Coolclub Febbraio 2009

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Anno VI Numero 50 febbraio 2009

TRASH & CLEAN



TRASH & CLEAN “Non c’è gusto in Italia ad essere intelligenti”, dice Freak Antony. Come dire elogio della stupidità, antidoto alla realtà. Stanchi di dover capire è bello abbandonarsi dove senso non c’è. Il giullare, da sempre, ha avuto un ruolo fondamentale nella società. La comicità, la parodia, il sarcasmo sono elementi chiave del vivere. Nel corso dei secoli questo ruolo è cambiato specchiandosi nel reale e sottolineandone alcuni aspetti, in altri casi lo ha esasperato e superato in un’operazione surreale che tanta letteratura ha ispirato. In nessun caso tutto questo è stato fine a se stesso ma bensì utile, necessario. Spesso la comicità ha incontrato la musica, altro contenitore di gioia. Nasce da qui la canzone comica o demenziale, da questa naturale tendenza dell’uomo a cercare, anche se per pochi minuti, l’ebbrezza della felicità. Musica che, più di altre, nasce per il pubblico, a metà strada tra teatro e canzone delle volte, più vicina al circo, all’osteria o alla caserma alcune altre. Disimpegno ma anche satira politica e sociale, fiaba ma anche musica triviale e sconcia, attinge alla fantasia, spesso inespressa, della gente e ha tutta la commedia umana a disposizione, una miniera di storie e personaggi da canzonare, sbeffeggiare, ridicolizzare. Un cosmo pieno di stelle, meteore, supernove che abbiamo cercato di esplorare. Lo abbiamo fatto con una piccola

Storia demenziale della musica e attraverso le voci di alcuni dei protagonisti di ieri e di oggi. Gli storici e intramontabili Elio e le storie tese, il fenomeno del momento Checco Zalone, lo “spagnolo” Armando De Razza con un ricordo ai grandi del genere (Giorgio Gaber e Frank Zappa a cui abbiamo dedicato la copertina) per finire con un piccola finestra sul demenziale made in Salento. Sfogliando le pagine troverete una sezione musica mai come in questo numero dedicata ai cantautori italiani, una sezione recensioni che si distende e accoglie dischi anche non freschissimi, un po’ per recuperare il mese di assenza un po’ per dare ad alcuni album un’altra chance, le rubriche dedicate alle etichette e alle case editrici, le interviste ad Alessandro Leogrande, Gianluca Morozzi, Filippo Timi, Antonio Errico, le nostre letture e le nostre visioni all’inizio di questo nuovo anno. Come ogni anno, e cominciano a diventare tanti (siamo arrivati al traguardo dei 50 numeri) invitiamo tutti a sostenere in qualsiasi modo Coolclub. it. Come sempre siamo impazienti di accogliere nuovi collaboratori che vogliono cimentarsi sulle nostre pagine. Basta scrivere al nostro indirizzo redazione@coolclub.it. Buona lettura. Osvaldo Piliego Editoriale 3



CoolClub.it Via Vecchia Frigole 34 c/o Manifatture Knos 73100 Lecce Telefono: 0832303707 e-mail: redazione@coolclub.it sito: www.coolclub.it Anno 6 Numero 50 febbraio 2009 Iscritto al registro della stampa del tribunale di Lecce il 15.01.2004 al n.844 Direttore responsabile Osvaldo Piliego Collettivo redazionale Pierpaolo Lala, C. Michele Pierri, Cesare Liaci, Antonietta Rosato, Dario Goffredo Hanno collaborato a questo numero: Antonio Iovane, Marcello Zappatore, Dino Amenduni, Claudia Attimonelli, Tobia D’Onofrio, Nino G. D’Attis, Valentina Cataldo, Camillo Fasulo, Dieghost, Enrico Martello, Federico Baglivi, Fulvio Totaro, Michela Contini, Rossano Astremo, Sara Natilla, Antonio Lupo, Vito Lubelli, Stefania Ricchiuto, Valeria Blanco In copertina Frank Zappa Ringraziamo la Cooperativa Paz di Lecce (che ci ha ospitato in questi ultimi tre mesi), Manifatture Knos e le redazioni di Blackmailmag. com, Radio Popolare Salento di Taranto e Lecce, Controradio di Bari, Mondoradio di Tricase (Le), Ciccio Riccio di Brindisi, L’impaziente di Lecce, quiSalento, Lecceprima, Musicaround.net. Progetto grafico erik chilly Impaginazione Scipione Stampa Martano Editrice - Lecce Chiuso in redazione il 2/2 più o meno attorno alle 2 Per inserzioni pubblicitarie e abbonamenti: redazione@coolclub.it 3394313397

TRASH & CLEAN

Elio e le storie tese 6-7 Checco Zalone 8-9 Giorgio Gaber 10-11 Frank Zappa 12-13 musica

Massimo Bubola 18-19 Pippo Pollina 20-21 Roberto Angelini 22-23 Recensioni 24 Libri

Gianluca Morozzi 40-41 Alessandro Leogrande 42-43 Antonio Errico 44-45 Recensioni 47 Cinema Teatro Arte

Filippo Timi 52-53 Per il cinema italiano 54-55 Frammenti di Beckett 56-57 Eventi

Calendario 59 sommario 5


USATE ALMENO L’ACCORDATORE Intervista a Cesareo, chitarrista di Elio e le storie tese

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La musica demenziale in Italia è sinomino da una ventina di anni a questa parte di Elio e le storie tese. Non esiste nessun cantante di questo filone e che non indichi la band milanese con un sole da seguire. Negli anni ‘80 le loro canzoni erano già diventate culto, poi con il secondo posto al Festival di Sanremo nel 1996 e con le partecipazioni sempre più stabili in trasmissioni televisive gli Eelst sono divenuti celebri anche al grande pubblico. Ironia dissacrante e testi politicamente scorretti; la loro capacità musicale però è il tratto distintivo. Nel numero dedicato alla musica demenziale loro, ovviamente, non potevano mancare. Abbiamo fatto qualche domanda al chitarrista Cesareo. Com’è cambiata la musica demenziale in Italia nel corso di questi trent’anni? Quando abbiamo iniziato la situazione in Italia era molto diversa da quella attuale. C’eravamo solo noi e gli Skiantos. Ora c’è un sacco di gente che pensa di far ridere con una chitarra e un semplice motivetto farcito di doppi sensi. In realtà è sempre importante una buona preparazione musicale per poter anche interpretare un gesto leggero e ironico. Un aspetto positivo è che in questi anni hanno inventato quel meraviglioso accessorio chiamato accordatore elettronico e in molti hanno anche deciso di usarlo. Esistono secondo voi dei filoni in Italia? A chi vi siete ispirati nei vostri esordi? Ci siamo ispirati ai Gufi, agli Skiantos, alla comicità di Monty Python ma anche a Frank Zappa. Questi sono i gruppi dai quali abbiamo attinto per quanto riguarda la nostra ironia. Poi, all’interno della band, ognuno ha le proprie preferenze e i propri gusti. Nel 1996 arrivaste secondi a Sanremo, fu una sorta di sdoganamento per tutto il movimento? In realtà c’è stato un piccolo errore - che abbiamo perdonato - in fase di conteggio delle schede. Eravamo arrivati primi; in ogni caso il nostro percorso era già definito e la partecipazione al Festival è stata sì una vetrina ma anche la conferma delle nostre potenzialità come musicisti. Cosa pensate della comicità televisiva di oggi? Fra i tanti ci piacciono tantissimo Maurizio Milani, Ale e Franz, i Guzzanti, Aldo Giovanni e Giacomo, ma anche altri come Stanlio e Ollio. Progetti per il futuro? Costruire autostrade per i giovani e stradine per gli anziani Pierpaolo Lala

STORIA DEMENZIALE DELLA MUSICA La storia della canzone demenziale, ironica, satirica o comica che dir si voglia è vecchia più o meno quanto l’uomo. La parodia della società, il mettere in risalto aspetti ridicoli dell’uomo, l’essere esplicitamente slegati dalla morale, il fare riferimento al sesso, l’essere volgari serve all’uomo per sentirsi libero. È forse con l’avanspettacolo che la canzone commedia, nella sua accezione formalizzata, ha ufficialmente inizio. Parallelamente altri luoghi furono incubatrici e palchi naturali della canzone comica: le osterie e le caserme. Ma è con la televisione che questo genere, diventa “nazional popolare”. La nostra carrellata, la nostra Storia demenziale della musica italiana (ovviamente, e come al solito, non completamente esaustiva), parte dagli anni ’50, da Fred Buscaglione (nella foto) e dal suo immaginario quasi letterario. Il suo personaggio è una sorta di gangster tricolore, sempre a che fare con le donne, l’alcool, il lusso tutto scritto con una chiave di sbruffone ma eterno perdente... assolutamente esilarante. Buono per le famiglie era invece il Quartetto Cetra, gruppo vocale celebre per i riadattamenti in chiave popolare e comica dei grandi classici della letteratura come l’Odissea, Il Conte di Montecristo. Furono autori anche di canzonette simpatiche adatte a un pubblico molto vasto. In un certo senso demenziali possono essere anche considerate alcune canzoni di Lelio Luttazzi, Natalino Otto e Alberto Sordi. Gli anni ’60 rappresentano un momento molto importante per la storia del genere. Un luogo chiave è il Derby di Milano che raccoglie attorno a sé una serie di artisti, poeti e intellettuali che danno al genere nuovo spessore. Come dimenticare Enzo Jannacci, insieme a Dario Fo


IO PARACULO SOLO I FAMOSI... Intervista a Checco Zalone La curiosità è troppa. Ad un certo punto dell’intervista telefonica faccio la domanda di rito. Ma cos’è Lu pollu cusutu an culu, titolo della canzone dei Negramaro? “È una ricetta che mi faceva mia zia salentina. Mio padre è di Maglie quindi io sono metà leccese e metà barese”. Checco Zalone, nome d’arte di Luca Medici, da Capurso, provincia di Bari è uno dei fenomeni televisivi del momento. Dopo una laurea in giurisprudenza (presa per fare un piacere alla mamma), un passato da musicista autodidatta con la passione per il jazz, una brillante carriera di cantante da matrimoni, Luca approda a Zelig Off dopo aver seguito il laboratorio di Bari. Nasce il personaggio di Checco Zalone (in barese che cozzalone, che tamarro) che nell’estate del 2006 esplode grazie a Siamo una squadra fortissimi, un motivetto che inizia a passare per la radio e diventa famosissimo. Te lo aspettavi? Dopo le prime due edizioni di Zelig, dove comunque avevo già avuto un discreto successo, viene fuori questo motivetto. All’inizio devo dire che mi sembrava culo. A distanza devo però sottolineare che si trattava di una canzone ben scritta e ben fatta. È difficilissimo ripetersi. Quella era una evergreen. 8

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Come nascono le attuali imitazioni. Come scegli i brani e gli artisti? Prima era più facile sceglierli, la cerchia di vittime si restringe sempre di più e diventa un problema selezionare qualcuno. Inoltre ormai devo cambiare per sorprendere, Tra l’altro è un lavoraccio, dietro quelle paraculate, ci sono un sacco di giorni di lavoro. Ad esempio con i Negramaro sono partito dal fatto che Giuliano tende sempre a sottolineare la sua orgine salentina. Quindi quale occasione migliore per parlare del Salento attraverso una ricetta di mia zia? È recente anche la Taranta del centro destra? La canzone è nata a Cannole durante un concerto alla Sagra della Municeddha. Prima della nostra esibizione c’era questo gruppo che suonava la pizzica. I primi cinque minuti era carino, tutti ci siamo fatti coinvolgere dal ritmo incalzante, dopo mezz’ora non ne potevamo più. Noi eravamo su un altro palco, cercavamo di accordare gli strumenti ma non si riusciva a capire niente. Così da un palco all’altro abbiamo iniziato a sfottere. Tendenzialmente il pubblico della pizzica è di sinistra, quindi noi abbiamo iniziato a inneggiare a Berlusconi e ai valori di


autore di canzoni come Ho visto un re, Vengo anch’io no tu no. Con loro anche Giorgio Gaber, sintesi dell’unione tra musica comica e al contempo colta e inventore del teatro canzone. Ancora Cochi e Renato sono forse i primi ai quali si può attribuire il termine demenziale. Il loro approccio con la realtà era (ed è) spesso non sense e risulta semplicemente esilarante grazie anche alle loro grandi capacità attoriali. Basta ricordare canzoni come La Gallina e La Canzone Intelligente che hanno segnato un’epoca e sono state spesso riprese. Negli anni ’60 bisogna ricordare anche alcuni gruppi come I Brutos, i Balordi, i Gufi e altri ancora. Un personaggio chiave degli anni 70 è stato sicuramente Renzo Arbore (nell foto) che in radio con Gianni Boncompagni (Alto

centro destra. Così è nata l’idea del brano che poi ho portato sul palco di Zelig. Tu rientri nel filone della musica demenziale. Ci sono dei predecessori ai quali ti ispiri? Ci sono colleghi che ti piacciono? Nessuno ai quali mi ispiro in particolare. Mi piacciono Elio e le storie tese, Toti e Tata, poi ci sono molte cose belle nel panorama comico ma ho ancora vivo il ricordo della cassetta degli Squallor in macchina di mio padre con la canzone Telefonaastucazzo. È difficile far ridere con le canzoni? Sono partito dalla musica seria studiando il piano e la chitarra ma da quando ero bambino provavo a fare ridere anche quando facevo le serate normali di piano bar. Non riuscivo mai a essere serio, dovevo sempre prendere per il culo qualcuno. Le tue vittime si sono mai arrabbiate? E perché? Vuol dire che sono famosi. Io paraculo solo i famosi. (pila)

gradimento) e in tv con il programma culto L’altra domenica (e non solo) lancia una nuova comicità e una nuovo modo di fare radio e televisione. Più tardi Renzo Arbore, negli anni 80, con trasmissioni con Quelli della notte e Indietro tutta sarà anche autore di sigle e canzoni che faranno e fanno ridere tutt’Italia (Ma la notte no e Il materasso, La vita è tutto un quiz, Grazie dei fiori bis, Vengo dopo il Tg). Sigla della trasmissione L’altra domenica era Fatti più in là delle Sorelle bandiera. Verso la fine degli anni 70 mentre in Inghilterra esplode il punk in Italia a Bologna si sviluppa una scena che attinge musicalmente dalla scena inglese e che nei testi abbraccia la demenzialità come mezzo di comunicazione assolutamente alternativa alla tradizione musicale Italiana. Gruppo simbolo e superstite di questa scena sono gli Skiantos di Freak Antoni che per la prima volta usa l’espressione “rock demenziale”. Nel 1978 la band pubblica infatti, in allegato al secondo cd Monotono, il manifesto del rock demenziale che si apre così: “La gente stupida non considera l’energia dell’errore e la vitalità del rock. Gli intellettuali usano il nonsenso calibrato e non il demenziale pesante”. Nascono molti gruppi come i Windopen di Roberto


GIORGIO GABER Ecco, gli anni ’60 sono quasi finiti e lui è ricco, famoso: tutto grazie alla televisione dove si esibisce con brani romanticoidi, pure apprezzabili. Che volere di più? In Rai è il tempo del gran censore dc, Ettore Bernabei, dal ‘61 direttore generale Rai, il cui motto era: «La censura è assunzione doverosa di responsabilità». Gaber furoreggia quando canta, in languidi birignao, «non arrossire quando ti bacio». Cose fuori posto ne dice poche, pochissime, qualcuno storce il naso quando definisce «le nostre serate stupide e vuote», ma è tutto lì. Finché non diventa se stesso. Deve essere stato un daimon a chiamarlo: Gaber, alla fine degli anni ’60, dice basta. A dire il vero già nel ’63 era stato uno dei protagonisti di una censuratissima trasmissione meteora, Canzoniere minimo, dove venivano proposte anche canzoni di protesta. Ma restava pur sempre un molle uomo-Rai. Di quel suo passato dirà: «eri costretto a dire cose che non ti appartenevano». Così, il 6 ottobre 1970, dopo una tournèe teatrale con Mina, capisce che il teatro è la Via. Nasce il Signor G., il teatro-canzone, e comincia il viaggio, anticipato dall’Asse d’equilibrio, un album splendido e inquieto del ’68 scritto con Herbert Pagani (quello di Albergo a ore), dove in La vita dell’uomo c’è tutta la poetica della scelta tra le due strade, quella della «gloriosa nullità» o quella dell’«anima come orizzonte». Sceglie la seconda. Ciò che era lo ripudia, lo guarda dall’esterno e vede un uomo «così compromesso con ogni compromesso/ che oramai più nulla né sente né vede/ e il compromesso è l’unica sua fede». Qui è la sua forza: nella scelta di partire, sapendo che a orientarlo sarà solo la stella del Sé. Arruola Sandro Luporini, che lavora ai testi. Legge Laing, Adorno, la Scuola di Francoforte, Céline, L’uomo senza qualità e li trasforma in musica. Sceglie alcune parole cui attribuisce un significato personale. Ne nasce un Pensiero, che vuol dire: un’idea del mondo. Manco a dirlo: fa incazzare tutti. É censore delle storture del ‘68: l’uomo ha smesso di essere individuo ed è diventato massa, 10 PUGLIA VINCENTE?

i sessantottini li definisce «polli d’allevamento» - pensate il putiferio. È disgustato dalla miseria di pensiero e dal carrierismo degli anni ’80 e all’inizio del decennio scrive forse il suo capolavoro: la violentissima Io se fossi Dio, dove attacca Aldo Moro, morto da poco e che pure aveva ricevuto una semiassoluzione da Pasolini. «Vorrei dire che Aldo Moro resta ancora quella faccia che era», gli grida contro Gaber, e il disco viene subito ritirato e disintegrato in reattori nucleari. Il penultimo Gaber, degli anni ’90, è quello millenarista, disilluso, erga omnes: giornali, televisione, politica, «dio mercato». Ma la vena è inaridita, le invettive sempre più scolorite, il suo qualunquismo – perché il signor G. è stato spesso qualunquista – senza la forza ironica, la poesia e la lucidità che lo assolvevano. Lo scrittore Luca Canali, dopo uno spettacolo del ‘98, palerà di «protesta inerte, rimpianto condito da uno snobismo da salotto medio-borghese scontento di tutto». E forse ha ragione. Gaber risponde: «io esprimo solo quello che penso». E forse ha ragione. A quella stella del Sé Gaber fu sempre fedele, anche quando le sue scelte risulteranno discutibili. Poi, per ultimi, arriveranno due album con picchi altissimi. L’ultima volta che andai a teatro a vederlo - perché Gaber andava visto: il suo pensiero era monco senza l’azione, senza il suo lavoro sul corpo – gli chiesi, come bis, Io se fossi Dio. Sorrise e alzò le spalle, come a dire: non ho più il fisico. Era già consumato dal suo male. Sulla pagina 103 del Televideo, il giorno di capodanno del 2003, c’era scritto: È morto Giorgio Gaber; e io pensai: e me lo dice così? Fu la mia prima reazione: me la presi col Televideo, che liquidava la faccenda in modo freddo, insensibile, con quei caratteri inattuali, quel bianco e verde su sfondo nero. La verità è che alla fine sul Televideo c’era scritto: È morto Giorgio Gaber, ma io lessi: Antonio, una parte di quella materia di cui sei fatto è morta. Ciascuno, nelle cose, ci legge quello che vuole. Antonio Iovane


Terzani, i Teobaldi Rock di Luca Carboni, i Luti Chroma di Tullio Ferro e Mauro Patelli, i Supercircus di Andrea Mingardi, la Kandeggina Gang e molti altri ancora. Dal 1973 erano già attivi gli Squallor che negli anni ’80 approderanno anche nelle sale cinematografiche con Arrapaho e Uccelli d’Italia. Gli anni ’80 sono quelli in cui si crea un pubblico di settore, gli anni di Lino e i Mistoterital, dei primi Elio e le storie tese, dei Camaleunti, degli Edipo e il suo complesso, dei Powerillusi. Tutte formazioni in cui prevale il lato parodistico, dissacrante, non sense. Si affaccia sulla scena anche Armando De Razza, cantautore finto spagnolo che gioca con le parole e propone brani celebri come Esperanza d’Escobar, Amalia De Lana e La Lambada Strofineira. Nel 1990 nasce anche il festival di San Scemo che prosegue tutt’ora (un piccolo festival simile e omonimo da un po’ di anni a questa parte si tiene anche ad Erchie, in provincia di Brindisi). Nel corso degli anni ’90 si affacciano sulla scena televisiva e discografica quelli che potrebbero essere definiti i cantautori demenziali. Importante, in questa direzione, è il Maurizio Costanzo Show palestra e trampolino di lancio di molti di questi cabarettisti votati alla canzone. Marco Carena vince nel 1990 la prima edizione di San Scemo con Ti amo (come una bestia, me lo dici sempre che sono una bestia) e partecipa tra le nuove proposte del festival di Sanremo nel 1991 con Serenata. Ora prosegue, con minore fortuna, la sua carriera con concerti di piazza. Più fortunato sicuramente Dario Vergassola che dopo aver firmato moltissime canzoni di successo (Mario, Non me la danno mai) si è trasformato in un vero e proprio conduttore televisivo. Il successo è stato toccato anche da Stefano Nosei e il suo pastiche di canzoni celebri mescolate, e Federico Salvatore che dopo la famosa Azz e altre canzoni comiche partecipa anche a


FRANK ZAPPA Può l’umorismo appartenere alla musica? Frank Zappa si poneva direttamente ed esplicitamente questa domanda nel titolo di uno dei suoi dischi (Does humour belong in music?, 1986). Sembra legittimo d’altronde chiedersi effettivamente in che modalità o a che titolo possa l’umorismo inferire con la musica, soprattutto considerando l’eredità plurisecolare di una musica classica che non ha mai smesso di prendersi oltremodo sul serio. Le risposte zappiane al suddetto quesito sono molteplici. Teniamo presente che la risata si genera spesso al cospetto dell’interruzione della prevedibilità di un’azione o di uno schema verbale, interruzione che crea una situazione inaspettata (come una modella che cade durante una sfilata, 12 TRASH & CLEAN

oppure un gioco di parole, o una pubblica puzzetta vanziniana); in musica può essere ottenuto un simile risultato con un’improvvisa e inaspettata divergenza ritmica, melodica o armonica rispetto alla regolarità della maggior parte dei generi musicali. Lo stesso Frank Zappa affermava: “Qualsiasi composizione (o improvvisazione) che suoni consonante e regolare sempre e comunque mi pare l’equivalente di un film dove ci siano solo i buoni o di una cena a base di ricotta”. Anche l’accostamento di elementi tra loro normalmente estranei può indurre al riso, e così come farebbe ridere un capo di Stato vestito per l’occasione da suora, allo stesso modo ha un effetto assolutamente dirompente ascoltare


Stairway To Heaven in versione reggae (The best band you never heard in your life, 1991), con tanto di sezione fiati che all’unisono esegue il celeberrimo assolo di chitarra di Page. Zappa parlava anche di strumenti dal timbro inerentemente buffo, citando alcuni utilizzi della tromba con la sordina, del sassofono basso suonato nel suo registro più grave nonché del trombone a coulisse, i quali scatenano reazioni di ilarità negli ascoltatori “cresciuti a cliché subliminali che hanno determinato la loro realtà auditiva fin dalla culla”; per lo stesso motivo utilizzava effetti sonori di stampo rumoristico, come ad esempio nel finale di Peaches En Regalia (Hot Rats, 1969). La risposta più semplice e superficiale è riscontrabile inoltre nell’analisi delle liriche dei brani cantati, che portano alla risata per via delle tematiche particolarmente pungenti o originali - difficile trovare una canzone che nomini nel proprio testo il filo interdentale, se si fa eccezione per Montana di Frank Zappa (Overnite sensation, 1973) - o anche per la sfrontatezza con cui l’autore ha saputo discutere nei propri testi di tematiche sessuali (talvolta collegate alla vita ‘da tour’) di cui tutti parlano o fantasticano nella sfera privata, ma che difficilmente si ha il coraggio di portare alla superficie dell’ambito pubblico. A tal proposito gli ammiratori italiani di Frank Zappa sono ulteriormente sollazzati da un paio di brani del repertorio zappiano che, proprio nel nostro idioma, si intitolano Tengo na minchia tanta (Uncle Meat, 1969) e Questi cazzi di piccione (Yellow Shark, 1993), a testimonianza ancora più pregnante delle origini siciliane dell’autore. Eppure non bisogna fare l’errore di considerare “demenziale” la musica di Frank Zappa, perché etimologicamente “demenziale” viene da “de-mens” ovvero “lontano dalla mente”, o “fuori di testa”, da cui pare evidente che tale termine non si addice affatto a una vis comica che invece era frutto di un’acutissima ricerca intellettuale. E, per chiudere, sembrerà anche paradossale, dopo quanto detto, il fatto che far ridere non era affatto l’obiettivo primario di Zappa, poiché in realtà il suo vero scopo era il riconoscimento della sua dignità di compositore ‘serio’, alla stessa stregua dei suoi idoli Varese e Stravinskij, e realizzava dischi e tour di musica un po’ più vicina alla popular music, se pur con un approccio rivoluzionario e rimasto unico, con lo scopo di racimolare denaro per i lavori più impegnati. Come recita un altro titolo di un suo disco: We’re Only In It For The Money (1968). Marcello Zappatore

Sanremo (e con una canzone seria sul tema dell’omosessualità). La scena demenziale ha ospitato poi, con alterne vicende, attori che si sono cimentati in canzoni come Paolo Rossi, Claudio Bisio (famosissima la sua Rapput) e Davide Riondino simpaticissimo nel proporre “sconosciuti inediti” di famosi cantautori come la strepitosa Giuseppina che cammina sul filo di Francesco de Gregori. Gli anni 90 vedono inoltre la consacrazione di Elio e le storie tese che riescono, più di tutti forse, a imporre e a conquistare il pubblico e la critica (vincono il premio della critica a Sanremo del 1996 con la Terra dei cachi e arrivano addirittura secondi dietro Ron). Come negli anni ottanta era stata la partecipazione di Renzo Arbore al Festival con il Clarinetto a segnare una sorta di spartiacque (che aprì le porte del festival ai comici come i già citati Marco Carena e Armando De Razza o il Maestro Mazza con il Lazzo) così nei ’90 la presenza di Elio e le storie tese sul palco dell’Ariston ha forse sdoganato un certo genere. Interessante anche la carriera dei Latte e i suoi Derivati di Lillo & Greg che poi sono passati stabilmente in tv e in radio (con la trasmissione sei uno zero). Da Napoli arriva invece Tony Tammaro che firma numerose canzoni di successo come Patrizia, A casa per le sette, Se potrei avere te, anche grazie alla diffusione radiofonica. Stesso filone anche per Leone Di Lernia autore di tormentoni (anche da discoteca) e Gianni Drudu (quello di Fiki Fiki e Tiramisù la banana col bacio). Tra i gruppi recenti si possono citare i Gem Boy, Gli Atroci, Zio Ematitos, Prophilax. Il movimento è sano e forte in tutta Italia. Ovviamente si tratta di gruppi che difficilmente balzano agli onori della cronaca nazionale o riescono a produrre dischi di un certo successo. La comicità, anche quella musicale, passa soprattutto dalla tv. Non è un caso che uno dei comici più famosi degli ultimi anni coniughi musica e parole. Checco Zalone dopo il singolo Siamo una squadra fortissimi ha proseguito con le sue divertenti parodie musicali che coinvolgono Negramaro, Jovanotti, Gigi D’Alessio, Carmen Consoli e tanti altri. 13


RISATE DAL SALENTO Andrea Baccassino e Antonello Taurino

Nel panorama comico salentino, a dire il vero non troppo folto, spiccano due nomi in particolare che propongono generi molto diversi. Il neretino Andrea Baccassino e il copertinese Antonello Taurino. Entrambi attori e musicisti eclettici hanno storie e stili diversi. “Io sono un autore: scrivo storie”, sottolinea Andrea Baccassino. “A volte queste storie prendono la forma di canzoni, altre volte di spettacoli di cabaret, racconti, film... E se non trovo nessuno che le porti sul palco lo faccio da solo”. Le canzoni più famose sono le parodie proposte in dialetto neretino come Lu semiasse no mbale, Nardò Nardò, Brutta Stroppia. “Il vizio di scrivere parodie l’ho avuto (come tutti credo) sin da piccolino. Solo che nel ’96 ho pensato che potesse anche diventare un mestiere e così ho iniziato a impegnarmi. Le canzoni che scelgo devono avere due caratteristiche: devono essere molto conosciute dal pubblico e soprattutto devono piacere molto a me. Per questo alla fine scelgo sempre canzoni dei Pooh, dei Police, dei Beatles... Ed è questo il motivo per cui mi sento più legato a canzoni che poi al mio pubblico piacciono un po’ meno: per esempio Perenospula, cioè la parodia di Fastlove di George Michael. Non credo di ispirarmi a nessun collega, semplicemente perché non credo di essere ancora 14 TRASH & CLEAN

all’altezza di essere definito “collega” di Elio e le Storie Tese”, prosegue Baccassino. “A parte gli scherzi, la musica demenziale italiana è in una fase di grande fermento, grazie soprattutto agli Elio e alla larghissima diffusione delle loro canzoni. Ma oltre a loro ci sono anche Max Paiella, i Blues Willies”. Tra i progetti di Andrea c’è anche un tributo a Giorgio Gaber, un programma radiofonico (Radio Bottazzo) e la nuova carriera da regista cinematografico, il suo sogno fin da piccolo. “Quest’anno ho iniziato a dar vita a questo sogno scrivendo e girando una versione “salentina” dei Promessi Sposi, tutta interpretata da attori bambini. È stata una grande soddisfazione per me, coronata anche dalla vittoria nell’Ecologico Film Festival. Ora ci sono già sulla scrivania altri tre o quattro progetti. Quello che manca è un produttore, anzi se ne conoscete qualcuno...”. Diversa la formazione di Antonello Taurino. “A usare frasi confezionate nasco come attore non comico intorno ai diciannove anni, e poi sono andato avanti sul doppio binario”, sottolinea. “Avevo però già alle spalle qualche esperienza di animazioni, che mi aveva fatto capire che far ridere era una cosa che mi divertiva molto fare. Sono cominciati i primi laboratori teatrali non comici a Lecce, e parallelamente è nato un trio


ARMANDO DE RAZZA

La mia passione smodata per la musica demenziale ai tempi delle scuole medie mi condusse ad un incontro con uno strano personaggio che parlava mezzo italiano e mezzo spagnolo. Era Armando De Razza che, sulla fine degli anni ’80, raggiunse il successo con Esperanza D’Escobar (che poi da piccolo non mi era ancora tutto chiaro), La lambada strofineira, scritta con Renzo Arbore e approdata a Sanremo, Amalia De Lana e molte altre ancora. Quando abbiamo pensato ad un numero di Coolclub. it sulla musica demenziale è venuto subito in mente lui, quell’accento improbabile e i suoi giochi di parole. Così ci siamo messi subito alla sua ricerca, scoprendo le sue origini salentine. Armando De Razza (vero nome Maurizio) dopo aver iniziato a teatro, ha raggiunto un grande successo in televisione grazie a Renzo Arbore ma non ha mai abbandonato il cinema. “Ho sempre suonato da quando avevo dodici o tredici anni e mi piacevano tanto il rock quanto le canzoni poco serie. Amavo Renato Carosone e Armando Gil. Un giorno ci trovammo con gli amici del tempo come Massimo Ghini, Fabrizio Bentivoglio, Alessandro Haber, in una casa con Renzo Arbore. Mi fecero suonare le mie canzoni comiche e così ebbe inizio la mia carriera in comico, La mera Compagine dei Clerici Vaganti con Giovanni Trono e Corrado Nestola. Poi il gruppo si scioglie, per colpa ovviamente di Yoko Ono, e comincio l’attività solista. A fine 2002 metto in scena lo spettacolo Guasto e una mia carissima amica che lavorava lì mi fa sapere che fanno i provini a Zelig. Porto il Clerico Vagante al laboratorio e dopo 5 mesi, aprile 2003, mi fanno fare la trasmissione a Zelig Off. Ho partecipato alle edizioni 2003, 2004 e 2005 con il “Il Clerico Vagante”, e nelle edizioni 2007 e 2008 con Il Teatro senza Conflitto con Rubes”. Chitarrista diplomato, Antonello si cimenta anche con la musica demenziale. “Ho avuto molta fortuna con i miei maestri. Oltre a Jurij e Carlo Turati, autore col quale lavoro dagli inizi a Zelig, la chitarra classica l’ho studiata niente popò che con Massimo Felici e Lorenzo Micheli. In generale credo che in Italia, a parte l’eccezione Elio che si rifà alla lezione zappiana, la comicità in musica o ha livelli inarrivabili (Gaber, Jannacci), o non

tv”, sottolinea l’attore. “Le mie canzoni sono state sempre di due tipi “serie” e “demenziali” poi il caso ha voluto che abbiano visto la luce queste seconde”. Il personaggio all’interno della trasmissione “International D.O.C. Club” era questo cantante spagnolo. “Lo chiamammo Armando in onore di Gil ma anche di Maradona che in quel periodo era all’apice”. Tra la fine degli anni ‘80 e l’inizio dei ‘90 Armando fa più di 500 concerti non abbandonando mai il cinema. “Il motivo per cui non ho proseguito con le cazoni è perché non ci sono più le grandi etichette italiane. Il problema è la distribuzione. Perché dovrei fare un disco che so già in partenza che non vende? Quando ci sarà la possibilità di essere sicuri che esca il disco senza che rimanga in giacenza allora ci penserò” (pila). mi piace perché in genere la musica è molto più povera della parte testuale, seppur esilarante (da Dario Vergassola a Tony Tammaro a Checco Zalone). Per questo non è un filone che batto molto, perché lo farei solo se trovassi una musica che reputo all’altezza dei miei stessi gusti di diplomato, e mi ci vorrebbe un sacco di tempo. Ho fatto una ballata su Gino, un coltivatore salentino di marijuana che perde il lavoro a fine anni ’90 per l’arrivo dell’erba albanese, ho musicato una storiella sul comunismo, ho scritto la parodia alla Giovanna Marini di una canzone di lavoro data la sbornia, a volte eccessiva, di etnomusicologia nella nostra terra, Cantu te fatia te le Pierre te discoteca. A Milano faccio spettacoli con gente bravissima del ramo anche se non ancora “famosa”: Flavio Pirini, Walter Leonardi, Lanzoni&Didoni, o citare altri come Beretta, Orselli”. Antonietta Rosato TRASH & CLEAN 15



E NON RIDERE, NON CONOSCI L’EDUCAZIONE? (Piero Ciampi - Adius)

Alcuni generi musicali si basano ontologicamente sulle strategie ironiche, comiche e parodiche, talvolta facendo leva sui testi dalle lyrics taglienti (la musica d’autore italiana vanta esempi eccellenti da questo punto di vista, un riferimento su tutti è l’Adius di Piero Ciampi che si apre con versi di raro lirismo per poi sciogliersi in un definitivo e inequivocabile saluto rivolto all’amata), altre volte giocando sull’immagine live o nei videoclip dei componenti della band, altre volte sullo stratagemma della scelta di una cover. Youtube, ad esempio, è stato il ring dove si sono scontrate tre rappresentazioni diversamente ironiche della sensualità femminile, due delle quali parodiavano l’altra attraverso la cover di un pezzo hip-hop e del corrispettivo video. Si tratta di My Humps (2005), singolo grazie al quale i Black Eyed Peas vinsero gli MTV Awards nel 2006 per il miglior video hip-hop e i cui stilemi rientrano nell’iconografia classica del genere che vuole il corpo femminile ricoperto di tante griffe e pochi abiti, circondato da uomini che ne esaltano gli aspetti sessuali questa volta esplicitati dal titolo: “humps” significa natiche. La cover ad opera di Alanis Morissette (2007) tenta un approccio ironicamente didascalico per demolire lo stereotipo sessista e “maleoriented”, tuttavia la Morrissette scegliendo il rallenti nel cantato e nelle movenze non ottiene l’effetto ironico sperato e, anzi, come dichiarò la Associated Press “la sobrietà di questa interpretazione non fa che nobilitare la ridicolaggine del testo originale di Fergie”. Molto di più aveva, invece, già fatto Peaches, l’artista canadese trapiantata a Berlino, quando nel 2006 per prima si cimentò in una parodia del brano dei Black Eyed Peas esasperando in direzione coprofila i toni edulcorati di Alanis Morissette e modificando i versi e il titolo originali con una scelta che, come si conviene al genere ironico-

parodico, capovolgeva i contenuti di partenza: My Dumps di Peaches significa le mie scorie e infatti il video, volutamente low-fi, ha come protagonista la carta igienica che avvolge il corpo della cantante al posto di marchi e gioielli. Ma può accadere che la dissacrazione diventi materiale sacrale. In fondo, come poter evocare l’immaginario di un lunedì pomeriggio a teatro, in una rassegna low-cost dedicata a giovani ed anziani se non con la purezza di un’esibizione di Stefano Belisari, ovvero Elio, leader di una formazione che ha fatto della profondissima costruzione del senso attraverso il nonsense? È il gioco dei salti, dei rimandi, delle citazioni e delle ricostruzioni, è questa l’ironia. Difficilmente nasce dal nulla, spesso vive di contrasti, di maieutiche sbilenche. Pure. Così come la carriera di questa band. Converrebbe leggerla al contrario. Prima del reading teatrale di Elio, il Dopofestival ma soprattutto le Nozze di Figaro nella serata finale, unico momento degno di nota e memoria del disastroso Sanremo 2008. 2006: Valzer transgenico, con Bollani e Mondo Marcio. Altro ossimoro, altra purezza. 2003: Shpalman, improbabile ma riuscito tormentone. 2000: Elio legge Brecht all’Auditorium di Santa Cecilia: standing ovation e un’ulteriore prova del “vizietto” di uno dei cantanti più sottovalutati d’Italia (una formazione come gli EeLST distrae, e non è necessariamente un male). 1999: Best Italian act agli MTV Music Awards: come dare un Grammy a Frank Zappa. 1996: secondi a Sanremo, ma qualcuno dice che non vinsero solo per motivi “politici”. La canzone, premio della critica, è La Terra dei Cachi. Riascoltatela, sembra scritta ieri. E tutto attorno, la carriera, e i classici: Pippero, Mio Cugino, Il Vitello dai Piedi di Balsa, John Holmes, Servi della Gleba. Il dissacrante finisce a teatro. Ironia della sorte. Claudia Attimonelli e Dino Amenduni TRASH & CLEAN 17


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MASSIMO BUBOLA “Il mio non è un tributo. È la riproposizione di canzoni che ho scritto nel corso di tredici anni con Fabrizio De Andrè”. Inizia con una gaffes la mia chiacchierata con Massimo Bubola, musicista e autore, compagno di strada di De Andrè dal 1978 al 1990. Molti dei brani composti per Rimini, L’indiano e Le nuvole sono entrati nel suo nuovo lavoro discografico Dall’altra parte del vento. Da poco passato il decimo anniversario della scomparsa di De Andrè questa parola “tributo” mi era rimasta addosso. Molti tributi in club, festival, giornali, una puntata fiume di Che tempo che fa su Rai Tre con Fabio Fazio e Dori Ghezzi a fare da cerimonieri. Eppure ci sono i tributi delle 18 MUSICA

persone che hanno lavorato con lui e tributi di persone che lo hanno solo amato. Cosa pensa di queste manifestazioni? I tributi non richiesti mi lasciano sempre qualche perplessità. Queste sono scelte che fa la Fondazione e io le rispetto però ci dovrebbe essere una scelta più rigorosa. Non so, per esempio, cosa Tiziano Ferro abbia da dividere con Fabrizio De Andrè. A questo punto sarebbe meglio proporre un approfondimento sulla sua opera e sulla sua vita attraverso tutti coloro che hanno collaborato con lui. Fabrizio ha fatto delle scelte nelle linee di scrittura che hanno coinvolto Piovani, De Gregori, Pagani, me,


innovativo, poeticamente e musicalmente. Così mi ha voluto conoscere e con calma, giacché per lui la fretta non esisteva, abbiamo elaborato insieme i brani che sono poi entrati in Rimini. Tutte canzoni che gli hanno dato una grande visibilità e che, secondo me, lo hanno condotto ad avere un pubblico più vasto di prima. Canzoni come Rimini, Andrea, Volta la Carta, Sally e le successive Quello che non ho, Fiume Sand Creek, Hotel Supramonte, Se ti tagliassero a pezzetti sono tutte canzoni molto eseguite oggi. Dall’altra parte del vento racconta la sua storia musicale al fianco di De Andrè. Come hai scelto i brani che sono entrati nel cd? Semplicemente ho preso quelli che mi son venuti in mente e gli ho riproposti come erano nati nella mia mente, secondo la visione che avevo io che segue una certa letteratura del rock, del country, del folk. Diffido dalle imitazioni. Ci sono tantissimi gruppi che propongono i brani di De Andrè in maniera pedissequa, cercando anche di imitare la sua voce.

Fossati. Secondo me a queste persone andava dato uno spazio maggiore, per consentire una testimonianza più vasta e approfondita. La sua collaborazione con De Andrè è durata oltre tredici anni. Ci racconta quel periodo? In quegli anni anni abbiamo scritto moltissime canzoni insieme. Fabrizio, ed è questa la sua grandezza, ha sempre collaborato con qualcuno nella realizzazione dei suo album. In quel periodo io ho influenzato la sua poetica. Oltre il tempo del lavoro infatti si parlava poco di canzoni e molto di storia, di botanica, di letteratura, di cinema e di tanto altro ancora. Lei era molto giovane, aveva poco più di venti anni. Perché De Andrè la scelse? Nel 1976 avevo inciso il mio primo disco Il nastro giallo con il suo stesso produttore. Questo lavoro piacque molto a Fabrizio, lo riteneva

Il suo precedente lavoro è Ballate di terra & d’acqua un cd prettamente rock che prende la grande tradizione americana di Bob Dylan, Lou Reed, Leonard Cohen, Byrds, The Band, Willy De Ville. Quali sono stati in questi anni i suoi punti di riferimento? Io cerco da tanti anni di proporre rock italiano. Il rock è una vera e propria letteratura e riguarda la musica, la pittura, la poesia, i film. In Italia però c’è stato uno scarso attecchimento, io sono tra quelli che ha creduto ad una via italiana al rock. Questa musica ha bisogno di grandi testi: grandi gruppi come Joe Division, Pealr Jam, U2, Rollling stones avevano grandi autori. Quanto a De Andrè nel periodo “buboliano”, diciamo così, ha seguito questa letteratura poi è tornato a fare musica più etnica con Mauro Pagani e dopo Le nuvole invece ha intrapreso la sua collaborazione con Fossati. Io sono trentadue anni che porto avanti la mia idea di rock attraverso dischi più folk, più acustici, più elettrici, più latini ma ho capito già a venti anni cosa fare. Quest’ultimo cd è il più elettrico degli ultimi anni; ma sono importanti soprattutto i testi. Il rock ha bisogno di poesia. Pierpaolo Lala

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PIPPO POLLINA Caffè Caflish è il titolo del nuovo cd di Pippo Pollina, cantautore siciliano che dal 1985 ha abbandonato l’Italia “rifugiandosi” in Svizzera. Dodici canzoni inedite, sei firmate da Pippo Pollina e sei dal cantautore svizzero Linard Bardill, con l’unica eccezione di “Grida no”, versione italiana (su testo originale di Pippo Pollina) di “Sage nein”, storica canzone del cantautore tedesco Konstantin Wecker e simbolo pacifista in tutta la Germania e la Mitteleuropa. La prima domanda riguarda i tuoi esordi con gli Agricantus. Quanto è cambiata la scena della musica popolare in questi 20 MUSICA

trent’anni? È cambiata la scena musicale complessivamente quindi è cambiata notevolmente anche quella popolare. Alla fine degli anni ’70 ho cominciato la mia carriera proprio con la musica popolare e a quel tempo in Sicilia c’era una scena molto viva con tutti e due i piedi ancorati alla tradizione. Erano ancora attivi personaggi come Rosa Balistreri, Ignazio Buttitta, Ciccio Busacca e molti gruppi storici come La taberna Mylaensis. In quel periodo abbiamo avuto la fortuna, forse non compresa fino in fondo, di vedere all’opera gli ultimi grandi del canto popolare. Nella vostra zona, quella del Salento, la tradizione è molto


più sentita grazie al lavoro fatto sulla pizzica e, da quello che mi sembra di capire e di ascoltare, c’è una maggiore aderenza alla tradizione dei musicisti rispetto a quanto avviene in Sicilia. Da voi la tradizione è ancora forte poiché ha toccato le corde delle ultime generazioni. Dopo la mia uscita gli Agricantus hanno spostato la loro attenzione più verso la world music, mantenendo il dialetto come comunicazione verbale, ma allontanandosi dalla tradizione. Il 5 gennaio è stato il venticinquesimo anniversario della scomparsa di Giuseppe Fava. Proprio quella morte ti portò lontano dalla tua Sicilia. Come vedi oggi la lotta contro la Mafia? A fronte di un grandissimo risultato a livello investigativo, culminato con la decapitazione della cupola che portò all’eliminazione degli esecutori delle grandi stragi, a mio giudizio non si è riusciti a ottenere un risultato identico a livello culturale. I risultati, da questo punto di vista, non possono essere considerati soddisfacenti altrimenti non si assisterebbe all’attuale scempio del sottoproletariato. In Campania e in Sicilia la criminalità esercita ancora un forte fascino per le giovani generazioni. Non è sorprendente se si pensa ai valori promossi dalle compagini governative come l’arricchimento e il materialismo. Convincono soprattutto i ragazzi che tutti mezzi sono buoni. Il successo è arrivato in Svizzera anche grazie a Linard Bardill. Dopo dodici cd in italiano il nuovo lavoro è bilingue. Come mai questa scelta? è figlia di una grande amicizia con Linard Bardill che ho conosciuto agli esordi della mia carriera. Il nostro primo spettacolo insieme, nel 1987, era in italiano, tedesco e ladino. Il nuovo cd si interroga sul tema dell’emigrazione, degli spostamenti dei popoli nella storia; questo è un tema di grande attualità ma lo sarà ancora, tutti i popoli della storia, prima o poi, si sono spostasti. I Caflisch erano una famiglia di pasticceri migranti. Partiti dalla Svizzera per cercar fortuna nel Meridione d’Italia, sbarcarono prima a Napoli, poi a Palermo, dove ben presto il loro caffè-pasticceria diventò un irrinunciabile punto di riferimento soprattutto per la vita artistica e letteraria dei palermitani che ogni giorno al Caffè Caflisch si incontravano per discutere di arte, letteratura e società. Sembra assurdo ma anche gli Svizzeri sono emigrati e molti di loro vennero proprio nel Sud Italia.

L’Italia, soprattutto quella del Sud, negli ultimi anni si è trasformata da terra di emigrazione a terra di immigrazione. La situazione è drammatica, c’è un atteggiamento vergognoso nei confronti di questi poveracci. Ci si dimentica che fino a poco tempo fa milioni di italiani erano i vu cumprà nel mondo. Non si vuole capire come una atteggiamento di solidarietà e di seria politica di integrazione possa arricchire loro e noi, possa introdurre altre culture e nuove energie. Il processo di fraternizzazione può dare risultati. Qual è il tuo attuale rapporto con la Sicilia? Principalmente un rapporto di visita ad una madre amorevole e amata. è un continuo arrivederci; scendo ogni due mesi con la promessa di ritornarci stabilmente. Ma deve passare ancora un po’ di tempo. potrei dire che si parte per vedersi ritornare, ad ogni andare corrisponde un ritornare, una ricerca delle proprie radici. Come mai molti autori devono espatriare per poter produrre un cd in tranquillità? Qual è la situazione della musica italiana oggi? Da una parte difficile. Credo che ci sia un pubblico interessato e pronto a ricevere un tipo di messaggio artistico come quello che propongo io. Il problema è la visibilità. I grandi mezzi di comunicazione di massa hanno deciso di proporre una immagine culturale dell’Italia per modellarla al basso. Allora non ci sarà mai spazio per chi fa un altro tipo di proposta. Negli ultimi venticinque anni è stato deciso strategicamente un sistema per cui l’italiano va rincretinito in modo che tu possa dire quello che vuoi e lui ci crede. Più impoverisci un popolo più è facile fargli fare quello che vuoi tu. La strategia politica è precisa. Quello che appare e che vedi in tv deve essere in un certo modo. Le nostre proposte non centrano anzi sono sovversive. Quale credi sia oggi il ruolo di Internet nella diffusione della musica. Fondamentale. La rete è uno strumento di libertà che bisogna usare bene. Internet ti consente di riempire i teatri senza passare dal redattore di turno che segue logiche di un certo tipo. Noi facciamo arrivare la nostra voce laddove pochi anni fa era impossibile. Non dovendo passare da tv, dai giornali nazionali che scrivono sempre dei soliti noti. (pila)

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ROBERTO ANGELINI

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La carriera musicale di Roberto Angelini, cantante e chitarrista romano, sembrava destinata a quel settore dedicato alle boy band. Un ragazzo “figo”, con una bella voce, con brani per adolescenti urlanti. Dopo il buon esordio con Il signor domani, premio della critica a Sanremo nel 2001, e il successivo cd celebre per il Gatto Matto, il cantautore entra in crisi, straccia il suo contratto discografico e riparte dalla sua musica, dalla sua chitarra, dai piccoli locali. Si appassiona a Nick Drake e pubblica con il violinista Rodrigo D’Erasmo, il tributo Pong Moon. Qualche giorno fa è uscito La vista concessa, il suo nuovo, atteso da cinque anni, cd di inediti. Abbiamo parlato con Roberto della sua storia e del futuro della musica italiana. Ci racconti un po’ questo nuovo cd? Dopo il successo con Gatto Matto, improvvisamente sono ritornato sulla terra e mi sono ricordato che avrei voluto fare le mie cose. Ho avuto una forte rottura con il mio produttore e con l’etichetta. Da lì ho pensato di ripartire da zero, ricominciando a suonare nei locali di Roma, come facevo all’inizio, ricreando il terreno per una composizione iniziale. Contemporaneamente ho aperto una piccola etichetta, uno studio di registrazione. Ho deciso di vivere di musica facendo l’artigiano. Lavoro da tempo con lo stesso fonico, con una squadra di musicisti. Abbiamo tanti progetti, uno dei più importanti è questo disco. Cosa c’è dentro La vita concessa? Quali influenze, quali ascolti? C’è anche un po’ di “scuola romana”? Ci sono tante cose. Nick Drake, ad esempio, influenzava la mia musica anche prima di conoscerlo bene. Poi c’è l’amore per la psichedelica, l’esempio più facile è quello dei Pink Floyd, ma c’è anche tanta musica di oggi come quella di Sigur Ros, Mogwai, Kings of Convenience, Damien Rice. Prediligo certi suoni acustici e le composizioni fatte con la chitarra. I Radiohead sono un gruppo che amo, forse quello che amo di più. In questo disco ci sono certe loro cupezze. Infine c’è un po’ di scuola romana, come dici tu, giacché ci conosciamo tutti. Io e Pino Marino, ad esempio, suoniamo insieme da tanti anni. Poi mi piacciono Iron & Wine, Calexico, Piers Faccini e tanti altri. Dicembre è da un paio di anni in giro su you tube con un video particolare con sculture in plastilina realizzate da te e Stefano Argentero. La tua passione è modellare il pongo. Lo si vede anche dalle copertine.

Mi è sempre piaciuto modellare il pongo e usarlo per le copertine perché mi piace l’idea di approfittare della cover del disco come se fosse un’opera. Il faccione mi rompe le scatole. Il disco così diventa una cosa mia, particolare e caratterizza il mio pensiero. Il pongo lo vedo bene con la mia musica. In questo caso mi sono affidato ad un ragazzo molto bravo che ha interpretato il titolo con il falconiere bendato. Qual è la situazione della musica indipendente italiana? Cosa pensi degli After Hours a Sanremo? Negli ultimi anni ho ascoltato tante cose belle e ogni tanto ho l’impressione che alcune abbiano anche visibilità. Credo che tutti sognino di fare una carriera come quella degli After hours, di girare con il furgone e fare tante serate a cantare le proprie canzoni. La partecipazione a Sanremo la vedo come una loro voglia di dimostrare che possono andare anche al Festival senza mediazioni, visto che sono stati invitati con i tappeti rossi. La loro presenza è un segnale importante ma contraddittorio. A Sanremo vanno tanti cantanti che non vendono dischi e non possono fare concerti con il biglietto. Quindi mi sembra più Bonolis che cerca di creare uno spettacolo interessante e invita un gruppo importante. Nell’attuale scena mi piacciono poi Alessandro Grazian, Dente, Calibro 35, Massimo Giangrande. In Italia ci sono tante cose interessanti che hanno avuto anche un buon successo come Le Luci della Centrale Elettrica, Baustelle, Il Genio. Strano tu mi risponda con tanta dovizia di particolari. Di solito la risposta è... ascolto solo musica classica... Spesso chi fa musica ascolta solo se stesso e alla fine perde il contatto con il mondo. Negli ultimi anni hai dato vita anche all’etichetta Fiorirari. Ci parli un po’ di questa esperienza? La cosa che mi poteva permettere di continuare a fare la mia musica era mettere in piedi uno studio di registrazione e una etichetta per sbrigare tutta la parte burocratica. Le case discografiche si sono sempre approfittate di molti giovani ma ne pagano il conto. Oggi i musicisti devono imparare anche cosa sono le edizioni, i diritti connessi. Già ci sono pochi soldi in giro, se non si è neanche tutelati è ancora più dura. (pila)

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ANTONY AND THE JOHNSONS The Crying Light Rough Trade

Tagliamo la testa al toro. I giornali vi diranno che è l’album dell’anno, o vi diranno che Antony Hegarty è l’artista dell’anno, con le sue liriche struggenti, la sua sensibilità fuori dal comune, il suo corpo che non lo rappresenta e lo mette in crisi, la sua sessualità ingabbiata. È tutto vero ciò che avrete letto, tranne il fatto che queste siano notizie fresche fresche. The Crying Light non è un album indimenticabile, non è soprattutto il miglior lavoro di questa non-formazione (i the Johnsons sono “solo” un’adorabile prosecuzione del nome da solista). Andatevi a sentire il precedente I’m a bird now, appicicateci la psicologia spicciola del critico a cui hanno dato la soffiata e sarete più o meno di attualità. Antony non è l’artista dell’anno, ma è uno dei migliori della sua, della nostra generazione. Sa cantare, e lo sa fare benissimo. Sa scrivere, e non ha mai abbassato la qualità dei suoi testi (melensi? Melodrammatici? Paranoici? Embè?). In questo The Crying light marcia, forse un po’ troppo, sui suoi stessi clichè, varia un po’ troppo poco e quando lo fa tocca le punte migliori dell’album (la performance di un capolavoro come Daylight and the sun varrebbe 24 MUSICA

un intero concerto). Insomma, preparatevi all’ondata trendy di Antony, ma rispondete subito con l’album vecchio. Questo The Crying Light, però, non potete buttarlo mica. Dino Amenduni

to sincopato di didjeridoo in LionInACom, piuttosto che lo slancio tribale techno/fusion di Brothersport; il resto è magia psichedelica che prende forma nei ripetuti ascolti. A voi il viaggio. Tobia D’Onofrio

ANIMAL COLLECTIVE Merryweather Post Pavillion Domino

DAVID GRUBBS An Optimist Notes The Dusk Drag City

Gennaio 2009: il decennio volge al termine e chi si interroga sullo stato del rock dovrà ascoltare l’ultimo di Animal Collective, un disco che unisce elettronica avanguardista, propulsione lisergica, i volumi proibitivi del noise-shoegaze e, al centro di ogni composizione, melodie capaci di agganciare l’orecchio più schizzinoso. Come TVonTheRadio e NoAge, anche gli AC giocano sul binomio rumore/melodia: qui è un po’ come se i Residents incontrassero gli Spacemen3, facendo cover dei FlamingLips e generando stratificazioni di suono pirotecniche, prodotte da un estro primitivista e folle, molto Barrettiano. Tenendo a freno la componente anarchica, quest’album orecchiabile e immediato potrebbe accrescere il numero di chi li ama spassionatamente. Già ad un primo ascolto affioreranno MyGirls, i coretti alla Beach Boys di GuysEyes, oppure il tappe-

Tra il 1985 e il 1995 David Grubbs ha praticamente “inventato” il post-rock. Oggi torna a deliziarci con un lavoro degno dei primi GastrDelSol, che incredibilmente ripropone il modello dei ‘90 risultando, dopo quasi vent’anni, più attuale che mai. Si parte con il cantautorato free-form che tra minimalismo e stream of consciuousness ha rappresentato il marchio di fabbrica, e si continua con una roboante batteria, a distillare vibrazioni con la solita noncuranza. Sciabolate elettriche si avviluppano al “sacro asse del drone”, in un cupo vortice Slint-iano. Nel cuore del disco, una radiosa cavalcata degna di Motorpsycho o addirittura Bastro, la band seminale della scena di Louiseville. Le successive miniature incrementano la tensione dando sfogo all’ispirata ricerca timbrico-melodica, che finisce per sciogliersi nel tetro “droneggiare” di The-NotSo-Distant. Etichette appena coniate come weird, avant-folk,


drone ambient, calzerebbero a pennello ma è semplicemente Grubbs fedele a se stesso, narrativo e formalmente perfetto. Ascoltarlo vuol dire lasciarsi cullare, perdere l’orientamento e pregustare una folgorante rinascita. Magia dell’avantgarde e della musica in genere, che al servizio di artisti illuminati, suona anche tanto calda, pittorica e stimolante. Tobia D’Onofrio

PSYCHIC TV/PTV3 Mr. alien brain vs. the skinwalkers Cargo/Sweet Nothing

Le ombre di Syd Barrett e Lou Reed (rispettivamente nelle splendide versioni di No good trying e Foggy notion) attraversano la nuova prova discografica degli Psychic TV (o PTV3, a sottolineare il fatto che, con una formazione rinnovata, siamo alla terza incarnazione del progetto creato nel 1981 da Genesis Breyer P-Orridge). Un album che arriva dopo il lutto del leader per la scomparsa dell’amata Lady Jaye, la sua seconda moglie. Un disco (registrato in presa diretta a Philadelphia, nel corso di un programma radiofonico) che, in un riuscito alternarsi di luci ed ombre tra dark, post punk e psichedelia, parla anche d’amore, con l’Alien Brain del titolo che fa riferimento all’individuo

ANDREW BIRD Noble beast Bella Union

Uno scenario musicale che abbraccia luoghi dell’anima e pizzica dove pensavi di sentire poco e niente. Andrew Bird ha questo dono. Violinista, chitarrista e songwriter ha creato un mondo a cui subito ci sentiamo legati, ammaliante nel suo essere poeticamente vicino. Chi ama Rufus Wainwrigth ma vorrebbe spogliarlo di tutti gli orpelli barocchi, chi ancora galleggia a mezz’aria ascoltando Donovan troverà molte risposte in questo bellissimo disco. Non c’è tristezza ma vita pulsante nelle canzoni di questo artista capace di imbastire melodie non tipicamente folk semplicemente fischiando o intessendo pop song dalle strutture robuste come anche Sufjan Stevens sa fare. Dopo i Fleet floxes la musica saluta un nuovo disco capace di aprire cuore e mente ai grandi pascoli del nuovo cantautorato. (O.P.) capace di vedere la miseria del mondo, il lato autodistruttivo dell’essere umano soffrendone molto e resistendo alla forza oscura degli Skinwalkers, esseri che credono unicamente nel potere, nella sopraffazione e nel materialismo. La nuova versione di New York Story con il mix di Michael Gira (ex Swans) è un gioiello di microelettronica rinforzata da un giro di basso Joy Division. Il Dvd accluso, con le immagini della filmaker Marie Losier racconta il progetto di P-Orridge on the road. Un uomo famigerato, imbarazzante, scandaloso, amato e/o dileggiato che conversava amabilmente con un certo William S. Burroughs, non so se mi spiego. Nino G. D’Attis

BLITZEN TRAPPEN Furr Sub Pop

Il quarto album dei Blitzen Trappen, grazie all’ingresso in scuderia Sub Pop si avvale di una produzione impeccabile e di un sound eclettico e potente. Pur giocando sul revivalismo rock anni 70, la band di Portland sembra trarre linfa vitale da un approccio trasversale, mai troppo indie-rock (per MUSICA 25


capirci, alla Pavement), ma neanche troppo calligrafico. Blues, glam rock, folk, country e psichedelia, BobDylan, Neil Young, le citazioni si perdono in un’ispirata base cantautoriale, sensibilità contemporanea e arrangiamenti trascinanti e talvolta personali, come nel marasma psichedelico di Love U, ideale punto d’incontro tra John Lennon, i WolfParade e i BadSeeds. La scaletta è equilibrata fra momenti poetici, digressioni lisergiche e sfuriate ritmiche, tanto che il disco scorre veloce senza apparentemente lasciare segni memorabili. Successivamente canticchierete una melodia pensando: sembra Bowie (War On Machines) o Grant Lee Buffalo che fa il verso a Dylan (Furr). Allora metterete su Black River Killer e sorriderete: “Hei Sceriffo, qui a SubPop la vita è davvero grandiosa!”. Tobia D’Onofrio

THE CHILD OF A CREEK Unicorns still make me feel fine Dust Wind Tales

Inizia delicatamente “Oh, Litte Man! (Your home like Mine)”: piccoli tocchi di piano, impercettibili arpeggi di chitarra, leggeri suoni indecifrabili. Prima traccia del secondo lavoro di Lorenzo Bracaloni, in arte The Child of Creek, che già 26 MUSICA

FRANZ FERDINAND Tonight Domino Records

All’inizio la sorpresa, il loro arrivo sulla scena nel 2004 fu come una meteora piombata direttamente dagli anni 80 e sapientemente irradiata da ritmi in levare, irrobustita da chitarroni rock, e virata da un che di trendy che ha contribuito ad eleggere i Franz Ferdinand come una delle band più calde del periodo. A breve la conferma e oggi l’atteso rischioso terzo capitolo. Impossibile ripetersi, gli anni trascorsi hanno segnato un’evoluzione del “rock da ballare”. Ecco perché questo Tonight è stato un disco tribolato, registrato in estenuanti session “notturne” alla ricerca di un nuovo suono per la band. L’impronta di Alex Kapranos non può essere che quella “cacthy” di sempre: un occhio alla classifica e l’altra all’underground. Ma non si può giocare a fare i ragazzini per tutta la vita e i Franz Ferdinand lo hanno capito. Prima grande novità un uso più deciso dell’elettronica che spesso supplisce a quello che prima era un tripudio di stilettate chitarristiche. Anche i toni sembrano più rilassati, non mancano perle di eleganza e potenziali singoloni killer. (O.P.) avevamo conosciuto per il suo precedente Once upon a time the light through the trees. Poliedrico artista, musicista originale, persona dai modi riservati e raffinati, come i suoi pezzi. Unicorns still make me feel fine raccoglie dieci brani registrati in stanze da letto e giardini, è invaso dall’odore e dai colori tenui della natura, evocata da Lorenzo nelle parole, nel ritmo delle canzoni, nella scelta degli strumenti (chitarre acustiche elettriche e slide, armonica, flauto, un bordan irlandese, una balalaika russa, organo, un piano elettrico e uno a muro Steiner, scricchiolii del legno ed electronics). Questo è un disco per chi ama il genere folk, ma non solo. È un disco per di-

strarsi, immaginarsi nel verde distesi a braccia aperte. Invidiabile come Lorenzo riesca a costruire pezzi così intensi (strumentalmente e vocalmente) facendo tutto da sé: ha cantato, scritto, composto, arrangiato, suonato, registrato, prodotto e mixato il suo Unicorns col mac e dei microfoni. Un musicista totalmente autonomo, ma che ha collaborato con numerosi artisti aprendo i concerti di Moltheni e Basile, Mi and L’au e José Gonzalez tra gli altri nomi. Come sempre, in ogni disco, c’è una canzone preferita. La mia è quella su una curiosa ragazza chiamata Josephine Goldenheart che veniva da una stella… Valentina Cataldo


JOAN AS WOMAN To Survive Reveal

POLICE

disco per riscaldare queste serate invernali, da far girare a basso volume, magari mentre leggete un buon libro seduti davanti al fuoco scoppiettante di un caminetto. Camillo “RADI@zioni” Fasulo

ne musicale al tutto. I progetti paralleli nascono spesso per allargare i confini stilistici di un gruppo, allora il cantato in inglese da il via alla conquista di mercati extra-italiani. Dna subsonico. Dieghost

CAESAR PALACE Dogs from V-Gas Universal

FUJIYA & MIYAGI Lightbulbs Full Time Hobby

Da una costola dei Subsonica

Considerando la musica sensuale di Joan Wasser – la “poliziotta” di New York – questo nome suona un po’ strano. Sostengono le cronache che il soprannome derivi dalla somiglianza, notata da un amico, con Angie Dickinson, star di un poliziesco TV americano degli anni ’70. La copertina rappresenta bene il disco, ancora più notturno e malinconico del precedente Real Life di due anni fa. Forse anche perché nato in un periodo difficile per la Wasser. E questo, a sua volta, giustifica la progressiva scomparsa delle chitarre elettriche, presenti, invece, nel primo lavoro: reminiscenze delle sue origini indie-rock. Chitarre o no, To Survive si appresta a diventare uno dei migliori dischi di questi mesi. Un album che espone toni più intimi, più soul rispetto all’esordio, proponendo suoni più raffinati, ricchi di preziosismi che conquistano: non solo folk e rock ma anche elettronica, hip-hop, classica e toni da musical che si amalgamano tutti in un insieme compatto. Un album che, senza perdere grinta e personalità, dimostra l’ormai piena maturità raggiunta da Joan Wasser, sicuramente una delle più talentuose ed interessanti cantautrici contemporanee. Un

nascono i Caesar Palace, progetto parallelo (ma sarebbe meglio dire verticale) di Boosta dj. Suonano rock con sprazzi di industrial. Cantano di amori moderni tra angoscie attuali e ossessioni ereditate dal tempo, forse prese come un virus dagli ’80, con cui condividono una lieve tensione dark-new wave. L’alchimia musicale è però figlia dei nostri anni, infatti i Caesar Palace suonano come un gruppo degli anni ’80 teletrasportato negli anni “00”, senza troppi elettronicismi a manetta, nessuna manopolina in distorsione, solo la perfetta equilizzazione del suono odierno. Dogs from V-Gas è una raccolta di canzoni come telecronaca in diretta di cupe vorticose insicurezze. Brani come Martyr Mask o Red Sofa Vampire sono ben in linea con un certo rock accattivante, ma il meglio arriva con My Ring, God and Ants e Spiders from (the) Sky. Boosta traspare come un sapiente Merlino, dà la migliore direzio-

Dopo la raccolta Transparent

Things, finalmente il nuovo atteso lavoro della band londinese (un tempo formata da due componenti, oggi da quattro), dedita ad un misto di pop, qualche strumento tradizionale ed elettronica onnivora anni 90. Il primo e l’ultimo pezzo racchiudono il tutto in un cerchio, sfoderando un motorik beat alla Neu ed incensando l’aria di fragranze Kraut-rock. Lightbulbs è una docile ballata trip-hop cantata sotto voce. Poi si gioca con l’electro, con il synth-pop (Pussyfooting) con groove sincopati (Pterodactylus) e tanta psichedelia da risvegliare lo spettro di Brian Eno (Goosebumps). Le tracce scorrono fresche come un bicchiere d’acqua, e la sete si fa risentire dopo poco… certo non si potrà parlare di originalità, ma l’ottima confezione di questo disco lascia sperare bene per il futuro. Davvero un bell’album, da ascoltare dopo Moon Safari degli Air e prima dell’ultimo Notwist. Tobia D’Onofrio MUSICA 27


HELTER SKELTER HS Autoprodotto

CATS’N JOE Cats’n joe Autoprodotto

Il 2009 si apre brillantemente nell’ambito delle autoproduzioni musicali salentine. Proprio da Brindisi giunge questo nuovo promo degli HS, formazione attiva già da qualche anno in ambito locale ed anche ben collaudata sui palchi nazionali come il Sanremo Rock di Modena. Nel corso del tempo il line up ha subito diverse modifiche, ma il capitolo attuale è contrassegnato da un ridimensionamento a quartetto classico (voce, chitarra, basso e batteria) che ha scarnificato gli arrangiamenti rendendoli particolarmente incisivi e di forte impatto. Sei tracce incalzanti che presentano una pregevole sintesi tra canzone melodica italiana e Brit pop, evidenziato dalla timbrica “gallagheriana” del singer Marco Maffei, il tutto accostato a testi a tratti laconici ma contraddistinti da un’innocente semplicità. Da segnalare il brano Un altro canto, track meglio riuscita sul piano espressivo grazie ad una struttura compositiva travolgente sulla quale si tessono le linee di violino della guest star Valentina Cariulo. In sostanza un lavoro certamente valido, caratterizzato da uno stile che rievoca nomi illustri come Oasis, The Shining e Kula Shaker. Buone le aspettative…. Enrico Martello

“Brindisi è la mia città, portuale, industriale, americana, dall’aria puzzolente e mi sento brindisino nel bene e nel male, il sentimento vago di insoddisfazione e il desiderio ancora più vago di fuggire mi appartiene eccome”, dice Creme in una recente intervista. Che Brindisi sia un terreno fertile per rock ed affini oramai è stato appurato dai vari Creme, Verardi, Birdyhop e non solo, che il rock sia intriso nelle mura delle sue case è un dato di fatto. E proprio da Brindisi, tra il pullulare delle band che in città parlano il rock, arrivano i Cats’N’Joe, un quintetto che mantiene alta la tradizione musicale dell’agglomerato urbano portuale. Cinque ragazzi che hanno saputo catturare da 40 anni di rock quello che c’era da prendere, trasformare, pulire e risporcare. Ottimi arrangiamenti ed una parte vocale femminile graffiante si concretizzano in un Demo EP di cinque tracce che lasciano immaginare al primo ascolto la loro attitudine rock’n roll, ma non solo: prendete la psichedelia di qualche decennio, il garage più recente, attraversate un po’ di blues e sporcatevi con varie atmosfere sonic-iuttiane, ora frullate tutto, aggiungete un pizzico di rabbia, che non guasta mai, uguale Cats’n Joe. Da tener d’occhio. Federico Baglivi

28 MUSICA

SENSE OF AKASHA People Do Not Know Who Rules Riff

L’incipit del quarto disco degli italiani Sense Of Akasha, è un post-rock soffice e geometrico su base elettronica. Il punto debole dell’album risiede nella predilezione di giri decadenti e atmosfere noir tendenti allo slo-core, con sviluppi alla Mogway e un cantato psichedelico (Mellow), elementi che rendono monotone e prevedibili canzoni che dovrebbero essere intense. Made of Dirt è un suggestivo patchwork dark apocalittico con inserti pop e percussioni esotiche. Option Key è pura frenesia in crescendo, acid rock per il nuovo millennio, con la ritmica incalzante, una meccanica recitazione vocale e acidi contrappunti di chitarra elettrica. Se la tendenza generale è quella di suonare come Sigur Ros e Mogway, negli episodi in cui si lascia più spazio alla fantasia, emerge un gusto personale più solare e contaminato. Spin è un omaggio agli Stereolab, Make Me Real incontra la new-wave di B.Eno e Talking Heads, mentre la conclusiva Wish tenta di riunire le diverse anime del gruppo. Un disco piacevole e a tratti coinvolgente. Tobia D’Onofrio


THE WRAITHS The Tragical Tale Of Wednesday The Ectoplasm Hurricane Shiva

Uscito per la coraggiosa e lungimirante etichetta indipendente Hurricane Shiva, The Tragical Tale Of Wednesday The Ectoplasm si presenta come un tributo ai leggendari Misfits di Glenn Danzig e i The Wraiths sono perfetti per chi si ciba costantemente di massicce dosi di horror-punk. Attitudine cafona, passione sfrenata per il macabro e citazioni a non finire nella musica del quintetto: dai T.S.O.L. ai The Cramps passando per i Ramones che vengono citati, oltre che nell’approccio vocale del cantante, anche nella trovata di darsi tutti lo stesso cognome (Bones) variando poi il nome (Dorian/voce, Damien e Tony/chitarre, Henry/basso, Doctor/batteria). La principale attitudine della band è fare casino con un punk‘n’roll che si presta benissimo ad essere suonato dal vivo con uno spirito gotico che proviene direttamente anche dalla carriera solista di Glenn Danzig. Comunque, occorre sottolineare che gli undici episodi del cd sono delle perfette canzoni in stile e lo sarebbero anche se non sapeste neanche chi Danzig & Co. siano stati per la storia del punk a stelle e strisce. Pezzi veloci e chitarre potenti, ma non troppo, sorrette da una ritmica martellante ma anche ipnotica come il rintocco di un orologio in un racconto di Edgar Allan Poe. Fantastici questi The Wraiths! Se avete amato i Misfits, amerete anche loro che più che esserne i discendenti ne sono proprio la reincarnazione. Camillo “RADI@zioni” Fasulo

VIVIAN GIRLS Vivian Girls In The Red

Dopo la metà degli anni 80 fu lo Shoegaze. Fenomeno di culto, morto al principio dei 90 sotto il peso di grunge e brit-pop, questo genere è stato protagonista di ripetuti fenomeni di revival, fino alla definitiva consacrazione avvenuta nel nuovo millennio. A distanza di quasi vent’anni, infatti, sono in molti a conoscere il genere e si cominciano persino a coniare nuove espressioni, come quella di Shit-gaze: a parte il nome/escremento, questo presunto genere musicale coniuga il Wall Of Sound tipico dello shoegaze, con l’estetica DIY della musica lo-fi. È un po’ quello che accade con il nuovo trio femminile di Brooklyn, le Vivian Girls, artefici di una proposta affine a quella dei vulcanici No Age, ovvero melodie pop in salsa garage-punk suonate con i volumi e le equalizzazioni proibitive dello shoegaze, appunto. L’iniziale AllTheTime fa leva sulla cadenza delle strofe, a metà fra country biascicato e bubblegum spensierato. Il trio talvolta ricorda i MyBloodyValentine (WhereDoYouRunTo), altre volte predilige ipnotici giri post-punk (TellTheWorld), sempre e comunque sfoggia una fragorosa attitudine garage, mascherata da tonnellate di dissonanze e decibel spaccatimpani. Un album sincero e potente che ben riflette lo stato del rock all’inizio del 2009. Tobia D’Onofrio

SIN FANG BOUS Clangour Morr Music

Sin Fang Bous è islandese ed ormai questi islandesi non fanno più notizia. Dietro queste tre parole si nasconde Sindri Mar Sigfusson, il cantante ventiseienne dei Seabear che ci prova da solo, e come per i Seabear, anche lui è roba Morr Music. Dopo un 7pollici uscito

a Novembre, l’album di esordio Clangour è stato pubblicato come LP e in formato digitale a Dicembre, ed uscirà su CD nel prossimo mese. Dodici tracce, un disco ottimista, spensierato, sognante, pop, folk, tutto contornato da una piacevole elettronica di sottofondo: acchiappa qualcosa dall’ormai tradizione dei Belle and Sebastian in chiave più elettronica, con ovvie influenze Morr da atmosfera, strizza l’occhio all’indie da chitarra acustica senza troppe distorsioni elettriche. Folktronica? Non perdiamoci in queste etichette: va semplicemente ascoltato perché è bello, è poco importa se ‘bello’ può essere soggettivo. Rischio. Nel 2009 Sin Fang Bous farà parte di un tour Morr: se ci passa vicino potremmo pensare di andarlo a vedere. Federico Baglivi MUSICA 29


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SECRET MACHINES Secret machines World’s fair

Fare del suono un muro capace di piegarsi e avvolgerti fino a riempire le orecchie, a fare pressione, diventare quasi fisico. Fare delle note una colata, flusso che conquista spazi oltre i nostri orizzonti e arriva in orbita e lì diventa un’onda psichedelica. Non stiamo parlando di musica cosmica né tantomeno di qualche epigono dei Pink Floyd ma dei Secret Machine band che riesce a comprendere in un magma sonoro tendenze sonore diverse (glam, pop, new wave, shoegaze, krautrock). Il tutto con una giusta dose di rumore e melodia potente ma accattivante. Prendete i Mercury Rev con la distorsione e i Flaming Lips più psichedelici e aggiungeteci un tocco di eleganza inglese. Non è abbastanza ma è già qualcosa per descrivere il sound dei Secret Machines che pur indossando una maschera pop (hanno anche accompagnato Bono degli U2 nella cover di I’m the warlus dei beatles nel film Across the universe) hanno nervi e muscoli ben tesi nel toccare corde e tamburi. (O.P.)

GIANMARIA TESTA Solo dal vivo Odd times records

La prima volta che vidi Gianmaria Testa dal vivo era solo sul palco del Teatro Elio di Calimera, in provincia di Lecce. Solo con la sua chitarra, la sua voce profonda e la sua carica di ironia di duro uomo piemontese. A distanza di circa sei anni da quella “visione” esce questo primo cd live del cantautore ferroviere. Solo-dal vivo, raccoglie ben venti brani registrati in un concerto tenuto al Parco della musica di Roma. Le canzoni scelte ripercorrono tutta sua la carriera (partita dalla Francia) con brani come Dentro la tasca di un qualunque mattino, Un aeroplano a vela, Seminatori di grano, Polvere di gesso (la mia preferita in assoluto), Ritals (dedicata allo scrittore Jean Claude Izzo), Gli amanti di Roma. Un disco intenso, scarno per definizione, emozionante per l’interpretazione e per i testi mai banali. Concerti (e dischi) di questo genere danno agli appassionati di musica d’autore la sensazione di ritornare nella stanze e nei pensieri dell’autore, che con la chitarra si appresta a comporre. Il risultato è da ascoltare e da godere, magari con un buon bicchiere di vino che Testa decide di mettere anche in copertina. (pila)

THE UGLYSUIT The Uglysuit Touch & Go

Quando si scopre un disco in ritardo si è sempre animati da due sentimenti. Da un lato ci si pente per il tempo perso, dall’altro ci si consola per aver recuperato. Questo disco degli Uglysuit è un’esplosione di pop psichedelico colorato e sognan-

te. E mi piace, rotondo nel suo essere attento alla scrittura di canzoni lineari ma ariose allo stesso tempo. C’è qualcosa di adolescenziale nella loro musica, del resto l’età media della band si aggira intorno ai vent’anni, ma anche passaggi più spessi in cui sembra di ascoltare echi di Elliot Smith o qualche vicinanza di chi ha fatto del pop materia quasi perfetta come gli Shins. Il singolone Chicago è perfetto per accompagnare un telefilm pieno di ormoni e storie di corna, ma il resto viaggia con una velocità diversa e lascia intravedere interessanti spunti. Non è il disco di una stagione ma di sicuro uno di quelli capaci di mettere sui giusti binari una domenica mattina. (O.P.) MUSICA 31


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MOGWAI The Hawk Is Howling Pias/Wall Of Sound

Tornati alla produzione di Andy Miller che aveva già lavorato con il gruppo in occasione del capolavoro Young Team, (l’esordio felicissimo del 1997) i Mogwai hanno raggiunto con The Hawk Is Howling il massimo grado di equilibrio nell’utilizzo di furia e consapevolezza. Annullato l’avvicinamento ad una più semplice forma di canzone palesato con i due dischi immediatamente precedenti, questo evidenzia, quindi, settanta minuti di musica senza compromessi, diluiti in dieci tracce che non lasciano mai indifferenti: devastanti per la bellezza sonora, fascinosi per l’eleganza, dolce o spietata che sia. Loro restano così: scontrosi e sfuggenti. Sfuggenti esattamente come il falco della copertina… che dopo un po’ vola via. Ma, occorre ammetterlo: The Hawk Is Howling non prende mai il volo. Sta fermo lì, nella sua bellezza pura, ed osserva. Di pari passo va fatta un’aggiunta: questo è, a suo modo, un classico (minore, ma pur sempre classico) della band scozzese. Che piacerà molto ai seguaci meno attenti al concetto evolutivo e soddisferà gli altri, perché, in quest’ambito (chiamatelo pure “post rock”, se vi pare!), di meglio non esiste nient’altro! Camillo “RADI@zioni” Fasulo

GIANT SAND proVISIONS Yep Roc

È in giro da più di vent’anni… Ha fatto e disfatto società e progetti vari innumerevoli volte, Howie Gelb. È lui l’unico filo rosso che, nel bene o nel male, unisce i Giant Sand di ogni epoca. Nel bene, perché in oltre vent’anni di onorata carriera non ha mai toppato un disco: dalla rugginosa elettricità degli esordi alla maturità cantautorale dei lavori più recenti. Nel male, perché oramai sai cosa aspettarti da un disco di Howie, e raramente lui riesce a sorprendere con soluzioni inedite. proVisionsnon fa eccezione. Circondato dai musicisti svedesi che già da tempo hanno preso il posto di Burns & Convertino e accompagnato da ospiti di rilievo (Isobel Campbell e Neko Case tra gli altri), Howie si balocca tra ballate ed elettricità, ruvido folk e impennate rock, ma c’è un’attenzione in più per la scrittura che eleva molti brani sopra la media del genere e degli stessi Giant Sand. Questa edizione è nata nel 2002 in Danimarca, ha prodotto vari album dal vivo e in studio (in particolare It’s All Over The Map, 2004) ed ancora resiste: un ottimo trio acustico di chitarra, basso, batteria si accompagna all’eclettico leader e mescola nordiche brume europee alla sabbia e al sole del suo amato Arizona. Camillo “RADI@zioni” Fasulo

GRENOUILLE Saltando dentro il fuoco Lunatik/Via audio records

Grenouille come il protagonista del profumo di Suskind. Un personaggio affascinante capace di sentire quello che altri non possono, abile nel riprodurne l’essenza, una persona tanto sensibile da non riuscire a sopportare tanto, al punto da impazzire. Un libro e un personaggio che non solo questa band milanese ha ispirato ma anche lo stesso Kurt Cobain solo per fare un esempio. E i Grenouille sentono ciò che li circonda, il tempo che vivono e sono giustamente incazzati, hanno sicuramente un debito con quello che è stato e sarà per sempre il suono di Seattle e il grunge in genere e si sente. Più in generale hanno un suono metropolitano, di scuola Stones temple pilots, Soundgarden. Parlano come suonano i Grenouille, diretti, violenti senza fronzoli. Dopo i Ministri un nuovo tassello della scena rock alla milanese. (O.P.)


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AVANTI POP

Cinque brani di successo che piacciono anche a Coolclub Lily Allen – the Fear

Quando nel luglio del 2006 la redazione di Coolclub mi chiese di recensire il primo album della 23enne londinese (Alright Still, voto 6) mi dissero: “Non puoi farlo che tu, che sei l’anima pop della redazione”. Quel giorno fu una sorta di investitura al contrario, perché prima di allora una come Lily non me la sarei mai filata. Ma in effetti chi meglio di lei, chi è più pop di una cantante che non sa cantare, non è bella, non è magra, ma è su tutte le copertine delle pagine dei giornali di gossip inglesi? In più, aggiungete una dose di coraggio infinita e ottimi collaboratori (il solito, il migliore: Mark Ronson) e vi renderete conto che avete tra le mani uno dei pezzi dell’anno di una delle artiste del decennio (Eresia!). BPA – Seattle

Ed ecco a voi il nuovo singolo di Brighton Port Authority, alias Mighty Dub Katz, alias Pizzaman, alias Fat Boy Slim, alias Norman Cook, alias Quentin Leo Cook (tra la popolarità e l’anagrafe, che cammino tortuoso), ex-bassista degli Housemartins, conosciuto prima come dj, poi come remixer, poi come produttore, fino a diventare squisito artista pop. In questa “Seattle” si accompagna ad Emmy the Great, alias Emma-Lee Moss, nata ad Hong Kong e cresciuta a Londra, prossima all’album d’esordio dopo aver fatto tour con Marta Wainwright, sorella di Rufus Wainright, figli d’arte di Loudon Wainwright III e Kate McCarrigle…basta, salvatemi. Kerli – Walking on air Kerli Koiv (classe ’87) è la punta di diamante della nuova tradizione della musica pop estone, ammesso che ce ne fosse una vecchia. Salita agli onori della cronaca per essere riuscita ad arriva-

re sino alla colonna sonora del nuovo James Bond (impresa ardua, ad esempio, per Amy Winehouse, giustificata da zio Mark Ronson per problemi di “salute”), biondissima, bellissima, firma per la Def Jam nel 2006 in circostanze abbastanza inspiegabili. Per una volta i discografici ci hanno visto giusto: il singolo funziona anche nelle radio italiane e l’album che segue è molto solido. È nato un nuovo genere: il nordic pop (dite Abba? Dite A-Ha? Dite Roxette?) Amy Macdonald – This is the life Da Glasgow (anche lei classe ’87), l’artista più sottovalutata di questo straordinario filone di giovani cantantesse anglosassoni. Più folk che soul, più normale che maledetta, dichiara, il giorno dell’uscita di This is the life, di essere una fan di Justin Timberlake. Elton John dichiara invece di essere fan di quest’altra Amy, che nel frattempo entra nella top ten di tutta Europa, vendendo oltre 2 milioni di copie. Prima in classifica anche nel suo Regno Unito con l’album omonimo, giunge in questi mesi in Italia nel più perfetto anonimato. Noi sì che siamo furbi. The ting tings – Be the one Su Internet ci sono tante cose belle, ma altrettante fesserie. Al pezzo in cui si parla di “pop raffinato” ho chiuso tutto e ho deciso di abbandonare il politicamente corretto. Questo duo di Manchester copia spudoratamente; Be the One è stato preso in sequestro dallo studio di registrazione dei Cure, di indie non c’è una beneamata mazza. Ma sono così piacevoli da ascoltare, così ruffiani, così pop nel loro essere finto-alternativi che si fanno amare da noi, gente raffinata. Dino Amenduni 35


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DAMMI UNA SPINTA Cinque artisti che ascolteremo in radio. Forse... Rusko – Cockney Thug

Il dubstep imbastardito. Essendo il dubstep un genere bastardo, nel senso migliore del termine, potete immaginare l’impossibilità di fornire una descrizione degna. Nato a Leeds nel 1985, è uno dei dj di punta della scena londinese insieme al suo compagno Caspa. Ma i tempi sembrano maturi per un’emancipazione sia in termini di carriera, sia, soprattutto, musicali. Rusko infatti aggiunge ignoranza (anche qui, nel senso migliore del termine) alla calda paranoia del dubstep, muovendosi su terreni più elettronici, quasi clash, quasi trash. Potrebbe diventare un top-dj di fama mondiale. Italia esclusa, dove nessuno sa chi sono i Crookers. I milanesi Crookers. Florence and the Machine – Dog days are over NME ha già deciso che la BBC aveva visto giusto quando aveva deciso. Insomma, hanno deciso, e hanno deciso giusto. Florence Welch è bravissima. Finchè l’Inghilterra continua a sfornare queste strepitose artiste e gli Stati Uniti continuano a sfornare cloni di Beyoncè che è una cover di Alicia che è una cover di Aretha ed Ella, non c’è dubbio su dove sia il centro del mondo musicale. Jack White (po-ppo-po-po-po), bravissimo ma non esattamente un istrione, ha detto che come lei non ce n’è. Prima nel sondaggio della critica su chi sarà l’artista del 2009. Andate sul suo Myspace (www.myspace.com/ florenceandthemachinemusic), chiamate la responsabile del booking e fatela venire a suonare in Puglia. E scusatemi per l’entusiasmo. Jamelle Monae – Many moons Non vi bastano gli Outkast? Andrè 3000 è bravissimo ma volete pure le tette? Eccovi Jamelle Monae. Lanciata proprio dal lungometraggio del duo di Atlanta, Idlewild, e messa rapidamente

sotto contratto dalla Bad Boy di Puff Daddy, Jamelle si presenta agli onori della cronaca con un timbro assolutamente unico, con una nomination ai Grammy da perfetta sconosciuta, con il bellissimo video di questo brano, un vero e proprio cortometraggio e con una personalità assai spiccata che di questi tempi non fa male nel mondo della musica. Certo, ora viene il bello: suonare come gli Outkast (Jamelle si è trasferita ad Atlanta da Kansas City, sarà un caso?) o prendere il coraggio a due mani? Il talento c’è, si spera che non ci sia paura. Fionder – Bari

Una scelta di campanile nuda e cruda. Luigi De Michele, nato in Germania ma cresciuto a Bari, canta della sua città con disincanto, azzeccando il campionamento su cui liberare le sue rime e non lesinando siluri a chi governa ma anche a chi vive la città e a chi contribuisce a lasciare aperte ferite culturali sempre dolorose e sanguinanti. Il rap non è un genere facile in Italia, non lo è mai stato e l’attacco del marketing musicale ai Fabri fibra di turno non aiuta a superare quel velo di diffidenza verso una forma di espressione nobilissima. Chissà, si parlasse di Chicago (e a Chicago) avremmo descritto un altro mondo. E invece Fionder è qui, e quando leggerà queste righe sarà a dir poco stupito.

Magistrates – Make this work Il nome del gruppo non porterà troppo bene in Italia, visti i tempi. Ma speriamo che non ci si fermi alle apparenze: date una possibilità al falsetto di Mark, leader del quartetto dell’Essex che si autodefinisce pop e che potrebbe ricordare i Phoenix come Robin Thicke come Prince, ma che può avere potenziale aldilà di facili e ovvi apparentamenti. Certo, dopo i Ministri, anche i Magistrati: quando arriveranno anche i the Veltronis? E che musica faranno? Downtempo? Dino Amenduni 37


GO DOWN RECORDS cercando di portare avanti queste due band. Con il passare del tempo io mi sono appassionato al “lavoro” di discografico, ci siamo divisi i compiti, organizzati, entrando a far parte della “musica indipendente”. Io mi occupo di promozione, uscite dei dischi, burocrazia (tantissima!) mentre Max si è concentrato sul booking delle band e insieme lavoriamo sull’estero, sulle grafiche, sulle distribuzioni, aiutati da amici e persone anche loro appassionati a questo mondo.

Nuova puntata della nostra saga dedicata agli intrepidi eroi che producono e promuovono la nuova musica. Un’altra etichetta indipendente si aggiunge al foltissimo sottobosco musicale italiano. Tanto rock, promozione in Italia e all’estero, attenzione per i capisaldi del genere, amore per l’artigianato musicale e tanta passione: è la Go down Records. La vostra parola d’ordine sembra essere rock’n’roll. Da dove nasce la vostra passione? La nostra passione nasce dai nostri ascolti, a noi piacciono le sonorità di matrice 60/70, rock n roll, hard, stoner, psichedelia, garage, freakbeat & similar. Per questo crediamo in ciò che facciamo e cerchiamo di farlo al meglio delle nostre possibilità. Nessuno in Italia, a parte pochissime realtà con cui collaboriamo come Tiziano di Area Pirata, Nicotine Records, Dario della Tre accordi fa ciò che facciamo noi nell’interesse della buona musica e credendoci fino in fondo! E come nasce la Go Down Records? Dopo aver fatto diversi anni on the road come fonico degli Ojm, assieme a Max (il batterista) abbiamo pensato di far nascere Go Down Records. Ci piaceva stare on the road again, ed all’inizio è venuto naturale partire con due band: Ojm e Small Jackets (prime due band dell’etichetta) 38 MUSICA

Tra le band anche i mitici Not moving, gruppo fondamentale per la scena rock italiana… Si, è stato un incrocio di strade, fra l’etichetta e i Not Moving che avevano in ballo una reunion. Appena Tony e Dome si sono fatti avanti non abbiamo esitato a dire si. Anzi, eravamo contenti di aver la possibilità di ri-lanciare una band che negli anni ’80 non è scesa a compromessi. Inoltre ci allettava l’idea di farli conoscere a chi non ha avuto la possibilità di apprezzarli allora, con il box (cd e DVD) che abbiamo prodotto. Io stesso non li conoscevo bene discograficamente parlando, avevo solo due brani su una vecchia cassetta che ho tirato fuori dopo la prima telefonata… Ma ricordavo di avere quei brani e se me lo ricordavo significava che in qualche modo già tempo fa mi avevano colpito. Passato e presente naturalmente, quali sono le vostre ultime uscite? Le nostre ultime uscite sono state tutte differenti l’una dall’altra. I Les Bondage per esempio fanno punk/garage/surf, i Pater Nembrot psychedelia/ progressive stoner rock ed è l’unica band che canta in italiano e probabilmente non ne produrremo altre in lingua italiana, ma il loro sound non ha nulla di italiano. Gli Electric 69 sono una band fantastica, personale e votata al rock n roll di matrice americana, l’unica band italiana che è stata invitata l’anno scorso al Popkom in Germania, il meeting più importante a livello europeo per la scena musicale internazionale. L’uscita che ci ha di più entusiasmato l’anno scorso è stata la possibilità di pubblicare per Europa, Russia e Australia il vinile in edizione limitata ed il cd dei The Morlocks, garage band culto degli anni 80, fondata da Leighton Koizumi.Grazie a loro il catalogo dell’etichetta ha preso prestigio, siamo riusciti ad essere seguiti dalla scena internazionale, siamo stati


gli unici a credere nel loro ritorno, e non è una semplice band di garage revival. Easy listening for the underachiever è un disco di rock’n’roll sudato, con tante sfumature bluesy, rock’n’roll, hard e soprattutto con un front man davvero pazzo. Hanno fatto un tour lungo 3 mesi per tutta l’Europa a supporto dell’uscita e presto andranno in Russia e Cina. Ora siamo in procinto di pubblicare il nuovo disco dei Muffx, band emergente salentina e il nuovo album degli Small Jackets, al loro terzo disco. Lo registreranno in Svezia e sarà prodotto da Chips e Henry Lipps (la stessa coppia di produttori degli Hellacopters e dei Nomads. Il disco non sarà licenziato solo dalla Go Down e per la prima volta label estere sono interessate a produrre in licenza il loro disco. Gli stessi produttori credono molto nel gruppo e fa ine marzo si avrà la possibilità di ascoltare il nuovo album e di vederli in tour. Etichetta italiana ma con un occhio all’estero, ce ne parli? Visto ciò che produciamo e ciò che ci piace ascoltare era normale guardare l’estero. Ma soprattutto quando abbiamo incominciato a spedire i primi cd promozionali alle riviste, radio e webzine estere, loro stessi ci indicavano la strada, ci supportavano aiutandoci a cercare distributori ed agenzie di booking, abbiamo notato un meccanismo molto differente rispetto all’Italia, dove o conosci qualcuno o sei fuori dal giro. È brutto da ammettere ma l’Italia è così, all’estero ti valutano per quello che proponi, per come lo proponi e per quanta professionalità metti in ciò che fai. Go Down Records è distribuita in Francia, Spagna, Germania, Svezia, USA, Olanda, Belgio, Austria e Canada. Tutto in 9 anni di duro lavoro. Ora abbiamo uffici stampa che promuovono i nostri album nei singoli paesi, booking che supportano le nostre band e distributori che vendono i nostri dischi. Tra i vostri gruppi dunque ci sono anche i salentini Muffx. Come vi siete incontrati? On the road. Il nostro rapporto è nato grazie alla linfa della scena indipendente, persone che rispettano idee e cercano di aiutarle. I Muffx li ha conosciuti Max il mio socio e batterista degli Ojm durante un concerto nel Salento, la scorsa estate, Max li ha notati e da li è nata la collaborazione. Gran gruppo e il disco che uscirà nei prossimi mesi è veramente un capolavoro del genere stoner. Antonietta Rosato

PAVEMENT Brighten The Creedence Ed Domino

Corners:

Nicene

Ogni tanto vale la pena di mettere su un vecchio disco, ci aiuta a capire cosa eravamo. Quando poi si tratta dei Pavement, almeno per il sottoscritto, il momento assume contorni poetici. In questi giorni mi è capitato di trovare su youtube un video in cui due bambini cantano la bellissima Stereo (tratta da Brighten the corners dei Pavement appunto). Vedendo oggi quel video ho pensato che anche io vorrei avere dei figli che cantano felici le mie canzoni preferite. Per me i Pavement sono questo, un gruppo che sempre mi accompagnerà e segnerà momenti della mia vita. Esce in questi giorni la ristampa di questo disco, non il migliore della band secondo molti, un album dove molte delle irresistibili spigolosità dei precedenti vengono smussate da una produzione più nitida e da composizioni più regolari. Brighten the corner contiene brani che hanno il dono di saper dosare con maturità la naiveté, espressione che normalmente sembrerebbe un controsenso ma che ben sintetizza il lavoro della band: la capacità di essere ingenuamente geniale. Canzoni come Type slowly o Shady Lane o la stessa Stereo dovrebbero essere vangelo per chiunque professi il verbo dell’indie. Nella splendida riedizione troverete un bellissimo libretto di 62 pagine, il cd originale rimasterizzato e un altro disco pieno zeppo di b-side brani live e inediti. Senza tempo. Osvaldo Piliego

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GIANLUCA MOROZZI 40


Gianluca Morozzi è uno degli autori più duttili e prolifici. Bolognese, di nascita e di sfegatata fede calcistica, classe 1971, dopo l’incontro con Giorgio Pozzi della Fernandel inizia la sua brillante carriera di scrittore che prosegue tra la piccola casa editrice ravennate e la Guanda. I suoi romanzi e racconti spaziano dal calcio alla musica, dal giallo alla comicità. Da poco è uscito (per Guanda) Colui che gli dei vogliono distruggere nel quale entrano le due grandi passioni di Morozzi: i fumetti e la musica. Sulla Terra L (un mondo quasi uguale al nostro) fra i tetti di Bologna vive Leviatan un supereroe particolare i cui poteri cambiano ogni dodici ore, in maniera incontrollabile. Nella sua identità segreta, Leviatan (che cambia faccia serrando la mascella) si fa chiamare Daniel, vende dischi e fumetti rari (che recupera viaggiando nel tempo) ed è fidanzato con un’isterica scrittrice di romanzi erotici che ha una storia “segreta” con Leviatan. Sulla nostra terra Kabra ha pochi giorni per scrivere la canzone che rilancerà i Despero e sfuggire ai tentativi di seduzione della bella Elettra. Il musicista si imbatte in un edicolante che blatera di supereroi e di supercriminali dai nomi molto noti. Colui che gli dei vogliono distruggere racconta di uno strano supereroe Leviatan. Ci racconti un po’ la genesi di questo curioso personaggio? Nasce da un’idea di supereroe che avevo avuto creando Shatterthunder, il giornalaio pazzo de L’era del porco e L’abisso. Mi sarebbe piaciuto giocare con un supereroe con tutti i poteri del mondo. Ma che potesse disporre soltanto di due di quei poteri alla volta, in modo random e incontrollabile. E poi mi piaceva molto il triangolo sentimentale con se stesso, tra il supereroe, la ragazza, e l’alter ego del supereroe. Ci ho messo dentro un sacco di cose, dal western al mondo distorto del rock alla Legione dei Supereroi. Avrei potuto scrivere ottomila pagine con protagonista Leviatan senza stancarmi mai. Nel libro però riappare il leader dei Despero che dà il titolo al tuo primo romanzo. Come mai questo ritorno? Per la parte “normale” del romanzo mi occorreva un artista in crisi di ispirazione. Il solito scrittore no, della figura dello scrittore ne ho abusato. Allora, ho pensato, dovrei usare un musicista in crisi creativa, uno un po’ di nicchia, tipo Kabra dei Despero. E perché non Kabra dei Despero?, mi sono detto. Così, ho pensato, il mio lettore di vecchia data terrorizzato da questa storia del supereroe almeno ritrova un vecchio amico e si sente rassicurato...

Continui a cambiare genere. È una tua necessità? Sì. Considera che nell’ultimo anno ho partecipato a un’antologia di racconti erotici, a una noir, ho scritto fumetti... odio ripetermi. Mi sembrerebbe di scrivere sempre le stesse cose. Ora sto scrivendo tre romanzi alla volta, tutti diversi: un chick-lit surreale a quattro mani con Elisa Genghini, un noir con un io narrante femminile, una storia d’amore quasi fantasy... Più un romanzone che mi impegnerà ancora per molto tempo, una cosa alla De Sade che si chiama La tempesta. Hai già sentito il nuovo disco di Bruce Springsteen? Cosa ne pensi? Che mi piace molto! A differenza di Magic, che faticavo ad ascoltare dall’inizio alla fine pur apprezzando le singole canzoni, questo mi scorre via dalla prima alla tredicesima canzone come un bicchier d’acqua. È gioioso, ben arrangiato, un omaggio al pop orchestrale di Phil Spector, con una parentesi bluesettona (Good Eye) un breve ripasso della Seeger Session (Tomorrow never knows) e dei gioielli come Outlaw Pete. The last carnival e The wrestler... Tra i tuoi gruppi preferiti mi pare ci siano anche gli Afterhours che quest’anno saranno a Sanremo. Cosa pensi di questa scelta? Dipende dalla canzone che porteranno e dal loro atteggiamento. Non li condanno certo a priori per volersi far conoscere a un pubblico più vasto dopo più di vent’anni di carriera integerrima. Ho visto a Sanremo Bruce Springsteen, posso vedere anche loro... Cosa ascolta Morozzi? Morozzi, un sacco di cose. Dagli Afterhours ai Baustelle, dai Diaframma ai Pearl Jam, dai Beatles a De Andrè. da Dylan agli Who. dagli Strokes ai Velvet Underground ecc. Questo numero è dedicato alla musica demenziale. C’è qualche gruppo che ti piace? Elio e le Storie Tese, naturalmente! E, da buon bolognese, gli Skiantos. Prossimi progetti in cantiere? I tre romanzi più la Tempesta di cui parlavo sopra... la prosecuzione della maxiserie a fumetti FactorY... e, ah, dimenticavo, un altro breve noir che mi è venuto in mente. Ah, forse anche un libro con tutti i miei racconti apparsi in giro tra riviste e antologie. Antonietta Rosato LIBRI 41


ALESSANDRO LEOGRANDE

Lavoratori stranieri, per lo più polacchi o romeni, ma anche africani, venuti in Puglia con la promessa di un lavoro stagionale nei campi: raccogliere pomodori per guadagnare un po’ di soldi da portare a casa. Giovani e meno giovani che, arrivati nel Tavoliere, sono stati schiavizzati da caporali spesso connazionali (ma alle dipendenze di proprietari italiani), costretti con le minacce e la violenza a lavorare fino a dodici ore sotto il sole, sottopagati e spesso non pagati. Costretti anche a non protestare e a non scappare. Fino alla morte, per qualcuno, ammazzato a bastonate o stremato dalla fatica. Fino a quando qualcuno non è riuscito a scappare e a raccontare, con molta paura. E così, dopo le pressioni della stampa e della politica polacca sono partite le indagini, i blitz e anche un processo che ha portato alla condanna dei primi caporali. È una storia pugliese quella che il tarantino Alessandro Leogrande ha raccontato in Uomini e caporali, un libro pubblicato da Mondadori. Una storia che non è ancora finita e che ha ormai una dimensione globale, ma ci riguarda da vicino. Ci sono zone della Puglia lontane e in parte sconosciute per chi vive nel Salento oppure a Taranto. Eppure basta pensare a un viaggio fatto in macchina o in treno, verso nord, per ricordarsi di aver attraversato il panorama del Tavoliere e della campagna foggiana: “Uno dei cuori della produzione mondiale di pomodoro (oltre il 30% 42 LIBRI

della produzione nazionale) che conserva i tratti di un’economia arcaica e medievale. Basta fare pochi chilometri per arrivare in un altro mondo e scoprire luoghi con la loro vita. Man mano che si esce dalla città o dai paesi, le campagne diventano non italiane: nelle borgate, nei casolari la base della produzione agricola non è italiana: si trovano centinaia, migliaia di stranieri che vivono e lavorano in un regime di segregazione e sfruttamento”. Nel libro ci sono le storie di chi è riuscito a scappare e ha permesso che questo caso esplodesse, ma anche le storie di braccianti stranieri trovati morti nelle campagne pugliesi e che sono rimasti senza nome. Le resistenze iniziali e il modo in cui anche alcuni pugliesi si siano attivati contro il caporalato. Sono vicende degli ultimi anni eppure per molto tempo sembra che nessuno se ne sia accorto, o forse, semplicemente, nessuno ne parlava? Ora che la bolla è esplosa, c’è maggiore consapevolezza ma è una situazione in cui si mischiano tante cose: l’indifferenza, come dappertutto, come c’è stata per l’Ilva a Taranto dove solo ora la gente comincia a incazzarsi. Indifferenza rispetto a qualcosa che sta ai margini. Ma in parte c’è stata anche connivenza con l’imprenditoria agricola che si è servita di caporalato schiavistico. E poi anche xenofobia strisciante dei paesi del Sud verso i neri e verso gli stranieri venuti dall’Europa dell’est.


Ma come è possibile questo scollamento per una comunità che per decenni è stata contadina? Quelli che usano i caporali oggi, sono i figli dei vecchi padroni, ma anche i figli dei vecchi cafoni. Questo è il frutto del fallimento della riforma agraria che negli anni Cinquanta ha provocato un frazionamento eccessivo della proprietà dei terreni agricoli invece di incentivare, per esempio, la creazione di cooperative di contadini. Ma c’è anche un fatto culturale in senso ampio, antropologico: è come se noi avessimo ammazzato la campagna e la civiltà contadina, salvo poi farle risorgere in modo edulcorato nei canti popolari o nel teatro. È come se l’emigrazione al nord o il trasferimento delle città negli anni dello sviluppo industriale, avessero chiuso questa storia, che però non si è affatto chiusa: si è invece popolata di nuovi attori e il quadro è cambiato: ora è diventato un fenomeno di portata globale che ha coinvolto in maniera diversa braccianti provenienti dall’Africa e dai paesi dell’est. Ma la produzione agricola è andata avanti con un sistema che è rimasto arretrato e ha spinto sulla diminuzione del costo del lavoro, portando avanti la vecchia cultura, quella del caporalato. Nel libro racconti dei braccianti e caporali venuti dalla Polonia, poi dalla Romania e dall’Ucraina, ma anche dei lavoratori africani. Questi nuovi schiavi, non sembrano tutti uguali.

In molti casi i braccianti che arrivano dai paesi neocomunitari sono stagionali in senso stretto: si fermano solo pochi mesi. Gli africani invece più spesso si stabiliscono in questi posti. Per esempio, c’è un villaggio africano a Rignano Garganico. Ma è difficile dire chi sta peggio: chi vive in condizioni di violenza estrema per tempi brevi, o chi sopravvive ai margini della società per anni? È una domanda a cui fanno fatica a rispondere anche i volontari di Medici senza frontiere che in questi anni hanno monitorato le zone dello sfruttamento nella produzione agricola tra Puglia e Calabria. Nel libro racconti insieme le vicende di questi anni e una storia di rivolte contadine degli anni Venti. Perché questo parallelismo? Non tanto per dire che il presente sia il risultato di ferite del passato, ma per mostrare che le vittime di oggi, gli stranieri morti e non sepolti o sepolti e non pianti, sono i figli o i fratelli dei braccianti ammazzati o sfruttati nel passato. Per mostrare che c’è una storia di violenze che si riproduce e il libro è il tentativo di metterla insieme per far reagire il lavoro dello storico sulle rivolte contadine all’alba del fascismo e il lavoro del giornalista sul nuovo caporalato schiavista di questi anni. Fulvio Totaro

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ANTONIO ERRICO

Stralune è l’ultimo lavoro di Antonio Errico, edito da Manni. Considerato una delle voci più interessanti ed autorevoli del Salento, e non solo letterario, Errico è per definizione un irrequieto, uno impaziente che non si accontenta di quello che accade per caso, ma costruisce le sue occasioni e le coltiva, le eleva, riuscendo a vivere delle sue passioni, che sono la scuola e la scrittura. Nei suoi romanzi Errico ci restituisce il suo sguardo appassionato sul mondo, che considera il “luogo della e per la scrittura”. In Stralune un disertore ritorna nella notte. La memoria diventa corpo, diventa voce di madre, di figlia, di amante, di padre, di sé. Sullo sfondo del tempo, una guerra. Sul fondo della coscienza un ricordo. Mentre un’ombra richiama, frastorna, appare e scompare, protegge. È un enigma, una verità, una menzogna, una passione, un delirio, un destino. Così il racconto attraversa l’esistenza, si rispecchia nei passaggi di stagione, sprofonda e riemerge dal gorgo di un confronto con il passato misterioso. Nelle ultime pagine del libro ci presenti il protagonista, stordito dai suoi stessi pensieri che continuamente si rincorrono sull’urgenza di trovare una risposta al perché del raccontare. Tu perché ci hai raccontato questa storia? C’era in te una ferita da guarire? O un’urgenza di ricomposizione del passato? E perché questo titolo? Volevo raccontare la storia di qualcuno che ritor44 LIBRI

na in un luogo che ha lasciato e trova tutto cambiato, stravolto, oppure concluso. Nessun luogo è mai così come lo abbiamo lasciato e nessuna creatura resta identica a quella che ricordiamo. Nessuna storia dell’esistere dura in eterno. Probabilmente volevo raccontare questo attraverso personaggi che hanno una valenza archetipica: la madre, una donna amata e amante, una figlia, un padre, se stesso. Non c’è nessuna ragione di tipo personale all’origine del romanzo, se non una intenzione di confrontarsi con la dimensione del ritorno e della coscienza del tempo. Questa è la verità. Poi aggiungo che se ci fosse un motivo o un movente personale comunque non lo direi. Sono convinto che le intenzioni dell’autore non contano nulla. Conta solo quello che dice un testo. Il titolo è il sintomo di un eccesso, di una sovrabbondanza emotiva che a volte sfocia nel delirio dei personaggi, nello stralunamento da cui sono rapiti. La tua scrittura, sempre molto viscerale e impulsiva, questa volta mi dà l’impressione di essere per necessità così passionale e onnicomprensiva, mi verrebbe da dire: le parole dei personaggi sembrano voler raccontare il mondo tutto, il bianco e il nero, la forza e la debolezza, il bene e il male. Dici benissimo. Loro vorrebbero poter dire tutto il possibile e invece, come tutti, si devono fermare sulla soglia dell’espressione possibile, del dicibile che spesso è molto meno rispetto al pensato,


o al sognato, all’immaginato. I loro discorsi procedono per accumulo lessicale, con una tensione disperata a trovare tutte le parole per dire il contrasto, la contraddizione, lo spavento, lo stupore, la gioia, il dolore. La memoria ha una parte importante in questo tuo lavoro, è quell’ombra grigia dentro la quale ognuno ritrova i suoi fantasmi e prova a ragionare con essi. Allo stesso tempo la capacità di dimenticare sembra essere l’unica possibilità per liberarsi dal peso del vivere, da ogni forma nella quale ci costringono lo sguardo e il sentirci degli altri. La battaglia costante tra memoria e oblio credo che sia una condizione fondamentale della vita di ogni uomo. E forse non si può fare altro che raccontare questo contrasto collocando la narrazione in una sorta di zona franca nella quale la coesistenza di memoria e dimenticanza consente il confronto con il proprio presente, con il proprio ritrovarsi in un tempo e in una situazione che costituisce in qualche modo l’identità. In fondo i personaggi di Stralune si confrontano con una identità frantumata o comunque messa in crisi dal contrasto tra una memoria prepotente, in qualche caso ossessiva, e un desiderio di dimenticanza, in qualche caso anche di rimozione del passato. Memoria e destino sono indissolubilmente legati nel romanzo; ce li presenti come due aspetti complementari e direttamente proporzionali. Anche nella tua vita riconosci un legame tra i due? Indubbiamente si. Noi siamo esattamente quello che la nostra memoria ci porta ad essere. Più o meno inconsciamente noi andiamo sempre per una strada che la memoria ci indica. Torniamo sempre verso casa. Quando ce ne allontaniamo lo facciamo soltanto per avere desiderio di tornare. Chi ti conosce sa che sei una persona molto pratica e puntuale nel tuo lavoro di dirigente scolastico. Chi legge i tuoi libri si ritrova davanti ad una scrittura che è tutta istinto, pulsione, spinta emotiva. È il solito caso della distanza tra autore reale e autore implicito, o c’è altro? Bella domanda. Difficile. Il mio lavoro si può fare soltanto con una tensione pratica e con principi rigorosi. Poi credo che sia la pratica che il rigore dei principi debbano avere come presupposto e orizzonte una dimensione utopica che è fondamentale nell’educazione e nella formazione.

P40 Indovinelli spintarelli Manni editori

Ogni provincia ha i suoi cantastorie, quelli che raccolgono storie in giro e ne fanno musica. A volte sono sognatori, altre volte folli armati di coraggio e senso dell’humour. P40 sta nel mezzo, una scheggia imprevedibile del nostro panorama musicomico, che viaggia in compagnia del suo campionario di canzoni e personaggi. Il suo immaginario prende dalla strada, dalla vita di tutti i giorni ma pesca a piene mani anche dalla tradizione, a partire dalla lingua. Oltre alla sua carriera di musicista e autore di brani originali P40, al secolo Pasquale Quaranta, dà alle stampe in questi giorni Indovinelli spintarelli un libro che raccoglie una serie di indovinelli tratti dalla tradizione erotica salentina. Oltre a questo volumetto, pubblicato da Manni Editori con la collaborazione di Carlo Verrienti di Notas music factory, P40 ha realizzato un cd in allegato in cui ha messo in musica, come solo lui è capace di fare, questi indovinelli che potranno imbarazzare qualcuno, ma che sicuramente faranno ridere tutti. Anche nel lavoro di scuola c’è una componente d’istinto, di pulsione, di spinta emotiva che ti dà la motivazione per affrontare la routine e l’incombenza delle problematiche. Questo mestiere mi ha insegnato a governarmi, a contemperare componenti diverse della personalità. In effetti sono più come si può capire che io sia dai libri che come a volte posso sembrare a scuola. Però so anche che le persone che a scuola mi sono più vicine non notano una grande differenza. Non credo, sinceramente, di avere una doppia personalità. Semplicemente cerco di essere coerente rispetto a quello che c’è da fare. Se a scuola facessi lo scrittore sarebbe un disastro . E sarebbe un disastro se facessi il dirigente quando scrivo due righe di un articolo o di un romanzo. Stare in una scuola e scrivere sono le sole cose che mi piace fare. Probabilmente perché sono le uniche in cui me la cavo alla meno peggio. Per tutto il resto sono assolutamente negato. Michela Contini LIBRI 45



AA.VV. Dizionario affettivo della lingua italiana Fandango

Fandango ha appena pubblicato il Dizionario affettivo della lingua italiana, libro curato da Matteo B. Bianchi, con la collaborazione di Giorgio Vasta. Nata come gioco, lo scorso anno pubblicato in formato molto ridotto in Rete, sulla rivista ‘tina, curata dallo stesso Bianchi, l’idea si è trasformata in un libro vero e proprio. Bianchi ha chiesto a 330 scrittori italiani di scegliere la loro parola preferita e di spiegarne il perché. Ogni autore ha selezionato, quindi, la sua parola del cuore. Sono 315 le parole presenti nel volume, divise, come ogni dizionario che si rispetti, in perfetto ordine alfabetico. Il Dizionario affettivo della lingua italiana parla, quindi, del rapporto privato che ogni autore sviluppo con la propria lingua. Il numero degli autori è superiore a quello delle parole per il semplice fatto che alcuni autori hanno selezionato la stessa parola. Ed è paradossale che la parola più presente nel volume sia “silenzio”. Ovviamente un’operazione del genere, con un numero così vasto di scrittori coinvolti, può essere considerato un vero e proprio censimento dei narratori italiani presenti oggi in Italia. Perché Bianchi, visto l’operazione colossale che andava ad intraprendere, ha preferito chiedere la partecipazione dei soli narratori, evitando giornalisti, registi, sceneggiatori e quant’altri. E ci sono davvero tutti, Andrea Camilleri, Edoardo Sanguineti, Erri De Luca, Giorgio Faletti, Tiziano Scarpa, Paolo Nori, Domenico Starnone, e l’elenco sarebbe davvero infinito. Le definizioni oscillano dalla lunghezza di una riga sino a quella di 4000 battute. Cito qui alcuni estratti di particolare bellezza. Romolo Bulgaro ha scelto la parola “cielo”: “Non occorre veleggiare al largo delle isole australi. Basta e avanza qualsiasi città italiana, purché sia aprile e gli alberi abbiano le foglie nuove e la luce sia giusta, per esempio il riverbero striato del tramonto che trascolora nel blu cobalto della sera. Il cielo contiene ogni cosa. Quando ce ne andremo, sarà lì”. Marosia Castaldi ha scelto la parola “mani”: “Quando penso alle mani, rivedo le mani di mia madre chiuse nel grembo di una

donna stanca di guerra. E rivedo le mani di mio padre consumate dal lavoro. Avevano toccato stoffe e denaro per una vita intera. E vedo le mie mani intente nel tormento della tastiera di un computer. Le mani sono cuore e cervello di un’intera vita”. Roberto Pazzi sceglie la parola “avversario”, e la sua definizione è stringata e lucente: “Colui che eternamente siamo tentati di baciare”. Più che citare è necessario sfogliare questo piccolo dizionario del cuore, in cui l’idioletto di ciascun autore può ravvivare, nella condivisione d’immaginario, zone morbide della nostra mente. Rossano Astremo

MURIEL BARBERY Estasi Culinarie Edizioni e/o

Parigi, numero 7 di Rue de la Grenelle. Al quarto piano del signorile palazzo che abbiamo già conosciuto attraverso le parole della portinaia Renée voce narrante con Paloma in L’eleganza del riccio, il critico gastronomico monsieur Arthens, il Maestro, il più grande di tutti i tempi è sul letto di morte. Gli restano solo 48 ore di vita... Nella sua camera da letto rapito dai suoi pensieri, ricorda: “quando prendevo possesso della tavola lo facevo da Monarca”. Un re dell’haute cuisine che ha creato e demolito reputazioni; ha dispensato gloria e rovina a questa o a quella maison. Ma c’è un cruccio che lo attanaglia o meglio, c’è il ricordo di un sapore. La verità prima ed ultima della sua vita! Un sapore lontano, che non riesce a percepire più. Un sapore della sua lontana infanzia o dell’adolescenza? Un sapore però dimenticato ma che rimane nascosto nel suo inconscio, che cerca ma che non trova! E così comincia il suoi viaggio attraverso i ricordi, che lo porterà prima di morire a ritrovarlo. Sara Natilla

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GIORGIO VASTA Il tempo materiale Minimum fax

Il tempo materiale di Giorgio Vasta è il romanzo dell’allucinazione. Apro a caso una pagina del libro. Ecco. Pagina 168: “Mentre sulla mia testa grava un magma nero e l’ape regina – l’ostaggio nomade al centro del magma – non ha scelto ancora dove annidarsi, Stato e Br coincidono. Le loro logiche coincidono. Il loro linguaggio, osservandolo da vicinissimo, coincide. Lo Stato brigatista. La statalizzazione delle Br. La fabbricazione e la distruzione, l’ordine e il disordine. Equilibrare, squilibrare, equilibrare di nuovo. Come nelle traiettorie del volo. Come nella costruzione di una frase”. Ora, lo stato di allucinazione che genera la lettura del romanzo di Vasta è dettato dal fatto che l’io narrante è un undicenne che vive nella Palermo del 1978 e che, assieme a due suoi amici, totalmente affascinati dal linguaggio e dalle azioni delle Brigate Rosse, cerca di replicare nella logica del suo piccolo mondo preadolescenziale l’eversione dell’organizzazione fondata da Franceschini, Curcio e Cagol nel 1970. Nimbo è un undicenne che parla come un comunicato delle Br, un undicenne che decide di agire come le Br, attuando, assieme a Volo e Bocca operazioni quali il rapimento di un compagno di classe, un undicenne che verrà fagocitato dalle sue stesse malevoli azioni, scontrandosi con la follia del suo piano, tanto lucido quanto sgranato, e divenendo vittima del più totale dei sentimenti, l’amore. Vasta, attraverso la creazione del suo piccolo protagonista, dà vita ad un’operazione allegorica di grande suggestione sul tema “estremismo malattia infantile del comunismo”, come ha giustamente osservato il critico Stefano Giovanardi, e lo fa (ed è in questo che l’autore crea un gap tra sé e molti autori della sua generazione) utilizzando una lingua superba, ricercata, precisa, suggestiva, ossessiva e visionaria. Rossano Astremo

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PAOLO VINCENTI Danze Moderne (I tempi cambiano) Agave Edizioni

Con uno stile che travalica i confini tra i diversi linguaggi, già sperimentato ne L’orologio a cucù (Good times) Paolo Vincenti, scrittore-intellettualeimprenditore, propone ora le riflessioni sul suo personale vissuto degli anni ottanta in Danze Moderne (I tempi cambiano). Una scrittura “liquida” verrebbe da dire, usando un termine in voga per definire la nostra attuale società, della quale riflette i caratteri transitori, mutevoli ed eterogenei. Attraverso una creatività che prende vita nello spazio multiforme della pagina, l’autore tiene abilmente insieme suggestioni di matrice diversa, in un cocktail di rimandi e di citazioni, di passaggi da un codice espressivo all’altro. Scorrono così piacevolmente sotto gli occhi del lettore frasi in lingua inglese o assemblaggi desunti dalla grafica telematica, richiami alla saggezza degli aforismi latini o riferimenti ad espressioni dialettali, in una originale disposizione grafica della parola e del testo. La storia individuale “di rabbia, di amore, di odio e di altre trasgressioni”, tessuta sullo sfondo di collettivi scenari massmidiali, viene raccontata “in compagnia” dei cantautori più amati. Quasi un testo parallelo e/o “a supporto”, costituiscono infatti i richiami dei versi delle canzoni di Ligabue alternati a quelli di Francesco De Gregori, di Francesco Guccini o di Roberto Vecchioni. Una sorta di colonna sonora che lega il piano esistenziale a quello generazionale. Pezzi di storia vissuta e pezzi di canzoni creano perciò un tutt’uno, a volte lirico a volte dirompente, in cui ci si ritrova insieme all’autore. Una fluida integrazione di modi espressivi, circolari e fluttuanti, modulati sull’onda “reticolare” del revival di un passato prossimo. Viene quindi a coagularsi in modo convincente un mondo tumultuoso e funambolico, fatto di testi visivi, di sequenze “parolibere”, a cascata e a sorpresa, che ricordano le sperimentazioni trasgressivo-tipografiche di origine futurista. Anche questa volta il divertisssment linguistico e la facilità coinvolgente dei flash-back si mescolano all’amarezza di considerazioni varie in una sintassi testuale quanto mai originale ed efficace. Antonio Lupo


MARIA PIA ROMANO La settima stella Besa

Miscuglio di seme di sesamo e riso della giornalista e scrittrice Maria Pia Romano è una silloge breve ma intensa, un condensato di momenti lirici incentrato sul tema della liquidità e che alterna brani in versi e passi in prosa. Un primo giudizio immediato non può che concernere la metrica: a prescindere dalla forma adottata dall’autrice per comunicare le proprie emozioni, se il blank verse o piuttosto la narrazione, il risultato migliore è raggiunto quando si realizza la sintesi stilistica, cioè laddove la Romano riesce a scolpire l’efficacia prosastica, attraverso un linguaggio fluido, nel verso breve. In linea di principio meglio la costruzione ipotattica di quella paratattica; ma meglio ancora, verrebbe da dire lasciando da parte la critica pura del testo, quando la Romano riesce ad aprirsi completamente e a trasmettere in pieno la purezza di certe sensazioni intime e personalissime, che si addensano appunto nella liquidità degli affetti esposti, nel liquore acqueo, nel mare, nell’amore che diviene liquido. Ma non è solo questa percezione di liquidità il tema trattato dalla Romano, benché sia il cuore della sua ricerca stilistica ed emotiva. C’è anche il richiamo del Sud, che incombe sui suoi versi e al tempo stesso li attraversa, chiaramente grazie alla lezione bodiniana che l’autrice ha assimilato e fatto sua, connotandola di una peculiare sensualità. E c’è anche un tema forse più alto e generale, quello dell’incomprensione, del silenzio, della perdita dal sapore definitivo, quel sapore tutto meridionale della tragicità. Ma in fondo, soprattutto, la Romano trasfigura questa liquidità in un concetto che alla prima lettura è celato, che però poi si affaccia di tanto in tanto dal sotterraneo, salvo poi prorompere quando meno lo si aspetta: la melanconia che affonda le sue radici nei classici greci e latini e che si suggella nella rassegnazione. La silloge è ciclica perché questi temi, liquidità, sud, incomunicabilità, trovano la loro perfetta sintesi nell’immagine, vero e proprio atto mitopoietico, dello scirocco, che Maria Pia Romano è costretta a “deglutire”, condensato estremo di quella metafisicità che

insegue con i suoi versi. In chiusura, interessante novità è l’uso di segnalazioni di artisti e musicisti presenti su “myspace”, tra cui Francesca Romana Perrotta, che divengono vere e proprie citazioni poetiche, sostitutive dei classici, in margine ai componimenti. Vito Lubelli

LORENZO LAPORTA Le parole della piogga Edizioni Il filo

Con Le parole della pioggia, Lorenzo Laporta, nato a Taranto nel 1981, giunge alla seconda tappa della sua carriera di giovane narratore, e lo fa con una lunga novella senza compromessi linguistici né pretese intellettuali. Le parole della pioggia è infatti un romanzo con cui il protagonista, Guido, alter ego dello scrittore, ripercorre il proprio passato e le proprie avventure pregresse vivendo il tutto come una memoria apparentemente nebulosa ma ricca invece di dettagli; un ricordo solo in superficie sfocato, ma la cui forza evocativa emerge con forza con il trascorrere delle pagine. Guido è una matricola dell’Università di Napoli che ripercorre il suo passato a partire da un incidente stradale su una strada dissestata, dopo una curva, un impatto. Grazie a una breve ellissi che da un momento prima dell’impatto passa attraverso una luce e poi il nulla, il narratore in prima persona inizia a sviscerare la propria storia servendosi di un linguaggio diretto, informale, che si rifà probabilmente – tra gli altri influssi – allo “stream of consciousness” ma depurato degli aspetti più ostici che ne renderebbero difficile la lettura. E invece questo registro informale usato dall’autore, proprio grazie al confronto binario tra sogno e realtà, assume le tinte pastello di un paesaggio metafisico, ma pur sempre soggettivo, dove le immagini sono al tempo stesso nitide e mitiche. Passando tra numerosissime esperienze soprattutto amorose, e tra Paesi che sono anzitutto luoghi dell’anima prima ancora che luoghi fisici, come la Francia, la Grecia, il Canada, Napoli e la stessa Taranto natia, Laporta descrive quello che tutto sommato è un viaggio, con tanto di colonna sonora ideale che va da Lucio Battisti ai Green Day: e persino le scelte musicali non sono meri accessori del romanzo, ma ingredienti tanto necessari quanto azzeccati; come per esempio Amor mio di Mina pensando all’amata, o Wake me up when september ends degli stessi Green Day prima dell’impatto che apre e chiude il romanzo. Vito Lubelli LIBRI 49


BECCOGIALLO C’è una narrazione che passa per l’immagine non evocata ma espressa, e che è accolta dalla forma complessa e completa del fumetto. A quest’arte visuale si dedica BeccoGiallo, giovane casa editrice di Padova (www.beccogiallo.it), impegnata dal 2005 a miscelare con dovizia gli ingredienti di una produzione di seria qualità: documentazione inconfutabile, scrittura notevole, disegno altrettanto mirabile. Con queste risorse, tanti i terreni fertili di storie, tradotti da autori e artisti in potenti novelle grafiche: dalla cronaca nera, con i suoi avvenimenti più sinistri, alla memoria collettiva, con i suoi fatti più impressionanti, passando per le biografie rigorose e le geografie accurate. Il tutto, accudito e poi reso con infinito coraggio. Lo stesso coraggio che caratterizzava la rivista satirica degli anni ’30 Il becco giallo, che conobbe più volte la violenza della censura, e a cui la casa editrice veneta dedica il nome e la propria quotidiana resistenza. Guido Ostanel, co-direttore editoriale insieme a Federico Zaghis, ci ha permesso, con le risposte che seguono, di conoscere meglio questa significativa realtà. Avete debuttato attingendo in tutto e per tutto da risorse locali: i primi due titoli, Unabomber e I Delitti di Alleghe, raccontavano “per nuvolette” il mistero degli ordigni piazzati in ogni dove nel Friuli e nel Veneto, e gli omicidi che turbarono un borgo 50 LIBRI

locale negli anni ’30-’40, sullo sfondo della Seconda Guerra Mondiale. Anche gli autori chiamati a sceneggiare e disegnare questi due casi erano vostri corregionali. Da cosa fu dettata questa scelta? Dall’intento di lavorare sul territorio mettendo in gioco un patrimonio comune, o dall’ambizione di portar fuori, in un modo altro, cronache e talenti? Ci è parsa una scelta obbligata, necessaria. Era infatti “necessario” far scrivere e disegnare la storia di Unabomber a qualcuno che rischia ogni giorno, in prima persona, di raccogliere da terra un ordigno nascosto e non a un autore qualsiasi, così come sarebbe stato in futuro “necessario” affidare il libro sulla mafia e padre Pino Puglisi a due ragazzi di Brancaccio, uno dei quartieri più difficili di Palermo. A proposito di dimensioni difficili, Cronaca Nera è la collana che più di tutte vi caratterizza. I titoli che proponete richiamano vicende che hanno mosso non poco lo sconcerto collettivo: La banda della Magliana, Il delitto Pasolini, Il mostro di Firenze, per citarne solo alcuni. Raccontare l’inquietudine di certi eventi attraverso l’arte del fumetto cosa aggiunge - oltre alla risorsa dell’immagine - alla restituzione del fatto? Il linguaggio del fumetto, per come è fatto e per


come funziona, è un mezzo che più di altri “costringe” il lettore a farsi attivo, a partecipare in prima persona alla costruzione del senso durante il processo di lettura. Questo, secondo noi, è l’aspetto più importante delle nostre produzioni. Rileggere la morte di Pasolini a fumetti significa prima di tutto accettare di farsi coinvolgere in un mondo altro, rigoroso e affascinante allo stesso tempo, dove al di là della descrizione delle cose e degli eventi c’è spazio per sensazioni e simboli. Ed è qui, sul piano simbolico, che si gioca la vera partita per la memoria, contro i “testi” (canzoni, televisione, agenzie di stampa) che sembrano sempre più costruite per farsi dimenticare il più in fretta possibile. Attraversiamo tutte le collane: in Cronaca Storica custodite la memoria collettiva. Non la rimembranza comune costruita per stereotipi e mitizzazioni, ma la capacità di ricordare in modo autentico e “dal basso”. Che tipo di lavoro richiede una ricostruzione – narrativa e grafica – di questo tipo? Significa provare a parlare di mafia partendo dalla gente comune, non solo dagli eroi. Di provare a parlare del Petrolchimico di Porto Marghera ascoltando i parenti degli operai morti (uccisi), il loro dolore ma sopratutto la loro rabbia e la voglia di far sì che certe nefandezze non accadano più. Significa, insomma, provare a sporcarsi le mani, andare sul posto, fare sopralluoghi, intervistare la gente, oltre a documentarsi nella maniera più classica, con film, archivi, atti processuali. Spesso il nostro lavoro, assieme a quello degli sceneggiatori e disegnatori, sembra più quello di una redazione di un giornale d’inchiesta che quella di una casa editrice classica. Nella collana Cronaca Estera, invece, affrontate le “insensatezze del mondo moderno”, toccando temi come la globalizzazione e il genocidio. Come selezionate le urgenze planetarie da elaborare? E quali i prossimi temi? Per la Cronaca Estera “dipendiamo” da ciò che le case editrici straniere propongono nei loro mercati di riferimento. Il nostro, dunque, diventa un lavoro di filtro e selezione, che consiste nell’individuare quelle opere che fra le altre si distinguono per il coraggio di guardare alle cose in maniera critica, decisa, sincera. Abbiamo portato in Italia volumi a fumetti sulla globalizzazione, il genocidio ruandese, l’amministrazione Bush. Il prossimo volume è un reportage su una delle zone più

calde del pianeta: le ex repubbliche sovietiche, dove è in atto una lotta senza esclusione di colpi fra le potenze mondiali per il controllo delle fonti energetiche non ancora sfruttate. È stato scritto e disegnato da Ted Rall, finalista al Pulitzer. Con Quartieri scavate nel sottofondo dell’urbanità. Che metodo utilizzate? Come avviene la ricerca dei microcosmi cittadini da porre in luce? Per questa collana ci affidiamo soprattutto alle proposte degli autori. Così è stato per Brancaccio, così per il volume dedicato a Lisbona e alla dittatura portoghese, così per i progetti antologici a cui hanno partecipato più di quaranta giovani talenti provenienti da ogni regione d’Italia. Il principio di fondo rimane lo stesso di sempre: ricostruire fatti, storie, ambienti e luoghi dal basso, in maniera autentica, viscerale. Per questo ogni luogo è potenzialmente “interessante”: non solo Scampia, ma anche il Nordest, i centri commerciali, il precariato sono, per noi, “quartieri”. Con Biografie, poi, affondate la china nell’esistenza di uomini che, con il loro agire, hanno elaborato dinamiche personali per opporsi al mondo, come Martin Luther King e Fabrizio De Andrè. A chi dedicherete le prossime uscite della collana? Come si dice in questi casi, top secret. Per ora possiamo solo dire che anche nel 2009 ci sarà un volume BeccoGiallo dedicato a una figura non banale, nel panorama dell’immaginario collettivo. Così è stato con Toni Negri e Luigi Tenco, oltre a Martin Luther King e Fabrizio De André. Così sarà per le prossime uscite. L’ultima domanda riguarda la vostra distribuzione. Dal primo giorno di attività, avete voluto fortemente la presenza in libreria, e non nei circuiti tradizionali del fumetto. Che cosa ha significato per voi tenere fede a questa intenzione? Fin da subito abbiamo pensato che la nostra proposta editoriale potesse parlare anche ai lettori che frequentano la libreria di varia, ai ragazzi delle scuole, alle associazioni, a chi frequenta i centri sociali, oltre agli appassionati di fumetto. I dati di distribuzione e di vendita lo confermano: il lettore BeccoGiallo è un lettore decisamente curioso, attento ai contenuti e impegnato, al di là dei luoghi che frequenta per le sue passioni, per le sue letture. Stefania Ricchiuto LIBRI 51


CINEMA TEATRO ARTE

FILIPPO TIMI Filippo Timi è uno degli attori italiani del momento. Nato nel ’74 a Perugia, vive tuttora nella frazione di Ponte San Giovanni. Balbuziente ed auto ironico, ha nel suo modo di fare un’inconfondibile carica di semplicità che lo rende l’antidivo per eccellenza. Dopo quindici anni di carriera teatrale arriva nel 2004 alla conquista del prestigioso Premio Ubu come miglior attore dell’anno under 30. È la svolta. Il grande schermo si accorge di lui e da allora si divide equamente fra cinema e letteratura. Nel 2006 è uscito il suo primo romanzo Tuttalpiù muoio (Fandango Libri), scritto a quattro mani con Edoardo Albinati, mentre il 2007 è l’anno di Saturno contro con la regia di Ferzan Ozpetek. Sono del 2008 Peggio che diventar famoso (Garzanti Editore) e Come Dio comanda, pellicola di Gabriele Salvatores tratta dall’omonimo romanzo di Niccolò Ammaniti edito da Mondadori.

grande libro come quello di Ammaniti che mi ha permesso di avere maggiori punti di riferimento rispetto a un normale copione.

Filippo, partiamo dal tuo ultimo lavoro, Come Dio Comanda. Nel film di Salvatores interpreti un padre fascista e violento. Un personaggio che si direbbe il tuo esatto contrario... Si, senza dubbio un personaggio complesso. La mia fortuna è stata quella di avere dietro un

I tuoi libri invece sembrano un diario, un modo come un altro per parlare di te... Credo sia soltanto una forma. Se magari un giorno arrivassi a scrivere di qualcosa di inventato, dentro ci sarei sempre io. Nei miei libri c’è un personaggio, Filo, che è il mio alter ego, un Filippo estremizzato in un modo o nell’altro. È sem-

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A proposito di libri, forse alcuni non sanno che sei anche un autore. Ma come si approccia uno scrittore all’interpretazione di un film tratto da un romanzo? A cosa dà più peso? Nel caso specifico di Come Dio comanda ho avuto modo di leggere prima la sceneggiatura. Mi è piaciuta un casino e così ho preso il libro in mano e l’ho davvero divorato, analizzandolo fin nei minimi recessi. Per quanto riguarda l’approccio generale considero che avere un libro a disposizione sia un autentico regalo per un attore. Permette di cogliere quegli aspetti che per varie ragioni devono essere messi da parte in una normale sceneggiatura.


pre bene, per la mia mente, far accadere qualcosa a Filo e non a me. Oltre questo c’è poi una scelta comunicativa. Sembra un controsenso, ma per arrivare all’universale bisogna essere estremamente specifici; più lo sei più arrivi a tutti, più sei descrittivo più diventi generale. Me lo ha insegnato Albinati che diceva: “Non fare filosofia, racconta quello che capita a te e raggiungerai la profondità di tutti quanti”.Anch’io continuo a domandarmi spesso a chi “iene può fregà de me”, ma rileggendo ciò che scrivo mi accorgo che parlo del sottoscritto in modo solo apparentemente quotidiano. Nella tua esperienza ci sono alle spalle anni di teatro prima di approdare al cinema. Molti tuoi colleghi considerano quella nel grande schermo una carriera di serie B... Serie B un corno! Alcuni attori di cinema sono assolutamente straordinari. Se penso a Daniel Day Lewis nel film Il Petroliere mi manca il fiato, è stato immenso. Personalmente non mi manca il teatro quando guardo attori eccezionali e mi è capitato di incontrare grandi interpreti come Fausto Russo Alesi che si dividono al cinema. Capisco però il disagio di alcuni. In teatro ogni pièce ha personaggi enormi, hai a disposizione testi che arrivano dal ‘600 e che sono ormai rodati. Al cinema alcuni film hanno invece meno spessore. Non sarà invece una questione di snobismo? Di certo una chiacchierata come la nostra non è sempre possibile. Spesso bisogna prima porre delle domande a un agente che poi le gira all’attore, che a sua volta risponde solo a quelle a lui gradite. Però ti dico una cosa, è molto facile tirarsela e anche io sento di correre questo pericolo a volte. Fa un certo effetto camminare in giro per Roma e vedere la tua faccia spalmata su un cartellone di trenta metri o andare al cinema dove la gente è a fare la fila per vedere te. Forse mi salvo perché non sono ricco, ma se mi capitasse di guadagnare un milione e mezzo di euro per due mesi di lavoro non so come la prenderei. Conta anche il fatto che quindici anni di teatro, dove praticamente non guadagni un cazzo, hanno rafforzato la mia passione per il mestiere. Ma devi starci attento perché l’essere umano chiede naturalmente approvazione e quando ne riceve troppa i risultati possono essere inaspettati. Filo serve anche a questo, a ricordarmi di non esagerare, perché alle medie ero uno sfigato.

COME DIO COMANDA Gabriele Salvatores 01 Distribution

Sesso, sangue, violenza, follia. Come Dio Comanda sembra allo spettatore un calderone nel quale Salvatores si è sbizzarrito a mescolare alcune delle pulsioni peggiori dell’animo umano. In una montuosa e isolata provincia del nord Italia, Rino Zena (Filippo Timi) e suo figlio Cristiano vivono facendosi forza a vicenda. I due nutrono per l’altro un amore assoluto, a tratti violento ma necessario, l’unico modo per non sentirsi soli. Il loro unico amico è Quattro Formaggi (Elio Germano), un ex collega di Rino con problemi psichici a seguito di un incidente di lavoro. Nella loro esistenza irrompe un brutale omicidio e quell’equilibrio precario, raggiunto con determinazione, rischia di sfaldarsi in fretta. Ispirato all’omonimo romanzo di Ammaniti, il film ha le sembianze di un Vaso di Pandora che scoperchiato libera una confusa e pericolosa carica nera, capace di ottenere un effetto dirompente. Non manca l’amore, che anzi diventa in maniera paradossale l’elemento fondante di tutte le cose, anche quelle sbagliate. Ma il vero arbitro in questo caso è la vita, che con il suo carico di ingiustizia e fatalità rende tutto imponderabile. Una pellicola nera? Forse si, ma non diversa da un quotidiano notiziario. (C.M.P.) Tornando ai divi, è vero che hai progetti in cantiere negli Usa? No, no. È solo una voce messa in giro dai giornali (ride). Però un anno fa son stato per due mesi a New York dove ho seguito un corso di recitazione a pagamento. C’erano un sacco di persone, dal cantante che voleva migliorare la sua interpretazione a semplici ragazzi in cerca di svago. Alla fine del corso abbiamo fatto uno spettacolo a Broadway, che detto così sembra una cosa enorme, in realtà eravamo in un teatrino con pochi spettatori. In realtà ho un progetto che spero veda la luce prima o poi: scrivere qualcosa da portare nel paesino in cui vivo. Te lo immagini un musical come quelli Broadway con le mie zie a cantare qui a Ponte San Giovanni? C. Michele Pierri

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PER IL CIN

Bari ha ospitato con gran Per raccontare quello che è successo a Bari tra il 12 e il 17 gennaio scorsi – a Per il cinema italiano, edizione numero zero - si deve partire dalla fine. Da un bilancio di più di diciassettemila biglietti staccati – complice il prezzo politico di un euro per film - tra tutte le sale che hanno ospitato proiezioni ed eventi speciali. Dai mille e novecento ingressi negati per mancanza di posti, dai cinquemila partecipanti alle lezioni di cinema di Ettore Scola, Michele Placido, Laura Morante, Davide Ferrario e Sergio Rubini. O forse dai mille e duecento partecipanti ai seminari tecnici, i mille e cento che hanno affollato gli incontri con i giovani attori e i duecentoventi cineasti che hanno soggiornato in città. Un test ben riuscito. Una scommessa vinta per la neonata Apulia film commission, che ha voluto il festival, e per il direttore artistico, Felice Laudadio, che ha trasformato la Puglia - per una settimana - nell’ombelico del mondo cinematografico italiano. Strano l’effetto di veder passeggiare su corso Cavour – novella via del Corso - l’attrice Valentina Lodovini a braccetto col regista Luca Lucini (quello di Solo un padre), a pochi passi dal critico cinematografico Enrico Magrelli. O quello di sedersi su una poltrona al buio di una sala, a proiezione già iniziata – e accorgersi di avere di fianco un Michele Placido che il festival lo ha seguito tutto, dividendosi tra palco (a lui anche un premio per l’eccellenza artistica) e l’anonimato della platea. Un risultato che va ben oltre quello dell’asettico conteggio di sedie occupate e “sold out” registrati. “Ci ha colpito – ha commentato il presidente dell’Afc, Oscar Iarussi – la qualità della partecipazione: un pubblico giovane e preparato. Consapevole nelle relazioni con i grandi personaggi con cui ha avuto modo di dialogare”. E già si pensa all’ItaliaFilmFest 2010. Laudadio ha voluto portare a Bari non un festival, ma un mosaico di eventi che ne include uno – programmaticamente pensato per tracciare un bilancio dell’anno appena concluso – e dà spazio ad iniziative volte a esplorare tutti i comparti 54


NEMA ITALIANO

nde successo la prima edizione del festival della cinematografia italiana. Punto forte – ma anche punto debole, per chi non avrebbe voluto perdersi nemmeno un appuntamento – proprio la molteplicità di iniziative, con lezioni, anteprime, proiezioni e seminari in tutto o in parte in sovrapposizione. Obbligatoria una scelta, da fare assecondando le proprie inclinazioni e cercando di ritagliarsi il tempo per vedere/rivedere i film in concorso. Partendo proprio dal concorso, indiscutibile il trionfo di Il Divo. Alla storia di Giulio Andreotti - che il senatore a vita ha definito “una mascalzonata” mentre per il regista, Paolo Sorrentino, è “una monumentale opera rock” - sono andati sette premi su undici, tra cui i più ambiti: miglior film e miglior regia, quest’ultimo consegnato a Sorrentino dal maestro Mario Monicelli. A Il Divo anche i premi per miglior compositore (a Theo Teardo), miglior sceneggiatura (Sorrentino), miglior fotografia (a Luca Bigazzi), miglior scenografia (a Lino Fiorito) e migliori costumi (a Daniela Ciancio). Gli altri premi sono andati a Donatella Finocchiaro - miglior attrice in Galantuomini di Edoardo Winspeare - a Silvio Orlando – miglior attore in Il papà di Giovanna – e a Roberto Saviano e Marco Spoletini, rispettivamente miglior soggetto e miglior montaggio per Gomorra. Quattro le anteprime, di cui una mondiale: Il piede di Dio, di Luigi Sardiello con Emilio Solfrizzi, girato a Taranto; La casa sulle nuvole di Claudio Giovannesi; L’ultimo crodino di Umberto Spinazzola con Enzo Iacchetti e Il dubbio di John Patrick Shanely. Emozionanti le lezioni di cinema. Da quella di Sergio Rubini - che si è fatto paladino della migliore “pugliesità” – a quella di Ettore Scola che, ritiratosi dal set da cinque anni, si è affannato a dare consigli “saggi” agli aspiranti registi. “Se avete scelto il cinema per far soldi o successo – ha detto -, abbandonate. È meglio che a fare cinema siamo in pochi, ma fortemente motivati”. Le sorprese sono arrivate da Laura Morante – che ha annunciato l’esordio dietro la macchina da presa con Ciliegine, di cui ha scritto

anche la sceneggiatura - e Michele Placido. Oltre a presentare il backstage di Il grande sogno - racconto semiautobiografico sul ’68, forse in concorso a Cannes – Placido ha annunciato due progetti impegnativi: un film su Renato Vallanzasca e uno, con Mariangela Melato, sul tema doloroso e attualissimo dell’eutanasia. Non sono mancate sorprese neppure agli incontri con le “rising stars”. Alba Rohrwacher – la Giovanna di Pupi Avati – non conferma, ma sarà probabilmente nel prossimo film di Ferzan Ozpetek, da girare in primavera a Lecce. “So che a Ferzan – ha detto – piacerebbe avermi nel cast. Il piacere sarebbe reciproco”. A conclusione della settimana, un seminario sul tema: “Quale 2009 per il cinema italiano”. Un momento di riflessione per il gotha dell’industria cinematografica italiana: dai produttori Domenico Procacci (Fandango) e Tilde Corsi a Davide Rossi, presidente di Univideo, passando per Paolo Protti (presidente dell’Anec, associazione esercenti) i registi Vicari, Lucino, Placido, Monicelli e Giulio Manfredonia in rappresentanza dei Centoautori. Vari gli argomenti affrontati: la pirateria, i fondi che mancano, il ruolo della fiction, il mercato asfittico e senza regole. Unanime la conclusione: sarà un anno duro per il cinema italiano a causa dei tagli ai finanziamenti statali. L’unica via è far fronte comune e imitare, per quanto possibile, il modello francese. Per la Puglia, invece, un futuro più roseo. Almeno per quei giovani che vorranno studiare al Polo digitale in corso di realizzazione a Mola di Bari. Docenti di prestigio – tra cui David Bush, esperto mondiale e futuro supervisore del campus e moderne strutture per produzione e post produzione faranno di Mola un polo d’eccellenza. A Bari e Lecce, invece, i due cineporti che – una volta completati, verosimilmente entro la prossima primavera – saranno il secondo sistema di cineporti in Italia dopo quello di Torino. Valeria Blanco

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FRAMMENTI DI BECKETT Ai Cantieri Koreja in scena lo spettacolo, per la regia di Peter Brook, vincitore del Premio Ubu 2009

Fragments, cinque pezzi brevi di Samuel Beckett, per la regia di Peter Brook è stato l’appuntamento più atteso del cartellone di LecceTeatro, stagione teatrale promossa da Cantieri Koreja, Provincia di Lecce, Regione Puglia e Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Il 30 e 31 gennaio è andato in scena ai cantieri di via Dorso questo spettacolo poetico e semplice, drammatico ed umoristico al tempo stesso, creato per i cento anni della nascita di Beckett. L’atmosfera è quella delle grandi occasioni, e non per caso: non c’è solo la garanzia di Brook ad alimentare l’attesa, ma anche il riconoscimento del premio Ubu 2009 come miglior spettacolo straniero presentato in Italia. Lo spettatore viene accolto da una scena vuota, assolutamente significante nella sua nudità, votata all’incontro di due mondi poetici, quello delle parole scavate di Beckett e quello dei segni essenziali di Brook. Un cubo con le rotelle, un bastone, un violino, una sedia, due sacchi di plastica sono le declinazioni materiali scelte da Brook per raccontarci Rough for Theatre I, Rockaby, Act without Words II, Neither e Come and Go, cinque dramaticules scritti da Beckett come atti unici e presentati da Brook in forma di un’unica pièce, sapientemente organizzata 56 cinema teatro arte

e compattata dal rigoroso gioco delle luci e del buio, che rivela la sua valenza semantica (e non solo di puro artificio decorativo) soprattutto nel più breve dei frammenti, Neither, in cui sono proprio i cambi di luce, ad intermittenza dai due lati di una scena buia, a generare l’azione della bravissima Hayley Carmichael (nella foto di Arthur Franc) attirata senza decisione ora da una parte, ora dall’altra. E in questo andirivieni insoluto, prepotentemente sottolineato dal testo, che qui risuona di tutta la sua forza, si materializza il passaggio from impenetrable self to impenetrable unself. In Rough for Theatre I un cieco e uno storpio sono legati (come Vladimiro ed Estragone di Aspettando Godot) da un rapporto ossessivo di dipendenza, che i due attori spagnoli, César Sarachu e Antonio Gil Martinez, riescono a tradurre in azioni e gesti e forme straordinariamente reali, ricchi di una forte carica umana, capaci di dire tutta la solitudine dell’uomo al cospetto del vuoto. In Rockaby Brook si concede un’interpretazione d’autore, sostituendo il dondolo con una sedia a schienale rigido e costringendo la superba


Hayley ad uno sforzo fisico pur di salvaguardare il potere rassicurante di quel dondolio solitario. E nello sforzo reale si rivela, in negativo, il senso metaforico dell’attesa della morte di questa giovane donna. Act Without Words II, omaggio al cinema muto e al genere delle comiche, particolarmente apprezzato da Beckett, porta in scena, come in Godot, due esemplari, simili nella figura, opposti nei comportamenti: svogliato il primo, meticoloso il secondo. Pungolati ad agire, escono fuori da sacchi bianchi e compiono gesti archetipici, che hanno il sapore di universalità: lavarsi i denti, pregare, prendere medicine, consultare orologi, addentare una carota, per poi ritornare nuovamente nel sacco, essere nuovamente pungolati e nuovamente ricominciare daccapo, in un continuum comico che nasconde forme di disperazione autentica. L’ultimo frammento, Come and go, ha in scena Flo, Vi e Ru, tre donne di età indefinibile, tre zitelle che a turno si alzano a parlare lasciando le altre due da sole, per rivelare, sussurrato all’orecchio, non appena l’altra è fuori scena, della sua malattia incurabile, di cui è ignara. Lo schema di uscita e ritorno si ripete tre volte, così che alla fine il pubblico intuisce che per nessuna delle tre c’è scampo, e assiste a tre piccole apocalissi, rese ancora più struggenti dalla mitezza delle tre figure e dal fatto che ad interpretarle sono due attori uomini. L’abilità dei tre protagonisti interviene a saldare con concretezza una scena che rischierebbe di risultare astratta, essendo fatta di non detti e di rivelazioni intuite. Cinque frammenti per raccontare l’assoluta solitudine dell’uomo: l’essenzialità e la profondità del teatro di Brook per dire della necessità beckettiana di rappresentare il tenace accanimento a vivere nel momento in cui si testimonia la non esistenza della vita. Il Cartellone LecceTeatro prosegue il 26, 27 e 28 febbraio presso il Museo Sigismondo Castromediano di Lecce con England, spettacolo per 50 spettatori. Il 6 aprile al Politeama Greco di Lecce va in scena infine Radio and Juliet, Nobody’s story, la poeticità dei versi shakespeariani e il ritmo rock di una delle band anglosassoni contemporanee più famose, i Radiohead. Un incontro tra amore e musica, suggellato dalla coreografia del grande ballerino Edward Clug. Michela Contini

GIANNI DE BLASI Jiuliet

Torna alla regia, questa volta con un originale documentario, il leccese Gianni De Blasi, che un paio d’anni fa aveva firmato il corto Quasisia, con Ippolito Chiarello. Juliet è il titolo del mediometraggio – 50 minuti circa – ma anche il nome della barca a vela che, assieme con Salvatore, Giovanni, Michele, Christian e Pierluigi, è protagonista dell’avventura. Si parte da Otranto. Cinque giorni in Greciaguidati dallo skipper Antonio Todisco - con visita al manicomio di Corfù che presto, in virtù di una legge simile alla nostra Basaglia, chiuderà battenti. L’elemento straordinario è che l’equipaggio è costituito per la quasi totalità da malati della cooperativa sociale L’Adelfia di Tricase. «La barca a vela – spiega lo psichiatra – è un luogo terapeutico straordinario, una buona alternativa alla psicofarmacoterapia». Infatti, i malati sono felici di fronte all’avventura inedita. Il tempo trascorre tra un caffè e una canzone suonata alla chitarra. Si toccano con leggerezza – e a farlo sono proprio i protagonisti - i temi della fede, dell’amore che non c’è, del futuro e delle aspirazioni. Ma anche la necessità di fare i conti con diverse limitazioni nella vita di tutti i giorni. Nascono amicizie suggellate da strette di mano. Traspare la voglia di restare in Grecia per sempre, forse per sfuggire, dice Michele, «all’insofferenza delle persone che ci ha catalogati, che pensa che per noi non c’è più niente da fare. Alla fine, invece, si torna alla vita di tutti i giorni. «A lavorare, a guadagnarsi la giornata, come per voi. Per me è lo stesso». Il regista – a cui i compagni di viaggio chiedono di comparire sullo schermo per non rimanere «invisibile e innominato» - alla fine, si fa vedere e accompagna alla chitarra un’improvvisazione canora a tratti toccante. Ma più che in questa scena, in cui compare fisicamente, la sua presenza sta tutta nell’emblematico sottotitolo: “Juliet. Siamo tutti sulla stessa barca”. Valeria Blanco 57


58 EVENTI


EVENTI VENERDÍ 6 Le carte live all’Istanbul Cafè di Squinzano (Le). Andrea Padova - Notes on the refrigerator al Teatro Paisiello di Lecce Blu Cianfano al Molly Malone di Lecce Soul Bossa Trio al Kalì di Melpignano (Le) SABATO 7 Cesare Dell’Anna - Surprise ai Sotterranei di Copertino (Le) Riondino Accompagna Vergassola - Ad Incontrare Flaubert al Teatro Filograna a Casarano (Le) Jam Session Nextrio alla Svolta di Lecce Proseguono ogni venerdì e sabato gli appuntamenti della Svolta, un nuovo ristorante e jazz bar di Lecce, che si presenta con una ricetta i cui ingredienti principali sono la cucina semplice, rispettosa dei cicli naturali degli alimenti, e la musica jazz. Il sabato sul palco spazio ad una Jam session con il Nextrio di Igor Legari (contrabbasso), Andrea Favatano (chitarra) e Francesco Pennetta (batteria). ingresso gratuito. Presentazione Annuario della Cultura Salentina e Tobia Lamare & The Sellers alla Libreria Caforio di Manduria (Le) Julie’s Harcuit allo Spazio Off di Trani SABATO 7 E DOMENICA 8 L’ultima radio al Teatro Comunale di Nardò La Panne, ovvero la notte più bella della mia vita al Teatro Paisiello a Lecce DAL 7 AL 26 Why We Came ai Cantieri Koreja di Lecce LUNEDÌ 9 Agnese Manganaro Quartet al Teatro Elio di Calimera (Le) MARTEDÍ 10 Sabina Guzzanti – Vilipendio al Teatro Italia di Gallipoli (Le) Jam Session al Joyce di Lecce Roberta & Carlo presentano Jam Session, un live itinerante dedicato ai musicisti appassionati di tutti i generi. Strumenti residenti e divertimento garantito. Ingresso gratuito. MERCOLEDÍ 11 Après la Classe al Jack’n’Jill di Cutrofiano (Le)

400 posti disponibili e biglietti acquistabili solo in prevendita per questo ritorno a casa degli

Après la Classe. Dopo i numerosi live sui palchi di tutta Italia infatti, la band salentina chiude il faticoso Luna Park tour con un concerto nello storico locale di Cutrofiano. Una scelta precisa quella di esibirsi, nelle ultime tappe del concerto, in club con capienza limitata, lo scopo è quello di ritrovare un contatto più intimo con i fan di sempre. Inizio ore 22.30. Ingresso 10 euro. Info 329.2273200 GIOVEDÍ 12 Dj set Sorge al Molly Malone di Lecce La strada al Teatro Filograna a Casarano Carion al Goldoni di Brindisi Jam Session all’Heineken Green Stage di Tricase (Le) VENERDÍ 13 Emanuela Gabrieli Trio al Kalì di Melpignano (Le) Prosegue la programmazione live a base di rock, bossa, jazz e musica d’autore. L’appuntamento è con il trio formato da Emanuela Gabrieli (voce), l’argentino José Luis Molteni (fiati) e Palmiro Durante (chitarra) e con il loro personalissimo tributo a Fabrizio de Andrè. Un live intimo e raccolto, per tenere vivo il ricordo dell’indimenticato poeta della canzone italiana attraverso i suoi brani più emozionanti. Inizio ore 22.00. Ingresso libero. Open Mic Session al Molly Malone di Lecce Spazio alla musica dal vivo e alla libera espressione a microfono aperto, torna l’atteso appuntamento mensile con la jam dell’irish pub di via Cavallotti. Il palco è a disposizione di chiunque voglia esibirsi, previa prenotazione al proprio arrivo. Inizio ore 22.00. Ingresso libero. Warknife e Arcadia all’Istanbul Cafè di Squinzano (Le) VENERDÍ 13 e DOMENICA 15 Stagione Lirica - L’olandese Volante al Politeama Greco di Lecce SABATO 14 Movimenti poetici, letterari e musicali del ’68 al Castello di Copertino (Le) Una riflessione e un’analisi critica ad opera di Nichi Vendola nell’ambito del ciclo di conferenze sul tema “Il ’68: Una stagione formidabile?” volute da Union 3, Università di Lecce, Lupo Editore, con il patrocinio di Provincia di Lecce e Ministero per i beni e le attività culturali. Inizio ore 19.00. Assalti Frontali a Copertino (Le) Il nuovo tour nazionale della band romana fa tappa nel Salento (luogo ancora da definire). L’evento, organizzato da i Sotterranei di Copertino, è sponsorizzato da Arcireal, la rete dei circoli Arci di musica live e sarà aperto da tre band locali: Brigata Libertaria, Shotgun Babies, Lamas and the Bones. eventi 59


Flavio Jordan all’Istanbul Cafè di Squinzano (Le) Flavio Jordan eccellente impersonatore di Elvis Presley e grande interprete della musica rock, blues con espressioni e sfumature vocali tendenti al gospel. Il giorno che segnò il suo destino fu proprio il 16 Agosto 1977 giorno della morte di Elvis, da quel momento Flavio intraprese la sua attività musicale mantenendo sempre alto il nome di Elvis Presley. A seguire le selezioni di Tobia Lamare con il suo Sabatone. Inizio ore 23.00 SABATO 14 E DOMENICA 15 Apres la Classe allo Spazio Off di Trani DOMENICA 15 E LUNEDÌ 16 La strada al Teatro Paisiello a Lecce LUNEDÌ 16 Concerto del duo Guerri-Guazzaloca al Teatro Elio di Calimera (Le) Novecento al Teatro Comunale di Nardò (Le) Il testo di Baricco è uno dei tascabili più letti in Italia, da esso il grande regista cinematografico Giuseppe Tornatore ha tratto il film La leggenda del pianista sull’Oceano. Questa riproposizione teatrale per ragazzi è a cura di Skené produzioni teatrali. Regia ed interpretazione Raffaele Braia. MARTEDÌ 17 e 18 Novecento al Teatro Illiria di Poggiardo (Le) MARTEDÌ 17 FEBBRAIO La favola di Amore e Psiche al Teatro Italia a Gallipoli MERCOLEDÍ 18 Francesca Romana al Molly Malone di Lecce La cantautrice presenterà i brani del suo cd d’esordio Vermiglio. Esiste un filo, ma non è rosso come quello di Goethe bensì vermiglio ed è questo che avvolge la figura femminile che Francesca Romana dipinge nel suo nuovo album. Una figura femminile archetipica: non la donna “moderna”, ostentata, con scarso rispetto di sè, ma la donna che è simbolo di sensualità profonda e al tempo stesso di maternità, la femmina nella sua essenza più antica, che ha dentro di sè il mistero della Natura, legata da un istinto metafisico e carnale alle leggi imperscrutabili dell’Universo. Inizio ore 22.00. Ingresso Libero. GIOVEDÌ 19 La passione delle Troiane al Teatro Filograna di Casarano Lo spettacolo dei Cantieri Koreja, per la regia di Salvatore Tramacere, intende coniugare le Troiane di Euripide con il tema della Passione di Cristo, scegliendo di dialogare con la tradizione 60 EVENTI

grika del Salento. “Passiuna tu Christu” è un canto dell’area grika salentina. L’idea nasce dalla volontà di accostare il lamento delle donne di Troia, alle moroloja, ovvero i pianti che un tempo le donne facevano a pagamento per un morto del quale appena a volte conoscevano il nome. Morrison Hotel al Jack’n Jill di Cutrofiano (Le) Rivive il mito dei Doors con i Morrison Hotel. La band nasce come progetto tributo a uno dei gruppi che ha rivoluzionato come altri, ma in maniera forse più profonda in quei mitici anni 60 -70, la storia della musica, sopratutto nella figura leggendaria di Jim Morrison. I brani riproducono i suoni vintage tanto ricercati con un tocco più rock. Sul palco Luigi Cataldi (batteria), Fabio Lecci (voce), Pippo Fiorentino (chitarra) Gabriele Saracino (organo). Da’namaste al Goldoni di Brindisi Tra un’ora e dodici minuti della Compagnia Induma allo Spazio Off di Trani Dj set con Tobia Lamare al Molly Malone di Lecce Utopia ragionevole e costitutiva-omaggio a Joyce Lussu presso l’Auditorium di Zollino GIOVEDÌ 19 E VENERDÌ 20 Italia Wave - Selezioni provincia di Lecce all’Istanbul Cafè di Squinzano (Le) Dok. F. ai Cantieri Koreja di Lecce

In scena Fabrizio Pugliese e Fabrizio Saccomanno della Compagnia Koreja, i due attori-autori dello spettacolo intraprendono il loro viaggio all’interno delle problematiche che il capolavoro di Mary Shelley, capostipite di un genere e quindi sempre attuale, lanciò due secoli fa, e che oggi ritornano tanto incalzanti. Da una semplice domanda, una miriade di risposte, questioni, dubbi, incertezze, follie: “Da dove procede il principio della vita”; questa la domanda che genera l’orrore, la genesi innaturale della creatura con tutto ciò che questa genesi comporta; questa la “semplice” domanda che origina la tragedia del mostro. VENERDÍ 20 Da’namaste alla Saletta della Cultura di Novoli (Le) Musica elettrica e poesia, pulsioni ritmiche e forza lirica, un sound compresso e sfuggente che sottolinea l’attitudine alla sperimentazione


di questa band salernitana di scena a Novoli. Il concerto apre la rassegna di musica d’autore Tele e Ragnatele. Inizio ore 21.30. Info: www. salettadellacultura.it Freeze-up al Kalì di Melpignano (Le) Gli intramontabili brani del rock e del blues dagli anni settanta fino ai giorni nostri rivivranno grazie ai Freeze-up. Un live in forma di viaggio attraverso la musica partendo dal rhythm’n’blues dei Blues Brothers, passando per la psichedelia dei Pink Floyd, ai Dire Straits e agli U2, solo per citare alcuni dei mostri sacri cui i Freeze-Up attingono a piene mani. Sul palco Paolo Zappi, già voce e chitarra della band salentina Malgarbo, ed Enrico Frisullo, chitarrista che si esibisce e collabora con numerose band della scena rock, blues e classic. Inizio 22.00. Ingresso libero. Black I Know al Molly Malone di Lecce La band composta da Emanuele Pagliara (chitarra acustica e voce) e Federico Frisullo (voce), è nata artisticamente nel novembre del 2007 per gioco. Il progetto diventa piu reale durante l’estate, quando al gruppo si aggiunge Silvio Negro (basso) e una batteria vacante, diventando Black I Know funk&soul. Inizio ore 22.00. Ingresso gratuito. VENERDÌ 20 Bolero. Balletto di Roma al Teatro Filograna di Casarano SABATO 21 Coolclub Carnival Party alle Officine Cantelmo di Lecce

Sabato grasso all’insegna del rock con le selezioni di I Hate 80’s e il concerto dei Rekkiabilly Dopo anni spesi ad ascoltare i soliti pezzi anni 80, un

gruppo di amici si riunisce per dare vita ad uno dei party più innovati del momento accomunati dalla passione per i nuovi anni 80. I Hate 80’s è mix di moda e musica ispirata dalle sonorità della nuova scena musicale francese come Justice, Simian, Busy P, Uffie, EdBanger. Dal Nu Rave inglese con Klaxons, Trash Fashion; e dagli italiani Scuola Furano. The Crookers, Ex-Otago, Amari. Non mancheranno Riot in Belgium, Gossip, CSS, Daft Punk, Mr Flash. Il sound e la filosofia dei Rekkiabilly unisce alla dimensione del suono quella del viaggio, della ricerca delle contaminazioni, dell’improvvisazione e del divertimento. Info www.coolclub.it Carnevale Chicago’s 20 alla Svolta di Lecce Francesco Libetta & Friends – Concerto di Carnevale ai Cantieri Koreja di Lecce Discoteca Rock - Speciale Carnevale all’Istanbul Cafè di Squinzano (Le) Una folle notte a base di musica per scatenarsi e ballare a suon di rock dagli anni ’60 ad oggi, quello selezionato dai Ballarock. Dai Beatles ai Rolling Stones, dai Cure ai Depeche Mode, dai Blur agli Strokes, così si festeggia il carnevale nel noto locale salentino. Ingresso 2 euro (libero per le maschere). Inizio 22.00. Libera Velo ai Sotterranei di Copertino (Le) Cat Claws allo Spazio Off di Trani LUNEDÌ 23 Vittorino Curci Ensemble al Teatro Elio di Calimera (Le) MARTEDÌ 24 Vafè Cartoons allo Spazio Off di Trani MERCOLEDÍ 25 Confuse the Cat ai Sotterranei di Copertino (Le) Proseguono i live del circolo Arci di Copertino con questa band post punk che arriva dal Belgio. Inizio ore 22:30 MERCOLEDÍ 25, VENERDÍ 27 E DOMENICA 1 MARZO Stagione Lirica – Rigoletto al Politeama Greco di Lecce MARTEDÌ 24 E MERCOLEDÌ 25 Shakespeare/Venere e Adoneal Teatro Paisiello di Lecce


GIOVEDÌ 26 E VENERDÌ 27 Italia Wave - Selezioni provincia di Lecce all’Istanbul Cafè di Squinzano (Le) GIOVEDÍ 26 Mr Jack al Molly Malone di Lecce Skarlat al Jack’n Jill di Cutrofiano (Le) Il loro sound è la miscela di uno ska fresco ed indiavolato, che spazia da toni “core” a melodie più classiche e giamaicane, estremamente melodico, basato su chitarre spesso in levare, inserti trombettistici, linee di tastiera a smorzare i toni e i testi dal forte carattere pacchiano, ideali per far subito presa sull’ascoltatore. Jam Session all’Heineken Green Stage di Tricase Roberta & Carlo presentano Jam Session, un live itinerante dedicato ai musicisti appassionati di tutti i generi. Strumenti residenti e divertimento garantito. Ingresso gratuito. Eva mon amour al Goldoni VENERDÍ 27 Italian Swing Connection al Kalì di Melpignano (Le) Una dichiarazione d’amore per lo Swing e un tributo ai grandi crooner di questo genere dagli anni ’50, fino ad oggi. Il repertorio spazia da Frank Sinatra e Dean Martin fino a Michael Buble’ e Peter Cincotti abbracciando anche l’Italian swing e le grandi voci del panorama jazz nostrano come Nicola Arigliano, Fred Buscaglione e Renato Carosone. La band è composta da Roberto Lezzi (voce), Giancarlo Del Vitto (chitarra), Michele Colaci (contrabbasso). I hate 80’s allo Spazio Off di Trani

Eva mon amour alla Saletta della Cultura di Novoli (Le) Elettricità, istinto e sudore, ecco il mix esplosivo che caratterizza questa band, nata nel 2008 come evoluzione dei Cappello a Cilindro. Senza niente addosso è l’album che segna l’esordio discografico della band composta da Emanuele Colandrea (voce e chitarra), Corrado Maria De Santis (chitarra), Matteo Scannicchio (tastiere), Fabrizio Colella (batteria). Info: www.salettadellacultura.it Super Reverb al Molly Malone di Lecce Appuntamento con il rock and roll incendiario di Jessy Maturo & company, un live coinvolgente che spazia da brani classici del rock fino al rockblues selvaggio. Irene Scardia – Il mio sentire al Teatro Paisiello di Lecce La pianista leccese in concerto per la terza edizione della rassegna musicale Suoni a Sud. Info su www.orchestrina.it - tel. 329.4123339 SABATO 28 Jam Session Nextrio alla Svolta di Lecce Lola & The Loves allo Spazio Off di Trani GIOVEDÌ 5 MARZO Giuliano Dottori al Goldoni di Brindisi VENERDÌ 6 Giuliano Dottori alla Saletta della Cultura di Novoli (Le) VENERDÌ 7 Giuliano Dottori al Circolo Arci37 di Giovinazzo (Ba)

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