919, collezione privata
5 - Carlo Carrà, Il mulino delle castagne, 1925, collezione privata
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Ad esempio, nell’opera di Beccafumi i pesi visivi delle due figure si equilibrano (figura 1); se si inverte l’immagine la figura a destra risulta molto più pesante dell’altra (figura 2). Il fruitore, infine, percepisce il movimento da sinistra a destra più agevole di quello verso sinistra, faticoso e lento.
(Figura 1)
6 - Andy Warhol, Coca Cola verde, 1962, collezione privata
8 - Chichen Itza, piramide maya, X-XI secolo
7 - Theo van Doesburg, 1930, collezione privata
9 - Particolare “Teoria delle sante Vergini”, 568 circa, Basilica di Sant’Apollinare Nuovo Ravenna.
(Figura 2)
Una composizione risponde a un criterio di ritmo quando di incentra sulla regolare ripetizione di uno o più elementi del linguaggio visivo. Esistono diversi tipo di ritmo: 6 - Uniforme, quando uno o più elementi si ripetono in modo costante; 7 - Cescente, quando le dimensioni dell’elemento (o degli elementi) che si ripetono aumentano progressivamente; decrescente, quando le dimensione dell’elemento (o degli elementi) che si ripetono diminuiscono gradualmente; 8 - Decrescente, quando le dimensione dell’elemento (o degli elementi) che si ripetono diminuiscono gradualmente; 9 - Alternato, quando due o più elementi si alternano in modo regolare; A seconda dell’intervallo che intercorre tra un elemento e il successivo, il ritmo può essere veloce o lento.
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5. IL RITMO NELLE OPERE D’ARTE
In questo capitolo ci occuperemo di identificare il ritmo nelle opere d’arte. Ogni artista per la realizzazione delle sue opere, si avvale del ritmo. L’uso di elementi ripetuti crea l’illusione del movimento. Il ritmo visivo e’ percepito attraverso gli occhi ed e’ creato da ripetuti spazi positivi separati da spazi negativi. Esistono cinque tipi di ritmo: casuale, regolare, in alternanza, che scorre e progressivo. Il ritmo è un altro dei principi dell’arte. Il ritmo visivo ti propone le stesse sensazioni della musica, del ritmo o della danza. Nelle pagine di seguito farò alcuni esempi per aiutarvi nella lettura del ritmo nell’arte.
L’opera qui a lato è un’installazione dell’artista Arnaud Lapierre dal titolo Mirror Ring ed esposta a Parigi a Plance Vendome nel 2011. L’opera è contemporanea ed è costituita da una serie di specchi disposti in modo alternato. L’installazione crea un effetto visivo che rompe la percezione del luogo, disorientando i visitatori. La ripetizione di questi specchi cubici crea scompenso, e il ritmo appare veloce e alterna luci chiare a luci scure, in modo modulare.
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Tiziano, Miracolo del neonato, 1511 Scuola del Santo, Padova
Serurat, Veduta alla grande Jatte in primavera, 1887 Musèe Royaux des Beaux-Art, Bruxelles
Il ritmo lo possiamo analizzare dal chiaro/scuro: nella parte superiore del dipinto abbiamo un’alternanza di “chiaro – scuro – chiaro – scuro” che risulta pausato e quindi di lettura lenta. Anche nella parte inferiore abbiamo un’alternanza di “chiaro – scuro” in questo caso la distanze si accorciano e il ritmo appare più veloce e dinamico.
Se prendiamo in considerazione il modo di dipingere dell’artista ogni piccola pennellata può essere un elemento di ripetizione, ogni piccolo mutamento cromatico può essere una variazione. Tale considerazione fa sembrare che il quadro si muova con un ritmo costante, ma non frenetico, come se tutto al suo interno vibrasse.
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Matisse, Danza, 1909 Museum of Modern Art, New York
Jackson Pollock, Blue Poles: Number 11, 1952 National Gallery of Australia, Canberra
Il ritmo in questa opera lo possiamo fruire negli andamenti curvi come elemento di uguaglianza. Posso percepire un senso di circolarità dovuto all’alternanza di curve, che si susseguono in modo lento ed equilibrato.
Le opere di Pollock sono un’esplosione di colore e di senso del movimento: i suoi movimenti lenti all’inizio, diventarono via via più veloci e sempre più simili a una danza mentre getta sulla tela i colori. Nonostante l’apparente caos, l’opera è governata dall’armonia, in questa opera il ritmo lo identifico nelle zone scure come elemento di uguaglianza, e fruisco come variazione quando questa zona va ad interrompersi; il ritmo appare pausato e rallentato in queste zone, più dinamico e veloce nel resto dell’opera.
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5.1. INQUADRAMENTO DESEMATIZZAZIONE TRASGESSIONE Esempi pratici di opere funzionali e non Affinché abbia luogo la comunicazione estetica è necessario che l’artista produttore dell’opera e il fruitore che l’osserva debbano condividere le stesse operazioni mentali in quanto le modalità costitutive dell’opera d’arte si comportano come un vero e proprio codice. Su questi presupposti metodologici, la sperimentazione condotta a vari livelli scolastici ha consentito di precisare alcuni fondamentali criteri operativi: l’ “inquadramento”, la “desemantizzazione”, la ”trasgressione”. In sintesi l’ “inquadramento” è l’operazione preliminare costitutiva di quei rapporti di compresenza che si articolano nelle diverse modalità della spazialità figurativa a partire dalla protospazialità come matrice di ogni possibile relazione spaziale in cui può far parte lo stesso osservatore. La desemantizzazione è l’operazione percettiva che consente di sottrarsi al vincolo della denotatività per fruire l’opera nei termini di pure relazioni spaziali o cromatiche e tali da consentire la fruizione ritmico-compositiva dell’opera stessa. Con la trasgressione, che agisce interattivamente con le altre modalità, l’artista si sottrae alle convenzioni comuni e agli stessi vincoli posti dalla cultura, dalla tradizione, dalla scuola ecc., nella sua autonomia creativa. Se nell’ambito della tradizione figurativa la trasgressione ricorre prevalentemente alla alterazione delle caratteristiche anatomiche e spaziali, nella contemporaneità possiamo individuarla
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principalmente nella decontestualizzazione ovvero nel sottrarre un oggetto od anche un evento alle relazioni pratico-utilitaristiche dell’ambiente sociale. Si ritroverà poi una nuova sintesi dell’esperienza estetica recuperando gli aspetti descrittivi, iconografici e iconologici che riportano l’espressione artistica alla contingenza storica e dove la tecnica stessa consente di cogliere anche l’aspetto metaforico dell’opera d’arte. Affinchè un’opera “funzioni” occorre che i vari elementi che la compongono al suo interno, siano in sintonia, governati da un’equilibrio, anche nelle opere che sono più complesse apparentemente.
In questo primo caso notiamo come la linea centale entri in contrasto con il resto degli elementi nel riquadro, creando un disturbo, ed estraniandosi dal resto degli elementi. Questo esempio non è funzionale poichè il peso percettivo ricade, appunto, su quell’elemento.
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In questo caso notiamo il ritmo dagli andamenti curvi complessi e movimentati. Possiamo notare come gli elementi di ripetizione siano uguali, il peso percettivo è equilibrato e uniforme. Possiamo affermare che l’opera nella sua complessità e nei suoi elementi è funzionale.
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L’elemento in alto al riquadro crea un disturbo visivo, per forma e colore. Il peso percettivo ricade, appunto, su quell’elemento rendendo l’opera non equilibrata.
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BIBLIOGRAFIA
LIBRI LA FABBRICA DEL BELLO Silvio Ceccato METHODOS Silvio Ceccato FANTASIA Bruno Munari INGEGNERIA DELLA FELICITA’. PER VINCERE I GRANDI E PICCOLI NEMICI CHE S’ANNODANO NELLA MENTE. Silvio Ceccato ESTETICA DEL BRUTTO Karl Rosenkranz CRITICA DEL GIUDIZIO Immanuel Kant I PERCORSI DELLO SGUARDO Pino Parini
SITI WEB CONSULTATI www.noemalab.it www.logica.eu/-attualita-del-pensiero-di-silvio-ceccato.html www.wikipedia.it/silvioceccato PER LE IMMAGINI www.google.it/imghp www.flickr.it
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RINGRAZIAMENTI
Innanzitutto grazie al mio relatore il professor Marra, sempre disponibile, anche di fronte alla mia sbadataggine, comprensivo e rassicurante quando ero in preda al panico, colui che mi ha assegnato questo tema così ostile inizialmente, ma che con il passare del tempo (e dei libri) mi ha aperto la mente. Ai miei genitori, che mi hanno sempre sostenuta, credendo in me e nei miei sogni, che hanno fatto enormi sacrifici per darmi il futuro che desideravo. A Eros, che durante tutto il periodo della tesi mi ha fatto compagnia, condividendo una quantità industriale di tisane rilassanti, colui che mi supporta e crede in me più di quanto non faccia io. Una persona speciale che è apparsa nella mia vita quando tutto sembrava crollarmi addosso, e che mi è stata vicina e mi ha fatta maturare dando un significato nuovo alla parola amore. Dicono che gli amici sono la famiglia che ti scegli e io non potevo chiedere di meglio quando parlo di Giulia (Trinki) la mia migliore amica, il sorriso più bello del mondo, una sorella maggiore acquisita nonostante ci separino solo 6 mesi, poichè mi protegge sempre, cercando di comprendermi e accettandomi nelle mie stranezze. È la persona più dolce e meravigliosa che ho avuto il piacere di incontrare e riesce sempre a sorprendermi e farmi commuovere dalla gioia anche se a separarci si è messo un oceano. A Valli, Pupi, Sergio che nonostante non veda e senta tutti i giorni, sono parte del mio cuore, coloro con cui ho condiviso tantissimi bei ricordi, indelebili, e con i quali voglio scrivere il mio futuro. Una canzone che io e la Valli ascoltavamo spesso in macchina è “La dura legge del gol” che in un verso ci descrive appieno: “Quanti in questi anni ci han deluso quanti col sorriso dopo l’uso ci hanno buttato..Da queste foto io non lo direi che, di tutta ‘sta gente solo noi, siam rimasti uniti senza fotterci mai. Sull’amicizia e sulla lealtà ci abbiam puntato pure l’anima per noi chi l’ha fatto chi per noi lo farà.” Per finire ringrazio i miei nonni che si sono sempre preoccupati che studiassi, che mi hanno incentivato e gioito insieme a me dei miei traguardi, ringrazio Federica e Giulia, coloro che con me hanno diviso gioie e dolori, pianti e sorrisi, durante questi 3 anni alla LABA e per finire, non per ordine di importanza ringrazio Ciccio, il mio Jack Russel, compagno di studi, che si è sempre reso partecipe distruggendo i miei appunti o addormentandosi sulla tastiera del pc, colui che mi ha regalato baci e sorrisi in questi mesi. A tutti voi dico Grazie! Sono felice di aver condiviso con voi questo importante traguardo della mia vita.
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