Fano per Simone Cantarini. Genio ribelle 1612 - 2012, 2012

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DIREZIONE REGIONALE PER I BENI CULTURALI E PAESAGGISTICI DELLE MARCHE SOPRINTENDENZA PER I BENI STORICI ARTISTICI ED ETNOANTROPOLOGICI DELLE MARCHE

Diocesi di Fano Fossombrone Cagli Pergola

Museo Archeologico e Pinacoteca del Palazzo Malatestiano

Fano per Simone Cantarini Genio ribelle 1612

Sotto l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica

2012

REGIONE MARCHE

Provincia di Pesaro e Urbino

Comune di Fano



Sotto l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica Fondazione Cassa di Risparmio di Fano Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici delle Marche - Soprintendenza per i Beni Storici Artistici ed Etnoantropologici delle Marche Regione Marche Provincia di Pesaro e Urbino Comune di Fano Curia Vescovile di Fano MOSTRA

1612 - 2012 Fano per Simone Cantarini Genio ribelle

Comunicazione Sistema Museo Coordinamento e progettazione grafica: Angela Scatigna Alberto Zonghetti

Fano, 30 giugno - 30 settembre 2012

Prestatori Arcidiocesi di Camerino - San Severino Marche Cassa Depositi e Prestiti SpA - Roma Paride Gasparini Marta Magnanini Foschi Guido Ugolini MusĂŠes des Beaux-arts et Bernadotte - Pau (Francia) Museo Archeologico e Pinacoteca del Palazzo Malatestiano - Fano Roberto Licini Fondazione Cassa di Risparmio di Pesaro Soprintendenza per il Patrimonio Storico Artistico ed Etnoantropologico delle Marche - Urbino

Coordinamento scientifico Anna Maria Ambrosini Massari Maria Rosaria Valazzi Comitato scientifico Andrea Emiliani Anna Maria Ambrosini Massari Franco Battistelli Rodolfo Battistini Alessandro Marchi Raffaella Morselli Cecilia Prete Massimo Pulini Maria Rosaria Valazzi Responsabile di sede, custodia e organizzazione Fabio Tombari, Presidente Fondazione Cassa di Risparmio di Fano Coordinamento amministrativo Mario Luigi Severini

Controllo microclimatico Fondazione Cassa di Risparmio di Fano

Accoglienza e bookshop ARCUS Associazione Culturale - Fano

Illuminotecnica iGuzzini Illuminazione srl - Macerata Centro Luce di Bartolucci Angelo - Fano

Progetto espositivo e allestimenti ARK. & A. srl - Mondavio

DIREZIONE REGIONALE PER I BENI CULTURALI E PAESAGGISTICI DELLE MARCHE SOPRINTENDENZA PER I BENI STORICI ARTISTICI ED ETNOANTROPOLOGICI DELLE MARCHE

Provincia di Pesaro e Urbino

Assicurazioni Reale Mutua Assicurazioni - Agenzia di Fano Movimentazione opere Consorzio Progetto Restauro - Fano

Segreteria organizzativa Claudio Paci

REGIONE MARCHE

Diffusione pubblicitaria Nautilus snc - Fano

Comune di Fano

Diocesi di Fano Fossombrone Cagli Pergola

Museo Archeologico e Pinacoteca del Palazzo Malatestiano


Sicurezza DAGO Elettronica srl - Fano La Fedelissima srl - Fano Trasporti Liguigli Fine Arts Service Sas - Lodi Montenovi - Roma Si ringrazia: Daniele Benati, Bonita Cleri, Raniero Costa, Morena Costantini, Pier Luigi Falaschi, Maria Neve Fogliamanzillo e tutto il personale della Sezione di Fano dell’Archivio di Stato, Giorgio Leone, Giovanna Mazzara, Grazia Mosciatti, Patrizia Mignani, Maria Maddalena Paolini, Raffaella Pozzi, Elisabetta Sambo, Guido Ugolini, Rossella Vodret

VOLUME

1612 - 2012 Fano per Simone Cantarini Genio ribelle A cura di Anna Maria Ambrosini Massari Autori dei testi Anna Maria Ambrosini Massari Franco Battistelli Rodolfo Battistini Andrea Emiliani Alessandro Marchi Raffaella Morselli Cecilia Prete Massimo Pulini Maria Rosaria Valazzi

Referenze fotografiche Comune di Fano, U. O. Biblioteca e Mediateca, P.G. 21656 del 2.4.2012 Comune di Fano, U. O. Biblioteca e Mediateca, P.G. 36995 del 1.6.2012 Studio Fotografico Serini di Serini L. - San Severino Marche (MC) Jean-Cristophe Poumeyrol - Pau (Francia) Realizzazione editoriale Grapho 5, Fano © 2012 Fondazione Cassa di Risparmio di Fano Produzione artistica e letteraria riservata per tutti i Paesi. Ogni riproduzione, anche parziale e con qualunque mezzo, è vietata. L’Editore è a disposizione degli aventi diritto per eventuali fonti iconografiche non individuate Stampa Grapho 5, Fano In copertina Simone Cantarini, San Pietro risana lo storpio, Fano, Pinacoteca Civica (particolare) Ia edizione Giugno 2012

ISBN 978-88-95665-03-0

Versione integrale del presente volume

Coordinamento redazionale Claudio Paci Maria Maddalena Paolini Ricerche iconografiche Claudio Paci

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The studies that gave rise to the 1997 monographic exhibitions in Pesaro and Bologna demonstrated fully the extent to which Fano had a role of primary importance in the training and activity of Simone Cantarini. The tribute offered by the city to the painter today, at the fourth centenary of his birth, would like to underline this role, by bringing to the fore the historical significance of the art collectors, enabling us to start from the extant works and to focus on various underlying aspects of this painter’s artistic career. The surviving works with links to Fano are some of the most important in the painter’s catalogue of productions, and each one is a testimony to the significant relationships he had with his clients in the city, built up over a considerable period of time throughout his career, starting with the Madonna della cintura (Madonna of the belt), Fano, Pinacoteca Civica, to the early phase in Bologna - La Madonna che appare a San Tommaso da Villanova (the Madonna appearing to St. Tommaso da Villanova), Fano, Pinacoteca Civica - and right up to the years of his prime, with the complex and densely-packed altarpiece, Saint Peter healing the crippled, for the Marcolini chapel in San Pietro in Valle, which hung alongside Guido Reni’s masterpiece, today in the Louvre. It was moreover to Fano, as a privileged place of inspiration, that the youthful painter had to turn, right from the very start, to find a wealth of artistic testimonies at a time of great cultural vitality in the history of the town. Fano offered him his first apprenticeship, and the words of the main source for the painter’s life history, the Felsina Pittrice by the Bolognese canon Carlo Cesare Malvasia (1678, publ. 1841, pp. 373-378), must by now be discredited. He links the painter’s beginnings to the vision of the Olivieri altarpiece by Guido Reni, which arrived at the Pesaro Duomo in the very early years of the fourth decade. On the other hand, as I recently highlighted (Ambrosini Massari 2009b), the unpublished notes of Malvasia himself confirm this, when he says: he found it a great advantage to have done all his hard work in Fano during his adolescence (Malvasia in Marzocchi, 1980, p. 80). He doubtlessly worked on the oeuvre that Reni executed for the church of the Padri Filippini, San Pietro in Valle, between 1621 and 1626. Barocci’s Beata Michelina, at that time in the church of San Francesco in Pesaro, and Reni’s Annunciation in San Pietro in Valle in Fano are the two works that he found most emotionally involving, and Malvasia confirms that Simone considered the Annunciation, today at the Pinacoteca Civica in Fano, to be: the most beautiful picture in the world. The works belonging to the Fondazione della Cassa di Risparmio di Fano allow this framework to be broadened with examples of successful compositions that lead us into the heart of the seventeenth-century system of collecting, as witnessed also with regard to Cantarini’s works by various sources and inventories. In the context of an activity of art collecting that was becoming more and more lively and extensive, the most successful new productions were ordered in several versions, with some very beautiful copies being created, as in the case of Agar and the Angel belonging to the Fondazione della Cassa di Risparmio di Fano and the very delicate canvas in the Musée des Beaux-Arts in Pau; there were also some replicas and copies made more or less with the intervention of the artist, as in the exemplary case of the Madonna of the Rose. The need to meet requests from collectors was combined in Cantarini with a restless, voluble nature that undoubtedly aided him in putting out several versions of numerous works.


Sommario

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Presentazioni

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Maria Rosaria Valazzi Introduzione

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Andrea Emiliani Simone Cantarini e l’avventura della sua giovinezza tra Fano e Bologna DALLE COLLEZIONI STORICHE...

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Franco Battistelli Il canonico Billi e Cantarini a Brettino

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Anna Maria Ambrosini Massari L’educazione sentimentale: Simone Cantarini e Fano Madonna in gloria coi santi Agostino e Monica, detta Madonna della Cintura La Vergine col bambino appare a san Tommaso da Villanova San Pietro risana lo storpio

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Cecilia Prete Cantarini e non solo: Nuove acquisizioni per la storia del collezionismo artistico a Fano Appendice documentaria ...AL COLLEZIONISMO PRIVATO

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Massimo Pulini Le antinomie di Simone Cantarini

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Anna Maria Ambrosini Massari Simone Cantarini inquieto: metamorfosi creative e mercato artistico Alessandro Marchi I due San Girolamo nel deserto Alessandro Marchi La Madonna della rosa Anna Maria Ambrosini Massari Il sogno di san Giuseppe Anna Maria Ambrosini Massari Agar e l’angelo Anna Maria Ambrosini Massari Da Guido Reni: La Pala Olivieri

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Raffaella Morselli Da Guido Reni a Cantarini. L’arte di ben copiare e ritoccare al servizio del mercato felsineo

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Rodolfo Battistini Le acqueforti di Simone Cantarini: la collezione Licini Catalogo

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Bibliografia generale

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L’evento di questo 2012 dedicato a Simone Cantarini rappresenta per la nostra Fondazione un motivo di grande soddisfazione e di gioia, pur in un momento difficile per l’intera comunità, non solo locale. Perché l’arte vera quando torna dai secoli passati a coinvolgere cuori e suscitare emozioni, trascende il quotidiano e anima verso le speranze del futuro. L’uomo di ogni tempo e latitudine ha bisogno della sua storia, dei suoi valori per credere e trarre ispirazioni e stimoli per nuove fiducie. Se solo questo obiettivo la mostra raggiungerà, l’impegno nostro e dei curatori e collaboratori della rassegna - cui va la profonda gratitudine dell’Ente - sarà appieno ripagato. Fano, giugno 2012 Fabio Tombari Presidente Fondazione Cassa di Risparmio di Fano

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Questa mostra, voluta per la ricorrenza dei quattrocento anni dalla nascita del pittore pesarese Simone Cantarini, è senza dubbio un’occasione ghiotta per rivisitare la figura di un grande artista conterraneo secentesco e per ripercorrerne vicende e tracciati sotto la spinta di rinnovati entusiasmi. A Simone Cantarini (Pesaro, 1612 - Verona, 1648) toccano in sorte, per il suo breve operare, gli anni della prima metà del Seicento, e neppure tutti. Ampio da subito il ventaglio degli interessi. Guarderà all’opera del grande Barocci, morto nel 1612, quando lui veniva alla luce; sarà nella bottega del Reni, suo maestro e punto di riferimento per tanta parte della sua vita. Fra questi due poli s’innestano, ad arricchirne gli interessi, tante straordinarie luci: dai Carracci al Gentileschi, da Raffaello a Tiziano, da Palma il Giovane al Ridolfi, e si collocano i viaggi che, vuoi per desiderio di conoscere o per ragioni di lavoro, lo porteranno a Roma, a Bologna, a Venezia, a Mantova, a Verona. Il Cantarini insomma, poco più che ventenne, si muove già con estrema disinvoltura tra i giganti del suo tempo e del fulgido recente passato sempre vivissimo, perfettamente consapevole del proprio valore, della verità della sua arte e del messaggio affidatole. Tutto quanto si discosta dai suoi canoni artistici lo infastidisce. Consapevolezza questa che fa di lui un artista libero e moderno. Non tollera correzioni e non tace il fastidio spesso provato davanti alle opere dei colleghi, e questo non gli gioverà: la denuncia dei difetti altrui è, per gli interessati, cosa sempre un po’ indigesta, e c’è già chi parla del suo viaggio a Verona e dell’improvvisa morte ivi avvenuta come di una fuga da quella Bologna divenuta per lui soffocante e insicura, e il cui veleno lo avrebbe raggiunto a Verona. Illazioni? è probabile. Di certo il segno di un forte bisogno di indipendenza, di un sentire l’arte come esaltante libertà, concezione troppo autonoma ed altera per non dar luogo, entro il chiuso mondo delle botteghe, a sottocutanee ruggini, a sentimenti rancorosi. Bisogno di libertà che lo avvicina per certi aspetti, anche se con motivazioni del tutto diverse, ad un altro singolare artista suo concittadino e da lui, penso, molto stimato e guardato, Terenzio Terenzi detto il Rondolino (Pesaro, 1575 ca. - 1621), ottimo pittore della schiera baroccesca, tanto bravo quanto spregiudicato e, diciamolo pure, truffaldino. Chiamato a Roma dal cardinal Peretti di Montalto, nipote di Sisto V, il Rondolino diede di sé degnissime prove, esercitandosi però con particolare perizia ed anche con ottimi risultati nel versante del falso. Assapora intera l’ebbrezza della sua indiscussa valentìa al punto da sentirsi, nel suo operare, libero e realizzato, abile nel raggiro dei potenti, tanto sicuro da non arretrare neppure davanti al suo stesso protettore e mecenate, che invece lo smaschera e lo caccia dal suo cenacolo. Il Rondolino fa ritorno a Pesaro e tra le sue ultimissime opere lascia nella Cappella del Ss.mo Sacramento della Cattedrale di Fano due stupende tele che sono il suo testamento, l’Ultima Cena e la non finita Raccolta della manna. Credo che il Cantarini abbia guardato con molta simpatia a quell’Ultima Cena, opera da leggersi non come la debacle di un uomo fallito, ma come il segno vero di una conquistata libertà: la pubblica confessione delle proprie colpe; e credo che abbia guardato con altrettanta simpatia a quei bronzei incarnati così carichi di tempo, di fatica e di storia, da ricordarsene più tardi nel San Pietro che risana lo storpio della chiesa di San Pietro in Valle. Ecco, questo è il segno che li accomuna: mi par di leggere nell’opera dei due pittori, mediata talvolta da passaggi di dense identità cromatiche, talaltra da situazioni necessitanti, per essere affrontate, di identiche dosi di spregiudicatezza, la stessa interiore tensione, la stessa voglia di rompere il guscio, la stessa prepotente caparbietà che consente loro di uscire dalla razionalità di schemi consolidati per tradizione e pervenire alla libertà di esaltanti valenze espressive tanto intimamente personali quanto profondamente appaganti.

+ Armando Trasarti Vescovo di Fano Fossombrone Cagli Pergola

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L’evento espositivo che celebra i 400 anni dalla nascita di Simone Cantarini sancisce, ancora una volta, il profondo ed indissolubile legame che unisce l’artista alla città di Fano. Gli studi hanno ormai confermato il ruolo di primaria importanza che il contesto culturale cittadino ha esercitato sulla sua formazione e successiva attività pittorica. Testimoniano la vitalità e vivacità artistica di una città che nel corso del ‘600 ha visto la presenza di prestigiose personalità come Guido Reni, Ludovico Carracci e Domenichino ed ha trovato nelle illustri famiglie locali una committenza sensibile ed attenta. Il ‘600, secolo che torna oggi ad essere protagonista attraverso le opere del Cantarini e dei suoi contemporanei, è un periodo artistico ricco ed affascinante che da tempo è stato posto al centro degli interessi della Regione Marche. L’ente è stato infatti l’interlocutore qualificato per alcuni eventi di rilievo fin dal lontano 1994, quando il Centro Beni Culturali organizzò un’esposizione dedicata all’artista veneto Claudio Ridolfi, fino alle più recenti mostre su Simone De Magistris a Caldarola, sull’arte Barocca nel Maceratese a San Severino Marche, passando per la valorizzazione delle comunità della Congregazione dell’Oratorio di S. Filippo Neri, che proprio a Fano, nella chiesa di S. Pietro in Valle, hanno scritto una pagina importante della storia cittadina. Studi e ricerche, confronti ed approfondimenti rappresentano la preziosa eredità che l’esposizione della Fondazione Cassa di Risparmio di Fano e la pubblicazione dedicata all’opera di Simone Cantarini testimoniano. Con questa esposizione si fissa un’ulteriore e significativa tappa di quel percorso di recupero dell’identità culturale di un territorio e di valorizzazione di un patrimonio artistico dalle molteplici sfaccettature.

Gian Mario Spacca Presidente Regione Marche

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La mostra che la Fondazione Cassa di Risparmio di Fano dedica al pittore Simone Cantarini, a 400 anni dalla nascita, rappresenta un importante omaggio a questo grande artista pesarese, che ha trovato in Fano un luogo fondamentale per la sua formazione e attività, fonte di ispirazione e di contatti, di crescita umana e professionale, come testimoniano anche le numerose committenze ricevute sul territorio. Dopo il successo, lo scorso anno, dell’esposizione “Guercino a Fano”, sempre promossa dalla Fondazione, il grande pubblico avrà ora l’opportunità di ammirare, in un’unica sede, opere significative di un altro grande artista del ‘600, maestro di alta sensibilità culturale e stilistica, che ha lasciato nella “Città della Fortuna” tracce importanti della sua presenza. Apprezziamo molto e condividiamo l’obiettivo di riportare l’attenzione sulla storia e sulle tradizioni di un territorio che è stato al centro della cultura del ‘600 e che ha un immenso patrimonio artistico, ancora non del tutto conosciuto. La Provincia di Pesaro e Urbino ha accolto con entusiasmo l’iniziativa della Fondazione, offrendo il proprio patrocinio, nella consapevolezza che tutto il territorio provinciale vada valorizzato e promosso al meglio. Il turismo culturale muove ogni anno un gran numero di persone e noi vantiamo ricchezze archeologiche, architettoniche, monumentali, musei, bellissimi teatri storici, tanti gioielli incastonati nelle nostre città e nei nostri borghi che all’estero ci invidiano. E questa è un’occasione imperdibile, anche per i cittadini, per avvicinarsi al nostro comune patrimonio e alla nostra storia. Matteo Ricci Presidente Provincia di Pesaro e Urbino Davide Rossi Assessore alle Politiche culturali

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Prosegue il legame tra Simone Cantarini e la nostra città. Un amore antico visto che le maggiori opere del pittore detto “Il Pesarese” presenti a Fano sono tra le più prestigiose. Ed è con piacere che, in occasione dell’apertura della Pinacoteca d’Arte Sacra collocata nell’antica chiesa di San Domenico, dopo i lavori di restauro, ritroviamo la figura del Cantarini di nuovo innalzato ad un ruolo primario. Infatti in occasione del 400° anniversario della nascita del pittore ci si appresta a commemorarlo con un evento speciale come segno di devozione nei confronti di un artista unico nel suo genere ma ancor più in generale nei riguardi dell’arte come massima espressione di bellezza universale dove l’estro geniale del pittore ha lasciato il suo segno. Un plauso alla Fondazione Cassa di Risparmio di Fano, da sempre sensibile alla tradizione artistico-religiosa della nostra terra, che ha dedicato all’opera del Pesarese anche questo prestigioso volume a testimonianza di uno dei maggiori pittori del Seicento apprezzato e conosciuto dal pubblico delle grandi occasioni.

Stefano Aguzzi Sindaco di Fano Franco Mancinelli Assessore alla Cultura

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Maria Rosaria Valazzi * INTRODUZIONE

Simone Cantarini, nato a Pesaro nel 1612 e morto a Verona nel 1648, nella città adriatica trascorse i primi anni della vita e compì i primi passi della formazione artistica. Le grandi mostre all’artista dedicate nel 1997 a Pesaro e a Bologna hanno chiarito, in controtendenza con la precedente tradizione degli studi, che egli trovò nella città natale - e in luoghi contermini, come la vicina, seppur diversissima in quanto a contesto culturale, Fano - l’‘alimento’ originario e più profondo del suo creare. E’ nota a Pesaro - a tutt’oggi segnalata da una lapide - la casa della famiglia, affacciata sulla via che Giorgio Vasari, a metà Cinquecento, chiamava “dei Mercanti”. Era questa allora un’asse fondamentale nel tessuto urbano, sulla quale si affacciavano, nel tratto più vicino alla piazza, le residenze dei notabili cittadini e che, nel tratto finale, ripercorrendo il cardo romano, conduceva verso il porto. Era simbolicamente il tracciato che connotava il disegno di Francesco Maria II Della Rovere di rilanciare l’economia e il ruolo politico della città. Non è possibile prescindere, nel definire il percorso del formarsi della assolutamente perspicua personalità artistica di Simone Cantarini, dalla valutazione del complesso articolarsi delle relazioni politiche, sociali, culturali dell’ultimo ricco, eppure tormentato, periodo della signoria dei Della Rovere. E’ bene premettere che risulta oggi un esercizio piuttosto difficile collocare ‘fisicamente’ la giovinezza di Simone Cantarini nella realtà di Pesaro, rintracciare le immagini che dovettero costituirne il panorama quotidiano: non soltanto infatti il patrimonio monumentale e artistico della città ha subito vaste e profonde lacerazioni, ma anche la rete dei riferimenti documentali è piuttosto disomogenea. E’ tuttavia da sottolineare che la situazione di Pesaro nei primi decenni del Seicento - quelli appunto della giovinezza di Cantarini - non era di così forte declino, come siamo abituati a ritenere. Nulla faceva presagire l’improvvisa e prematura fine di Federico Ubaldo Della Rovere e la conseguente estinzione della dinastia e del ducato. E, d’altro canto, il ducato continuava a costituire un’enclave in cui

venivano elaborati prodotti culturali di notevole portata, con una cifra autonoma. Gli artisti ‘rovereschi’ - la definizione è forse imprecisa, ma ne rende l’appartenenza - erano partecipi delle elaborazioni più importanti, anzi in qualche modo erano i protagonisti della scena artistica, andavano a incidere laddove i linguaggi si creavano, ma non si lasciavano da questi condizionare. E’ il caso macroscopico di Federico Barocci e di Federico Zuccari, i quali rappresentano ancor oggi, emblematicamente, le polarità entro le quali si articolava il linguaggio pittorico tardo cinquecentesco e primo seicentesco, non soltanto roveresco. Entrambi furono infatti protagonisti assoluti della scena artistica, ma entrambi mantennero un rapporto privilegiato con i duchi e con le terre del ducato: Federico Barocci addirittura non allontanandosi fisicamente dalla città di Urbino, Federico Zuccari trovando nei signori rovereschi il punto di riferimento costante, pur nella complessa e variegata rete dei rapporti che ne caratterizzarono la vita. E la pittura di Simone Cantarini contiene in sé, fin dai testi più antichi, i frutti di entrambi: non sono pensabili senza il riferimento a Barocci certi modi di intendere lo spazio, certi giochi delle pieghe nette e accartocciate, certi colori acidi e contrapposti. E da Zuccari attinge direttamente colui che è considerato il suo primo maestro pesarese, cioè Gian Giacomo Pandolfi. E’ questi pittore di resa diseguale, con un significativo divario qualitativo tra le prove grafiche, di grande incisività, e la talvolta davvero debole esecuzione pittorica: ma il fondo oscuro, bituminoso, delle tele di Cantarini sembra derivato, più che dall’‘ombra’ di matrice caravaggesca, dall’‘artifizio’ ancora tardo-manieristico del più anziano maestro. E come non pensare, nel nitore volumetrico delle figure cantariniane, che sembrano riproporre l’andamento di un bassorilievo, alla plastica ‘classica’ di Federico Brandani o, nei brani isolati di oggetti o paesaggi, quel mondo ‘fiammingo’ operoso nei ‘botteghini’ ducali? E’ dunque nel contesto della cultura tardo-roveresca che Simone Cantarini attinge la sua humus, rivoluzionata dalla sconvolgente scoperta dei testi 15


reniani, ma non mai dimenticata. E non fu la pesarese pala Olivieri, come in genere considerato, a costituire il punto di non ritorno; furono piuttosto i dipinti fanesi - l’“Annunciazione” di San Pietro in Valle in primis, quell’opera “la più bella… del mondo” - che innescarono la svolta e i successivi percorsi bolognesi del Cantarini, segnati dai disagi di un’indole quanto mai complessa e soprattutto, negli anni a seguire, dall’insanabile conflitto che si creò con il Reni, con colui che ne aveva costituito l’ispirazione totalizzante. Fano a sua volta costituiva un’enclave, circondata interamente dai domini rovereschi, ma da questi profondamente differenziata per struttura sociopolitica e sistema culturale, le cui espressioni artistiche erano sostanzialmente rette da un rapporto esclusivo con le più aggiornate linee del classicismo bolognese/romano. Fano fu per il pittore pesarese fonte di conoscenza e bacino di committenze prestigiose. Le due città, ciascuna con una propria valenza, e secondo le proprie specificità, ricordano insieme il centenario della nascita di Simone Cantarini. Non si tratta di mera celebrazione, ma di una sorta di presentazione ‘dialogata’ delle nuove acquisizioni sul pittore, a un quindicennio dalle importanti mostre a lui dedicate, e di una ulteriore, approfondita riflessione. Il “genio ribelle” non è solo in questa avventura. A Pesaro - nei Musei Civici - viene messa in luce la vicenda dei dipinti ‘filippini’, con i documenti recentemente individuati, e viene analizzata in particolare la vicenda della bottega pesarese, che finora aveva destato ben poca attenzione da parte della critica, retta dal padre e dal fratello Vincenzo, la cui produzione era tuttavia molto richiesta dai collezionisti locali. Vi sono messe a confronto le personalità di pittori come Peruzzini, Luffoli, Begni, con opere dal valore disomogeneo, ma di sicuro fascino. A Fano - nella Pinacoteca San Domenico - la ricerca si sposta su altri piani: quelli della committenza e quelli del collezionismo. L’intersecarsi dei motivi e dei piani di ricerca è abilmente orchestrato, nell’una sede come nell’altra, e nell’apertura alle reciproche interferenze, da Anna Maria Ambrosini Massari, la quale dimostra ancora una volta la profondità del proprio sapere e la capacità di renderne piacevole l’approccio. Importante e innovativo l’intreccio promozionale comune delle mostre di Fano e Pesaro, valore aggiunto dell’iniziativa, che dà maggior risalto anche alle singole responsabilità: che fanno riferimento, a Fano, alla volontà e al pieno sostegno della Fon16

dazione della Cassa di Risparmio, con a capo il suo Presidente, Fabio Tombari, con il sempre energico Alberto Berardi e in collaborazione con l’Assessorato alla cultura. Per Pesaro, in particolare, la mostra si deve all’Assessore alla cultura Gloriana Gambini, sostenuta dalla Fondazione della Cassa di Risparmio di Pesaro, con il contributo di istituti di credito quali Banca dell’Adriatico, Banca Intesa, Banca delle Marche. Ma presto anche a Rimini si aggiungerà un nuovo capitolo, di cui Simone Cantarini sarà protagonista: le opere dell’artista - e le vicende di vita ad esse connesse - godranno così del valore aggiunto di essere studiate e ‘guardate’ nei luoghi reali in cui e per cui esse furono realizzate.

* Soprintendente per il Patrimoniuo Storico Artistico ed Etnoantropologico delle Macrhe



Andrea Emiliani SIMONE CANTARINI E L’AVVENTURA DELLA SUA GIOVINEZZA TRA FANO E BOLOGNA

L’opera del giovane Cantarini nella città di Fano è analoga, per educazione e cultura, alla prima educazione artistica che ebbe luogo a Pesaro, sua città di nascita, nell’anno 1612. Sulla formazione di Simone, maturata precocemente e con i modi di una assoluta intelligenza culturale e tecnica, tuttora non è stata raggiunta una conoscenza adeguata. Le testimonianze degli storici sono affidate ad alcuni dati archivistici, come ad esempio lo stesso anno di nascita, attestato presso la chiesa di Sant’Agostino di Pesaro. Ma è la sequenza formativa che rimane a tutt’oggi abbastanza segreta e, nonostante gli studi, ancora priva di un’adeguata ricostruzione. Senza alcun dubbio il percorso formativo del Cantarini, che le fonti storiche collocano nella vicinanza al pesarese Giovan Giacomo Pandolfi, deve essere soltanto allusivo. L’altra ipotesi, che è quella di una conoscenza dell’opera marchigiana e roveresca del veronese Claudio Ridolfi, ha qualche maggior validità, anche se anch’essa rimane insoddisfacente quanto a risultati critici. Ci sono, nell’educazione del Pesarese, elementi di intelligenza storica che vengono compiutamente espressi soprattutto nell’attività grafica, oltre che naturalmente nelle prime tele. Alle spalle della formazione dell’artista sembra rivelarsi una profonda conoscenza degli straordinari modelli storici dell’arte in genere e di quell’area compresa nella colta provincia del Montefeltro, la stessa che conduce ad una sorta di autonomia la regione che si trova tra Marche e Romagna e che non può definirsi se non erede di un’attività rinascimentale di grandi proporzioni. E di una qualità sempre altissima. C’è un modello culturale che si è già rivelato pienamente nell’intensa e mai sufficientemente chiarita opera esemplare di Federico Barocci. Esiste, nella personalità dell’artista centrale all’arte del ducato di Urbino, un dato che oggi si rivela come fondamentale nella ‘renovatio’ dei forti nuclei di riforma francescana, e cioè nella positiva proposta di for-

mazione dell’ordine dei Cappuccini. L’intensa capacità culturale dell’artista di testimonianza di una storia che coincide con la volontà di assegnare al passato un valore che riconduca la comunità intera alla coscienza del passato, si colloca nel quadro della rinnovata adesione alla ‘regola’ di san Francesco. L’attività di Federico Barocci conduce le sue ipotesi di lavoro, tutte decise nel deliberato spirito di una condotta educativa che si chiarisce solo nella conoscenza della natura, della proposta del rinnovato valore nell’assunzione di una mistica tesa alla riforma condotta, nel quadro della controriforma, nell’ambito della ‘low church’; e dunque nell’azione politica e ideologica nata nell’intensità di cammino del gruppo sostenuto inizialmente dall’opera di Pio IV, il milanese Medici, composto da molti tra gli uomini di maggior presenza nel cammino del rinnovamento religioso e culturale, da Carlo Borromeo a Filippo Neri e, per ciò che riguarda il Montefeltro, dal giovanissimo arcivescovo Giulio Feltrio della Rovere. La decisa raccomandazione della tutela delle ascendenze artistiche, chiaramente espressa già nelle prima istanze della regola francescana, e fortemente rinnovata nel Cinquecento, dona il carattere di un metodo di valore storico al comportamento di un artista come il Barocci che nella sua opera, fin dalle prime origini e negli anni ’60 del secolo, non manca mai di fondare la sua espressione su di una tessitura instancabile di recuperi artistici della stagione precedente, che è per giunta quella dei massimi valori della pittura centro -italiana, a cominciare dall’opera di Raffaello, accanto alle costanti attenzioni rivolte all’attività dei grandi pittori per lo più in sedi di tradizione e di progressivo rinnovamento francescano, come ad esempio lo stesso Tiziano, e ancor più il lombardo Lorenzo Lotto, nella sua straordinaria vicenda marchigiana. La conoscenza che il giovane Simone Cantarini basò sul modello della valutazione delle origini na-

Guido Reni, Cristo consegna le chiavi a san Pietro, Parigi, Museo del Louvre 19


sce, a nostro modo di vedere, con certezza, dall’analisi del dominante metodo baroccesco. Tramite quest’ultimo, il giovane Pesarese si lega in modo profondo al culto sempre rinnovato del disegno di Raffaello, perpetuato anche dall’opera grafica del Barocci. Il disegno del giovane nasce quasi interamente da questa componente che potrebbe definirsi del ‘grande ritorno’ dei valori fondamentali del mondo moderno. Una cultura che, sotto molti aspetti, aveva già trovato espressione immediatamente divulgata dell’opera di Baldassar Castiglione, che nel 1528 dal suo ultimo soggiorno spagnolo, egli aveva liberato alla stampa. Il problema che, nella formazione del Pesarese, emerge con straordinaria efficacia, è infine quella della precoce conoscenza che il giovane mostra di avere dell’opera di Guido Reni. Non si può peraltro dimenticare che proprio alla comunità dei Filippini di Fano, e cioè a quella di San Pietro in Valle, il bolognese aveva destinato un dipinto di straordinaria qualità come la Consegna delle chiavi, (oggi si trova nella Grande Galerie del Museo del Louvre) accanto alla bellissima Annunciazione della Vergine, opere che hanno un valore risolutivo nelle scelte culturali del giovane Pesarese. Questi dipinti, come nel 1630 la fondamentale pala degli Olivieri, collocata nella Cattedrale di Pesaro - e oggi nella Pinacoteca Vaticana - seguiranno nell’ordine delle scelte fondamentali del giovane Cantarini- e assumono un

Guido Reni, Annunciazione, Fano, Pinacoteca Civica, particolare 20

valore risolutivo nelle scelte appassionate della sua giovinezza. Per l’artista, nato nel 1612, queste opere si collocano letteralmente alla base di una formazione diversamente inspiegabile. Del resto, come è testimoniato dallo stesso Carlo Cesare Malvasia, lo storico più sensibile in senso critico, coinvolto anche nelle vicende imminenti del Pesarese. è proprio dalla pala Olivieri che decorre la decisione futura del Pesarese di portarsi a Bologna, per dedicare la sua giovane e ancora precoce attività di artista proprio alla dedizione assoluta della persona di Guido Reni. L’ingresso del Cantarini nello studio del Reni, collocato nel pieno centro del potere di Bologna, e cioè nel Palazzo dei Banchi, davanti al Mercato di Mezzo e in faccia al Palazzo d’Accursio, sede del potere legatizio, apre la via alla matura personalità del giovane non ancora trentenne e, in brevissimo tempo, la libera alla crisi più orgogliosa.

Simone Cantarini, parte seconda: arrivo a Bologna Esattamente nel 1637, Simone Cantarini si trasferisce a Bologna. Aveva - come si è detto - poco meno di trentanni, e forse il trasferimento della città era avvenuto in precedenza. Portatosi tuttavia assai pre-


Simone Cantarini, Studio per la Trasfigurazione di Cristo, Monaco, Staatliche Graphische Sammlung

Simone Cantarini, Trasfigurazione di Cristo, Roma, Pinacoteca Vaticana

sto alla presenza del grande Guido, nel suo studio di via Pescherie, il giovane venne ben valutato, forse esibì i suoi disegni, eccellenti già a quelle date. E Guido Reni gli diede il consenso di iniziare la sua attività in una camera della sua abitazione, dietro santa Maria della Vita. Qui ogni momento della giornata era animato dal lavoro, mentre il maestro faceva il suo. Presso gli allievi, il più vecchio era Giovan Andrea Sirani, e qualche volta si spargeva la voce delle fughe notturne del Reni. E’ tutto scritto nel Malvasia, il maestro usciva sul far della notte infastidito dai mercanti e dai venditori di pesce che si gettavano ai suoi piedi e ne imploravano il saluto. Avvolto nel suo ferraiolo elegante, lo stesso di tutta la vita, Guido si avviava in qualche oscura strada della città dove veniva silenziosamente avvicinato da un messo che gli porgeva un avviso di quale fosse la casa dove, quella sera, si giocava d’azzardo.

Simone Cantarini, Studio per la Trasfigurazione di Cristo, Pesaro, Biblioteca Oliveriana 21


Guido Reni, Trasfigurazione di Cristo, Sala delle Dame, Roma, Palazzi Vaticani

In questo ambiente la pittura di Cantarini venne raffinandosi, raggiungendo entro breve una notevole vastità. Questo è sostenuto sempre dal solito Malvasia, che è quasi il cronista della sua vita. Infatti, lo scrittore, aveva giusto allora una ventina d’anni, essendo nato nel 1617, e diverrà nei mesi futuri quasi il più attento testimone delle avventure e dei rapporti tra i due pittori. C’è una data precisa nella sua esperienza, che da quel momento lo conduce per almeno cinque anni a conoscere tutti gli eventi del vecchio artista. La camera venne assegnata a Simone quando il grande maestro gli procurò un importante lavoro, che è un po’ la chiave della comprensione di quanto accadde quando gli amministratori del Forte Urbano, e cioè della piazzaforte posta a difesa dello Stato pontificio nella cittadina di Castelfranco, questo è un luogo che avrà - come stiamo scrivendo - un’importanza determinante in tutto lo svolgersi del loro rapporto. Egli stesso, Guido Reni, aveva fatto commissionare al giovane Pesarese il quadro maggiore della chiesa del Forte, consigliando insieme la collaborazione di altri due giovani per i quadri laterali: Pietro Lauri e Michele Desubleo, ambedue impegnati nell’ultima generazione degli scolari di Guido Reni. La struttura e la composizione della pala di Simone hanno a lungo rappresentato un problema, dal momento che la pala del giovane, rappresentante la Trasfigurazione di Cristo con gli apostoli gettati a terra fu tolta da quell’altare, più tardi, e forse trasferita in qualche posse22

dimento vaticano. Infatti, quando ebbi la ventura di ritrovarla personalmente - andando a salutare il cardinal Silvestrini nella Cancelleria - me la trovai di fronte, sia pure in condizioni un poco precarie. Fu quella, del resto, l’occasione per un ottimo restauro, eseguito a Roma, nell’occasione della mostra dedicata al Pesarese che ebbe luogo appunto a Pesaro, prima, e poi nella Pinacoteca Nazionale di Bologna, nel 1997. Del dipinto si era occupato a suo tempo lo stesso Clemente XI Albani, quando fu eletto alla cattedra pontificia e cercò subito di entrare in possesso del dipinto del Cantarini. Da buon urbinate, il papa Clemente della famiglia degli Albani, aveva senno molto raffinato, e in più di un’occasione diede prova di attenzione verso l’arte del conterraneo. D’altronde l’attività del giovane ebbe già ai suoi tempi un interesse molto accentuato, a cominciare dalla giovanile paletta con la Immacolata e tre Santi eseguita per conto di una nobile famiglia bresciana per la loro azienda a Limone sul Garda. La singolarità del luogo si spiega con il fatto che i rapporti

Lorenzo Lotto, Trasfigurazione di Cristo, Recanati, Pinacoteca Civica


tra Pesaro e l’entroterra bresciano hanno sempre avuto interressi nell’economia e la lavorazione del ferro. E la bellissima tela di Simone, carica di ricordi complessi e del tutto iniziali, sospesi tra Cantarini e addirittura un ricordo dell’ammirazione per le opere del Gentileschi nel suo soggiorno marchigiano, fu solo cinquant’anni dopo acquistata da un ricco collezionista bolognese, il Giuseppe Roda che la conservò accuratamente nel suo patrimonio familiare. All’atto della campagna napoleonica in Italia, e cioè nel 1796-97, l’opera fu sequestrata dalla speciale commissione diretta dal famoso matematico Gaspard Monge e dopo pochi anni divenne uno dei dipinti fondamentali nella creazione della Pinacoteca Nazionale di Bologna. Per tornare alla paletta di Castelfranco Emilia, fatale in tutta la vicenda storica che più ci interessa, essa ha il vantaggio - del resto consueto - di trovare utili e spesso preziose testimonianze nella presenza di un’attività grafica parallela e di studio. Nel caso specifico, già nel 1960 mi fu possibile trovare un Federico Barocci, Ascensione della Vergine, Urbino, Galleria Nazionale delle Marche Simone Cantarini, Studio per la Trasfigurazione di Cristo, collezione privata Simone Cantarini, San Pietro risana lo storpio, Fano, Pinacoteca Civica, particolare 23


disegno, a Monaco, nato dalla ricerca sul dipinto di Castelfranco, che fu da me pubblicato1, mentre individuavo anche l’altro dell’Oliveriana di Pesaro (sono passati molti anni), nella rivista Palatina di Parma e che mi diede l’occasione di entrare in un dibattito di valore critico pertinente la cultura del ‘tramando’ dell’esperienza secondo gli insegnamenti, allora molto attivi, di Francesco Arcangeli. Legato alla vicenda di Castelfranco è ora uno splendido foglio che ritengo indispensabile conoscere. Come si è detto, la commessa della pala del Forte Urbano, era stata assegnata al Reni - con i due laterali di Pietro Lauri e di Michele Monbugo - e l’opera di Simone doveva provocare un fatto molto grave, determinante nella vita stessa del giovane, che infatti il Malvasia interpreta con una scena di carattere orgoglioso. Quando il maestro, infatti, si recò nella stanza dello studio di Palazzo dei Banchi, per la sua consueta visita di controllo, riportano le fonti che egli sostasse davanti alla Trasfigurazione destinata all’altare Maggiore. È ancora il Malvasia a narrare che il vecchio, con grande autorità, si piegasse verso qualcuno degli apostoli che - nella parte bassa del dipinto - sono caduti a terra. Già questi apostoli, proprio come voleva Federico Barocci, hanno ispirazioni diverse, che li conducono per forma e anche per qualche ricordo, ad esempio, ad una famosa Ascensione di Camillo Procaccino, diffusa da una stampa molto nota. Da questa stampa egli trasse i modelli iconografici anche di altre figure, le quali, come è evidente, hanno generalmente presente il lascito amatissimo di Raffaello. Ma, nel dipinto, ritornano in lui memorie complesse, dovute fortemente anche a Ludovico Carracci oltre che allo stesso Reni. Che vi appare con la sua composizione identificabile nei Palazzi Vaticani, nelle Sala delle Dame, dove il maestro bolognese rielabora - ancora giovane, intorno al 160809 - un invenzione di Ludovico di più di dieci anni prima. Perfino nella bella pala di Lorenzo Lotto, già in Santa Maria di Castelnuovo, oggi nella pinacoteca di Recanati (databile tra il 1511 e il 1512) molti sono gli aspetti che dunque precedono l’invenzione stessa di Raffaello. Riprendendo la scena della visita del Reni nella camera del Cantarini giovane, dopo essersi piegato a terra, il maestro si rialzò di scatto e fece segno all’allievo, indicando una delle figure di Apostolo nella parte bassa del quadro. La narrazione del Malvasia, del tutto vivace, descrive questo momento fatale per la vita stessa del giovane Simone. E soprattutto 24

quando quest’ultimo, al consiglio di Guido che indicava di mutare una figura di un apostolo, afferrò la tela e la voltò contro il muro tra lo sconcerto dei presenti. Guido, com’è comprensibile, andò su tutte le furie e fece sbattere fuori ogni oggetto ed opera del marchigiano, che era stato afferrato da una sorta di violenta crisi di orgoglio. E ciò era grave dopo una vita intera passata ad attendere di poter entrare nel santuario reniano. Per molti anni è stato impossibile comprendere le ragioni del gesto dell’uno e dell’altro. Oggi, grazie alla fortunata scoperta del disegno del Cantarini, in collezione privata, è possibile comprendere le ragioni di tanta furia. A ben guardare, la figura dell’Apostolo gettato al suolo è quella che si può facilmente identificare come proveniente dalla Ascensione di Maria del Barocci che stava nel Duomo di Urbino e che ora, dopo essere stata a lungo nella proprietà Castelbarco Albani, si trova nel palazzo Ducale di Urbino. In realtà, si accendeva del giovane pesarese il ricordo del grande maestro nel momento stesso della sua passione per l’opera di Guido Reni. Da quel momento, Simone fu cacciato dalle studio di Reni e vagò per l’intera vita a Roma, nelle Marche e anche in Lombardia con la produzione di dipinti molto liberi e soprattutto la diffusione di famosi disegni, tra i quali spicca l’ultimo ritrovato. Il ricordo di Barocci continuerà ad affiorare nel tempo: come nel particolare dello storpio nel quadro di San Pietro in Valle a Fano. Le sorprese provenienti dai modelli barocceschi sono, del resto, inesauribili. Quando Clemente VIII si avviò alla volta di Ferrara per la sua “devoluzione”, passando a Fano, protettorato della sua famiglia - gli Aldobrandini - ricevette in dono da Francesco Maria della Rovere (che non poteva entrare nella città, protettorato della Chiesa) un piccolo dipinto oggi scomparso come omaggio a sua Santità. Il dipinto è stato prima perduto e poi recuperato, e si trova in quanto replica a Glasgow, nella sua Galleria Nazionale. Scriveva il Bellori (1672, p. 186) come egli avesse preparato un bellissimo dono di un vaso e scrisse: “ fece dipingere al Barocci in lamina d’oro Gesù bambino sedente su le nubi, il quale con la mano tiene il mondo, con l’altra benedice e la collocò in mezzo al vaso”. Papa Clemente la teneva nel breviario per vederla ogni giorno. Io ho avuto la fortuna di trovare un disegno2, simile a quello del disegno di Würzburg, ma anche più raffinato, che è stato nella collezione di una intelligente storica e che è possibile vedere in questa


Federico Barocci, Gesù bambino benedicente, collezione privata

illustrazione. A parte la singolarità del modo in cui ha preso forma questo dono, in foglio e di rara intensità e bellezza, possiede la dolcezza delle opere di fine cinquecento, pure oltre l’Ultima cena della Cattedrale di Urbino oppure dell’esaltante Crocifissione e dolenti di Genova, dove - nella veduta del ducato dei Montefeltro, davanti alla prospettiva vista dalla sua finestra - il Barocci celebra intensamente la sua visione cristologica e mistica.

Note 1 Emiliani 1960 2 Il nuovo disegno è a matita nera, carboncino e biacca, su carte cerulea e misura 238 x 166 mm è stato a lungo nella collezione di Giorgio della Bella (lugt 3774), ed è nuovamente nel mercato.

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DALLE COLLEZIONI STORICHE...



Franco Battistelli IL CANONICO BILLI E CANTARINI A BRETTINO

Il canonico Alessandro Billi, così come il conte Stefano Tomani Amiani, fu uno dei primi cultori di memorie storiche e artistiche fanesi che nel corso del secolo XIX diedero alle stampe brevi monografie dedicate a vicende, monumenti o personaggi locali più a meno noti e meritevoli di essere ricordati. Fu in occasione delle nozze del conte Leone Giacomini con la contessa Carlotta Rinalducci, figlia del conte Antonio, amico del suddetto Billi, che quest’ultimo provvide a far pubblicare nel 1866 dalla tipografia fanese di Giovanni Lana un opuscolo di notizie storico-artistiche sull’eremo di Brettino e sul pittore Simone Cantarini. Una località, Brettino, dove il Rinalducci aveva posto tanta cura ad abbellire il geniale casino: luogo di villeggiatura prossimo alla chiesa dell’omonimo eremo per il cui altare maggiore il ricordato Cantarini aveva dipinto la pregevole tela della cosiddetta Madonna della cintura (oggi conservata presso la Pinacoteca Civica del Palazzo Malatestiano). E chi non ammira il lungo viale da voi piantato a cipressi, a pioppi, ad ulivi, seminandolo di minuta ghiaia che mena al casino, al verziere, alla serra degli aranci, al padiglione cinese? Chi non vide con istupore la celerità onde faceste porre ad aiuole, a vialetti, a crocicchi, a sbocchi di giardinetto che poco stante era verdissimo prato? Merita quindi qui trascrivere quella parte dell’opuscolo in cui il Billi si adoperò a fornire (con linguaggio tipicamente ottocentesco) notizie sul Cantarini e sui dipinti eseguiti dallo stesso, oltre che per l’eremo di Brettino, anche per le chiese di Fano (San Pietro in Valle e Sant’Agostino) e per la chiesa parrocchiale (Sant’Antonio Abate) di Serrungarina. Non priva di ironia la motivazione avanzata dal Billi per una lunga scarpinata da farsi ai suoi tempi dal litorale fanese fino alle pendici collinari di Brettino: Brettino oggidì non è visitato che dai rustici bifolchi di quei contorni, che vi accedono nei dì festivi per ascoltarvi il santo sacrificio. Qualche fiata però vi si recano anche i villeggianti e gli amatori di belle arti, perché quivi

contemplano un prezioso gioiello che non è dato rinvenire altrove. Per essi non è l’amenità del sito piantato a cipressi che li muove a condursi colà, non l’orto ed il pergolato messo a viti abbondevoli di dolci grappoli d’uva, non la lapide allegata, non le poche vestigie dell’antico convento, né la moderna chiesa messa a travi, ma una superba tela posta nell’altare maggiore, coperta e ben custodita dagli attuali vicarii. E’ questo un esimio lavoro di Simone Cantarini. Motivo per cui prosegue il Billi: Prima di descrivere un tal quadro mi si conceda di premettere alcune notizie sull’autore medesimo, perché riguardano la nostra patria. Per i desiderosi, quindi, di notizie biografiche sul Cantarini: Simone sortì i natali in Pesaro, fu battezzato nella chiesa priorale di San Cassiano, e dalla guida di Pesaro edita nel 1864 per le feste Rossini dal dotto professore sig. Giuliano Vanzolini direttore del ginnasio si rileva, che la casa ove nacque al Corso, faceva parte del lungo fabbricato con portico ai civici numeri 54, 55, 56, 57. In oggi [1866] del sig. Achille Bacchiani. Rettifica inoltre il Billi quanto affermato dal torinese Zani nella sua enciclopedia metodica delle belle arti alla voce Cantarini: (Cantarini o Contarini Simone di Oropecza, detto Simon da Pesaro, il Pesarese ed il Pesarino [che] nacque nel 1612, morì nel 1648). Località inesistente Oropecza (o Oropezza) nel territorio pesarese mentre il Billi: E’ parimenti sicuro dalla fede battesimale che Simone ebbe cognome Cantarini e non Contarini che fu famiglia veneta. Ne deduce il Billi: “Comechesia di questo Oropezza ecco la particella riguardante il Cantarini che si rinviene in San Cassiano: “A dì 21 Agosto 1612. Simone figliuolo di M. Gir.mo Cantarini e M.a Gir.ma sua moglie fu battezzato da me D.Troiano Fredi, per Comare M.a Ancilia Pica”. Ne deriva per il Billi un interrogativo: Ora leggendo questa fede battesimale testè inviatami dalla gentilezza amorevole del sig. Vanzolini mi sorse il dubbio non fosse la famiglia di Simone oriunda da Fano. Un’ipotesi suffragata dal fatto che il Borgarucci in

A. Billi, Brettino e Simone Cantarini, Cenni Storico Artistici per le Nozze Giacomini - Rinalducci, Fano 1866 29


un suo storico mss. della nobiltà fanese posseduto e comunicatomi dal valente letterato Conte Camillo Marcolini, parlando delle famiglie esistenti in Fano sullo scorcio del secolo decimo sesto, delle quali rimaneva qualche ramo altrove, avvisa che - “in Pesaro lasciai Girolamo Cantarini fratello di Antonio, morto Consigliere, marito della vedova Camilla Nolfi della Posterna”-. Chi non vede, che non può essere fortuita l’identità del nome di Girolamo tanto nei libri parocchiali, quanto nell’inedita storia del Borgarucci? I Cantarini si leggono consiglieri nei libri dei consigli di Fano per tutto il secolo decimo sesto, ed appartennero al patriziato, ma in modeste fortune. Secondo che a me sembra - prosegue ancora il Billi nuovo indizio della sua origine da persone non volgari sarebbe il disperarsi che faceva il padre di Simone nel vederlo tuttodì scombiccherare que’ segni e quelle figure in carta, che stimava leggerezze da fanciullo, ed erano in vece un preludio di quell’arte, onde ritrasse tutta la sua fama. E di busse dovete pure sostenere dal suo genitore, quando era colto in tale puerile esercizio, al quale era spinto dal potente genio sortito da natura, cui non valgono ad attraversare opposizioni ed impedimenti di sorta alcuna, e per gli animi forti sogliono essere sprone a perseverare più costanti nell’intrapreso divisamento. A questo punto: Buon fu per Simone, che un religioso Servita il tolse a quelle paterne persecuzioni, e gli diede agio ad imbeversi dello stile succoso della veneta scuola, ammirando le opere del Tiziano e dei suoi discepoli, e studiando i loro ritratti dipinti in tanta copia in quella magnifica città, regina allora dell’Adriatico mare. Da questo magistero trasse il Cantarini sì grande profitto, che reduce in Pesaro, alla vista di tanto progresso nell’arte, ebbe il padre tramutato in favorevole alle sue inclinazioni, anche per ispeme di lucro, in guisa che fattosi secondo il Lanzi disegnatore esatto sotto il Pandolfi, vantaggiò nella scuola di Claudio Ridolfi e nell’assiduo studio sulle stampe dei Caracci e soprattutto in quelle del Barocci - Dopo di che: l’arrivo in Pesaro della grande tela di San Tommaso, ed in Fano della Nunziata e del San Pietro di Guido Reni invaghirono sì fattamente Simone di quel nuovo stile di pittura, che tutto si sacrò ad emularlo, risoluto anco di vincerlo, qualora a tanto gli arridesse fortuna e valentia pittorica. Allora fu, al dire del Malvasia, che disegnando più volte e dipingendo la tela guidesca per formarsi a quella maniera di ritrarre, cercò per sé medesimo a mettere in pratica quello stile in varie teste e mezze figure che gli riuscirono perfette a meraviglia. Logica conseguenza: Preso quindi maggior animo, su quel modo ritrattò in Pesaro una grandiosa tela da porsi entro piccola chiesa e n’acquistò lodi siffatte, che lo indussero a recarsi in Fano per istudiarvi le due famose nominate dipinture esposte alla vista d’ognuno nella gaia ed 30

ornatissima chiesa di San Pietro in Valle. Eccolo quindi il giovane Cantarini intento ad ammirare le due splendide tele reniane in detta chiesa: la soave Annunciazione sull’altare della cappella Gabrielli, realizzata nel 1621, e la Consegna delle Chiavi a san Pietro, posta sull’altare maggiore nel 1626. La bramosia poi d’apprendere quella nuova maniera inventata da Guido fu sì potente in lui, che dandone in Fano copiosi saggi, gli fu affidato di ritrarre nel suddetto tempio, al lato destro del maggiore altare, dove il Reni aveva collocato il San Pietro che riceve da Cristo la potestà delle chiavi, il miracolo del medesimo Santo alla porta Speciosa [San Pietro che guarisce lo storpio], ove così trasformassi in Guido al dire del Lanzi, che parve lui, e sino ai tempi del Malvasia i forestieri non distinguevano la diversità della mano. Così, ricorda il Billi, che avrebbe descritto più tardi [1856] l’opera Stefano Tomani Amiani: “Non ha mestieri di elogio la maestria del disegno, la bella disposizione dei gruppi, la severità delle pieghe, la franchezza del tocco, la verità in una parola che brilla in questa opera di somma eccellenza dovuta al pennello di Simone Cantarini, e che dagli estimatori del Bello, e dai conoscenti e periti dell’arte, vuolsi mandata innanzi a molte e molte delle più stupende dipinture dello stesso Guido Reni, di lui maestro e rivale ad un tempo”. Dimorò Simone - prosegue il Billi - varii mesi in Fano e forse nell’abitazione del defonto suo zio Antonio. Né vi rimaneva ozioso; chè, mentre con ben intesa composizione dava l’ultima mano alla tavola dello storpio risanato dal principe degli Apostoli la quale “Sbatte molto quella per altro bellissima di Guido che le sta vicino” (parole dell’esimio canonico pesarese Andrea Lazzarini) attendeva eziandio a dipingere un mediocre San Tommaso di Villanova per il bellissimo tempio di Santa Lucia degli Agostiniani. Questo dipinto, ch’io mi sappia, fu ignoto non che agli antichi e moderni descrittori di pitture, ma pure al Lanzi e al Lazzarini e non lo trovo accennato se non nel “catalogo delle pitture d’uomini eccellenti che si vedono in diverse chiese di Fano”, stampato per Andrea Donati nel 1765. Forse non ne fecero motto, perché fu guasto per comando d’un ignoto Priore, che volle da altra mano pennelleggiata sul capo del Santo una mitra vescovile bianchissima che discorda e disarmonizza col resto del quadro piuttosto cenericcio, direbbe l’Albani, e copre metà d’uno sfondo che alluminava gradatamente il volto del beato. Nulladimeno la figura di San Tommaso è bella e maestosa, e lo sguardo è rapito in contemplare la Vergine che in alto poggia col bambino graziosamente sostenuto col ginocchio e colle mani da sembrar vivo, e che rivolge giulivo i suoi occhi al Santo che fervorosamente lo prega: la visione par vera e non vi aveva luogo la mitra. Ai piedi del Santo da una banda, avvi un fanciullotto ignudo che con un dito indi-


ca e l’estasi di Tommaso e rompe l’oscurità delle vesti e del rimanente quadro. Questo putto è sovranamente ritratto; non v’ha membro che non si scorga eseguito con la più fina esattezza anatomica ed artistica, ed ha tale grazia e leggiadria nel viso ed atteggiamento, che desso solo basterebbe a confermare quella sentenza del Lazzarini, che Guido ha vinto Simone nel bello “maestoso”, Simone ha superato Lui nel bello “grazioso”. Sempre a detta del Billi. Questo quadro era collocato a destra dell’altare maggiore nella Cappella Corbelli in San Agostino, ma i patroni il riebbero nella generale soppressione dei Conventi, e il venderono al nostro dilettante di pittura D. Giovanni Rayn con patto che non potesse giammai essere trasportato fuori di Fano. E fu saggio il loro anti vedere, perché così alla morte del Rayn non fu veduto sparire da Fano, come avvenne a tanti altri e non volgari dipinti. Ciascuno il può ora ammirare nella chiesa del Gesù [Sant’Ignazio], ma presto, si spera, sarà tolto di là ed allogato in miglior vista di luce per le cure e provvidenze municipali. (Anche questo dipinto, oggi, è conservato presso la Pinacoteca Civica del Palazzo Malatestiano). E’ a questo punto che il Billi fornisce il perché della fuga-ritiro del Cantarini presso l’eremo agostiniano di Brettino: Creddono alcuni sapienti uomini, che la tela in discorso di San Tommaso di Villanova fosse lavorata dal Cantarini, prima di recarsi in corte del Duca di Mantova. Mi mostrai di contrario parere, perché congetturo con qualche probabilità che stesse occupato in esso, allorché in Fano pingeva il miracolo di San Pietro imitando le tavole di Guido ed amoreggiando anche troppo licenziosamente, sì che ne toccò un colpo d’archibugio onde campò quasi un prodigio, perloché con l’aiuto di quei religiosi agostiniani stimò bene ritirarsi e nascondersi nel loro convento di Brettino per iscansare il furore dei rivali e dei genitori, parenti e amici delle offese donzelle. Ciò si deduce anche dalle parole alquanto ambigue del Malvasia, che rimprovera Simone per questo vizio che il rendeva tardo e negligente all’avute commissioni. Siffatta pure è la tradizione che corre in Fano del suo volontario ritiro nel romitorio di Brettino, e della causa che lo produsse, e dell’aiuto prestatogli dagli eremiti di San Lucia a Brettino. Tutti quasi gli scrittori - prosegue il Billi - ed encomiatori del genio artistico di Simone tacciono di questa sua amorosa avventura in Fano e si limitano a descriverci la sua altezzosa natura, il dispregio con che soventi volte malmenava sommi pittori viventi e defunti, e le sue disgrazie in Bologna ed in Mantova, che il condussero, tuttor fresco di età, alla morte in Verona. Quindi non fa meraviglia, se tacquero pure del dipinto, che per gratitudine della ricevuta ospitalità e per isfuggire l’ozio e la noia in quella solinga villa, egli pennelleggiò per gli eremiti

brettinesi, si perché non ebbero forse cognizione, sì per non averlo alcuno di loro osservato mai di veduta. Di fatto nol trovo menzionato, se non di volo e senza dire che cosa rappresenti, eccetto che nel citato catalogo di fanestri pitture. Eppure merita, secondo il mio corto vedere, d’essere delineato da penna non solo più abile della mia, ma che di vantaggio associi all’arte dello scrivere scienza e buon sentire in riguardo a disegno e pittura. Segue la puntuale volonterosa descrizione della pregevole tela cantariniano-brettinese come appariva allora al Billi e come ancora oggi appare ad un attento studioso della pittura del secolo XVII: Simone effigiò in quella tela il celeberrimo dottore Sant’Agostino duce e patriarca di tutto quell’ordine, che sotto varie forme osserva le regole da lui dettate. Stassi genuflesso a sinistra innanzi la Vergine, che sollevata in lucidissima gloria ha in seno il bambinello Gesù. Un ampio manto damascato a colori di rosso e giallo, messo a magnifiche pieghe avvicinantesi a quelle di Guido e del Tiarini e non meschine e grette, come quelle del San Tommaso di Villanova, tutto il ricoprono e gli nascondono l’estremità: il manto è affibbiato da una bella borchia lavorata di rilievo, e fra lo scuro, il cenerino, il bianco, il cilestro dell’altre figure campeggia mirabilmente e dà risalto ai volti e al resto di tutta la dipintura. Ha testa nuda, capigliatura bruno-castagna in apparenza trasandata, ma finissima per arte, sembiante grave ma sereno, che ti addita colla sua carnagione piena e vivace un’età che di poco oltrepassi il quarantesimo anno. Un angioletto ai piedi da un lato gli sorregge la dorata mitra ed il pastorale giace disteso a terra, mentre le mani lavorate a perfezione distendonsi dolcemente a guisa di supplichevole verso Maria SS. cui in parte è rivolto il suo sguardo, che non pare distaccarsi per intero dal rimirare sommesso la rapita in estasi sua genitrice San Monica. Ché al lato destro ella ancora a ginocchio piegato, ma non sì che non sembri come elevarsi da quell’atto per virtù divina e dipinta in postura tanto meravigliosa che non è lecito spiegarla a parole, ma fa duopo mirarla cogli occhi. Essendoché tanta espressione di affetto e di lacrime versate mostra nel suo sembiante, in alto rivolto verso la Vergine, come se allora allora si fosse asciugato il pianto con un lino gialliccio, e volesse disfogare tutta l’anima sua a ringraziare la Vergine per vedersi dinanzi genuflesso come lei il suo convertito Agostino, che io sfido qualunque pittore e poeta a meglio delinearla. Che dirò poi del vestimento, del sembiante, delle mani di Monica? Il bianco soggola che le copre il capo e la gola, ha pieghe e solchi sì naturali e seconda sì bene il movimento della testa che ti parrebbe lino, se il tatto non ti dicesse ch’è colore di biacca chiaroscurata. Il velo nero svolazzante e trasparente è sì distaccato quale tu lo vedi nelle vive monache dei nostri conventi. L’abito, la cintura, il panneggiamento 31


non hanno eccezione. Il volto senile della Santa colle gote scarne, patito e ammaccato si scorge dalle lacrime e dalle penitenze benché gli occhi spirino un fervore inusitato che incanta e compunge. La mani infine paiono lavorate al tornio; tanta finezza di anatomia, di proporzione, di verità ti presentano che persino le vene potrebbe un artista annoverarvi: Un fraticello a testa nuda, vestito all’agostiniana sta ritto dietro San Agostino in atto umile, col volto dimesso e raccolto. E le mani incrociate al petto, e pare che sia rimasto sorpreso da stupore all’estasi meravigliosa dei due Santi: Il Cantarini a rischiarare vie meglio tutta la pittura pose in alto due angeli che di qua e di là corteggiano la Vergine e insieme rompono ogni oscurità. Per fermo se l’Albani avesse rimirato questo dipinto ed un altro che or ora descriverò, non avrebbe mai, se non per invidia, dato a Simone il titolo di pittor cenerino. Ché l’ombre e o chiari vi sono così bene divisi, che non ti par più quel pittore medesimo che fece il San Tommaso di Villanova. A integrazione di così ampia descrizione ecco infine l’altro dipinto cantariniano di cui fa cenno Il Billi: Nel più volte citato Catalogo delle pitture di Fano lessi che anche in Serrongarina antico Castello del contado fanese serbavasi un quadro del nostro Simone. Di fatto viddi nell’altare Maggiore della chiesa parrocchiale [di Sant’Antonio abate] un quadro che rappresenta la visita di Santa Maria ad Elisabetta, soggetto trattato dal sommo Domenichino in uno degli affreschi della celebre cappella Nolfi nella cattedrale [di Fano]. Il concetto è il medesimo in ambedue i pittori, e non diversificano che in pochi accessorii. Chi di loro si sarà usurpata l’idea dell’altro? Sono amendue lavori degni d’ogni maggiore encomio. Certo è che il Domenichino eseguì gli affreschi della cappella Nolfi fra il 1617 e il 1618, quando il Cantarini era ancora anagraficamente un fanciullo così che l’interrogativo del Billi può trovare immediata facile risposta su chi ebbe, almeno in questo caso, ad usurpare l’idea dell’altro. Il Cantarini figurò Maria nel fiore della giovinezza con bionde chiome, bianchissimo volto, e gote di colore incarnato, con paludamento di viva porpora, maestoso aspetto, che si piega alquanto nello stringere la mano alla cugina più attempata e curva e in abito più dimesso e coperta il capo di un manto, mentre la Vergine a testa scoperta mostra la ricchezza della sua rilucente capigliatura annodata con tutta cura e semplicità. Elisabetta rivolge il dorso alla sua casa, onde è discesa per varii gradini in sullo spiazzo, e sul limitare della porta si vede in alto uscir fuori ad incontrare la grand’ospite a lento e debil passo San Zaccaria molto vecchio di età, che sebben mutolo, mostra sulla faccia quella giovalità che si usa nell’ accogliere una gradita persona. Il Cantarini dipinse il vecchio col turbante all’ebraica in capo, mentre l’affresco nolfiano cel presenta come se allora allora si fosse tratta la berretta dalla 32

testa tenendosela avanti con ambe le mani. Ma amendue gli egregii artisti espressero in quel vecchio il tremolio delle membra proprio a molti di quella età in modo, che bisogna confessare che piedi e mani gli tremano: anche le ancelle di Maria sono uguali in ambo i lavori, eccetto che il Cantarini una ne dipinse con veste a scacchi bianchi e verdi con mirabili colori portante sul capo un cesto con un donativo di galluzzi, la rosea cresta dei quali è tanto ritratta al naturale che par vera. Eppure chi lo crederà? Anche questo quadro fu malmenato da qualche insipiente rettore, avendo voluto rinchiuderlo in una cornice massiccia del seicento e lunghissima, per la quale non essendo capace in lunghezza, vi fu aggiunto un tratto di tela dipintovi sopra un Sant’Antonio abate non spregevole a sinistra, un Sant’Aldebrando nel mezzo che colla sua mitra bianca copre i piedi e parte della purpurea veste della Vergine, a sinistra una Santa Maria Maddalena di poca entità. È pittura del Guerrieri di Fossombrone. Un’attribuzione ormai quest’ultima del dipinto in questione definitivamente espulsa dal catalogo delle opere del Cantarini per essere integralmente trasferita, a giudizio di Andrea Emiliani, al ricordato Guerrieri: “Fu proprio la composizione su due piani di questa pala a dar origine, probabilmente, ad un equivoco che, ancora qualche decennio fa, si trascinava nella tradizione storica locale. Si tramandava infatti che il dipinto, eseguito nella sua parte superiore - e cioè la vera e propria Visitazione - di Simone Cantarini, avrebbe più tardi subito, per insistenza dei committenti, un allungamento affidato al Guerrieri da Fossombrone. La tradizione si basava, diceva qualcuno, sull’autorità di un documento manoscritto conservato nell’archivio della Parrocchiale di Serrungarina. Naturalmente, non c’è traccia di allungamenti e neppure di documenti. E si può agevolmente correggere l’attribuzione, rimandandola del tutto alla mano del Guerrieri”. Annota infine il Billi: Nella sacrestia della parrocchiale di Cartoceto avvi una Vergine col bambino donata dal signor Filippo Palazzi di buona memoria, come opera di Simone Cantarini. Un dipinto, quest’ultimo, di cui oggi sembra perduta ogni traccia.


Nota bibliografica A.M. Ambrosini Massari, schede dei dipinti in La Pinacoteca Civica di Fano, Milano 1993, a cura di A.M. Ambrosini Massari, R. Battistini, R. Morselli, pp. 54-57, 254-256. (E si rimanda infra, al saggio della stessa autrice, anche per ulteriore bibliografia). Anonimo Sec. XVIII, Pitture d’uomini eccellenti nelle chiese di Fano, Quaderno di “Nuovi studi fanesi”, a cura di Franco Battistelli 1995, pp. 16-18, 31-40, 60-62, 71-74. B. Borgarucci, Istoria della nobiltà di Fano, Quaderno di “Nuovi studi fanesi”, a cura di A. Deli 1994, p. 38. G. Calegari, La chiesa di S. Pietro, Fano nel Seicento, a cura di Aldo Deli, Fano 1989, pp. 146-166. A. Emiliani, Giovanni Francesco Guerrieri da Fossombrone, Fano 1997, pp. 86-87 (scheda 33). GDE (G. Degli Esposti), Guido Reni 1575-1642, Bologna 1988, pp. 94-95 (scheda 39) e pp. 110-111 (scheda 47). L. Lanzi, Storia pittorica dell’Italia dal risorgimento delle Belle Arti fin presso la fine del sec.XVIII, Bassano, 1809 (1968-’74), III, pp. 79-80. C.C. Malvasia, Felsina pittrice. Vite dei pittori bolognesi, Bologna 1678; Idem, Le pitture di Bologna, Bologna 1686. M. Mancigotti, Simone Cantarini il Pesarese, Banca Popolare Pesarese, 1975, in particolare le pp. 78-81 e 82-85 (figg. 15-18, 19 e 20-21); 2006, pp. 57-59. S. Tomani Amiani, Le dipinture più celebri esistenti in Fano, Fano, 1856; Idem, Guida Storico Artistica di Fano, prima edizione a stampa del manoscritto datato 1853, presentazione e annotazioni di Franco Battistelli, Banca Popolare Pesarese, 1981, pp. 84, 107, 161, 168, 196, 199. G.L. Vanzolini, Guida di Pesaro, Pesaro 1864. P. Zani, Enciclopedia metodica ragionata delle belle arti, Parma 1817-24.

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Anna Maria Ambrosini Massari L’EDUCAZIONE SENTIMENTALE: SIMONE CANTARINI E FANO

…provò gran vantaggio dall’aver fatte tutte le sue fattighe in Fano nell’adolescenza1. Nel nostro mondo mediatico e ipertecnologico non esistono più le varianti. Quando ci penso, questo dato semplice, che da un certo punto di vista può risultare senz’altro una conquista - quello che decidiamo di tralasciare nelle versioni finali dei documenti, viene semplicemente cancellato, basta un gesto, un semplice click-mi angoscia. Va perso tutto il senso di un’opera di scrittura: quella fatica, lenta e progressiva, estenuante, che conduce alla redazione finale e che rivela le ragioni più intime, contraddittorie, della definizione degli argomenti e della connessa eliminazione di quelle notizie che distoglierebbero dall’obiettivo principale. Senza il confronto tra le carte inedite e la redazione finale della Vita di Simone Cantarini scritta dal suo principale biografo, Carlo Cesare Malvasia, punto di riferimento di tutta la storiografia a venire, non avremmo, oggi, potuto ripensare con l’aiuto di spunti concreti, modi e termini della sua formazione e della sua intera carriera2. Esigenza pressante, osservando le opere; primo e ultimo motore della ricerca storico-artistica, che dimostravano qualcosa di diverso da quanto l’edizione ufficiale volesse propagandare: Cantarini soprattutto allievo del grande Guido Reni, con un taglio netto su tutto quello che non interessava, vale a dire, gli snodi della educazione in patria, i luoghi e i modelli, i tempi di un apprendistato ben più variegato e complesso di quello che infine viene consegnato alle stampe. Fano, ovviamente, ha fatto le spese, come Pesaro, di questa selezione a favore di Bologna, salvando solo poche note di stampo aneddotico, in linea con lo schema generale della Vita di Cantarini, quello di un artista geniale ma penalizzato da una personalità ribelle, passionale all’estremo, venale e specialmente caratterizzata da una superbia che infine lo rendeva vittima delle sue stesse passioni, in tutti i campi3. Malvasia non nasconde i suoi intenti. Dice chiaramente che la sua commemorazione riguarda soprattut-

to ciò che a suo, e mio tempo, gli succedette, particolarmente in Bologna,…4. Fano risulta una tappa del pittore già maturato alla scuola di Claudio Ridolfi e ancor più sui modelli di Barocci e Guido Reni visto a Pesaro, con l’arrivo in Duomo della pala Olivieri, la Madonna in gloria coi santi Tommaso e Girolamo, oggi alla Pinacoteca Vaticana. Volle pertanto vedere i capolavori del Reni e Fano, in San Pietro in Valle e la ‘gita’ gli fruttò la commissione di uno almeno dei laterali alla pala di Guido sull’altare maggiore, così, come per magia. Opera grandemente ammirata, quella che ne derivò, il nostro San Pietro che risana lo storpio, proprio perché seppe aderire totalmente allo stile del maestro. Ma il pittore ardimentoso era insoddisfatto, sentiva sempre più l’esigenza di stare accanto a quel maestro, di andare a Bologna e, provvidenzialmente, un’archibugiata seguita alle sue frequenti e impenitenti licenze amorose, lo fece convincere ad andarvi effettivamente, anche perché ormai, per il suo carattere altero e le sue intemperanze, si era alienato ogni simpatia e appoggio. Così, il quadro moralistico di Malvasia, che non regge, come vedremo, il riscontro sulle opere fanesi, in particolare la pala di San Pietro in Valle, che rivela una conoscenza dei modelli bolognesi di Guido Reni, che solo dopo essere stato colà avrebbe potuto avere, oltre a richiedere una messa a fuoco di altri punti del testo, rivelatori, specialmente quelli delle note, poi lasciate inedite. Ne metteremo insieme diverse, tutte rivelatrici e documentabili, tutte in linea con un percorso plausibile, piuttosto che con la narrazione aneddotica. E cominciamo con quella più intrigante, quale è la frase scelta a timbrare gli snodi di questo scritto, appunto: provò gran vantaggio dall’aver fatte tutte le sue fattighe in Fano nell’adolescenza, quando non fu di prima che fosse distornato dalli affetti libidinosi e gonfiato dalla superbia 5. La frase della carte inedite è molto precisa. A Fano il pittore fece il suo apprendistato e fu cosa che gli

Cavalier D’Arpino, Il transito di san Giuseppe, Fano, San Paterniano 35


garantì risultati largamente positivi. Importante poi la precisazione di quando ciò dovette avvenire, in un periodo davvero basilare per gli orientamenti e gli indirizzi: l’adolescenza, fase che, anche se scalata su un arco temporale non perfettamente precisabile, non può andare oltre i diciotto anni. Questo non significa certo che in quel periodo l’artista eseguì le pale fanesi, o perlomeno tutte in blocco, secondo un’interpretazione superata della mobilità degli artisti, soprattutto trattandosi di una località piuttosto vicina, anche per le modalità di spostamento dell’epoca, alla città di origine e di residenza della famiglia, cioè Pesaro. Vuol dire però che si dovrà valutare, come già ampiamente fatto con riscontri positivi nel riassestamento della comprensione della poetica artistica di Cantarini per quanto riguarda i rapporti con la città natale, che Fano si pone come uno dei luoghi di educazione, rapporti e attività del pittore, fin dagli esordi. Specialmente tenuto conto che il giovane Simone dovette mostrare ben presto le sue doti e con esse le sue ambizioni e si volgesse per prima cosa verso le più vicine realtà che mostravano novità interessanti,

Ludovico Carracci, Madonna in gloria coi santi Orso ed Eusebio, Fano, Duomo 36

come era indubbiamente Fano già da qualche tempo6, soprattutto per l’orientarsi della committenza più scelta verso quella pittura bolognese che doveva imprimere una svolta determinante di modernità. Fano si apre alle voci più alte ed anche contrastanti di quell’eloquio. La pala di Ludovico Carracci, firmata e datata 1613, realizzata per il Duomo di Fano nella fase più avanzata della carriera è isolata ma sintomatica testimonianza che lo vede rappresentato nelle Marche. Si tratta di una scelta che marca la distanza con quella che di lì a pochi anni, tra 1617 e ’19, porterà Domenichino nella stessa chiesa, a decorare con le Storie della Vergine la cappella di Guido Nolfi, approntando un manifesto sintomatico del coté prevalente e preferito dai committenti marchigiani, che risolve in dolci e nobili armonie gli sbattimenti di luce e gli umorosi contrasti di Ludovico che porta una ventata di ‘natura’ ed ‘espressione’, in netto contrasto con l’oleografica distillazione formale del Domenichino. Memorie sotterranee ma vibranti dalla pala fanese di Ludovico si distillano negli esordi di Simone Cantarini: l’umore plumbeo, rigonfio di pioggia dello sfondo, la calibratura delle parti, nella pala di santa

Simone Cantarini, Madonna in gloria col bambino e santi Barbara e Terenzio, Aicurzio, Parrocchiale


Barbara, già in San Cassiano a Pesaro ed oggi nella Parrocchiale di Aicurzio, rimandano alla Madonna coi ss. Eusebio e Orso: arcaica nella composizione ma immersa in un’atmosfera nuovamente meteorologica, di temporale imminente 7. Devono aver catturato l’interesse di Simone, per analoghe ragioni, i tenebrosi dipinti di Carlo Bonone nella stessa chiesa, eseguiti nei primi anni del secondo decennio del secolo, appena rientrato da un soggiorno romano8. Opere nutrite di caravaggismo, che contribuiscono ad accordare il timbro più sentitamente naturalista di Cantarini, che guarda, già prima della sosta bolognese, a Ludovico e Bonone non meno di quanto guarderà al più ruvido Giovan Francesco Guerrieri, il suo principale interprete, per quanto riguarda Caravaggio. Un esempio che mi piace ripetere, tanta è la forza incrociata di sguardi che ne deriva, proviene dal confronto di questo bel disegno di Cantarini nella ricca collezione braidense9, ispirato, in una fase ben più matura e inoltrata, dopo il soggiorno a Roma, tra 1640 e ’42 circa, alla Madonna dei pellegrini di Caravaggio, dove rifluisce la memoria del Guerrieri nella commovente pala per San Pietro in Valle, con San Carlo Borromeo che accoglie i coniugi Petrucci in abito di mendicanti. Specialmente nella figura di destra del disegno si vede bene l’eco della posa quasi di tre quarti della moglie del Petrucci. Gli sguardi caravaggeschi che dovettero colpire, invece, il giovane Simone, scoprendo le tre pale di San Paterniano di Bonone furono per lui una sorta di anteprima sul tema, che si fonde col sempre più meditato ricorso, da parte del ferrarese, al naturalismo espressivo di Ludovico. Se guardiamo, per questi aspetti, il San Giovanni evangelista della Pinacoteca Civica di Bondeno, di Cantarini, dove si esprime una malinconia piena di passione, quale solo quella dei più giovani può essere, questa fusione di sguardi appare chiarissima, come pure nel confronto “angelico” tra Bonone e Cantarini - si veda alla scheda sulla coppia Agar e l’angelo -10. Indubbiamente, però, la grande novità, la vera svolta nella carriera di Simone venne, da Fano, con la visione delle opere che vi inviò Guido Reni, dentro il meditato programma innovatore impostato con fermezza dal padre filippino Girolamo Gabrielli nel tempio di San Pietro in Valle. Il richiamo alle esercitazioni fanesi durante l’adolescenza rende tanto più plausibile un fatto che già si rendeva probabile: per quale ragione, cioè, Simone avesse dovuto attendere oltre i primi anni Trenta del secolo, dopo l’arrivo della pala Olivieri di Guido a Pesaro, per decidere di andarsi a vedere le pale di Fano posizionate sugli altari Gabrielli e Marcolini

Carlo Bononi, Un angelo avvisa san Paterniano della morte, Fano, San Paterniano

dai primi anni Venti. Tanto vorrebbe la solita aneddotica malvasiana, che assesta il copione usuale della conversione improvvisa e totale, devota e assoluta, sulla visione della Madonna in gloria col bambino e i santi Girolamo e Tommaso del Reni, della quale Cantarini avrebbe poi fatto tante copie sparse, come quelle, per esempio, conservate presso la Fondazione Cassa di Risparmio di Pesaro e di Fano (qui esposte), documenti esemplari del tributo dovuto a una tanto assestata tradizione storiografica. Ma quando quella superba pala giunse a Pesaro, offrendo senza alcun dubbio al pittore nuovi motivi per decidersi definitivamente di trasferirsi a Bologna, egli era ormai, comunque, un artista ben formato, con alcune significative esperienze alle spalle, apprezzato e attivo, forse già spintosi almeno una volta verso Bologna per tastare il terreno e molto probabilmente lambendo quei luoghi al ritorno dal viaggio di educazione a Venezia, da collocare attorno al 162811. D’altra parte, è ‘il doppio’ di Malvasia12 a fornirci alcune indicazioni, anch’esse eliminate nel testo definitivo, di una mobilità di Cantarini tra Pesaro e Bo37


logna più frequente e agile rispetto alla tradizionale scansione dei due periodi bolognesi e di un fugace rientro in patria nel 1639. Almeno una prima visita a Bologna dovette compierla quando era ancora in stretta relazione col Ridolfi, se Malvasia racconta che la prima volta che Simone fu a Bologna, e fece vedere di suo, fu una processione, e descrive alcuni quadri abbozzati, bellissimi, di cui poi si diceva che fossero tornati e rimasti presso il suo maestro Claudio Veronese 13. Così variamente stimolato, è indubbio che la meta fanese sarà stata catalizzante per Simone, che comincia ad essere richiesto ed è già un pittore noto e apprezzato, come dice testualmente il documento del 1630, relativo alla copia commissionatagli da Guidobaldo Guiducci per il proprio altare nella chiesa pesarese di Santa Maria delle Grazie dei padri serviti14: mutato in quello di san Giuseppe [il titolo dell’altare dei Guiducci, che prima era dedicato a san Girolamo], in occasione che Simone Cantarino pittore di molto grido ne fece il quadro. Non per niente, una copia tale, che viene anteposta all’originale 15. Si trattava di una copia per la quale doveva per forza essersi recato a Fano, in quanto il suo modello era il Transito di san Giuseppe del Cavalier D’Arpino, in San Paterniano16. E certamente, lo spunto di quella committenza, così lontano dagli interessi del pittore, sarà stata una straordinaria occasione per vedere o rivedere i dipinti di

Caravaggio, Madonna di Loreto, Roma, Sant’Agostinpo

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Bonone nella stessa chiesa e poi correre ad ammirare le pale di Guido Reni. Di quelle opere e di quel grande maestro, doveva conoscere già molto, se non altro per le frequentazioni, tramandate dalle fonti, di collezioni pesaresi, dove copiava opere importanti, guarda caso in prevalenza di bolognesi. In particolare, secondo Domenico Bonamini, presso la nobile famiglia Mosca, dalle cui poderose collezioni ricavò copie da Reni, da Domenichino, da Tiziano, da Guercino: copie ch’ivi si ammirano oltre i loro originali17. Copiava un Angelo custode del Reni, forse almeno una versione di un prototipo a cui senza dubbio dovettero far riferimento anche altri allievi, come Francesco Gessi che lo eseguì nella tela della chiesa di Santa Maria Assunta a Castelfranco Emilia18. Di Domenichino si cita una Santa Catterina, il San Sebastiano di Tiziano e la Decollazione di san Giovanni Battista del Guercino19. Opere di Guido Reni poteva altresì aver visto nelle collezioni ducali, per qualche via di rapporti che poi si consolideranno grazie a determinanti protettori e committenti quali gli Albani ma che già sullo scorcio del terzo decennio dovevano essersi attivate grazie ai rapporti col Ridolfi, pittore ducale poi transitato ai Barberini, che dovette contribuire in qualche modo ad affidare al giovane artista il Ritratto di Antonio

Simone Cantarini, Studio per Madonna col bambino e due oranti, Milano, Brera

Giovan Francesco Guerrieri, San Carlo Borromeo accoglie i nobili Petrucci in abiti da mendicanti, Fano, Pinacoteca Civica


Barberini junior, anche lui giovane cardinale, legato papale a Urbino dal 1631 ma passato documentatamente da Pesaro per una prima uscita urbinate, già nel 162920, estremi fra i quali dovrebbe datarsene il ritratto. Forse anche grazie ai buoni rapporti, almeno apparenti, con Antonio Barberini, la cui sensibilità artistica è già ben indirizzata verso il classicismo bolognese, come in un certo senso dimostra anche il felice incontro tra il giovane legato papale, e il giovane pittore Simone Cantarini, un canale di opere di quell’area e in particolare del Reni, giungeva in questi momenti presso gli esanimi Della Rovere. Livia della Rovere, vedova dell’ultimo Duca, scrive a Guido Reni, a Bologna, per ringraziarlo delle Pitture sagre uscite dalle virtuosissime mani di V.S. e da Lei cortesemente inviatemi, le quali riverirò non meno come oggetti della mia devozione, che come miracoli del suo valore 21. L’occhio di Simone doveva dunque essere già stato catturato dai nobili accenti reniani e l’innamoramento, specialmente per l’Annunciazione vista in San Pietro in Valle a Fano, doveva già essere un forte legame, poi confermato perfino nell’edizione a stampa del Malvasia22. …la Nunziata in Fano, ...la più bella tavola del mondo23. Una vera e propria dichiarazione d’amore. Con una precisazione importante, che rende ancor più vivido il racconto: …la Nunziata in Fano, sopra la quale io sentì dirgli, ch’era la più bella tavola del mondo. L’aveva dunque sentito lui stesso, con le proprie orecchie, dalla viva voce del Pesarese. Magari una delle volte in cui poteva averlo incontrato a Bologna, oppure quando venne a Pesaro e si trattenne diverso tempo con Cantarini, sia nel suo studio, che in giro per la città24. Per esempio in San Francesco, dove, nel silenzio profumato d’incenso e al fioco chiarore delle candele, il pittore si affanna a spiegargli tutte le bellezze della Beata Michelina di Federico Barocci, cui affianca la pala fanese del Reni, la più bella di tutte. Questo punto torna con la stessa enfasi e le stesse considerazioni, sia nelle carte inedite che nell’edizione della Felsina Pittrice, anche se qui, più sintetiche. Federico Barocci sta al fianco di Guido Reni, per la profondità dell’influsso, del ricordo, dell’emozione, che suscitava nel pittore, che gli si testimonia debitore specialmente per la tecnica, raffinatissima e insuperata, di rendere gli effetti più naturali. La Beata Michelina di Barocci e la Annunciazione di Reni in San Pietro in Valle a Fano, sono il terreno di un’adesione tutta emozionale, appassionata: quadri del cuore. E se il magistero del grande pittore urbinate risulta

effettivamente più un grande modello tematico, affettivo e poi un vero e proprio lascito determinante sul piano della tecnica, quello che proviene da Reni sarà svolta stilistica, emulazione costante, riconoscimento di sé. La Annunciazione del Reni diventerà una delle sue opere guida, sempre ricordata, più volte copiata, disegnata, immaginata, variata. Un tema sul quale conosciamo diversi studi grafici, tali da far pensare senz’altro a più di una redazione pittorica25. Ma è forse un disegno della Biblioteca Nacional di Rio de Janeiro, che mostra una più puntuale, se pur personale attenzione per il modello fanese26. D’altra parte, osservando quella che si può azzardare di pensare come la sua opera di esordio, o comunque, tra le primissime prove della sua carriera, la Beata Rita della chiesa di Sant’Agostino a Pesaro, probabilmente eseguita entro il 162927, va ulteriormente rilevata, accanto alla chiarissima matrice veneta e ridolfiana e alla evocazione del modello proprio della fremente, terrosa, Beata Michelina, un precoce interesse per un fare nuovo, una nuova calibratura nel rapporto della luce e dell’ombra, con una furtiva citazione che proviene dall’Annunciazione di Fano, di quell’angioletto proteso dall’alto, come sputato fuori dalle nuvole, con le mani incrociate, meno teatrale di Reni, che lo isola nello squarcio d’oro che si apre in cielo, rimbalzando sul giallo del manto dell’arcangelo, con eleganza minimalista. Non sarà un caso che quando Luigi Lanzi commenta di getto nei suoi appunti del Viaggio del 1783 questo quadro, lo colpisca proprio quell’angioletto, nel contesto di un’opera un po’ compromessa, per il resto, da interventi successivi: A S. Agostino la Beata Rita, quadro ritocco; rimane nel suo essere un Angelo della gloria bellissimo 28. La Beata Rita della chiesa di Sant’Agostino a Pesaro ci introduce, altresì, anche nell’ambito di un contesto di committenza di notevole importanza e continuità nella vita e nella carriera del pittore, con una sezione significativa che riguarda proprio la città di Fano. Si tratta del rapporto con l’ordine degli Agostiniani che, come si vede, ebbe origine fin dagli esordi del pittore e non si interruppe mai, riproponendosi, nel tempo, con altre commissioni importanti, in particolare in rapporto con la terra d’origine e le aree vicine29. Come per la pala con la Madonna col bambino in gloria che porge la cintura dell’ordine ai ss. Agostino e Monica, realizzata per il convento di Brettino30, non lontano da Fano - si veda più avanti -. Un dipinto senz’altro precedente al primo trasferimento a Bologna, verso la metà del quarto decennio ed anzi, con tutta pro39


babilità da identificare con la gran tavola in picciola chiesa 31, eseguita sull’onda dell’impatto della Madonna col bambino sulle nubi coi ss Tommaso e Girolamo, oggi alla Pinacoteca Vaticana ma eseguita per la cappella Olivieri nel Duomo di Pesaro, cui, in particolare nel gruppo celeste, la pala di Cantarini si ispira in maniera palese. Anche la bellissima pala con l’Immacolata e i santi Giovanni Evangelista, Nicola da Tolentino ed Eufemia, commissionata dalla nobile famiglia dei Gavardini, originaria del bresciano ma residente a Pesaro, dovette avere una destinazione originaria agostiniana, purtroppo ignota, data la presenza di due rappresentanti così significativi di quell’ordine, quali Nicola da Tolentino ed Eufemia32. Più tardi, senz’altro dopo il 1638, e forse di qualche anno, come ha stabilito un documento per la dotazione dell’altare e come connota inequivocabilmente lo stile maturo del dipinto, Cantarini dipinse per gli agostiniani di Fano, la Vergine con il bambino che appare a san Tommaso da Villanova - si veda più avanti - che si trovava in origine sull’altare dedicato appunto alla Vergine e a

quel santo, nella cappella Corbelli dell’antica chiesa di Santa Lucia a Fano, strettamente collegata al convento agostiniano di Brettino, cui venne concessa nel 126533. Il rapporto con l’ordine dovette principiare nel nucleo delle sue relazioni familiari e dei contatti con ‘vicini di casa’: alcune delle più importanti e influenti famiglie della città, tutte variamente connesse col destino del pittore. Avevano i loro altari nella chiesa di Sant’Agostino, dove più tardi sarà segnalata anche la sepoltura di famiglia, del padre di Cantarini, Girolamo e poi del fratello Vincenzo34. La chiesa è situata di fronte alla casa dove il pittore nacque e trascorse infanzia e adolescenza, come ricorda una targa sopra la porta d’ingresso. La sua parrocchia, San Cassiano, dove tuttora sono conservati i registri dai quali sono emersi i principali atti di nascita e morte del pittore e dei suoi congiunti e per la quale dipinse la già menzionata pala oggi a Brera, con Madonna col bambino e i ss. Barbara e Terenzio, non era lontana: scendendo dalla Piazza del Popolo lungo il corso di Pesaro, si incontra a sini-

Guido Reni, Annunciazione, Fano, Pinacoteca Civica

Simone Cantarini, Studio per Annunciazione, Rio de Janeiro, Biblioteca Nacional

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Guido Reni, Annunciazione, Fano, Pinacoteca Civica, particolare

Simone Cantarini, Beata Rita, Pesaro, Sant’Agostino

stra, sullo stesso lato della casa del pittore, poco più avanti. Tra casa Cantarini e San Cassiano si ergeva l’imponente facciata del Palazzo dei Bonamini, tra i primi mecenati del geniale concittadino. Sappiamo, in aggiunta, che uno dei fratelli di Simone, il più giovane, Giovanni Antonio, nato nel 1621, diventerà un frate agostiniano35. Mi ha intrigato immaginare proprio questo fratello, in un bellissimo

disegno di Simone, che traccia con intensa partecipazione l’effigie di un giovane frate36, poco più che adolescente. Sarà poi lui ad assisterlo fino alla morte, che avvenne proprio nel convento agostiniano di Sant’Eufemia a Verona, dove risiedeva e dove accolse il pittore già malato, reduce dallo sfortunato periodo presso il duca di Mantova37. L’intraprendenza e le doti del giovane pittore, il suo linguaggio così variegato e al tempo stesso ben indirizzato verso quelle novità del classicismo bolognese che tanto piacquero nella città di Fano, potevano da sole essere sufficiente viatico al suo successo. Sappiamo infatti che furono le prime prove di impianto reniano a garantirgli i primi impegni fanesi38. Un successo che continua e si assesta, scalandosi dalla pala di Brettino, a quella per i Corbelli, al capolavoro per i Marcolini in San Pietro in Valle39. Simone si fece apprezzare in patria, guadagnandosi la nomea di secondo Guido40, senza dover attendere, come vorrebbe l’aneddotica del Malvasia, almeno la metà del quarto decennio per la scoperta folgorante della pittura del Reni41. I rapporti con Fano come con Pesaro non dovettero mai venire meno. Cantarini non interruppe mai la sua operatività per la terra d’origine, neppure negli anni al culmine del successo, quando gestiva una fiorente bottega bolognese, dopo il 1642, era organizzato in modo da gestirne una, altrettanto vivace, a Pesaro, alimentando le richieste del collezionismo locale42. Quanto poi, in questo percorso, dovettero pesare i rapporti e le conoscenze del pittore e della famiglia, non è dato valutarlo in maniera netta ma si tratta comunque di relazioni che inanellano occasioni e opportunità significative. Ciò vale per gli Agostiniani e poi per i Filippini, prima a Fano e poi a Pesaro. Le sue aspirazioni imprenditoriali, per quanto piuttosto frustrate nel corso di tutta la carriera43, possono avere avuto un ruolo, nel cercare di favorire le commissioni, di sfruttare le conoscenze, di attivare una rete di agenti, quali il padre e il fratello Vincenzo, che garantissero continuità e consistenza degli impegni44. L’isolata presenza a Pesaro di opere del Guercino, documentata oggi nel bel frammento con Santa Lucia, solo superstite della pala con Madonna col bambino e i santi Lucia, Francesco, Giovanni Evangelista e Giovanni Battista eseguita per l’altare della famiglia di Giovanni Mosca, nella chiesa di San Giovanni Battista45 in qualche rapporto con la morte, nel 1648, di Simone Cantarini46. Una specie di campo lasciato libero. Un’ interpretazione che certo solletica il nostro immaginario postromantico, stimolato dagli 41


Guido Reni, Madonna in gloria coi santi Girolamo e Tommaso, Pinacoteca Vaticana, part.

Simone Cantarini, Madonna della Cintura, Fano, Pinacoteca Civica, part.

aneddoti malvasiani che riguardano il Pesarese e Guercino; se il primo era arrivato a dire che ‘i suoi menchioni’ avrebbero dipinto meglio del Guercino47. D’altra parte, neppure Guido Reni ebbe più alcun rapporto con Pesaro dopo l’eclatante collocazione della pala con la Madonna in gloria col bambino e i ss. Tommaso e Girolamo, che, tra l’altro, non dovette giungere sull’altare Olivieri in Duomo troppo tempo dopo la pala di Guercino, del 1631, fornendo al giovane Simone le definitive motivazioni formative e aprendogli la strada per Bologna.

famiglie estintesi a Fano ma delle quali sopravvivevano altrove discendenti: In Pesaro lasciai Girolamo Cantarini, fratello di Antonio, morto consigliere, marito della vedova Camilla Nolfi della Posterna 50. Il dato colpisce il Billi, che trovando i riscontri del ruolo di consigliere di Antonio, si chiede se quel Girolamo non potesse essere lo stesso del documento di battesimo del nostro pittore, vale a dire suo padre. Concludendo che la nascita nobile del pittore farebbe meglio comprendere l’aneddoto del Malvasia sul padre recalcitrante di fronte alla scelta del figlio di intraprendere la carriera di artista51. Ma tale coincidenza, alla luce di una panoramica più ampia dei documenti è insostenibile, in quanto l’archivio di San Cassiano rivela in maniera inequivocabile che si tratta di due Girolamo Cantarini. Il padre di Simone è sposato con la madre, Girolama Mattioli, mentre il Girolamo fanese lo ritroviamo unito in matrimonio con la concittadina Maddalena Costoletti con atto del 1601 presso la parrocchia di San Cassiano52, dove sono descritti, da Fano abitanti in questa città e parrocchia e dove li ritroviamo residenti almeno fino al 1643, quando risulta l’atto di morte di Maddalena. Indipendentemente dalla coincidenza dei due Girolamo e tenuto conto della densità di abitanti della Pesaro di allora e particolarmente dell’ambito parrocchiale, si tratta perlomeno di una singolare coincidenza, che non può escludere una qualche parentela tra i due. Tra l’altro, l’attività di mercanti dei Cantarini di Pesaro, che doveva avergli garantito un certo benessere, poteva essere stato uno stimolo per il rappresentante omonimo del ramo nobile fanese, per decidere di stabilirsi in quei pressi, proprio per esercitare la mercatura. Per quanto riguarda la famiglia Cantarini di Fano, le principali notizie si ricavano, come spesso avviene in

Indizi per una utile parentela: i Cantarini di Fano. Il tema della famiglia del pittore, con la sua rete attiva e protettiva, si propone pertanto quale elemento di suggestioni anche per le commissioni fanesi, in particolare nel caso della pala eseguita per l’altare dei Marcolini in San Pietro in Valle. Una pista intrigante, già intravista nel 1866 dal canonico Alessandro Billi, nel suo opuscolo Brettino e Simone Cantarini 48 e che in effetti, alla luce di alcune notizie documentarie, da me scoperte e messe a fuoco in relazione al tema49, desta più di un sospetto su affinità parentali anche lontane fra i Cantarini di Pesaro e il ramo nobile fanese dello stesso cognome. Qualche sospetto nella stessa direzione proveniva dalla circostanza del trasferimento a Pesaro di un altro membro di quella famiglia, omonimo del padre del pittore e talora confuso con lui, ma senz’altro da distinguere, come provano i confronti fra gli atti che li riguardano nell’archivio di San Cassiano. Sul trasferimento a Pesaro di Girolamo Cantarini ci dà conferma il seicentesco manoscritto Borgarucci sulla nobiltà della città di Fano, quando parla di nobili 42


casi analoghi, dai manoscritti del citato Bernardino Borgarucci, di Ludovico Bertozzi e del conte Piercarlo Borgogelli Ottaviani53. Per quanto riguarda il nostro interesse specifico, non tanto sugli effettivi rapporti di parentela e suoi gradi ma su una sintomatica rete di contatti del pittore tra Pesaro e Fano, è l’intreccio di notizie proveniente da questi testi e da altri documenti, che già da tempo ho reperito o analizzato sotto nuova luce, a fornire indicazioni precise. Mi ero accorta, per esempio, che Antonio Cantarini era sposato con Camilla, vedova di Niccolò Nolfi, un legame indicativo di rapporti con famiglie determinanti per gli indirizzi artistici della città - basti pensare anche solo all’impiego del Domenichino per gli affreschi della cappella di famiglia in Duomo -. Ancor più interessante, il fatto che il nobile Camillo Cantarini di Fano era sposato con Francesca Marcolini, figlia del Balì Paolo e cugina di Francesco Maria, committente del Reni con la Consegna delle chiavi a san Pietro e poi del Cantarini, con San Pietro che risana lo storpio, per un laterale dell’altare maggiore della chiesa di San Pietro in Valle a Fano. Inizialmente, peraltro, con tutta probabilità anche l’altro laterale doveva essere stato commissionato al pittore, come unico e perfetto sostituto del grande Guido Reni54. Da non sottovalutare, poi, la notizia preziosa che ricavo oggi da una rilettura del suo testamento55. Camillo Cantarini nomina più volte nel testamento il canonico Corbelli, della nobile famiglia committente di Cantarini per la pala del San Tommaso da Villanova che appare la Vergine, oggi alla Pinacoteca Civica, definendolo, parente amorevole. Ma se, nonostante tutto, questi documenti dovessero essere ancora giudicati semplici spie indiziarie, ben più intrinseca al nostro tema ed illuminante in maniera esplicita è un’altra notizia, proveniente dalle genealogie nobiliari dei Cantarini di Fano, che va a confrontarsi con un documento diretto della famiglia Cantarini di Pesaro. Si dà il caso che Francesca Cantarini della nobile famiglia di Fano, figlia di Pompeo, era consorte di quell’Annibale Albani Tomasi56, che troviamo testimone al contratto dotale della sorella di Cantarini, Eleonora, nel 163957, in una posizione che indica grande famigliarità, di solito riservata a congiunti. Un documento prezioso dei rapporti con la famiglia Albani, che ho poi sviluppato nel senso di una intimità che può essere stato veicolo e garanzia dei rapporti del pittore coi Della Rovere e con Antonio Barberini, è un capolavoro della ritrattistica cantariniana, il Ritratto di Eleonora Albani Tomasi, madre di Annibale e suocera di Francesca Cantarini, con-

servato nella quadreria della Banca dell’Adriatico a Pesaro ma direttamente proveniente dalla grande famiglia di origine urbinate58. Solo qualche dato per quella che rimane un’ipotesi, che comunque nulla toglie alle ragioni tutte interne alla poetica della pittura di Cantarini e alle sue altissime qualità, che gli garantirono l’apprezzamento dei committenti, anche sul versante fanese: i frati agostiniani, per la pala in origine al convento di Brettino, forse mediatori anche per la commissione della pala con la Vergine che appare a san Tommaso da Villanova, richiesta dai nobili Corbelli per il loro altare in Santa Lucia degli agostiniani, e, al centro di tutto, il Miracolo di san Pietro che risana lo storpio, che nasceva dal progetto originario di Francesco Marcolini, poi condotto a termine da quella figura di spicco nella vita cittadina, collante di motivazioni diverse, che seppe essere il padre oratoriano Girolamo Gabrielli, con la sua precisa vocazione bolognese e reniana: gusto e devozione che si compongono senza sforzo nel profilo di Simone Cantarini.

Francesco Borgogelli, Stemma della famiglia Cantarini, Mss. Borgogelli, Fano, Biblioteca Federiciana 43



Simone Cantarini Madonna in gloria coi santi Agostino e Monica, detta Madonna della Cintura olio su tela; 298 x 177 cm Fano, Pinacoteca civica

Un vero peccato che non sia più possibile ammirare, oggi, gli affreschi che il conte Leone Giacomini aveva fatto dipingere da Giovanni Pierpaoli, sulla volta della elegante sala nel suo casino di Brettino. Una grave perdita, per la storia dell’arte e del costume, per la storia della fortuna di Simone Cantarini. Per fortuna, ce ne lascia una breve descrizione il canonico Alessandro Billi, nell’opuscolo che donò al conte per le sue nozze con la contessina Carlotta Rinalducci, dove ripercorreva le vicende dell’eremo agostiniano di Brettino, con al centro l’episodio che più ne caratterizzò la storia: l’esecuzione, da parte di Simone Cantarini, della pala in esame. Forte doveva la consapevolezza del valore di questo dipinto, dell’importanza di quell’episodio per la storia artistica della città, se proprio questo era il soggetto degli affreschi commissionati a Pierpaoli: …di che voleste perennare la memoria di Brettino e del Cantarini col far dipingere sulla volta della nuova elegante sala il momento, nel quale Simone abbozza il suo celebre quadro di S. Monica presso i religiosi eremitani di quell’antico cenobio…59. Più avanti, nello stesso opuscolo, Billi concede notevole spazio a considerazioni sull’attività di Cantarini a Fano, ponendosi per primo il dubbio se si potesse rintracciare qualche prova di una sua parentela con la nobile famiglia dei Cantarini60, fatto che avrebbe ancor più ammantato di fatalità l’omaggio al pittore da parte del conte Giacomini, proprietario del casino di Brettino e di un palazzo in città, presso la chiesa di Sant’Antonio, che era lo stesso abitato da quella antica famiglia61. Il racconto romanzato, eppur così avvincente continua quando Billi immagina - e sembra uno di quei quadri del Romanticismo italiano, del tipo Raffaello mentre dipinge la Fornarina - che i buoni frati agostiniani accogliessero nell’eremo il pittore in fuga da Fano per le sue intemperanze amorose, che per poco non gli

costarono la pelle, a causa di una archibugiata e così, al riparo dalle ‘passioni’ e dai conseguenti pericoli, Cantarini dipingeva nell’atmosfera ispirata dell’eremo, per gratitudine della ricevuta ospitalità e per isfuggire l’ozio e la noia in quella solinga villa. Con maggior enfasi e particolari, Billi ripropone gli estremi del racconto del biografo ufficiale di Cantarini, Carlo Cesare Malvasia62. Seguendolo, Billi avvolge nel romanzo anche la successione delle opere fanesi, in quanto l’unica che trova menzionata, anche nel Lanzi63, è il celebre Miracolo di san Pietro che risana lo storpio di San Pietro in Valle e dunque immagina che dopo averla eseguita, presumibilmente a ridosso della pala con San Tommaso da Villanova 64, il pittore sia dovuto in fretta in fretta fuggire a Brettino, dove avrebbe eseguito la pala in esame, opera di cui non si fa menzione, secondo Billi, perché legata a queste indecorose vicende. ‘E chiaro che, invece, si tratta di un dipinto meno noto stante la sua stessa collocazione, appunto, ‘eremitica’65. Anche per la situazione di degrado dell’eremo, più tardi, la pala è stata una delle prime opere ad entrare a far parte della Pinacoteca fanese66, direttamente dalla sede originaria, la Chiesa-Convento di San Biagio in Brettino, appunto, eremo degli agostiniani, fondato nel secolo XII e progressivamente abbandonato con l’istituzione a Fano (1265) di una chiesa parrocchiale dell’ordine, Santa Lucia ma attivo almeno fino al 1651, quando vi rimase solo un vicario per le necessità religiose del luogo67. Il dipinto viene anche minuziosamente descritto da Billi, in tutti i suoi particolari e protagonisti, con quella metodologia pre-fotografica, talora da rimpiangere per il suo valore mnemonico, fatto salvo l’impianto retorico. L’ osservazione del soggetto e delle caratteristiche di stile sono infatti particolareggiate, mentre oggi troppo spesso le immagini si

La pala coi santi Agostino e Monica che ricevono la cintura, simbolo della regola agostiniana, si trovava nell’eremo di Brettino, fondato dai frati nel XII secolo e attivo fino al 1651 circa. Rappresenta una delle prime prove di confronto diretto con Guido Reni, attraverso il modello della sua pala collocata nei primissimi anni del quarto decennio del secolo presso la cappella della famiglia Olivieri nel Duomo di Pesaro (Roma, Pinacoteca Vaticana). Si tratta, inoltre, di una delle molteplici committenze per l’ordine agostiniano, di cui sarà membro un fratello del pittore, il più giovane, Giovanni Antonio. 45


dimenticano, forti come si è della certezza del documento fotografico68. La pala rappresenta la Vergine col bambino in gloria, mentre porge la cintura a Santa Monica, madre di Sant’ Agostino che la affianca nel quadro. L’ episodio si riferisce alla conversione del santo, che giunse anche per i grandi sforzi compiuti in tale direzione dalla madre, che riceve insieme a lui la cintola, attributo dell’ istituzione dell’ordine agostiniano. Il culto era molto diffuso nelle Marche, sede dell’ influente santuario di San Nicola di Tolentino. L’opera non è citata da Malvasia che parla piuttosto genericamente dell’attività per Fano del pittore, incentrandola sul capolavoro di San Pietro in Valle. Ma il documento figurativo parla da solo, richiamando esplicitamente il suo modello nella famosa pala che Guido Reni aveva inviato a Pesaro, in Duomo, su commissione della famiglia Olivieri. Quella certa tavola accolta con entusiasmo a Pesaro di cui non si può dire quanto restasse sovrafatto, esemplare grandioso della nuova delicatezza e nobiltà di maniera, del moderno classicismo del Reni, era senza dubbio la Madonna col bambino in gloria fra i santi Girolamo

e Tommaso oggi alla Pinacoteca Vaticana, che sarebbe stata, secondo il racconto di Malvasia, come un fulmine per la svolta stilistica di Cantarini69. Ecco perché sembra più che plausibile quanto ipotizzato dalla Colombi Ferretti70, di individuare nella pala di Brettino la grande tavola entro picciola chiesa che gli acquistò gran grido, eseguita, secondo Malvasia, proprio subito dopo l’impressione e l’esercizio con numerose copie71, su quel modello reniano. La stretta e diretta dipendenza della pala in esame da quella pesarese di Guido poggia su palesi confronti, nell’organizzazione compositiva, specialmente nel gruppo della Vergine col bambino in gloria, nella tipologia del gruppo celeste e nella pittura che si fa più distillata, eletta, se pur ancora dentro un forte accento naturalistico di marca ridolfiana e soprattutto palmesca. La provenienza da quel modello e l’aver osato, come dice il biografo, poco dopo, di riproporne le caratteristiche nella pala eseguita per la picciola chiesa, cioè Brettino, aiuta anche nella datazione. Infatti, nonostante la perdurante incertezza sulla cronologia della maravigliosa tavola di Reni72, mi sono ulteriormente convinta, leggendo e rileggen-

Simone Cantarini, Studi per Madonna della cintura e santi, Carpentras, Biblioteque Nationaux

Simone Cantarini, Studio per Madonna col bambino in gloria e due figura in basso, inv. 489r., Milano, Pinacoteca di Brera, Gabinetto disegni e stampe

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do Malvasia, che possa essere un dato di cronologia, il fatto che questi nomini la pala Olivieri per prima, nel succinto elenco di opere rappresentative della seconda maniera del Reni, seguita dal palione della peste, che é del 1631 (Bologna, Pinacoteca Nazionale) e dalla pala di san Giobbe, del 1637 ca. (Parigi, Notre Dame), giustificando dunque, anche una datazione in apertura del quarto decennio. Malvasia poi aggiunge che solo dopo questi successi Cantarini ardì recarsi a Fano a studiare gli altri due capolavori del Reni, Annunciazione - Fano, Pinacoteca Civica - e Consegna delle chiavi - Parigi, Louvre ed è affermazione intrinseca all’impostazione della Felsina, che vuole scandire la carriera di Cantarini sul suo adeguamento al Reni. Ma è ormai un dato di fatto e sul tema rimando al mio testo che precede le schede, quanto si debba valutare una mobilità del pittore ben più variata e frequente rispetto alle tappe scandite senza sfumature, dalla storiografia. In particolare, le note inedite dello stesso Malvasia73 confermano una frequentazione fanese ben più distribuita nel tempo, anche degli esordi. Sarà eventualmente valutabile, che senza dubbio la pala di Brettino e la sua buona accoglienza, fosse viatico

per altre commissioni, quale quella di San Pietro in Valle. Cantarini doveva altrimenti conoscere già da tempo anche le opere fanesi di Guido, giunte rispettivamente nel 1622 e 162674. E comunque si nota ancora una commistione significativa di fonti, che inserisce il dipinto tra quelli da pensare entro la prima metà del quarto decennio, un po’ dopo la pala coi santi Barbara e Terenzio - Aicurzio, parrocchiale, - non troppo dall’ Immacolata - Bologna, Pinacoteca Nazionale - rispetto alle quali mette in campo un ulteriore viraggio in senso classico 75. Il giovane frate agostiniano in secondo piano paga un indubbio tributo al modello del Miracolo della canna, dipinto dal Guerrieri per la Cappella di San Nicola da Tolentino, in Santa Maria a Sassoferrato, se pure in stesure di morbidezza ridolfiana. Nella stessa chiesa, il pittore di Fossombrone dipingeva anche una sua Madonna della Cintura e severo ricordo ne è qui la Santa Monica, che più del resto piaceva a Tomani Amiani, per il volto allibito da lunghi dolori. Esemplare di una ritrattistica resa sublime nel ritratto di Eleonora Albani Tomasi - Pesaro, Banca dell’Adriatico- preziosa traccia di quella romantica, nostalgica civiltà sivigliana del Guerrieri76, impre-

Simone Cantarini, Studio per Madonna col bambino e due santi,inv. 104 Milano, Pinaocteca di Brera, Gabinetto disegni e stampe

Simone Cantarini, Studio per Madonna del rosario, inv. 491r., Milano, Pinacoteca di Brera, Gabinetto disegni e stampe

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scindibile in numerose opere di Cantarini e non solo degli esordi. D’altra parte, se è vero che i rimandi luministici assumono valenze di calibrata scansione di stampo reniano77, è anche vero che ancora molto presente è la pratica su testi di cultura veneta, palmesca in particolare, specialmente nell’angioletto con la mitra ed è ancora sensibile la scuola del Ridolfi nella morbidezza delle stesure, specialmente nel fraticello e nel santo. La pala di Brettino denuncia nel soggetto e nella destinazione il suo stretto rapporto di committenza con l’ordine agostiniano, forse in maggior misura che per le altre opere esprimenti tale connessione -Beata Rita, Pesaro, sant’Agostino, Immacolata, Bologna, Pinacoteca Nazionale, San Tommaso da Villanova Fano, Pinacoteca civica. Viene naturale chiedersi quale ruolo abbia avuto quest’ordine nell’evoluzione della carriera del pittore, significativamente in rapporto fin dall’inizio -Beata Rita - ma non solo all’inizio -san Tommaso da Villanova- con quell’ambito di committenza . La notizia fornita dal Crespi78 nella Vita di Pasinelli, che Simone si fosse recato a Verona con suo fratello agostiniano è un dato di fatto per la biografia del pittore, che infatti venne sepolto nel monastero agostiniano veronese di Sant’Eufemia. Ma si dovette trattare di un rapporto non esclusivamente dipendente da questa coincidenza, visto che è stato possibile stabilire che il fratello agostiniano doveva essere il minore Giovanni Antonio, nato non nel 1617 ma il 24 maggio 162179, dunque forse troppo giovane per favorire il fratello pittore. Piuttosto non si deve dimenticare che Simone Cantarini abitava quasi dirimpetto alla chiesa di sant’Agostino a Pesaro, intrattenendo fin da giovanissimo stimolanti rapporti con importanti famiglie molto legate all’ordine. Nella chiesa, inoltre, la famiglia aveva la propria sepoltura80. Una copia molto rovinata del dipinto si trovava nella chiesa di Sant’Agostino a Fano, oggi collocata nei depositi della curia81. Lo studio comparato della grafica di Cantarini non consente di collegare direttamente all’opera disegni preparatori. Di recente un bel disegno - Carpentras, Biblioteque Nationaux - è stato avvicinato alla pala fanese82. Sono invenzioni e composizioni affini, in particolare, lo Studio per Madonna con il bambino in gloria e due figure in basso, inv. 489 r., a Brera, Gabinetto Disegni e Stampe o, sempre a Brera (inv. 104; 491 r.) Studio per una pala con la Madonna col bambino in gloria e due santi 83.

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Guido Reni, Madonna in gloria coi santi Girolamo e Tommaso, Pinacoteca Vaticana

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Simone Cantarini La Vergine col bambino appare a san Tommaso da Villanova Olio su tela; 240,7 x 155,5 cm Fano, Pinacoteca Civica

Parente amorevole. Così il nobile Camillo Cantarini definisce più volte, nel suo lungo testamento, il canonico Corbelli84. Il nuovo dato, rintracciato solo oggi in un documento peraltro già noto85 non va sottovalutato nell’intreccio di ipotesi su possibili rapporti di parentela tra i Cantarini di Fano e di Pesaro, viatico di commissioni e contatti per il nostro pittore nel contesto fanese. Il testatore non precisa il nome del canonico ma deve trattarsi senza dubbio di uno dei due fratelli, entrambi canonici della Cattedrale, Ignazio e Giuseppe che, insieme a un altro fratello, Francesco, importante presenza nel Consiglio cittadino, in ottemperanza al testamento di un altro fratello morto, Girolamo, si allogano l’altare, laterale destro del maggiore, sub nomine sancte Marie, nella chiesa agostiniana di Santa Lucia a Fano e sono committenti di Simone Cantarini per la pala in esame. La Vergine con il bambino che appare a san Tommaso da Villanova, oggi alla Pinacoteca Civica, si trovava in origine sull’altare dedicato appunto alla Vergine e a san Girolamo, in ricordo del fratello morto, nella cappella Corbelli dell’antico tempio concesso nel 1265 ai frati agostiniani di Brettino, quale convento e chiesa86. L’atto87 che ci riguarda si svolge tra i frati agostiniani e i fratelli della nobile e potente famiglia fanese Corbelli. Già nel Quattrocento loro antenati facevano costruire un ospedale e la chiesa di Santa Maria della Misericordia, ma è solo nel 1594 che vengono ammessi nel consiglio nobiliare cittadino, nella persona di Eusebio, padre dei committenti di Cantarini e a sua volta, a mio parere, indiziato principale per esserlo stato di Ludovico Carracci, per la pala con Vergine in gloria coi Santi Eusebio e Orso nel duomo di Fano, eseguita attorno al 161388. Significativo che la famiglia, già dai primi anni del

Seicento, aveva istituito una cappellania di Sant’Orso all’altare omonimo in Duomo, con obbligo soddisfatto e comprovato dai legati desunti dalle vacchette per le messe, come ho potuto rilevare da documenti presso l’Archivio Diocesano di Fano89. L’atto che qui interessa, sull’allogazione dell’altare in santa Lucia, è del 15 gennaio 163890. Si precisa che l’altare è simplicem absque instrumentum. I frati danno precise istruzioni ai signori Corbelli sulle decorazioni, che dovranno essere compiute entro i prossimi quattro anni. Il documento fanese pone un indiscutibile post quem al 1638, e bisogna considerare che il programma decorativo era tutto da cominciare, ipotizzando almeno un intervallo di qualche tempo fra l’acquisizione dell’altare e la messa in opera delle decorazioni, tra le quali va compresa la pala d’altare. Non mi spiegavo la scelta del santo rappresentato, per quanto si tratti di un santo agostiniano, dunque compatibile con l’ordine di reggenza della chiesa. Ma é assai raro e mai senza una spiegazione che non ci sia un rapporto dei santi rappresentati con la famiglia. Dall’atto non traspariva nulla. Le mie ricerche in altre direzioni, specialmente attraverso i testamenti citati dal manoscritto Bertozzi91 sulle famiglie nobili fanesi, hanno portato alla luce un altro fratello, battezzato col nome di Giacinto ma frate nell’ordine dei predicatori col nome di Tommaso Maria. Non compare nell’atto perché renuntiavit, aveva cioè fatto professione di rinuncia ai beni terreni, ad favorem del padre e dei fratelli, dunque in perfetta sintonia col simbolismo del santo caritatevole, quale è simbolicamente Tommaso da Villanova, nella cui effigie padre Giacinto alias Tommaso, compare. San Tommaso da Villanova (1488-1555) agostiniano arcivescovo di Valenza, solitamente è raffigurato in atto di fare l’elemosina sulla soglia della catte-

La pala venne commissionata a Cantarini dai fratelli Corbelli per il loro altare nella chiesa-convento di Santa Lucia dei frati agostiniani di Fano. L’atto di allogazione dell’altare istiutisce un post quem al 1638 per l’esecuzione del dipinto. Il soggetto, dedicato a un santo dell’ordine, celebrava anche un membro della famiglia, frate col nome di Tommaso Maria. Disegni preparatori e il particolare trattamento dello sfondo con architetture e scorci di città, collegano questa fase inventiva con quella di altre opere come il San Pietro che risana lo storpio (Fano, Pinacoteca Civica) e le due versioni del Sogno di san Giuseppe (Camerino, Duomo, Roma, Cassa depositi e prestiti). 51


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Simone Cantarini, Studio per un san Tommaso da Villanova che fa elemosina, Londra, British Museum

Simone Cantarini, Studio Madonna col bambino che appare a un santo vescovo, Milano, Pinacoteca di Brera, Gabinetto disegni e stampe

Simone Cantarini, Studio per la Vergine che appare a san Tommaso da Villanova, Londra, British Museum

Simone Cantarini, Studio per La Vergine che appare a san Tommaso da Villanova, Chatsworth, Devonshire Collection


drale, che qui si intravede sullo sfondo a destra della scena, mentre al basso del quadro due fanciulletti di vezzose forme con scherzevole alterco si contendono una borsa colma di denaro, ad avvisare il generale ministero di carità esercitato dal Santo 92. La versione preferita nella tela Corbelli è più insolita ma ne comprendiamo bene l’iconografia con l’apparizione della Vergine, motivata dalla dedica dell’altare alla Madonna e ricordata anche nel nome di fra’ Tommaso Maria. Si tratta, altresì, di un altro tassello nella cospicua rete di committenze legate in modi diversi all’ordine degli Agostiniani - Beata Rita, Pesaro, Sant’Agostino; pala proveniente dal convento di Brettino, oggi alla Pinacoteca Civica di Fano; Immacolata e santi della Pinacoteca di Bologna-tema sul quale si rinvia per più ampie considerazioni al testo introduttivo alle schede e a quanto ribadito per la pala di Brettino. La Vergine che appare a san Tommaso da Villanova, precedentemente ritenuta dalla critica coeva a quella di Brettino, dunque piuttosto precoce, entro la prima metà o comunque a negli anni a metà del quarto decennio93, ha ormai da tempo trovato posto, a partire dal documento Corbelli, tra le opere di un artista maturo, formato pienamente dal primo soggiorno

bolognese, negli anni 1636-’38 circa, presso Guido Reni. E accanto ai dati documentari va considerata la proverbiale lentezza esecutiva del pittore94. Una datazione almeno in apertura del quinto decennio per l’opera in esame non disdice i dati dello stile, con la bella invenzione narrativa dello sfondo in cui si decantano gli innegabili assunti reniani, anche nella figura della Vergine, con una salda padronanza dell’impianto luministico, prezioso ma verissimo, come si vede sul corpicino d’alabastro del putto in primo piano o sul volto assorto del santo e sul suo manto di velluto rosso, che fa pensare avvenuta una riflessione su testi dell’Orbetto. Osservando l’opera, appare davvero ingiusto, infatti, quanto rilevato da Luigi Lanzi nelle sue note inedite per la bella pala di Cantarini, che poi escluderà dalla trattazione finale della Storia pittorica: Cantarini Simon da Pesaro. In Fano agli Agostiniani S. Tommaso da Villanova a piè di Nostra Signora in veste di vescovo ma con tonaca di agostiniano sotto il piviale pittura che a prima vista non sorprende non vi essendo forme ricercate né composizione nuova: ha però bel colorito bella espressione disegno esatto 95. Elementi di confronto a favore di una cronologia in apertura del quinto decennio, vengono da con-

Simone Cantarini, Studio per figure femminili e bambini, Windsor, Royal Collections

Simone Cantarini, Studi per figure femminili e bambini, Allegoria della Carità, Milano, Pinacoteca di Brera, Gabinetto disegni e stampe 53


fronti stilistici con opere di quell’epoca, in particolare per la scelta ricorrente di aprire un varco laterale alla scena principale, con eleganti sfondi di architetture. Elementi coerenti di una prossimità inventiva. Lo stesso espediente narrativo si ritrova infatti nelle due versioni del Sogno di san Giuseppe (Camerino, Duomo; Roma, Cassa Depositi e Prestiti) e nel San Pietro che risana lo storpio. Confronto oggi messo particolarmente a fuoco dalla presente occasione espositiva. Varrà la pena ripensare, alla luce di queste considerazioni, quanto affermato nel prezioso opuscolo del Billi, che collega l’esecuzione del dipinto per San Pietro in Valle a quello in esame, che sarebbe stato compiuto immediatamente dopo, secondo l’opinione di alcuni sapienti uomini, con l’ulteriore precisazione che a parere di questi intendenti, Cantarini avrebbe lavorato al San Tommaso da Villanova subito prima di recarsi a Mantova96. Per questo tema esiste una piccola serie grafica di Cantarini97, da tenere presente ai fini di una sua datazione avanzata, con la presenza, in uno dei disegni, di una prova per l’Adorazione dei Magi 98 (Bologna, collezione Rolo Banca) invenzione della fase estrema della carriera. Ancora si ricordi lo studio sul recto di un disegno del British Museum di Londra, attribuito a Cantarini da Maria Cellini (inv.1946-7-13-786; sul verso studi di figure) e quello, proveniente dalla collezione di Filippo Acqua, con Elemosina di un santo vescovo sul recto e Studi di donne con bambini sul verso99. Strettamente connessi alla versione tematica del dipinto fanese sono i disegni a sanguigna di Chatsworth, Devonshire Collection, già segnalato in rapporto al dipinto fanese100 e quello di Londra, British Museum (inv. 1895 - 5 - 15 - 717). Si tratta di due prove molto complete, dove la composizione è quasi del tutto delineata nei suoi elementi. Fra i due, si pone in una fase precedente di ideazione quello londinese, dove Cantarini sta ancora provando diverse possibilità per l’altezza del braccio destro del santo. In relazione tematica anche lo Studio per la Vergine che appare a un santo vescovo di Brera inv. 1012101. Anche l’invenzione dello sfondo con architetture e alcune figure di donne e bambini è presente, ma appena accennata nei suoi elementi, che avranno poi ben più largo respiro. Disegni da riferire a studi per questa parte del quadro sono specialmente una sanguigna conservata a Windsor con donne e bambini al seno che conversano, in piedi e sedute102 e un foglio a penna con diversi schizzi della Pinacoteca di Brera103. Si tratta di studi grafici che apparentano decisamente l’evoluzione progettuale della pala Corbelli e quelli 54

della pala Marcolini, col Miracolo dello storpio dove torna, sulla destra, in primo piano, lo stesso modello di figura femminile con bambino. Il dipinto rimase sull’altare della chiesa di santa Lucia, distrutta nell’ultimo conflitto bellico, sicuramente fino al 1808104, mentre il Tomani Amiani105 lo registra nell’abitazione della famiglia Corbelli, ricordando che sull’altare era stato sostituito da una copia, dispersa dopo il 1921, come registrava Selvelli106. I Corbelli vendettero la tela con rescritto che ne vietava l’esportazione107. Nel 1855, alla morte dell’acquirente, il gesuita Don Giovanni Rayn, in ottemperanza al rescritto, il dipinto venne collocato nella chiesa fanese di sant’Ignazio convento dei gesuiti, eredi dei suoi beni. Qui lo registra una guida del 1863, quella di Fabi Francolini108 ma nel 1873 l’opera non è più in quella sede109 e la ritroviamo nel primissimo nucleo di dipinti della nascente Pinacoteca Civica110, come proveniente dalla chiesaconvento dei Cappuccini, santa Cristina.

Simone Cantarini, particolare dei dipinti (da sinistra, in senso orario): La Vergine col bambino appare a san Tommaso da Villanova, Fano, Pinacoteca Civica San Pietro risana lo storpio, Fano, Pinacoteca Civica Il sogno di san Giuseppe, Roma, Cassa Depositi e Prestiti Il sogno di san Giuseppe, Camerino, Duomo


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Simone Cantarini San Pietro risana lo storpio Olio su tela; 309 x 266,5 cm Fano, Pinacoteca Civica, in deposito dalla Chiesa di San Pietro in Valle

Passossene a Fano, per proseguire l’istesso avanzamento sulle due tanto rinomate tavole del Duomo, del Cristo dante le chiavi a San Pietro e della Nunziata dell’istesso Guido, e da lui mirabilmente ricavate; che però gli fecero strada, dopo un lungo tempo, all’ottenimento d’uno almeno de’ due quadri laterali al detto primo nella Cappella maggiore, ove rappresentando l’indemoniato liberato dal Principe degli Apostoli, osservando il modo, e il maneggio di que’ duoi [Cristo che dà le chiavi a san Pietro; Annunciazione di Guido Reni] così imitò quel carattere, che non fu sulle prime, e non vi è anche oggidì che passando per quella città, e osservando quest’opra, non le giudichi della stessa mano, che colorì il San Pietro e la Nunziata suddetta. Ei solo non ne restò interamente appagato…111. Così il racconto di Malvasia, sempre avvolto nella sintesi aneddotica ma indubbiamente con molti fondamenti di verità. Il fatto che il pittore si recasse a Fano per continuare la palestra sui testi di Guido Reni, dopo lo studio e l’esercizio sulla Pala Olivieri (Pinacoteca Vaticana) fa parte dello schema interpretativo che inserisce ogni avanzamento dentro i modelli del maestro bolognese. Si è ampiamente discusso sopra del fatto che Cantarini doveva avere una mobilità ben più elastica su Fano, anche grazie a contatti e rapporti personali e che le pale di Reni in San Pietro in Valle dovesse conoscerle già da tempo, facilmente prima che in Duomo a Pesaro giungesse la Pala di Reni oggi alla Vaticana, attorno al 1631-’32112. Indubitabile, invece, che si esercitasse con passione su quei testi di Fano e che a poco a poco si guadagnasse la stima dei committenti, anche per la sua personalissima adesione allo stile del maestro bolognese. Infine ottenne di eseguire almeno uno dei laterali alla Consegna delle chiavi di Reni, sull’altare maggiore della famiglia Marcolini in San Pietro in Valle. Il dipinto si trovava nella parete a destra, entrando, dell’altar maggiore della chiesa dei padri filippini a Fano, San Pietro in Valle. Fiancheggiava la celebre Consegna del-

le chiavi del Reni (Parigi, Louvre) e aveva di fronte il Miracolo della resurrezione di Tabita, eseguito da Matteo Loves tra 1634 e ‘35. Dietro quell’accenno di Malvasia, i risvolti complessi e ancora in parte oscuri di una commissione di grande importanza. Soprattutto quando dice che lo studio sulle opere fanesi del Reni gli fecero strada, dopo un lungo tempo, all’ottenimento d’uno almeno dei due laterali all’altar maggiore113. Da qui emergono due dati importanti: che passò molto tempo prima di giungere alla definizione della commissione e che il pittore dovette darsi da fare per riuscire ad eseguire uno almeno dei due dipinti in ballo. Che dovette trattarsi di una commissione protratta molto a lungo nel tempo lo conferma la storia stessa dei committenti, a partire dall’ideatore del progetto, Francesco Maria Marcolini senior (1599-1622). Il nobile Marcolini aveva sposato diciottenne, nel 1617, la cugina Caterina ed era morto a Pisa nel maggio 1622, dove quattro mesi dopo nasceva il figlio Francesco Maria junior114. Le scritte sotto le cornici115, che contenevano i dipinti del Loves e del Cantarini, in parte riportate nel manoscritto con la storia dell’oratorio fanese116, spiegano come la commissione, seguita successivamente da Caterina Marcolini, venne infine portata a compimento dal figlio, dunque non prima del 1640, quando questi avrebbe avuto appena diciotto anni. Il progetto della decorazione, perlomeno le indicazioni circa il soggetto del ciclo pittorico, dovevano essere stati già impostati dal primo Francesco Marcolini, se il dipinto del Reni per l’altare maggiore era già finito nel 1623117. L’imponente commissione fu indubbiamente concertata insieme al Padre Girolamo Gabrielli, fondatore e finanziatore della congregazione e della chiesa118. Non a caso ambedue si rivolgono al Reni. Dopo la morte del Marcolini i lavori dovettero subire

Laterale per l’altare maggiore della Cappella Marcolini in San Pietro in Valle a Fano, che conteneva Cristo consegna le chiavi a san Pietro, del Reni, il dipinto, uno dei capolavori assoluti di Simone Cantarini, è il terreno di un confronto artistico e forse ancor più esistenziale col maestro bolognese e mette in gioco, altresì, la poliedrica cultura figurativa di Cantarini, che affiora dal manto avvolgente della lezione reniana. 57


una battuta d’arresto, se il quadro di Guido venne collocato solo nel 1626119. Più che probabile che un peso non secondario nella scelta del giovane pittore pesarese, dovette esercitarlo il nucleo fanese della famiglia Cantarini, soprattutto se si considera che Camillo Cantarini, del ramo fanese, sposò in seconde nozze Francesca Marcolini, della nobile famiglia committente120. Sulle successive decisioni per i completamenti della decorazione, oltre al fatto che coinvolsero un tempo assai più lungo di quanto inizialmente previsto, le indicazioni di Malvasia indirizzano verso una potenziale doppia commissione, perlomeno auspicata, per l’esecuzione, da parte di Cantarini, di entrambi i laterali all’altare maggiore. Una prova tangibile di un coinvolgimento, almeno inizialmente, per entrambi i laterali dell’altare maggiore, sono i due disegni per la Resurrezione di Tabita, l’uno (inv. F.N. 125646; Roma Galleria Nazionale, Gabinetto Disegni e Stampe)121, l’altro (inv. D. 9881900; Londra, Victoria and Albert Museum) è stato interpretato come preparatorio per il San Pietro che risana lo storpio122 ma va senz’altro connesso123 alla tematica affrontata nell’esemplare romano, per il soggetto della Resurrezione di Tabita. Nella sanguigna

Guido Reni, Trionfo di san Giobbe, Parigi, Notre Dame

Simone Cantarini, Studio per san Pietro che risuscita Tabita, Roma Galleria Nazionale, Gabinetto Disegni e Stampe 58

londinese, infatti, accanto ad altri studi per una Sacra Famiglia con san Giovannino, Cantarini rappresenta san Pietro, di profilo e in piedi, col braccio alzato in atto di compiere il miracolo, con atteggiamento analogo a quello che effettivamente si ritrova nel dipinto con lo storpio. Nel disegno però si rivolge chiaramente a una donna, distesa in un letto; Tabita appunto, in quella che avrebbe potuto essere la scena della sua resurrezione, se fosse toccato al pittore pesarese dipingerla. In conclusione, è più che probabile che Cantarini avesse ricevuto in una prima fase l’incarico di dipingere tutti e due i laterali della pala sull’altar maggiore con la Consegna della chiavi di Guido Reni. Più difficile indagare le ragioni che infine gli consentirono di realizzare solo uno dei due dipinti. Indubbiamente, il carattere del pittore dovette avere un peso nella delicata questione. La fonte malvasiana, tra l’altro, ci informa che la lentezza, accompagnata da un carattere assai difficile e per nulla accomodante, doveva essere una caratteristica atavica di Cantarini, che gli alienò molti protet-


tori e collezionisti che, conquistati dalla sua pittura, venivano allontanati dalla sua lunghezza ed anche, ancora una volta, dalla sua arroganza124. Quando, infatti, racconta della sua situazione disperata dopo il litigio del 1637 col Reni, afferma che nessuno voleva avere a che fare con lui, a pericolo di lunghezze, e strapazzi125. Alcuni nuovi documenti, che ho rintracciato ultimamente presso l’Archivio di Stato di Pesaro, confermano le difficoltà che di frequente insorgevano nei rapporti coi clienti, con esempi di commissioni pesaresi, che vedono contestazioni di vario genere sulle opere richieste, in particolare per il fatto che non vengono consegnate e risultano irreperibili, nonostante il pittore avesse ricevuto le caparre126. Ancora una conferma, dunque, di quel temperamento orgoglioso e arrogante ma anche passionale, discontinuo, che fa scrivere a Malvasia alcune delle sue pagine più belle, in quel suo stile calibrato tra una

Guido Reni, La Circoncisione, Siena, San Martino

retorica enfatizzata, ricca di metafore e ridondante di aggettivazione e una mai tradita esigenza di chiarezza, di precisazione dei concetti e delle notizie127. Il dipinto fanese128 si presta meglio d’ogni altro a impostare il problema del rapporto di Cantarini col Reni, in quanto introduce i termini di un confronto immediato e inevitabile di cui Cantarini doveva essere perfettamente consapevole, quando ebbe e forse cercò con forza di ottenere un ruolo nell’impegnativa commissione. Una serie serrata di spunti da Reni, alcuni al limite del plagio, sono messi in campo da Cantarini. Il sistema di sontuosi sfondi architettonici, che si aprono con archi e balaustre sulla destra dell’opera viene senz’altro da opere quali la pala di san Giobbe di Notre Dame, a Parigi (1635) 129. Un’invenzione che piacque a Cantarini e che contrassegna, non solo il Miracolo, dove omaggia Pesaro dipingendo sullo sfondo l’arco della villa di Miralfiore, residenza suburbana dei Della Rovere e una veduta della chiesa di San Giovanni Battista130, ma anche altre opere (si vedano illustrazioni a p. 55), eseguite in apertura di quinto decennio, come il San Tommaso da Villanova della Pinacoteca Civica di Fano e le due versioni del Sogno di san Giuseppe, del Duomo di Camerino e della romana Cassa Depositi e Prestiti, nelle quali campeggia un angelo, protagonista di conturbante bellezza e di sintomatica somiglianza con il san Giovanni del nostro dipinto. Nel Miracolo, il confronto con Reni è ricercato, insistito, basti osservare la figura di vecchio sacerdote ammantata e confrontarla con quella nella Circoncisione di San Martino a Siena, del 1636131. I grandi sacerdoti tramano in disparte contro gli apostoli e Cantarini copia, in controparte, la figura del sacerdote ammantato d’azzurro. E trovo molto pertinente il giudizio di Lanzi, nelle note manoscritte assai più diffuso che nel testo a stampa, dove, accanto all’apprezzamento di un lavoro che non sfigura accanto a quello di Reni, nonostante troppo affondo negli scuri, specialmente nella figura principale, sottolinea uno sguardo a fattezze piene, tornite, che richiamano Domenichino -si veda in particolare la giovinetta dietro la donna seduta, con l’acconciatura e l’attitudine davvero domenichiniana: Ivi a’ Filippini un quadro laterale col miracolo dello storpio: San Pietro gli porge mano; San Giovanni è al di sopra in atto di orare, turba all’intorno, farisei e sacerdoti velati in vicinanza e un putto graziosissimo presso lo storpio. ‘E pittura che vicino al San Pietro di Guido non iscomparisce, meno delicata ma forse più viva e certamente di più effetto. La verità e varietà de’ volti è sorprendente. In questa pittura ha amato un colorito forte fattezze piene e che tirano alquan59


Giovan Francesco Guerrieri, Miracolo del cieco nato, Fano, Pinacoteca Civica

stre certezze rispetto a un viaggio romano di Cantarini, in apertura di quinto decennio, risiedono nell’attendibile affermazione di Malvasia e in convincenti confronti stilistici, ma, va detto, che siamo di fronte a un pittore di straordinaria capacità ricettiva, che si trovava a lavorare in una città, come Bologna, dove transitavano molti artisti, anche tra quelli che lo hanno più interessato. Si tratta di un pittore onnivoro, che faceva grande uso delle incisioni135, anche se questo non pare argomento sufficiente ad escludere un suo viaggio a Roma136. Colpisce sullo sfondo del quadro una citazione precisa di due importanti monumenti pesaresi, con cui il pittore apre la finzione sulla realtà, con uno squarcio sulla storia contemporanea e indirettamente sulla sua stessa vita. Attraverso l’arco aperto sulla destra del dipinto si vede137 in primo piano, il portale poggiante su quattro colonne della villa Miralfiore a Pesaro su cui spiccano, anche oggi, le tre mete simbolo del potere ducale dei Della Rovere. Ancora più indietro emerge la parte alta della chiesa pesarese di San Giovanni Battista, trasferita dalla sua sede topografica, l’attuale via Passeri, che non sarebbe visibile dietro Miralfiore, con un assemblaggio chiaramente simbolico. Doveva trattarsi in primo luogo di un affettuoso pensiero alla sua città, che d’altra parte deve avere un’ulteriore motivazione, inserito com’è in un’opera per un’altra città, nell’ambito di un preciso progetto di

to da Domenichino e ha fatto uso moderato di chiaroscuro, nel quale però ha troppo involta la figura principale se già non è effetto delle tinte alquanto scadute132. Al tempo stesso, la composizione si nutre di altre fonti, indubbiamente stimolate dalla meditazione sulle opere del Guerrieri, come il Miracolo del cieco nato, da cui la giovane madre col bambino sembra passare nel quadro di Cantarini, in una più composta attitudine133. Delle sinuose eleganze ‘femminili’ di Cantarini, si ricorderà, a Fano, proprio ripensando il San Tommaso da Villanova, Sebastiano Ceccarini, nel suo San Paterniano fa abbattere gli idoli, nella anticappella del santo patrono in San Paterniano. Guerrieri è alla base della curiosità caravaggesca di Cantarini e si può ipotizzare che in particolare le tele per la cappella Petrucci in San Pietro in Valle, entro la prima metà del quarto decennio, abbiano costituito l’avvio di una serie di meditazioni che hanno spinto alcune successive ricerche del pittore, come dimostrano almeno alcuni disegni134. Un documento importante, perché, ad oggi, le no-

Sebastiano Ceccarini, San Paterniano fa abbattere gli idoli, Fano, San Paterniano

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committenza. Per quanto riguarda Miralfiore, l’arco che lo simboleggia poteva contenere una serie di rimandi incrociati a partire dalla famiglia ducale, nella persona di Livia Della Rovere, per continuare con gli Albani-Tomasi che ne percepivano tradizionalmente le rendite, fino allo stesso cardinale Barberini, anche se quel bene resta dei Della Rovere, quindi dei Medici. Centrale dunque il riferimento alla famiglia ducale, forse con un occhio verso Firenze e la mediazione degli Albani, che infine diventeranno pieni proprietari della Villa138. Lo stemma dei Della Rovere torna peraltro quale simbolo di Pesaro in un’incisione con l’Allegoria del fiume Foglia e stemma di Pesaro, anch’essa databile tra le prime del pittore, comunque entro la fine del quarto decennio, ormai in pieno potere legatizio. Ma la presenza del tempio di San Giovanni, dove nella seconda metà del Settecento è ricordato anche un

San Giovanni della Marca di Simone, fa pensare a un omaggio esteso al who’s who pesarese del tempo. La chiesa, infatti, gioiello non finito di Girolamo Genga139, era diventata nel corso del quarto decennio del Seicento la più qualificante per possedervi un altare e il sepolcro di famiglia140, tanto da avere il maggior numero di presenze tra le più nobili casate della città. Fra gli altri spiccano i Mosca, come riferisce il Bonamini141 nella sua Cronaca, committenti qui, nel 1633, del Guercino per il loro altare dedicato a san Giovanni e ornato con stupendi marmi di Verona e tra i principali sostenitori del Cantarini, insieme alla famiglia Olivieri, come delinea ancora il Bonamini142, specialmente nel suo Abecedario degli architetti e pittori pesaresi, dal quale la presenza del pittore in patria non sembra subire prolungati periodi di interruzione, come del resto la sua perfetta integrazione nel tessuto collezionistico di alto rango.

Simone Cantarini, Studi per san Pietro che risana lo storpio, già mercato antiquario

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Girolamo Ferroni, da Simone Cantarini, San Pietro risana lo storpio, incisione, collezione privata

L’episodio trattato da Cantarini è tolto dagli Atti degli Apostoli (3,1-8) e riguarda la guarigione di uno storpio operata da san Pietro, assistito da san Giovanni. É per primo Malvasia a confondere sul soggetto del quadro, che descrive come l’indemoniato liberato dal Principe degli Apostoli portandosi dietro gran parte della tradizione storiografica impostata sul suo testo143. Andrea Emiliani datava l’opera attorno al 1639 per la vivida attenzione all’ esempio del maestro come un cartone raffaellesco e insieme i ripensamenti naturalistici, che collega alla coeva attività riminese di Guido Cagnacci e alla cultura marchigiana, in particolare del Guerrieri144. La critica successiva si è orientata su queste indicazioni cronologiche e di stile145. La Colombi Ferretti pensa che questa commissione fece decidere il pittore di recarsi a Bologna, viaggio intrapreso come studio propedeutico alla realizzazione di questa opera e che poi coinvolse un periodo della sua vita forse più lungo del previsto 146. Sull’importanza della lezione di verità di uno dei suoi maestri ideali, il Guerrieri, insiste Benati147, evidenziando l’uso naturalistico della luce. Disegni strettamente connessi a studi per la donna col bambino sono un foglio a penna con diversi schizzi di Brera (Milano, Pinacoteca, inv. 495)148 e soprat62

tutto una sanguigna conservata a Windsor (inv.5321; Royal Library)149, li si veda a p. 53, dove le donne coi bambini al seno in primo piano, e specialmente quella seduta riconducono al nostro modello. Le stesse poi tornano nel gruppo collocato in una strada cittadina con architetture di palazzi, che si intravede nel dipinto con La Vergine che appare a san Tommaso da Villanova, qui sopra discusso, cui si rimanda anche per questi confronti grafici. Tale sintonia va in favore di una datazione avanzata dell’opera in esame, elaborata nelle sue parti in prossimità dell’altra pala fanese, databile almeno in apertura del quinto decennio150. Elemento di contiguità inventiva con questa ideazione è anche lo sfondo che si apre di lato su architetture e vedute di città, come poi nei due Sogni di san Giuseppe. Il rapporto, in particolare con il San Tommaso da Villanova, di cui si può documentare l’esecuzione non prima della fine del quarto decennio e ancor meglio nei primi anni del quinto, consente di immaginare una data analoga anche per il dipinto in esame. Ed è forse in tal senso da riconsiderare la notizia ricavata dal libretto per nozze Giacomini-Rinalducci di Alessandro Billi151, secondo cui, mentre stava dando l’ultima mano alla tavola dello storpio... cominciava a dipingere un mediocre san Tommaso di Villanova, personalissima e contestabile opinione dell’autore, che comunque più avanti aggiunge che quest’ultima tela era ritenuta da alcuni sapienti uomini realizzata da Cantarini prima di recarsi a Mantova. Anche l’impianto naturalistico del dipinto denota una complessità nuova di riferimenti, che supera i termini di una riviviscenza connessa al ritorno in patria e alla rinnovata riflessione sul Guerrieri, per aprire la questione di una conoscenza diretta del Caravaggio, come già hanno indotto a credere152 le figure della vecchia e dello zoppetto. Davvero questa tela si può descrivere come il pantheon della qualità e della bellezza pittorica dell’intera regione metaurense a questi anni153, un complesso riassunto delle sue fonti culturali, dei suoi interessi pittorici, tra i quali, per esempio, anche l’elegante Michele Desubleo154, inseriti nel vibrante terreno del confronto-sfida col maestro bolognese e quasi giustapposti in una singolare orchestrazione compositiva, dove assume valore non secondario la bellezza di smalto appresa da Alessandro Turchi155. Eppure, non ultimo tra questi altissimi ed articolati modelli, va ricordato il capolavoro del suo primo maestro pesarese, quel Gian Giacomo Pandolfi che sullo scorcio del secondo decennio del Seicento decorava la splendida chiesa del Nome di Dio a Pesaro, con, tra le altre, una scena dove si vede un Miracolo dello storpio, di inusitata potenza, anche materica, memo-


Simone Cantarini, Studio per san Pietro, Milano, Pinacoteca di Brera. Gabinetto disegni e stampe

ria alla base dello svolgimento poi sempre più distillato del brillante allievo: assai diverso quel Pandolfi da certo manierismo esacerbato, quale si vede anche nelle tele eseguite proprio per San Pietro in Valle. Un Pandolfi quasi barocco, quale possiamo intravvedere nel corpus dei disegni. Per il dipinto in esame, il disegno preparatorio più completo ma in controparte e con varianti è una sanguigna conservata al Gabinetto Disegni e Stampe della Pinacoteca di Brera, a Milano (inv. 517)156, di cui è stata sottolineata l’impostazione che conserva urgente il dato immediato di realtà e propone il miracolo in chiave oltre misura naturale157, specialmente osservando san Pietro che afferra il braccio dello storpio. In relazione alla testa della vecchia e al fanciullo col bastone sono due disegni conservati agli Uffizi (inv. 20244F e 1658F; Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi; nel secondo, la figura in questione, pur denunciando palesi coincidenze con quella del nostro dipinto, è ugualmente leggibile come un pastore dentro il tema del disegno, che è

appunto un’Adorazione dei pastori). Lo studio diretto dei disegni di Cantarini alla Biblioteca Nazionale di Rio de Janeiro ha consentito di escludere (inv. A6)158 da questo progetto pittorico e dal catalogo grafico di Cantarini un disegno a penna che vi sembrava connesso, mentre si deve qui segnalare, come prova con varianti sul tema, un disegno passato in asta159, che era stato attribuito a Cantarini da Philip Pouncey. Una bella stampa, ricavata in controparte dall’opera e incisa da Gerolamo Ferroni, datata approssimativamente al 1723160, qui esposta, proprio a fianco e a confronto col dipinto porta una dedica in margine per Monsignor Fabio degli Abbati Olivieri, e l’autore si augura di far cosa gradita anche perchè questi era della stessa patria del pittore161. Nello stesso verso della stampa è una copia del dipinto in una collezione privata fanese162. Due copie si trovano a Zagabria (National Muzeum) e a Genova (San Pietro alla Foce, come Carlo Giuseppe Ratti).

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Note 1 Malvasia in Marzocchi, 1980, p. 80. 2 Come ho fatto soprattutto in occasione della mostra monografica del 1997, soprattutto quella di Pesaro. 3 Uno schema che doveva contenere, da un lato, le doti straordinarie che fecero di Cantarini più che un allievo, quasi un rivale, del Reni, che osò emulare più che imitare e di cui non seppe accettare i consigli, al punto da giungere al celebre litigio e alla clamorosa rottura, nel 1637. 4 Malvasia 1678, ed. 1841, p. 374. L’intero e perfetto racconto veniva affidato alle perdute Vite dei pittori urbinati e pesaresi che stava proprio allora scrivendo Gioseffo Montani, purtroppo perdute. 5 Malvasia in Marzocchi, cit., p. 80. 6 Sul tema, anche per altra bibliografia, rimando al mio saggio nel catalogo della mostra Guercino a Fano…2011, pp. 26-41. 7 Brogi 2001 cit., 2voll. I, p. 222, scheda pp. 221-222, dove si rimarca l’importanza del dipinto per la svolta dell’anziano pittore, con un quasi scontroso ritorno alla sincerità espressiva della giovinezza e della prima maturità. Ma l’interesse per i Carracci, che passa anche per Ludovico è da rivalutare nella carriera del pittore pesarese come ho avuto modo di ribadire di recente, 2009b. Tra altri esempi di questa attenzione del giovane pittore verso Ludovico, il più noto resta il bel disegno con Studio di Madonna col bambino, conservato nel Gabinetto disegni e stampe della Pinacoteca Nazionale di Bologna, tratto dalla Madonna di san Ludovico, Bologna Pinacoteca Nazionale. 8 Le tre tele rappresentano Un miracolo di san Paterniano; Un angelo avvisa san Paterniano della morte; La ricognizione della salma del santo; Emiliani 1959, p. 253 riteneva, a ragione, quest’ultima rifatta da altra mano. ‘E perlomeno molto compromessa da interventi successivi. Il richiamo, per questa fase dell’attività di Cantarini, a una significativa incidenza della visione delle tele di Carlo Bonone in San Paterniano coi Miracoli del santo, come d’altronde al modello, almeno fanese, di Ludovico, oltre che a Gentileschi e Guerrieri, è argomento dell’interpretazione fin dai primi interventi, in Maestri della pittura del Seicento emiliano, pp. 114-118, di Andrea Emiliani. Di Emiliani si veda, tra gli altri, 1962; 1992, I, pp. 207-218; 1997, pp. 13-49. 9 Inv. 98. Si veda Ambrosini Massari 2009b, p. 361. 10 Ambrosini Massari 2011, anche per altre opere di Bononi e Bolognesi nelle Marche. 11 Per la definizione di queste diverse tappe e relativi documenti rinvio, più particolareggiatamente, ai miei scritti 1997a, pp. 4863; 2009a e soprattutto 2009b, perché si tratta dell’intervento più circostanziato e monografico a largo raggio sull’attività del pittore nei suoi più diversi aspetti. Il viaggio a Venezia rientrava nei modi tradizionali della educazione pittorica del ducato, con la sua centralità dei modelli veneti e palmeschi, in questa fase, che trovavano, tra Urbino, Pesaro e poi Corinaldo, uno stimolo, un modello, più che un vero e proprio maestro, in Claudio Ridolfi.

14 Secondo Malvasia, lo stesso religioso servita che aveva introdotto il pittore presso Pandolfi, lo portò con sé a Venezia, per toglierlo dalle continue recriminazioni paterne, Malvasia, cit., p. 374. 15 Becci [Lazzarini] 1783, p. 10. Per i documenti, Erthler 1991, II, p. 586. Se ne veda una sintesi nel Regesto a cura di Cellini 1997b, p. 406. Distrutto durante la seconda guerra mondiale, resta il documento di una foto Croci, 4202, pressoché illeggibile. 16 Un dipinto di analogo soggetto, conservato nella chiesa di Sant’Egidio, di proprietà Perticari a Sant’Angelo in Lizzola, riprodotto in Mancigotti 1975, p. 68. Becci, op. cit. p. 18, non è autografo. Per il quadro del Cesari, nella Cappella Bracci in San Paterniano, si veda Röettgen 2002, p. 116, p. 332; Ugolini 2010, p. 222. 17 Bonamini 1996, op. cit., p. 104. Si ricorda anche la presenza in queste raccolte, del ritratto fatto da se stesso di Simone, che manca certamente alla Galleria Medicea. 18 Tra i disegni di Cantarini: Stuttgart, Staatliche Graphische Sammlung inv.III/412, Benati 1991a, p.160; Genova, Galleria di Palazzo Rosso; inv.1966; uno studio è conservato a New York, nella collezione Philippson e lo studio a Windsor Castle (RL 3375; Kurz 1955, p.83, n.27) che presenta ulteriori varianti nella scelta dei protagonisti, ambedue adulti. Un Angelo custode copia da Cantarini eseguita dal nipote Alessandro, è registrata tra i beni che gli eredi si dividono nel 1738 (Cellini, Da Bologna a Pesaro... in 1997, op. cit., pp.123-124) a conferma di un’esecuzione pittorica del soggetto da parte di Simone. Una copia dall’incisione B28, Ambrosini Massari 1997b, p. 319, è quella, firmata e datata 1813 dal pesarese Giovan Battista Consoli (1770-1840), allievo di Gian Andrea Lazzarini, conservata in una cappellina privata pesarese per cui fu eseguito. 19 Ho già proposto di riconoscere (2009b, p. 347) quest’ultimo dipinto, nella tela dei Musei Civici di Pesaro, la cui composizione è direttamente connessa coi beni della famiglia Mosca, che presenta lo stesso soggetto in uno stile vagamente acerbo ma che si specchia bene in quello del Cantarini, specialmente delle opere giovanili, quali la pala di santa Barbara, se volessimo anche solo confrontare la santa con Erodiade. Pubblicato come Anonimo del XVII secolo, Morselli 1993, p. 169. Il recente restauro della tela ne evidenzia ancor meglio le note cantariniane. 20 Nel 1629 il papa lo mandava a Urbino come suo legato, accanto a Francesco Maria II, col lieto annuncio del prossimo giubileo, annuncio in realtà, per il triste Duca, della fine sempre più prossima. Sul tema e le sue determinanti implicazioni nella carriera di Cantarini, rimando alla sezione del mio saggio intitolata Un giovane pittore per un giovane cardinale, in 1997a, pp. 52-54 e anche pp. 55-56 per i contatti con Livia Della Rovere. Si vedano anche le schede dei Ritratti di Antonio Barberini Junior, in 1997a, pp.71-72 e 1997b, pp. 80-82. 21 Si tratta di una minuta, Pesaro, Biblioteca Oliveriana, Ms 1009. Senza data né fascicolazione ma probabilmente prossima al 1631, come si deduce dagli argomenti di quelle che precedono e seguono, dove parla della morte del marito come di un evento piuttosto vicino, da collocare dunque non lontano dal 1631.

12 Malvasia e il suo doppio, intitolavo il paragrafo sulle ambiguità dei rapporti tra edizione a stampa e carte con appunti inediti, L’altra faccia…in 1997a, pp. 50-52.

22 Cit., p. 382.

13 Malvasia in Marzocchi, cit., p. 176.

24 Sul tema, Emiliani 1997a; Ambrosini Massari 1997a, pp. 5760; 2009b, pp. 325, 327, 346.

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23 Ibidem.


25 Esiste una serie piuttosto articolata di documenti grafici riguardanti il soggetto dell’Annunciazione dall’esemplare di Rio de Janeiro (inv.28,17 (r.) Biblioteca Nacional; Ambrosini Massari 1995, op. cit. n.55, pp.109-110). Lo studio a sanguigna della Pinacoteca di Brera a Milano (inv. 55; Ambrosini Massari 1997a, pp.181-182, n.41), stilisticamente e progettualmente assai vicino ai due studi di Palazzo Rosso, a Genova: Studio per Annunciazione (r.) due studi di Madonna col bambino sul globo (v.), inv.1962; Studio per Annunciazione (r.) studio di testa infantile, putti e due putti che giocano con una capra (v.); inv.1963. Un altro, più debole, degli Uffizi (inv.4153S Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe). Redazioni del soggetto sono documentate dalle fonti in diverse collezioni bolognesi, elenco in Colombi Ferretti 1992, pp. 126130. Un secondo disegno brasiliano (inv.A 17, Rio de Janeiro, Biblioteca Nacional, Ambrosini Massari 1995, cit. n.54, pp.108-109) ha, a destra, uno studio per il sogno di san Giuseppe, e rimanda al dipinto del Duomo di Camerino col Sogno di san Giuseppe, mentre scompare nella bella versione sul medesimo soggetto, della Cassa Depositi e Prestiti a Roma. Strettamente connesso a questa invenzione anche un disegno (Francoforte, StádelMuseum) dove si trova, dietro la scena principale, la variante della Vergine seduta che cuce. 26 Inv. 55r/v; Studio per un’Annunciazione, recto; Studio per Allegoria della poesia e della pittura, verso, Ambrosini Massari 1995 cit., pp. 109-111. 27 Colombi Ferretti 1992, p. 110, che lega l’esecuzione del dipinto alla beatificazione di Rita, avvenuta nel 1627; Cellini 1997b, pp. 72-73, anche per l’ipotesi di una pertinenza della commissione alla famiglia Giordani. 28 Lanzi (1783), ed. 2003, p. 41. 29 Sull’argomento, Ambrosini Massari 1997a, in particolare il capitolo intitolato, I fratelli Corbelli e Fra’ Tommaso Maria, pp. 60-61. 30 Sul convento di Brettino ma anche per notizie sulle opere e sulla pala di Cantarini resta sempre importante la lettura di Billi 1866, si veda qui il saggio di Franco Battistelli. 31 Malvasia, cit., p. 374. Un’identificazione di questo riferimento con la pala per San Cassiano era di Ottino Della Chiesa 1984, I, p. 43, n. 6. Effettivamente, le notevoli dimensione della pala si prestano anche a tale identificazione ma la puntuale ripresa della pala Olivieri in quella di Brettino, che comunque era una piccolissima chiesa, induce a preferire la connessione del brano di Malvasia con la pala fanese (Colombi Ferretti 1992, pp. 111-112). 32 Verso il 1645 la pala venne trasferita nella chiesa di Sant’Antonio, situata nella corte padronale di Limone di Gavardo, sull’altare dell’Immacolata. Ma per le vicende dell’opera si veda Morselli 1997b, pp.87-89. 33 Recentemente è tornato sul problema della cronologia di questa pala, Mancigotti 2006, pp. 56-57, richiamandone una datazione precedente, in prossimità della pala coi santi Agostino e Monica, sulla base delle affermazioni del Billi, op. cit., il quale ritiene l’abbia eseguita parallelamente al Miracolo dello storpio per San Pietro in Valle, oggi alla Pinacoteca Civica. Le affermazioni del Billi, pur da valutare, per quanto di avanzato Ottocento, sarebbero più condizionanti del documento, un atto di dotazione dell’altare, del 1638, perché il dipinto poteva essere già stato eseguito. Ma, a parte il fatto che sarebbe un caso più unico che raro, nella procedura di dotazione degli altari, il problema della datazione della pala trova nel documento una conferma di dati insiti nello stile, che è ormai maturo, ricco di ricordi reniani ed effettivamente, come aveva già segnalato, proprio sull’evidenza

stilistica, D. Benati 1991 cit., p. 145, ben confrontabile con l’impostazione del Miracolo, opera senza dubbio da pensare, come preciseremo ancora più avanti nel testo, almeno in apertura del quinto decennio. La prima notizia del documento è in Ambrosini Massari, in La Pinacoteca Civica di Fano, Cinisello Balsamo 1993, pp. 56-57, poi Eadem 1997a, cit., pp. 60-61 e scheda pp. 144145. 34 Regesto a cura di Cellini 1997b, p. 402 e Cellini 1997a, p. 124, per il testamento di Vincenzo Cantarini. 35 Giovanni Antonio nacque il 24 maggio 1621, come ho potuto verificare già nel corso della mia tesi di dottorato, 1996 p. 237 - sull’atto di nascita presso San Cassiano, correggendo il 1617 riportato in Mancigotti 1975, p. 37. Per il documento si veda anche il Regesto, in Cellini 1997b, cit., p. 403. Sul tema rimando al catalogo della mostra su Cantarini in corso a Pesaro (Ambrosini massari, a cura di, 2012). 36 Ritratto di novizio, Londra, Christie’s, 4, 7, 2000, lot. 99; 21x16 cm. Il fatto che il fratello agostiniano fosse così più giovane esclude che sia lui, in qualche modo, alla base delle commissioni di Simone. Sarà piuttosto una conferma di rapporti da sempre intrattenuti e mai tralasciati, con quell’ordine. Per la fitta, bellissima serie di studi di ritratti, perlopiù di giovani e fanciulli, si veda Cellini 1997a, pp. 178-179, a partire dallo Studio di testa di fanciullo, inv. 41, di Brera; e, eadem 1997b, cit. pp. 234-235, per altri esempi, tra i quali si ricordino i fogli dell’Accademia di Venezia. 37 Le notizie sul fratello e sul convento di Verona dove morì provengono da Crespi, 1769, p. 131, Simone venne sepolto nella chiesa del monastero di Sant’Eufemia e l’atto di morte poi reperito (Archivio di Stato, Ufficio di Sanità del Comune, p. 186, n.50) conferma il decesso avvenuto l’11 ottobre 1648, Gori Gandellini 1771, I, p. 178. Zanotti in una nota all’edizione del 1841 del Malvasia, cit., p. 381, annotava invece 15 ottobre. 38 Indipendemente dal volerle legare, come fa Malvasia, all’eco del modello della Pala di Reni nel Duomo di Pesaro, come sopra spiegato. Ma certo, in generale, il riconoscimento della maniera del Reni dovette conquistare i committenti. 39 E si veda, in questo stesso catalogo, il saggio di Cecilia Prete sul tema del collezionismo a Fano, per valutare l’impatto del pittore nelle quadrerie cittadine. 40 Malvasia, op. cit., p.374. 41 Per il problema della datazione della pala di Reni si veda alla scheda della Madonna della cintura di Cantarini, più avanti nel testo. 42 Ambrosini 1997a, pp. 49-63, in particolare pp. 57-60 ; 2009a, dove si pubblicano per la prima volta nuovi documenti, non solo per l’attività del pittore in commissioni di centrale importanza quale quella per la chiesa dei Filippini di Pesaro, relativa ai due dipinti del Museo Civico di Pesaro, Maddalena e San Giuseppe, ma anche altri documenti sulla bottega pesarese, poi anche in Ambrosini Massari 2009b, pp. 364-368 e Regesto a pp. 379-380. 43 Malvasia cit., passim. Il carattere inquieto e permaloso non aiutò gli obiettivi imprenditoriali. In un modo o nell’altro, si cacciava sempre in situazioni perdenti, o per i litigi, come con Reni, poi coi mecenati Locatelli e Zamboni, o perché diventava vittima di chi lo sfruttava come il marchese Manzini. 44 Oltre a gestirne eventuali contenziosi legali. Questo ruolo del padre e del fratello di Cantarini sono ben illuminati da alcuni degli ultimi documenti da me pubblicati, relativi a committenze

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a Pesaro tra 1637 e 1644, Ambrosini Massari 2009b, pp. 364-368 e Regesto a pp. 379-380. 45 Ghelfi 1997, cit., n. 32 con annotazione e bibliografia precedente, n. 56. Il frammento è stato pubblicato, in relazione alla pala pesarese da Bisogni 1975, pp. 338-342. 46 Per primo Zampetti 1990 cit., p. 361; Ambrosini Massari 2011, p. 28. 47 Marzocchi 1980, pp. 66-67. 48 Si veda il commento di F. Battistelli sui temi dell’opuscolo. 49 Avevo raccolto questi dati fin dalla mia tesi di dottorato, cit., 1996; Ambrosini Massari 1997a, pp. 56-57. 50 Borgarucci in Deli 1994, p. 38. Non era infrequente che membri di casate nobiliari si trasferissero per esercitare la mercatura, come capita anche a un Castracane. 51 Malvasia cit., p. 374 e Billi cit., p. 23. 52 Per la disamina dei singoli documenti e dello scalarsi della genealogia dei Cantarini di Fano rimando al Regesto in Cellini cit. Documento già in Borgogelli, Fano, Biblioteca Federiciana, Ms 7, C, c.52v., che però trascrive, come pertinente, anche l’atto di battesimo di Simone Cantarini, mentre il Bertozzi, Fano, Biblioteca Federiciana, Ms Protoc. K, vol. 5, cc. 224, perdendo le tracce di Girolamo, proprio in quanto trasferitosi a Pesaro, ipotizza che si fosse fatto religioso. 53 Borgarucci cit., a nota 48. Bertozzi cit., cc. 223-225; Borgogelli cit., cc. 52-57, con disegni acquarellati degli stemmi nobiliari del nipote Francesco Borgogelli. 54 Si dirà meglio più avanti per questo aspetto. I Marcolini ebbero un ruolo di primo piano nella dotazione della chiesa di San Pietro in Valle, sia per la cappella della Natività o del Crocifisso, di loro giuspatronato, che per quella dell’altare maggiore, intrapresa, per la decorazione da Francesco Marcolini, cui devono legarsi le commissioni originarie ai pittori, probabilmente i soli Reni e Cantarini. 55 Testamento di Camillo Cantarini, Fano, Archivio di Stato, AAAA, Testamenti aperti, 1622-1638, notaio Bernardino Dudoni, novembre 1633, con un codicillo del 3 febbraio 1635. 56 Il Bertozzi, nel suo manoscritto sulle famiglie nobili di Fano, Indice di tutte le famiglie che sono descritte in questo Protocollo con gli alberi genealogici delle medesime, Fano, Biblioteca Federiciana, Ms Protoc. K, vol. 5, cc. 223-225, lo confonde col fratello Tommaso, che in realtà era un importante canonico crocifero, dunque non poteva essere sposato. L’errore può essere causato dalla presenza di Tomaso in qualità di testimone. Il nome del padre, Francesco Maria Tomasi è invece correttamente citato, a riprova della corrispondenza. 57 16 aprile 1639, notaio Federico Benamati, Archivio di Stato Pesaro. Per le notizie documentarie si veda la silloge nel Regesto in Cellini 1997b, pp. 397-418, in particolare per questo documento, p. 412. 58 Rimando al mio intervento più recente sull’argomento in 2009b, p. 264 e alla più recente scheda dell’opera, Ambrosini Massari 2003, pp. 50-53. Il dipinto sarà presente nella mostra omaggio per i 400 anni dalla nascita del pittore in corso la prossima estate a Pesaro, ai Musei Civici. Dalle nozze di Eleonora Albani con il nobile Francesco Maria Tomasi nacquero Annibale,

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Tomaso e Camilla, sposa, quest’ultima di Flaminio Mannelli di Arcevia, altro personaggio di centrale importanza nelle dinamiche degli spostamenti e delle committenze di Simone Cantarini. 59 Billi 1866, pp. 3-4. 60 Per l’argomento della supposta parentela, si vedano le mie pagine che qui precedono. 61 Billi cit., p. 22. 62 Malvasia 1678, ed. 1841, p. 374. 63 Sta ovviamente considerando l’edizione a stampa, ed. 1809, III, p. 80. L’analisi delle note manoscritte di Lanzi 1783, ed. 2003, 39, ha rivelato anche considerazioni sull’Apparizione della Vergine in gloria a san Tommaso da Villanova, come si dirà. 64 Per altre note sulle pale fanesi si veda alle rispettive schede. 65 Tra le fonti più antiche prima di Billi, la ritroviamo citata in Pitture d’uomini eccellenti…ca. 1740, ed. 1995, p. 24; Quadri e Pitture...post 1773, ed.1995; Oretti Ms.B.165 bis, c.318r.; e, sempre con la coloritura della storiografia locale in Tomani Amiani 1853, I ed. 1981, p.199 :”colorisse questa tela, allorchè‚ rifugiato per indecoroso trascorso occorsogli in patria,” sunto degli accenni di Malvasia su una disgrazia sfuggita, dovuta alle sue licenze amorose, (1678, II, p.374) dove peraltro il fatto è riferito quale romantica motivazione del successivo trasferimento a Bologna. Dopo Billi, si trova in Francolini 1877, p. 62. 66 Selvelli 1921, p.76. Poi anche 1924, p. 101; 1943, p. 148 e Borgogelli, Inventario… (1929), c. 10r, n. XLIII. Altra bibliografia di riferimento sul dipinto si trova in Alipi p. 73; Locchi 1934, p. 505; Aliberti Gaudioso 1967, pp. 96-97; Mancigotti 1975, pp. 44, 82; Colombi Ferretti 1976, p.1532; Calegari 1986, p. 396; Mazza 1986, p. 398; Amaduzzi 1989, pp. 136-137; Battistini 1989, p. 172; Zampetti 1990, III, p. 396; Benati 1991, p. 145; Colombi Ferretti 1992, pp. 111-112; Ambrosini Massari 1993, pp. 55-57, n.34; Calegari 1994, p.110; Cellini 1996, p. 112, p. 124; Ambrosini Massari 1997b, ill.p.51, p. 61, p. 80, p. 187, 188; Cellini 1997, p. 217; Emiliani 1997, XL; Cerboni Baiardi 1997, p. 136; Mancigotti 2006, pp. 57-59; Ambrosini Massari 2009b, p. 355; Battistelli 2011, p. 64; Paolini 2011, pp. 118-124 e pp. 166-188; Ugolini 2011, p. 131. 67 Billi 1866. Su Il complesso monumentale di Sant’Agostino a Fano (2011), si veda il recente volume monografico con numerosi contributi sui vari aspetti della storia e delle vicende della chiesa ma anche del connesso eremo. 68 Il quadro è stato restaurato nel 1968 a cura di Martino Oberto. 69 Malvasia cit., p. 374, secondo l’aneddotica che confronta l’episodio con quello della visione da parte di Guercino, della pala di Cento di Ludovico Carracci. 70 Si veda nota 31. 71 Si veda sul tema la scheda dei due dipinti tratti appunto dalla Pala Olivieri del Reni, più avanti in questo catalogo. 72 Entro il 1634, secondo quanto stabilito per la prima volta da D. Mahon 1957, p. 241 e si veda Pepper 1988, n.131, cat. 141. 73 Malvasia in Marzocchi 1980, p. 80. 74 Già la Colombi Ferretti 1992, p. 111, si poneva il problema di movimentazioni verso Fano e le opere fanesi del Reni, prima del quarto decennio.


75 Benati 1991, p. 145. 76 Emiliani 1997a, p.18. 77 Colombi Ferretti cit. 78 1769, p. 131. 79 Ambrosini Massari 1996, p.237, documento n.9, si veda poi 1997a, pp. 55-57 qui nel testo che introduce alle schede, anche per altri spunti sul tema dei rapporti della famiglia Cantarini con gli agostiniani. In precedenza Mancigotti 1975, p. 37, aveva erroneamente letto la data di nascita del fratello frate del nostro pittore, come avvenuta nel 1617. Per i documenti si rimanda sempre al Regesto in Cellini 1997b, pp. 397-418. 80 Ambrosini Massari 1997a, pp. 49-61; 2009b, pp. 337-340. Cellini 1997a, p. 120; 1997b, pp. 402. Si veda nota 140. 81 Catalogo delle migliori pitture... XV, ed.1995, p.73, con un pastiche che descrive come un’unica opera, la copia del dipinto in esame e la Madonna con san Tommaso da Villanova. Tomani Amiani, cit, p.196; Selvelli 1943, p. 148, parte dalla copia per dare indicazioni sull’originale. Ugolini 2011, p. 131. 82 Inv. DES. 00047, Loisel 2006, pp.106-107. E si veda in particolare il recto del disegno a Brera, inv. 489, con Studio per Madonna con il bambino in gloria e due figure in basso. Da segnalare anche lo studio di Ottawa, National Gallery, Inv. 17182 e quello a Firenze, Museo Horne, Inv. 6209H, Cellini 1996, p. 124. 83 Ambrosini Massari 1997a, pp.187-188, nn. 45, 46, con spunti per il gruppo celeste in particolare ma più vicini all’iconografia della Madonna del rosario. Sul tema Cellini 1997a, p. 217, per composizioni che ricordano il modello. 84 Fano, Archivio di Stato, Notaio Bernardino Dudoni, AAAA, Testamenti aperti 1622-1638, testamento, 28 novembre 1633; codicillo 1 febbraio 1634, cc. 647-657. Ringrazio Maria Neve Fogliamanzillo direttrice dell’Archivio di Stato di Fano, per avermi aiutato nella difficile lettura del documento e per i suoi preziosi suggerimenti.

Biblioteca Federiciana, in particolare Borgogelli e Bertozzi, che mi hanno permesso di rintracciare l’atto in questione, che Giuseppina Boiani Tombari mi ha gentilmente aiutato a leggere. Il notaio Dudoni ha una grafia davvero impenentrabile. 88 Ambrosini Massari 1997a, pp. 58-61; 1997b, pp. 145-146; 2011, pp. 29-30. Con rescritto pontificio reso esecutoriale il 4 settembre 1874 i Corbelli consegnano al capitolo tremila lire da rinvestirsi in cartelle del debito pubblico perché coi frutti venissero celebrate delle messe, rinunciando allo iuspatronato della cappella di Sant’Orso e trasformando così il loro legato. Dall’atto di morte di Ignazio, del 15 dicembre 1638 (Fano, Archivio Diocesano, Cancelleria vescovile, serie Collazioni, reg. 1637-1648, c. 139v. si evince inoltre che i Corbelli detenevano il prestigioso titolo di San Luca, riservato ai componenti più influenti del capitolo fanese. 89 Da quanto ad oggi noto, Locchi 1934, p. 488; Asioli 1975, p. 161, il Capitolo del Duomo fanese avrebbe in realtà concesso nel 1609 il patronato della cappella alla famiglia Bellocchi e in effetti Pietro Bellocchi intraprese subito i lavori, come si ricava da una visita pastorale del 1610, dove purtroppo nulla emerge relativamente alla pala, Palazzi 2010, pp. 53-54 e nota 132, per il documento della visita pastorale nell’Archivio diocesano di Fano, registro 2, c. 1 verso, visita del 1 ottobre 1610. Sappiamo peraltro che, d’abitudine, le opere che abbellivano gli altari giungevano come ultimo elemento decorativo, anche a distanza di anni dal completamento dei lavori e con interventi di altri committenti, come avviene anche nel caso della cappella promossa e avviata da Francesco Marcolini nella chiesa di San Pietro in Valle a Fano, dove, a causa della sua precocissima morte, nel 1623, l’intera commissione viene gestita dal padre Girolamo Gabrielli, Carloni 1995, ed. Milano 1995, p. 221. Un altro esempio in Ugolini 2004, pp. 35-44, dove per la cappella Amiani, detta del Sacramento, in Duomo, la famiglia, che aveva il giuspatronato non partecipa ai lavori che segue e finanzia il vescovo Lapi. 90 Dudoni cit, c.71 verso. 91 Fano, Biblioteca Federiciana, ms Bertozzi, vol. M, c.166. 92 Tomani Amiani 1853, ed.1981, p.84.

85 Ambrosini Massari 1996, Appendice documentaria; Cellini 1997b, p. 400.

93 Colombi Ferretti 1976, p. 1532; 1982, p. 24; Mazza 1986, p. 398; Colombi Ferretti 1992, p. 112, nota 15.

86 Per le principali voci che citano o studiano a vari livelli l’opera, si veda in particolare: Catalogo delle pitture...entro 1730, ed.1995, p.16; Pitture d’uomini eccellenti...entro 1740, ed.1995, p.16; Oretti Ms. B. 165, c.318r; Quadri e Pitture...dopo 1773, ed.1995, p.17; Lanzi 1783 (2003), p. 39; Tomani Amiani 1853, I ed. 1981, p. 84 et 107; Fabi-Francolini 1863, p.25; Billi 1866, p.25-28; Inv. Borgogelli c.9v, n. XXXVI; Selvelli 1909, 1921, p.76; 1924, p. 112; 1935, p. 143; ed. 1943, p. 147, 165; Battistelli 1973, p.110; Mancigotti 1975, p. 82, n.20-21; Colombi Ferretti 1976, p. 1532; Battistelli 1978, p.84; Colombi Ferretti 1982, p. 24; Mazza 1986, p.398; Amaduzzi 1989, p.85; Benati 1991, p. 145; Colombi Ferretti 1992, p.112, nota 15; Ambrosini Massari 1993, pp.56-57, n.35; Ambrosini Massari 1995, p.102; Cellini 1996, p.123; Ambrosini Massari 1997a, pp.60-61, ill.p.48; 1997b, pp. 145-146, I.39; 1997c, XVI, ad vocem; Emiliani 1997, XL; Mancigotti 2006, pp. 55-57; Ambrosini Massari 2009b, p. 360; Paolini 2011, pp. 118-124 e pp. 166-188; Prete 2011, p. 48; Battistelli 2011, p. 61; Ugolini 2011, p. 125-126. Per altre menzioni della guidistica si veda anche Cleri 2004, pp. 139-158.

94 Si veda, per esempio, il caso che ho più recentemente in luce, riguardante i dipinti dei Museo Civici di Pesaro e la loro lenta esecuzione, Ambrosini Massari 2009a. Ma gli esempi potrebbero essere molteplici, oltre a ricordare le parole di Malvasia su questo punto, molto critiche, cit., p. 378. Su esecuzioni talora anche molti protratte nel tempo, si veda Colombi Ferretti 1992, op. cit. p. ‘E probabile che anche le vicende che portarono alla realizzazione di solo uno dei dipinti laterali alla Consegna delle chiavi a san Pietro del Reni, in San Pietro in Valle a Fano, risieda in motivazioni analoghe, Ambrosini Massari 1997b, pp. 151-153, come già anche la Colombi Ferretti pensava, specialmente ipotizzando questa la commissione che lo fece decidere ad andare alla scuola del Reni (p. 113) e si confronti, sul tema, quanto sarà precisato nel testo relativo alla pala proveniente da San Pietro in Valle.

87 Fano, Archivio di Stato, Notaio Bernardino Dudoni, volume PPP, cc.70v-76v. Ho rintracciato il documento grazie alle mie ricerche a partire dai manoscritti sulle famiglie nobili di Fano della

97 Cellini 1996, p. 123.

95 Lanzi 1783, ed. 2003, p. 39, nota 438. 96 Billi 1866, pp. 25-26.

98 Di Giampaolo 1994, p.106.

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99 Già Christie’ s 31.5.1990, New York Gordon collection; Ciammitti 1997, p.292, n.215. E si veda sempre, sul tema, Cellini 1996, p. 123. 100 Inv.479; Jaffé 1994, III, p.55. Segnalato in connessione col dipinto da Ambrosini Massari 1995, p.102. 101 Ambrosini Massari 1997a, pp. 208-209. Affine al disegno di Madrid, Museo del Prado, probabilmente per una Apparizione della Vergine a san Filippo Neri, Cellini 1997b, p. 274. 102 Inv.5321; Royal Library, Kurz 1955, n.47, p.85, fig.11. 103 Milano, Brera, gabinetto Disegni e Stampe, inv. 495; Ambrosini Massari 1997a, pp.155-156, n.12. 104 Fano, Archivio di Stato, Arch. Not. vol. B, rep.5, 14 giu.1808. 105 1853, p. 107, 84. 106 1921, 1924, p. 112. 107 Fano, Archivio di Stato, tit. XIII, rubr.11, VII, n.7. 108 P. 2 5. 109 Fano, Archivio di Stato, Arch. Not., vol. B, rep.8, 22 sett.1873. 110 Selvelli 1921, p.76. 111 Malvasia cit., p. 374. 112 Rimando alle considerazioni su questi problemi nella carriera di Cantarini condotta qui sopra, nella parte di testo introduttiva alle schede. 113 1678, II, p. 374. 114 Archivio di Stato di Fano, Notaio Bernardino Dudoni, Prot. NN, 1617, c. 314; per la nascita del figlio, Fano, Biblioteca Federiciana, Ms Bertozzi, vol. F, c. 82. 115 Ambrosini Massari 1993, p. 254, n. 471. 116 Ligi, Ms Federici 76, c. 53. 117 Mahon 1957, p. 241. 118 Malvasia cit., p. 378. Su esecuzioni talora anche molti protratte nel tempo, si veda Colombi Ferretti 1992; Carloni 1995, pp. 224-2245, anche per una probabile, originaria commissione, già a Reni, anche dei laterali: da una notizia un po’ ambigua ma non sottovalutabile del Marciano, Marciano 1693-1702; 1698, III, p. 147 e per il confronto con l’impresa per i Barberini, organizzata dal Reni, in cui Simone riceve l’incarico della Trasfigurazione per il Forte Urbano di Castelfranco Emilia. Sui contrasti impliciti nella pala col Miracolo, già Benati 1991a, p. 145. 119 Ligi cit. 120 Sul tema, più in generale, Ambrosini Massari 1997a, p. 56 e Regesto in Cellini 1997, pp. 400-401 e si veda introduzione che precede questi testi alle opere: Indizi per una utile parentela: i Cantarini di Fano. 121 Si veda anche in Ambrosini Massari 1997a, p. 153, n. I.42b, si tratta di studio già da tempo collegato a questo soggetto, Emiliani 1959, tav.186c; 1959a, p.122; Carloni 1995, p. 222, fig. 228.

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122 Emiliani 1959, tav.186b; 1959a, p.121; Benati 1991, p.161, p.164, n.40.1. 123 Ambrosini Massari 1995, p. 231; poi 1997b, p.153. 124 Per la progressiva alienazione della protezione degli amorevoli, tra i quali Bernardino Locatelli, che di casa sua l’aveva fatto padrone, e il dottor Orazio Zamboni, che tante volte l’aveva soccorso di moneta, p. 377, 378. Con essi riallaccerà i rapporti solo dopo il 1642, quando tornato a Bologna, vi impianterà la sua fiorente bottega, Malvasia, op. cit., p. 380. Infine, solo quelli come lui, o peggio, lo avvicinavano e per motivi strumentali, sarà il caso di Giovan Battista Manzini, sul quale in particolare, per questi aspetti dei rapporti con Cantarini e per la sua personalità ambigua, avida e arrampicatrice, nonostante l’altissimo profilo intellettuale, Unglaub 1998 - 1999, pp. 31-75, in part. 31-42. Manzini era l’autore, tra l’altro, con altri letterati, come Virgilio Malvezzi, Ovidio Mariscotti, Jacopo Gaufrido e il poeta Claudio Achillini, del quale le fonti documentano un ritratto di Cantarini (Malvasia in Marzocchi 1980, op. cit., p.182, nella collezione bolognese Arnoaldi) del Trionfo del pennello, stampato a Bologna nel 1634, omaggio di Bologna a Guido Reni per il suo Ratto di Elena. Sul tema si rimanda a Raimondi 1995, in particolare, pp. 40-44, 68-71. Sui rapporti con i Locatelli e in generale sul mercato bolognese attorno a Cantarini, Morselli 1997b, pp. 50-69. 125 Malvasia cit., p. 378. 126 Per una compiuta discussione e trascrizione degli importanti documenti, che comprendono l’allogazione al pittore, lui presente, dei dipinti per la distrutta chiesa di San Filippo, oggi al Museo Civico, rimando al mio articolo specifico, 2009a, pp. 145-161. I documenti che relazionano di atti intentati contro Cantarini, rappresentato dal padre Girolamo e dal fratello Vincenzo, sono pubblicati in Ambrosini Massari 2009b, pp. 379-380. 127 Sul metodo di Malvasia, sulla sua buona attendibilità, specie per argomenti contemporanei, in particolare Perini 1988. Anche sul linguaggio di Malvasia restano imprescindibili numerosi studi di Perini, in particolare 2005(2006), pp. 142-164, 1989, pp. 175-206. Notevole attenzione al caso Cantarini anche per questi aspetti, in Emiliani 1995, pp. 257-282. 128 Per un orientamento bibliografico: Scaramuccia 1674, p. 185; Malvasia 1678, ed. 1841, II., p. 374; Baldinucci 1681-1782, v, p. 333; Ligi Ms 76, sec. XVIII, c. 53; Pitture di uomini eccellenti…1740 circa, ed. 1995, p.34; Cochin 1769, I, p.92; Lalande 1769, VII, p. 393; Quadri e Pitture… ed. 1995, p. 35; Oretti sec XVIII, ms B 128, c. 444; ms B 165 bis, c. 13; Catalogo delle pitture…1781, ed. 1995, p.31; Lazzarini 1806, I, p. 73; Lanzi 1809, III, p. 80; Zani 1819, XI, II, pp. 170-171; Bolognini Amorini 1843, p.274; Catalogo Tomani Amiani 1853, I ed. 1981, pp. 160-161; Catalogo Tomani Amiani 1856, p.18, vedi anche ed.1941; Fabi-Francolini 1863, p.20; Billi 1866, p.24; Francolini 1877, p.56; Selvelli 1909, p.12; Pollak 1911, V, ad vocem; Serra 1921 p.25; Idem 1924-25, p.393; Locchi 1934, p.508; Selvelli 1935, p. 64; Selvelli 1943, p.72; Miller 1959, p. 211; Emiliani 1959, tav.186d; 1959a, pp. 121-122, n.51; 1959b, p.39; Mancigotti 1975, pp.79-80, figg.15-18; Colombi Ferretti 1976, p. 1534; Battistelli 1978, p. 57; Colombi Ferretti 1982, p.119; Calegari 1986, p. 395-396; Thiem 1988, p.489, fig.71; Amaduzzi 1989, p.107; Calegari 1989, p. 153; Benati 1989, p. 665; Pizzorusso 1989, I, pp. 390-391; Zampetti 1990, p. 366; Benati 1991, pp. 161-162, fig.40; Colombi Ferretti 1992, p. 113, 116-117, fig.114; Emiliani 1992, p.216; Ambrosini Massari 1993, pp. 254256, n.471; Carloni 1995, pp.224-225, fig.227; Bonamini 1996, pp. 103, 105; Costanzi 1996, p.70; Mariano 1996, p.67; Ambrosini Massari 1997a, pp. 98-101, n.12; 1997b, pp. 151-153, n. I.42; 1997c, XVI, ad vocem; Emiliani 1997, XXVIII, XLI-XLII; Mancigotti 2006, pp. 53-54, ill. p. 52; Ambrosini Massari 2009b, p. 358 e


passim; 2012, pp. 99-101. Il dipinto è stato restaurato nel 1990 da Isidoro Bacchiocca. Per altre menzioni della guidistica si veda anche Cleri 2004, pp. 139-158. 129 Ambrosini Massari 1993, pp. 254-256; 1997b, pp. 151-153. 130 Ambrosini Massari 1993, op. cit., pp. 254-256. Una fonte per lo scenario di arcate magniloquenti è stato richiamato anche nella pala del Duomo di Reggio Emilia, di Annibale Carracci, Carloni 1995, op. cit., p. 225. 131 Colombi Ferretti 1992, p. 113; Ambrosini Massari 2009b, p. 359. 132 Lanzi 1783 (2003), p. 39. Poi, molto più sintetico in Lanzi ed. 1809 (1968-’74), III, pp. 79-80.

141 Bonamini, Cronaca, Pesaro, Biblioteca Oliveriana, ms 966, IV. 142 Ed. 1996, p. 104. 143 Malvasia cit., p. 374; Baldinucci 1681-1782, v, p. 333; Oretti sec XVIII, ms B 128, c. 444; ms B 165 bis, c. 13; Lanzi 1809,v, p. 120; Bolognini Amorini 1843, p.274. 144 Emiliani 1959a, p. 121. 145 Mancigotti 1975; Colombi Ferretti 1982; Benati 1989; 1991; Colombi Ferretti 1992. 146 1992, p. 113. 147 1991, p. 161.

133 Vari i rimandi a Guerrieri, da Emiliani 1959.

148 Ambrosini Massari 1997b, pp. 155-156, n. 12.

134 Sul tema si veda sopra il confronto tra disegni di Cantarini, come per lo Studio di Madonna col bambino e due devoti, del fondo Acqua a Brera, inv. 98, impensabile senza la conoscenza della Madonna dei pellegrini di Caravaggio, attraverso la mediazione del commovente San Carlo Borromeo che accoglie i coniugi Petrucci in abito da mendicanti, del Guerrieri. Il disegno é base di importanti riflessioni di R. Roli, I disegni italiani del Seicento. Scuole emiliana, toscana, romana, marchigiana e umbra, Treviso 1969, p. 36, per l’influenza di Cantarini a Bologna nel suo secondo soggiorno, dopo Roma.

149 Kurz 1955, n.47, p.85, fig.11. 150 Si veda alla scheda precedente per le connessioni e i confronti. 151 1866, p. 25. 152 Thiem 1988. Per il versante del modello caravaggesco, si veda più sopra il mio testo introduttivo e le immagini di confronto tra disegni di Cantarini e opere del Merisi.

135 Di Giampaolo in Simone Cantarini, op. cit., p. 291, si veda nota 26. Anche se non può essere documento certo della residenza romana, va ricordato che il San Filippo Neri con due angioletti, della Galleria Pallavicini, dimostra una precisa conoscenza della statua con San Filippo e l’angelo, eseguita da Alessandro Algardi per la sacrestia di Chiesa Nuova, dove si trova collocata dal 1640, si confronti Pupillo 1995, p. 539.

153 Emiliani 1992.

136 Non necessariamente prova di un sicuro soggiorno romano ma indubbiamente della sua straordinaria capacità di captare temi e linguaggi variegati, può essere l’inequivocabile citazione della soluzione offerta da Artemisia Gentileschi, nella sua Susanna e i vecchioni, firmata e datata 1610, conservata nella collezione Graf von Schönborn di Pommersfelden, della figura di Susanna, della quale il dipinto alla Pinacoteca Nazionale di Bologna, senz’altro derivante da un prototipo cantariniano, pare ricalcare pressoché in tutto la figura e la posa, mentre preferisce allo sfondo angosciante con la balaustra chiusa, una maggior ariosità e decorazione, attinti da altri esempi sullo stesso tema, quali quello del Reni (Londra, National Gallery) o quello, del 1603, di Domenichino (Roma, Galleria Doria Pamphili); forse ricavato da un prototipo perduto di Annibale Carracci che, secondo Bellori (1672, p. 86), avrebbe copiato Lanfranco.

157 Cellini 1997a, p.215.

154 Colombi Ferretti 1992, p.116. 155 Cellini 1997a, p.215. 156 Lo si veda in Ambrosini Massari 1997a, p. 153, n. I42a.

158 Ambrosini Massari 1995, pp. 229-231, n. 181. 159 Londra, Colnaghi 1950, n.20; Londra, Sotheby’s 1962, 5 febr., lot. 162; Londra, Christie’s 1978, 16 may, lot.38; Londra, Christie’s, 11 dec. 2009, lot. 330. 160 Bellini 1987, p. 104, n. 67; Ambrosini Massari 1997a, p. 153. L’esemplare esposto nella presente occasione è conservato in collezione privata a Pesaro. 161 Cellini 1996, p.120. 162 Amaduzzi 1983, p.187.

137 Ambrosini Massari 1993. 138 Ambrosini Massari 1997a, pp. 55-57 e scheda dell’opera, pp. 98-101. Importante Dini 2004, p. 37, che documenta il passaggio di Mirlafiore nei beni dei Medici, attraverso Vittoria Della Rovere. 139 Ambrosini Massari 1997a, pp. 49-61. 140 Qui viene sepolto un altro fratello di Cantarini, Francesco Maria, atto di morte 20 aprile 1649, Fondo San Cassiano a Pesaro, ma si veda Ambrosini Massari 1997a, p. 63. Il padre e il fratello Vincenzo furono sepolti in Sant’Agostino, come ho più sopra indicato e si veda, in genere per la revisione dei documenti, Cellini 199b, pp. 397-418.

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Cecilia Prete CANTARINI E NON SOLO: NUOVE ACQUISIZIONI PER LA STORIA DEL COLLEZIONISMO ARTISTICO A FANO

I putti [del Domenichino sono] così gaj vispi e pieni di grazia che meritamente viene annoverato fra i classici che si sono più distinti in questo particolare ma il Cantarini ha superato il Zampieri, l’Albani, Guido, Tiziano e perfino Raffaello - a detta del Lazzarini… don G. Rayn, 1853 ca Che il mercato dell’arte fosse assai vivace anche in provincia negli anni in cui visse Simone Cantarini basterebbe a dimostralo la copiosità degli elenchi di quadri che scorrendo gli inventari trascritti nei documenti del secolo diciassettesimo vengono via via alla luce, e Fano non è da meno di altre cittadine dove la nobiltà e la ricca borghesia amano acquistare per le proprie abitazioni dipinti, suppellettile varia e apparati, palesando in alcuni casi uno spiccato gusto per l’arredo sontuoso e aggiornato a criteri che sembrano uniformarsi a quelli adottati nei grandi palazzi della capitale o dei centri maggiori, fino a riempire in modo omogeneo tutti gli spazi delle pareti. Tra i dipinti elencati negli inventari, indicati quasi sempre attraverso una sommaria descrizione del soggetto rappresentato e solo in casi eccezionali seguiti dal nome del loro vero o presunto autore, si trovano più frequentemente temi religiosi - tante le Sacre famiglie, le Madonne con o senza bambino, i Santi spesso omonimi dei signori che abitano quelle stanze - a riprova di un radicato sentimento di devozione famigliare, ma al contempo abbondano i ritratti dei membri di spicco della casata o di personaggi illustri che hanno un qualche rapporto con la famiglia. Proprio per questa ovvietà, non sempre, a mio giudizio, si tratta di una consapevole intenzione collezionistica da parte dei proprietari, ma di certo non mancano, sulla base delle carte d’archivio consultate, prove sufficienti ad attestare che diverse famiglie fanesi, nel corso del Seicento e oltre, raccolsero all’interno dei loro palazzi notevoli collezioni d’arte di cui,

nostro malgrado, poco o nulla sembra essersi salvato dalla dispersione, quasi fisiologica considerando l’estinzione di diverse casate, come nel caso, ad esempio, della nobile famiglia fanese dei Carrara che per ovviare a questo provvide ad affiliare Pietro Paolo Lanci, a condizione che sposasse una delle figlie del capitano Giovanni Carrara1. L’inventario stilato il 3 maggio del 1672 dei beni di Giulia Carrara, moglie di Pietro Paolo, conferma la consistenza di un patrimonio che i proprietari tentano di mantenere unito e, a riprova di un gusto condiviso, annovera oltre a diversi dipinti di soggetto sacro tra cui un San Francesco di Paola, un San Girolamo, un San Tommaso d’Aquino, un San Pietro ecc., diversi ritratti come quello dei coniugi Lanci - Carrara, del capitano Giovanni, del cardinale Aldobrandini e di altri membri delle due famiglie. A risarcire il totale e consueto silenzio in merito agli autori dei dipinti o alle loro scuole di appartenenza, l’inventario riporta qua e là sintetici giudizi quali: una Annunziata in forma rotonda di buona mano, un San Francesco ordinario, una Madonna antica con colonnine dorate 2. Ancora, in quegli stessi anni, l’inventario di Giulia Uffreducci, stilato il 7 febbraio del 1669 alla morte del marito Papirio Danielli, enumera in sequenza diversi dipinti - alcuni definiti usati per indicare probabilmente uno stato conservativo già compromesso mentre l’aggettivo antico anch’esso ricorrente mira piuttosto a connotare molto genericamente l’epoca di esecuzione - con i consueti soggetti sacri e gli immancabili ritratti di famiglia, ai quali però si aggiungono un certo numero di paesaggi (sei vecchi e rotti, altri sei piccoli usati e quattro ordinari) e una donna che si lava con un catino a riprova di un interesse, seppur timido, nei confronti della pittura di genere3 Più dettagliato e ricco l’Inventario de’ mobili esistenti nell’habitazione del Signor Commendatore Camillo de Pazzi fatto dalla Signora Vittoria Castracani moglie del suddetto Commendatore (…) con l’assistenza del Signor

Simone Cantarini, Madonna della Pappa, Rio de Janeiro, Biblioteca Nazionale 71


Conte Annibale di Monte Vecchio, stilato il 29 aprile 16694: cominciando dalla camera posta a pian terreno dove nel 1592 era nato Ippolito Aldobrandini, futuro papa Clemente VIII5, e a queste date adibita a magazzino, l’elenco dei beni della famiglia prosegue toccando tutti gli ambienti del palazzo, sontuosamente arredato con corami buoni e belli colorati in oro e rosso, tappeti nuovi ed uno di velluto turchino con sue frange e lavori alla francese, specchi piccoli e grandi, sedie e banchetti di vacchetta, sedie d’appoggio veneziane con l’arme, cassapanche, credenze, tavoli e buffè. Ricca e varia la collezione di dipinti distribuita in tutte le stanze, compresa la cucina dove si trovano un quadro piccolo con cornice rappresentante santa Caterina et molti altri santi. Andando per ordine d’inventario, nella sala grande del piano nobile, dipinti di soggetto religioso - una Pietà collocata sopra il camino, un Battesimo di Cristo e una piccola Annunciazione - convivono con i sovrapporta rappresentanti le quattro stagioni dell’anno a guazzo, mentre nella prima camera della sala si trovano un paesetto in tavola, un quadretto rappresentante una Madonna. Un San Filippo Neri in tela senza cornice e una Santa Maria Maddalena de Pazzi. A seguire l’armeria con carabine, archibugi, spade, spadini e pugnali,

e quindi, passate altre stanze dove non si segnalano quadri di rilievo, si arriva alla camera congiunta alla loggia che raccoglie, fra le altre cose, sei paesi corniciati, un quadro rappresentante amore, un quadro grande dove vi è una Venere giacente e un altro quadro rappresentante Noè addormentato. Questa stanza, a cui sarei tentata di attribuire una funzione di salottino privato - considerati i soggetti più lascivi selezionati, come quelli della Venere, dell’amorino e dell’Ebrezza di Noè, e raccolti insieme - è attigua a una camera grande rispondente all’orto, probabile stanza da letto forse per ospiti di passaggio, data la presenza di banchi due da letto con colonne turchine e oro e quadri a tema religioso quali un Ecce homo e una Madonna della neve in rame e una Madonna del Rosario “alla quale si accende la lampada ogni sabato e vigilia”, cui si aggiunge un piccolo Ritratto di Camillo de Pazzi. A camera da letto credo fungesse anche la successiva camera grande per la presenza di una lettiera in noce con colonne e staggie con paiaccio, e matarazzo, e guanciale lungo con coperta di rascia turchina sulle cui pareti, accanto ad un piccolo specchio, figuravano un quadro con San Girolamo, un altro con David e la testa di Golia e una Susanna in rame piccola con cornice in pero. Infine, nel corridoio che da qui portava alla cucina, erano appesi i Ritratti del Gran duca e Gran duchessa [di Toscana] e due damigelle 6. Ancora, l’inventario della nobile famiglia dei Rinalducci sempre alla fine degli anni Sessanta registra una collezione di dipinti variegata e aperta a diversi generi pittorici, come ritratti di famiglia, di uomini illustri, di imperatori e di pontefici, soggetti sacri fra cui un San Michele Arcangelo, una Santa Maria Maddalena, una Ritrosia di Giuseppe (assai probabilmente Giuseppe e la moglie di Putifarre), un San Carlo e un San Girolamo. Non mancano però nature morte, soggetti profani come un baccanale di musica e una Venere e amorino, o bambocciate con Giocatori di carte, donne che ridono e uomini che bevono7. Ancora quadrerie, il mercato artistico e una spezieria

Simone Cantarini, Apparizione della Vergine col bambino in gloria a san Tommaso da Villanova, Fano, Pinacoteca civica, particolare 72

Andando a ritroso nel tempo si registra, non diversamente da quanto già rilevato e dunque a conferma di uno stile che per decenni si mantiene inalterato, un numero apprezzabile di quadrerie, alcune più cospicue altre meno, formate nelle abitazioni delle famiglie altolocate di Fano stando agli inventari dei beni mobili riportati nelle Adizioni di eredità, a cominciare da quella di Romolo Gisberti, che porta la data del 16 aprile 1655, dove la maggior parte dei dipinti si concentra in una sala d’alabastro, che


contiene alcune tele di soggetto religioso (un San Girolamo, una Madonna, un San Carlo) dodici quadri tra ritratti et armi e un ritratto del Signor Francesco vivente 8. L’eredità di Pier Antonio Saltanucci, inventariata, dopo la morte di questi, tra il 29 marzo e il 15 novembre 1659, può vantare un quadro in mezzo al soffitto con Diana collocato nella sala principale a cui fanno buona compagnia tre serie di dipinti raffiguranti i Quattro Evangelisti la prima, un’altra i Quattro Dottori della Chiesa, ed una terza vari Ritratti di Poeti, nonché un Salvatore e una Madonna 9. Nel documento riguardante l’eredità di Elisabetta Arduini, moglie di Lorenzo Borgogelli, datato 29 gennaio 1660, i beni ereditati dal marito, tra cui figurano soprattutto quadri di soggetto religioso, vengono distinti da quelli ereditati dalla Signora Elisabetta (…) venuti da Urbino fra i quali spicca un quadretto dipintovi un Santissimo Crocifisso del Baroccio. La provenienza urbinate dell’opera rende plausibile l’attribuzione - eccezionale nell’anonimato più assoluto che accompagna il resto di questa come delle altre quadrerie - anche se potrebbe trattarsi di un dipinto uscito dalla bottega del Barocci considerando la grande fortuna del soggetto eseguito in più occasioni dal maestro e dai suoi allievi diretti10. Diversamente da quanto emerge dalla lettura degli inventari precedenti, quello riportato tra i documenti dell’eredità di Girolamo Moricucci, stilato nel 1661, presenta oltre alle consuete opere di soggetto religioso, ai ritratti e ai paesaggi, alcuni quadretti di frutti che testimoniano l’affermarsi di un gusto aggiornato al genere della natura morta11, al quale venne forse sensibilizzato negli anni trascorsi a Roma nell’orbita di prestigiosi prelati e degli stessi Barberini, come ricordava Bernardino Borgarucci lodando del Moricucci il posto cospicuo tra’ cortigiani letterati fanesi12. Che dietro l’anonimato delle opere raccolte in questa come nelle altre quadrerie si celino tele eseguite da Simone Cantarini possiamo solo presumerlo, ma la presenza, nell’Ottocento, di una Pudicizia di Simone ricordata da Amico Ricci presso la famiglia dei Montevecchio13 e di un dipinto sempre attribuito al pesarese dal soggetto non specificato, conservato in casa Mariotti e citato nella Guida storico artistica di Fano di Evaristo Francolini14, non può che confermare questa supposizione. Al mercato abbastanza vivace di compra vendita di opere d’arte che è giusto immaginare nella Fano del Seicento - testimoniato anche dalla presenza di un fitto sottobosco di rigattieri e periti chiamati a stimare i singoli pezzi inventariati nei testamenti corre parallela la presenza di artisti operanti in loco,

attivi su commissione diretta per la realizzazione di pale d’altare o dipinti destinati ai privati, e al contempo impegnati nelle grandi imprese decorative, come i noti casi di San Pietro in Valle e della cappella Nolfi in Duomo, per la cui realizzazione vengono chiamati artisti da fuori. È risaputo che il materiale necessario al lavoro dei pittori si poteva acquistare nelle spezierie e in città ne esisteva almeno una, collocata nella parrocchia di San Tommaso e non distante dalla chiesa, al cui interno come di prassi si trovavano pigmenti, colle, lacche e quant’altro servisse al bisogno. Il proprietario Deodato Cenni, che con la moglie Francesca abitava il piano superiore della bottega, aveva lasciato alla sua morte tutti i beni al fratello canonico Pier Matteo Cenni, compresa la spezieria al cui interno, come testimoniato dall’inventario redatto il 4 settembre 1669, accanto a spezie e prodotti medicamentosi, tutti conservati in vasi di maiolica fina, bocce e cristalli, si potevano acquistare argento riccio, minio fino, gomma lacca, verde rame grosso, lapis rosso, lapis negro, biacca fina, smalto a oglio, smalto a acqua, alabastro pisto, giallo fino ecc. Nella Nota delli debiti spettanti all’Heredità troviamo che Cenni doveva del denaro al Signor Antonio Muccioli mercante di Pesaro per diverse robbe date al quondam Signor Deodato Cenni per servizio della spezieria15. Muccioli, come è noto, già da diversi decenni aveva avviato a Pesaro una drogheria, nella gestione della quale furono coinvolti diversi membri della famiglia, punto di riferimento per molti pittori che vi potevano trovare colori, pennelli e carta, e nello stesso tempo probabile luogo di smercio di dipinti16. Non è da escludere che anche il Cenni svolgesse saltuariamente l’attività di mercante d’arte - facilitato in questo dalla frequentazione degli artisti che gravitavano attorno alla sua bottega - considerando che in casa, al momento in cui viene steso l’inventario, si trovano più di novanta quadri, piccoli e grandi, e un certo numero di carte tra disegni e stampe, forse destinati alla vendita17. Le collezioni d’arte delle famiglie Corbelli e Marcolini Possiamo affermare che la passione per il collezionismo raggiunge la sua piena espressione e trova una più evidente testimonianza quando tra gli ambienti che vengono citati come contenitore degli oggetti inventariati (per lo più sale, camere, camerini) compare una galleria, spazio celebrativo delle ricchezze e dello status sociale del signore del palazzo, al tempo stesso vocato ad uso espositivo, 73


Simone Cantarini, Studio per due putti, Genova, Gabinetto di Disegni e Stampe di Palazzo Rosso

tanto apprezzato da divenire in breve tempo accessorio fondamentale delle abitazioni delle famiglie altolocate e più aggiornate, nei centri maggiori come in provincia. Tra gli ultimi decenni del secolo e nel corso del Settecento, sono proprio i Corbelli e i Marcolini - i patrizi fanesi che commissionarono due delle tre opere pubbliche a Simone Cantarini per la loro città - a vantare all’interno dei rispettivi palazzi uno spazio adibito a galleria, come i documenti e le fonti attestano in modo inequivocabile. Nell’inventario datato 1680 dei beni di casa Corbelli, ritrovati dopo la morte della buona memoria del Signor Cavaliere Camillo Corbelli18, e che vengono distinti da quelli del fratello monsignor Pietro, collegata alla sala compare subito la galleria, dove l’arredo qualifica la particolarità dell’ambiente connotato dalla compresenza di ritratti tutti al femminile e di paesaggi in egual numero - dettagli che ci autorizzano a supporre la volontà di esprimere una scelta ragionata e non casuale nei soggetti e una ricercata simmetria come criterio espositivo - disposti insieme con nove busti e teste di marmo, forse antiche o copie tratte dall’antico, presumibilmente collocati sopra dei piedistalli intagliati, a cui si aggiungono l’immancabile ritratto di famiglia, ma questa volta, certo non a caso, quello di una donna (Giovanna Gabrielli, moglie del cavalier Camillo), altri due paesaggi come sovrapporte e sei arcibanchi intagliati. Mancano purtroppo descrizioni più puntuali o testimonianze figurative ma è assai probabile che nel 74

complesso l’ambiente tendesse a ricalcare, nell’alternanza di dipinti e sculture, i modelli più sontuosi delle gallerie dei palazzi delle principali città dello Stato Pontificio, sicuramente non estranei alla nobile famiglia fanese. Proseguendo tra le sale dell’edificio, collocato all’incrocio tra la via del Corso e via Arco d’Augusto, ci accolgono altri ambienti apparati elegantemente con broccati e stoffe damascate di colori accesi come il giallo, il verde, il cremisi, e pieni di dipinti (diversi paesaggi ma soprattutto immagini sacre), specchiere, statuette, vasi, sedie d’appoggio, sgabelli coperti di broccatello e altro mobilio, prima di arrivare nella Camera dello studio dove troviamo un ricco patrimonio librario che evidentemente asseconda gli interessi culturali della famiglia con testi di legge civile e canonica, teologia scolastica e morale, e poi libri antichi e moderni di storia, politica, grammatica, retorica, poesia e musica. Che poi il cavaliere Camillo Corbelli conducesse uno stile di vita uso agli agi e ai divertimenti e che non disdegnasse di partecipare alle feste e ai travestimenti in tempo di carnevale, - lo stesso Vincenzo Nolfi nella sua Ginipedia ricorda le mascherate allegoriche organizzate dalle gentildonne di Fano proprio per l’occasione19 - lo possiamo dedurre dagli abiti da commedia conservati nel sottotetto all’interno di casse di noce. Tornando alla quadreria, tra le opere descritte vi figura anche un dipinto rappresentante San Tommaso da Villanova probabile copia della pala d’altare commissionata nel 1638 a Simone Cantarini e destinata alla chiesa agostiniana di Santa Lucia20, dove rimane fino agli inizi dell’Ottocento almeno. La presenza di questo soggetto in casa Corbelli sarebbe una ulteriore riprova del fatto che gli stessi committenti erano soliti far fare delle copie di opere realizzate sempre per loro conto e, come in questo caso, destinate ad un luogo pubblico, per conservare in privato una memoria del patrimonio artistico di loro appartenenza21. La pala con La Vergine col bambino appare a san Tommaso di Villanova dipinta per Santa Lucia, invece, rimase in chiesa fino al 1808, come testimonia l’inventario dei beni del convento dei padri agostiniani stilato il 10 giugno di quell’anno quando, in ottemperanza alle nuove disposizioni sancite dal governo napoleonico, chiesa, convento e beni mobili degli agostiniani passano allo Stato, fatta eccezione per quegli oggetti appartenenti di diritto alle famiglie private, che ne sono i legittimi proprietari, fra cui la pala di Cantarini che torna ai Corbelli e viene sistemata all’interno del palazzo cittadino22. È qui infatti che la ritroviamo descritta nell’inventario e stima


dei beni della famiglia stilato nel 1845 in occasione della divisione concordata tra i tre fratelli Vincenzo, Francesco ed Antonio23, nella camera apparata verde dell’appartamento al primo piano abitato al momento dal conte Vincenzo24, ormai privo come il resto del palazzo dello sfarzo di un tempo, e sempre qui la vede Stefano Tomani Amiani prima del 1853, quando è impegnato a redigere la sua Guida Storico Artistica di Fano, augurandosi che i proprietari continuino a conservarla appesa alle domestiche pareti e ad averne cura25. Anche nel palazzo di città dei Marcolini, committenti tra lo scadere del quarto decennio del Seicento e l’aprirsi del quinto della tela raffigurante San Pietro risana lo storpio che la critica ritiene tra le pale del Cantarini di più alta qualità esecutiva, realizzata per la chiesa di San Pietro in Valle a Fano26, esisteva una galleria citata, più di un secolo dopo, dall’erudito bolognese Marcello Oretti e da Pietro Zanotti, autore quest’ultimo di alcuni dipinti che vi erano esposti fra i tanti di una ricca quadreria che ancora agli inizi dell’Ottocento poteva vantare una Lucrezia romana di Guido Reni - di cui esistevano nella stessa collezione almeno due copie una delle quali a mosaico - e un Presepe di Federico Barocci, attualmente dispersi27. Un nuovo documento che l’archivio ci ha restituito e che aggiunge ulteriori elementi relativi alle scelte collezionistiche dei nobili fanesi riguarda l’inventario dei beni del ramo famigliare Marcolini Zanibelli steso nel 1737, quando i fratelli Pietro Maria e Marcantonio decidono di dividere il patrimonio e l’intera quadreria dopo la morte del padre Ludovico28. Tra i quadri spettanti a Marcantonio Marcolini, l’inventario - in questo caso particolarmente generoso tanto da aggiungere, per alcuni dipinti, informazioni preziose quali le misure e il nome dei presunti autori - ricorda ben quattro opere da ricondurre a Pietro Perugino e alla sua scuola a cominciare da una tavoletta con lo Sposalizio della Vergine, stimata sessanta scudi, che sulla base delle misure fornite (alto un palmo lungo palmi 2 1/1 (sic), equivalenti a 26 x 65 cm ca.) e del soggetto rappresentato possiamo supporre ricalcasse il modello di uno degli scomparti della famosa predella con gli Episodi della vita della Vergine della pala peruginesca di Santa Maria Nuova; una Madonna con il bambino e san Francesco e una Madonna con il bambino riferite rispettivamente al Vannucci e alla sua alla scuola; e infine una Pietà grande per traverso copia di Pietro Perugino forse tratta dalla quella che Vasari ricorda nel convento fiorentino di San Giusto, oggi agli Uffizi. Gli interessi dei

Marcolini per la pittura tra Quattro e Cinquecento comprendono tanto gli artisti locali, come confermato dalla presenza nella quadreria di Una Madonna con il bambino e santa Maria Maddalena con sua cornice dorata intagliata dipinta in tavola del Presciutti [Giuliano Persciutti], quanto maestri ben più noti e affermati protagonisti della scena romana quali Sebastiano del Piombo, di cui è citata, in collezione, una Madonna con il putto che dorme, valutata 80 scudi, presumibilmente una delle numerose repliche o copie conosciute che derivano dal prototipo della tavola dipinta e firmata da Sebastiano e nota come Madonna del velo, oggi esposta nel Museo d’Arte di Olomouc, o da quella eseguita su lavagna della Galleria Nazionale di Capodimonte a Napoli. In entrambe le versioni, dipinte specularmene, il bambino è rappresentato disteso e addormentato sotto lo sguardo mesto e vigile della Madonna, che si appresta a ricoprirne il corpo con un tessuto velato, e alla presenza di san Giuseppe da un lato e di san Giovannino dall’altro. Ma le sorprese di questo inventario non finiscono e tra i dipinti citati compare un putto di Simon Cantarino con sua cornice intagliata dorata che viene valutato 80 scudi, la cifra più alta assieme al quadro di Sebastiano del Piombo, mentre poco più avanti troviamo ancora Due quadri per alto rappresentanti un putto e l’altro una Donna copie di Simon Cantarini. Sebbene ci manchino i dati necessari per rintracciare i dipinti in collezione Marcolini Zanibelli - ma è pur vero che numerosi disegni indicano la propensione di Simone a trattare soggetti quali putti e angioletti29 come per altro testimonia l’inventario dell’eredità del pittore dove figurano Un Puttino, che tiene una vacchetta e Una testa di Donna Scrostata 30 - è assai probabile che l’acquisizione di questi quadri risalga agli anni in cui Cantarini eseguiva la pala per la chiesa di San Pietro in Valle, dove anche i Marcolini Zanibelli avevano una cappella intitolata alla Natività, e che almeno per il Putto dato come autografo si tratti di una commissione diretta. La presenza di copie, peraltro, non sminuisce il valore della collezione ma piuttosto l’arricchisce nel ribadire l’apprezzamento nei confronti del pittore da parte dei proprietari che anche in privato possono ostentare scelte ricalcate su quelle fatte per la chiesa dei padri Filippini, affermando un gusto aggiornato e attento alla pittura bolognese, come la presenza nella quadreria di Marcantonio di una Santa Maria Maddalena, copia del Guercino, conferma ulteriormente31.

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Il quadro raffigurante La Vergine col bambino appare a san Tommaso di Villanova lascia, in data imprecisata ma presumibilmente tra il 1853 e il 1855, il palazzo Corbelli per approdare in quella che a metà Ottocento doveva essere una delle più cospicue collezioni fanesi, di proprietà dell’abate Giovanni Rayn, un personaggio che le recenti ricerche hanno rivelato svolgere un ruolo importante nell’ambito dell’erudizione artistica, della conservazione e del restauro del patrimonio locale. Figlio del pittore e perito Giuseppe Rayn, di origine tedesca, l’abate stesso fu un espero conoscitore, chiamato a periziare i fondi di eredità e a dare consigli in ambito storico artistico: a confermare le sue competenze basterebbe ricordare la puntuale revisione che fece del manoscritto della Guida di Stefano Tomani Amiani, debitore nei confronti di Rayn di precisazioni, consigli, aggiornamenti suggeriti dall’abate e riportati nella redazione finale del testo32. La quadreria che nel 1855, anno in cui l’abate morì vittima di una violenta epidemia di colera, era in

suo possesso, ammontava a più di 250 pezzi, conservati, assieme ad una raccolta di libri non meno consistente, nella sua abitazione in casa Della Santa, l’antico palazzo Arnolfi, collocato ad angolo tra la piazzetta del Duomo e via Arco d’Augusto, presso cui era affittuario.33 L’inventario stilato alla sua morte34, che in buona parte ricalca uno precedente e di pugno dello stesso Rayn a cui si fa spesso riferimento, enumera e descrive con generosa dovizia di precisazioni tutti i dipinti fra cui compare un numero non indifferente di tele attribuite a Simone Cantarini, a cominciare da Un bellissimo semibusto di S. Andrea Apostolo, con gli occhi parimenti alzati al cielo 35. All’interno del catalogo di Simone un soggetto analogo si ritrova nel dipinto della Galleria Palatina di Palazzo Pitti dove tuttavia la franchezza dello sguardo diretto di “Sant’Andrea” sottilmente malinconico e insieme pieno di caparbietà 36 è ben altra cosa di quello più languido e patetico che suggerisce l’inventario e dal quale si deduce che se davvero si tratta di un autografo il modello, di cui non si conoscono riferimenti diretti, differisce comunque da quello fiorentino. Proseguendo

Simone Cantarini, Sant’ Andrea Apostolo, Firenze, Galleria Palatina di Palazzo Pitti

Giovanni Carlo Allet, Natività di Cristo e angeli, Bologna, Pinacoteca Nazionale

I Cantarini di don Giovanni Rayn

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Simone Cantarini, Sacra Famiglia con i Santi Giovannino ed Elisabetta, collezione privata

Simone Cantarini, Madonna col bambino e san Carlo Borromeo, New York, Asta Bonhams (26 gennaio 2007, lot. 4)

nell’inventario Rayn, troviamo ancora Una Madonna col bambino in grembo, sant’Anna in atto di passare il cibo al bambino e san Gioacchino indietro. Originale in tela di Simone Cantarini da Pesaro, quando imitava il Barocci; quella stessa Sacra Famiglia veduta dal Lanzi in Casa Olivieri e citata nella sua storia, quando parla di Simone da Pesaro 37. Perdute le tracce della tela di provenienza Olivieri, ci è noto un disegno a sanguigna della Biblioteca Nazionale di Rio de Janeiro e pubblicato da Anna Maria Ambrosini Massari che ne identifica il soggetto come Madonna della pappa, sottolineando l’intonazione affettuosa e la grazia tutta baroccescadi questa iconografia piuttosto rara di presa emotiva e popolare di cui si conoscono altri disegni con varianti però meno articolate38. Grazie all’inventario Rayn, che tra i libri possedeva una edizione della Storia pittorica e che come i suoi commenti dimostrano era buon conoscitore di quelle pagine, è possibile mettere in riferimento l’opera citata da Luigi Lanzi genericamente come Sacra Famiglia 39 con quella di proprietà Olivieri che l’erudito e storico dell’arte poté vedere direttamente durante il suo soggiorno a Pesaro, ospite di Annibale degli Abbati Olivieri Giordani40. Il dipinto è ancora ricordato nel 1828 nell’inventario dei beni di Pierfrancesco Almerici, che attraverso complesse vicende eredita la ricca quadreria pesarese degli Abbati Olivieri, at-

tribuito però alla scuola del Cantarini o alla sua maniera e valutato 15 scudi soltanto41. Tra i numerosi dipinti riferiti a Simone citati in questo inventario, e a quelle date conservati ancora negli ambienti di palazzo Almerici, ne troviamo almeno altri due che ventisette anni dopo compaiono tra i beni dell’abate fanese, prova abbastanza evidente che questi si premurò di procacciarsi parte della quadreria, a lui ben nota, quando venne alienata. Si tratta di Una Madonna con grazioso bambino, che prende da un angelo alcune frutta con S. Giuseppe addietro. In tela. Originale di Simone da Pesaro quando studiava sotto il suo maestro Pandolfi 42 e di una Notte di Natale, cioè il bambino, la Madonna, san Giuseppe e due angeli indietro. Studio bello qualificato di Simone da Pesaro quando era in possesso dello stile di Guido. Si conserva la stampa grande del quadro, fece all’altare per la casa Olivieri di Pesaro, dove sono rimasti i due Angeli 43. Il termine studio, che sembrerebbe alludere ad un disegno o ad un abbozzo preparatorio, non compare nell’inventario Almerici ma piuttosto che ipotizzare due opere distinte sarei più propensa a ritenere che l’estensore dell’inventario Rayn possa essersi semplicemente sbagliato per la fretta o per l’incompetenza, mentre i due angeli nel 1828 non figurano in alcuna delle stanze di palazzo Almerici. Per quanto poi riguarda la stampa, andrà senz’altro 77


messa in relazione all’acquaforte citata da Andrea Emiliani (Bologna, Pinacoteca Nazionale), eseguita nel 1713 da Giovanni Carlo Allet e derivata da un disegno di Pietro de Pietri, che testimonia il favore incontrato da questo soggetto il cui prototipo, un tempo presso l’abitazione di Fabio Olivieri stando a quanto recita la dedica in calce all’incisione, è andato perduto44. Pur mancando riferimenti puntuali per la tela con la Sacra famiglia caratterizzata dal gesto affettuoso dell’angelo che offre della frutta a Gesù, così come per il Quadro per l’alto in tela (…) rappresentante S. Giuseppe col bambino in piedi sopra un tavolino, in atto di far odorare una rosa a Maria Santissima citato poco dopo45, la propensione di Cantarini ad eseguire soggetti di questo genere sperimentando diverse varianti è testimoniata da numerosi disegni e schizzi preparatori per opere che tanto erano apprezzate dai collezionisti, dove il maestro tocca momenti di forte intensità espressiva e di fresca originalità. Ancora l’inventario della collezione Rayn prosegue annoverando un Piccolo quadro in tela, senza cornice, rappresentante la Madonna, il bambino, san Giovanni e dietro san Giuseppe. La sola testa della Madonna è finita, il resto meno che abbozzato. Originale di Simone da Pesaro 46. Il particolare dello stato di non finito ci induce ad accostare il dipinto alla Sacra famiglia con i santi Giovannino ed Elisabetta di collezione privata e di provenienza sconosciuta che fu esposta alla mostra di Bologna del 1997, sebbene la figura di san Giuseppe in questa tela sia appena percepibile a sinistra sullo sfondo e vi compaia invece santa Elisabetta che nell’inventario della collezione fanese non viene citata (che si tratti di una svista dell’estensore ?)47. Procedendo nella lettura del documento troviamo poi una Mezza figura dipinta in tela senza cornice, rappresentante Santa Caterina Martire, con la persona di fronte e con le mani posate sopra la ruota del martirio. Originale di Simone Cantarini da Pesaro. Stato restaurato 48. In questo caso non conosciamo dipinti da poter direttamente accostare a questo, ma un disegno attribuito a Lorenzo Pasinelli, nato in prossimità di un’idea cantariniana 49 e abbastanza vicino alla Santa Caterina di collezione Rayn, vale a riprova del fatto che esisteva un modello di questo soggetto elaborato da Simone (forse il quadro ricordato da Campori venduto nel 1870?50) da cui gli allievi, come il Pasinelli, potevano prendere liberamente spunto51. E la stessa cosa varrà per la copia tratta d’appresso l’originale di Simone da Pesaro di un dipinto del suo allievo Giovanni Maria Luffoli rappresentante una Madonnina in semibusto, con un Putto, san Carlo Bor78

romeo e due angioletti in alto che sostengono un paludamento 52. Anche di questo soggetto, di cui ci è nota la versione della Galleria Pallavicini dalla quale fu verosimilmente ricavata la copia del Luffoli53, conosciamo dei disegni di mano del Cantarini - uno di questi battuto all’asta Bonhams di New York il 26 gennaio 2007, lot. 4 - probabili studi preparatori messi a disposizione degli allievi che, attraverso l’esercizio della copia come forma di apprendimento delle tecniche artistiche e nello stesso tempo come strumento di conoscenza delle opere del maestro e di appropriazione dei modelli consacrati da una autorevole tradizione 54, portavano a compimento la loro formazione. In chiusura del lungo inventario, troviamo infine il Gran quadro da altare, rappresentante S. Tommaso da Villanova, e precisamente quello acquistato da questa nobil casa Corbelli 55. Com’è noto la famiglia fanese, che per altro vantava un vincolo di parentela con i Cantarini56, vendette la pala a don Giovanni Rayn con un rescritto che ne vietava l’esportazione57, in virtù del quale la tela fu risparmiata dalla dispersione che toccò al resto della collezione dell’abate dopo la sua morte. La particolare premura nei confronti di questo dipinto da parte di Rayn, che evidentemente conosce bene ancor prima di proporsi per l’acquisto, si desume anche dalle poche righe ritrovate tra le pagine indirizzate a Tomani Amiani con le correzioni e i suggerimenti da apportare alla sua Guida, dove suggerisce che la migliore collocazione per la pala, già trasportata all’interno del palazzo, sarebbe l’originaria cappella in Santa Lucia. E questo non tanto per una questione conservativa, che pure gli preme, quanto piuttosto per restituirgli una luce più vergine, perché sarebbe proprio quella per cui il quadro fu fatto 58, dimostrando in tal modo di possedere grande sensibilità e una apertura critica moderna nei confronti, soprattutto, della pittura del Seicento bolognese.


Desidero ringraziare il personale dell’Archivio di Stato di Fano e in particolare la responsabile della Sezione Maria Neve Fogliamanzillo per la generosa disponibilità con la quale ha orientato le mie ricerche, nonchè l’archivista Sonia Ferri per l’altrettanto preziosa collaborazione. Un ringraziamento ancora ad Anna Maria Ambrosini Massari per i consigli e per il costante supporto dato a questo lavoro.

Note 1 Francesco di Pandolfo Carrara nato 1585, (…) non ebbe alcun figlio sicché veduto che la sua famiglia si estingueva con suo testamento del 19 settembre 1652 (…) chiamò suo erede con l’obbligo di assumere arma e cognome Carrara senza altra mescolanza il nobile Pietro Paolo Lanci figlio di Averardo e di Giulia Carrara sua sorella, con l’ingiunzione che dovesse sposare Giulia figlia del capitano Giovanni Carrara suo fratello. Il che avvenne e tale Pietro Paolo Lanci con il nome di Pietro Paolo Carrara fu ammesso…, FBF, ms Borgogelli 1930, VII, pp. 106-129, in part. 111. Si veda inoltre Deli 1989, pp. 61-79. 2 ASF, Adizioni di Eredità, busta 2. 3 ASF, Adizioni di Eredità, busta 6. 4 La presenza del conte Annibale di Montevecchio è motivata dal fatto che Camillo de Pazzi, morto il 16 giugno 1669, lasciò l’eredità a Vittoria Castracane sua moglie e a Pompeo Camillo suo nipote e figlio del conte Annibale de’ Montevecchio e Cornelia Pazzi sorella del testatore. Cfr. FBF, ms Borgogelli 1930, VII, pp. 277-280, e ivi, ms Bertozzi, sec. XVIII, F, pp. 175-182. 5 L’inventario recita: Camera dove nacque papa Clemente, che serve per magazaneo. ASF, Adizioni di Eredità, busta 6. La notizia riguardante l’abitazione nella quale nacque il futuro pontefice è inedita e a tutt’oggi non si conosce il palazzo dove vissero Camillo de Pazzi e Vittoria Castracane. 6 ASF, Adizioni di Eredità, busta 6. 7 ASF, Adizioni di Eredità, busta 6. 8 ASF, Adizioni di Eredità, busta 1. Nelle altre stanze del palazzo troviamo inoltre cinque quadri a guazzo cioè le Stagioni dell’anno, diversi quadretti indorati alla veneziana, un San Nicola da Tolentino, un Gesù Cristo, vari ritratti dei membri delle famigli Gisberti e Palazzi. 9 ASF, Adizioni di Eredità, busta 1. Altri dipinti, di soggetto unicamente sacro, decorano il resto delle camere, fra cui tre quadretti piccoli con filetto d’oro con l’immagine della Madonna, due quadri con cornice nera con Nostro Signore e Beata Vergine un quadro grande con san Carlo, un altro con tre Magi con cornice alla veneta e ancora un San Carlo e una Santa Lucia. 10 ASF, Adizioni di Eredità, busta 1. I dipinti citati nell’inventario comprendono: quadro di legno figurato con una Madonna in rilievo con il bambino in braccio / quadro di pittura grossa dipintovi Susanna senza cornice / quadretto dipinto con una Madonna con cornice (…) / quadro dipinto con una Madonna antica con la cornice di legno / quadro di pittura grossa finitovi alcuni paesi [sic] / Ritratto del Signor Lorenzo Borgogelli. Tra i quadri provenienti da Urbino troviamo, oltre a quello attribuito a Barocci, una grande tavola raffigurante la Madonna col bambino e san Giovanni, una Madonna col bambino, un’altra grande tavola con San Francesco, una Cleopatra e un paio di ritratti dei membri di casa Arduini.

SIGLE E ABBREVIAZIONI ASF Archivio di Stato di Fano ASPs Archivio di Stato di Pesaro BACA Bologna Archivio Comunale dell’Archiginnasio FBF Fano Biblioteca Federiciana

11 ASF, Adizioni di Eredità, busta 1. Accanto ai quattro quadretti di frutta figurano tre ritratti non meglio specificati, un, un, due quadri grandi in tela senza che venga indicato il soggetto, quattro teste corniciate d’oro e negro, un San Pietro, dieci quadri con Paesaggi, una Madonna alla veneziana, cinque ritratti di dame francesi, tre teste piccole in quadri, una pietà corniciata d’oro e un San Girolamo senza cornice. 12 Borgarucci, a cura di Deli 1994, pp. 20-21, in part. 20.

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13 FBF, ms Fondo Giuseppe Castellani, sez. XII, 308, pubblicato a cura di Battistelli 1995, pp. 63-78, in part. 77. 14 Francolini 1877, p. 77. 15 ASF, Adizioni di Eredità, busta 1. 16 Sulla bottega e sulla collezione della famiglia Muccioli si vedano i contributi di Ambrosini Massari 1998, pp. 61-74; Arcangeli 2000, pp. 103-116. Si veda anche Prete 2009, pp. 487-503. 17 Tra i dipinti collocati nelle stanze degli appartamenti abitati dai Cenni, elencati nell’inventario molto sommario, si trovano, a partire dalla stanza che fu annessa verso S. Tommaso: un quadretto sopra l’inginocchiatore, quattro quadretti in tavola, quattordici carte tra disegni e stampe, nove quadretti di carte, venti quadri con sue cornici, quattro quadri grandi, cinque quadri piccoli uno dei quali indorato, un quadro alla veneziana, un quadro grande con san Francesco, quattro paesi due corniciati et gli altri no, diciassette quadretti tra grandi e piccoli, un quadro che si tiene avanti il camino, dodici quadretti diversi. ASF, Adizioni di Eredità, busta 1. 18 L’inventario dei beni di Casa Corbelli stilato alla presenza di Monsignor Pietro Corbelli e della moglie del defunto cavalier Camillo, Giovanna Gabrielli, entrambi tutori dei figli della coppia Francesco, Tommaso e Girolamo, viene chiuso il 29 novembre 1680. ASF, Adizioni di Eredità, busta 6. Si veda la trascrizione dell’inventario in Appendice. 19 Nolfi 1631. Deli 1989, pp. 81-92. 20 Sull’opera si veda Ambrosini Massari 1997a, pp. 49-63, in part. 60-61 e ead. 1997b, pp. 145-147, con bibl. precedente. 21 È questa, forse, la copia che sostituì l’originale nella chiesa degli agostiniani, quando la pala fu portata nel palazzo di famiglia, e che risulta dispersa dopo il 1921. cfr. Ambrosini Massari 1997b, pp. 145-146. 22 ASF, Archivio notarile, B, 1808-1809, rep. 4. L’inventario riporta: Altro Altare rappresentante S. Tomaso da Villanova con due candelieri grandi e piccoli, una croce, cartaglorie di legno dorato, tovaglie e sopratovaglia gialla, che disse il detto Priore spettare alla Casa Corbelli, e però non si stima. 23 ASF, Fondo Marcolini, busta 11.4. Si veda la trascrizione dell’inventario in Appendice. 24 Il quadro grande rappresentante S. Tommaso non viene stimato in questo inventario ma una annotazione a latere, che fa riferimento ad una non meglio specificata perizia Lanci, lascia presupporre che la stima sia stata fatta a parte, forse in tempi diversi, di questo come degli altri quadri. 25 L’aupicio di Tomani Amiani riguarda anche il Quadro di mediocre grandezza rappresentante il Cristo morto che si conserva nella camera verde contigua, anch’esso sottoposto alla perizia Lanci (ivi, c. 5), e che, come Tomani Amiani ricorda, da alcuni intelligenti si vorrebbe attribuire ad Annibale Carracci Bolognese. Si veda Tomani Amiani 1981, p. 107. 26 In merito alle vicende relative al coinvolgimento di Francesco Maria senior, della moglie Caterina e del figlio Francesco Maria Junior nella prestigiosa commissione si rimanda a Ambrosini Massari 1997a, pp. 98-101; ead. 1997b, pp. 151-152, con bibl. precedente. 27 Cfr. BACA, Oretti, ms B 291, cc. 36-37 e Zanotti 1739, II, p.

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151. Dei due dipinti di ragguardevole fattura facenti parte della collezione di quadri dei Marcolini che gelosamente si custodivano, ne eravi intelligente, od artista cui si denegasse la soddisfazione di ammirarli parla anche Tomani Amiani 1981, p. 156. Si veda inoltre ASF, 1819, Fondo Marcolini, busta 1 / 2. L’inventario è trascritto in Carloncini, a.a. 2001-2002, che raccoglie ulteriori approfondimenti sulla famiglia. 28 ASF, Fondo Archivio Notarile, notaio Guardinucci Agostino, BB, 1737, cc. 558 sgg. Si veda la trascrizione dell’inventario in Appendice. 29 Valgano per tutti lo Studio per due putti a matita rossa del Gabinetto di Disegni e Stampe, Palazzo Rosso, Genova e lo Studio per cherubini che cantano sulle nubi a sanguigna, della Biblioteca Nazionale di Rio de Janeiro. 30 Cfr. Cellini 1997a, pp. 24-25. Alcuni dipinti aventi come soggetto un Putto sono poi ricordati nelle collezioni bolognesi Malvezzi e Zambeccari. Si veda lo spoglio inventariale a cura di Morselli e Bonfait, in Colombi Ferretti 1992, pp. 110 - 132. 31 Sui Marcolini Zanibelli si veda BFF, ms Federici, n. 76. Il soggetto della Maddalena fu trattato diverse volte dal maestro di Cento e in assenza di ulteriori precisazioni non è possibile risalire al prototipo guercinesco. 32 Da parte sua Tomani Amiani ricompensa il lavoro di Giovanni Rayn dedicando all’interno della sua Guida un paragrafo intero alla collezione dell’abate. Tomani Amiani 1981, p. 134. FBF, ms Fondo Amiani, 125/7. Sull’opuscolo manoscritto è in corso un lavoro di trascrizione critica. 33 La quadreria fu lasciata in eredità alle Missioni Estere della Compagnia di Gesù che, smembrandola, la vendettero a Roma, importante centro del mercato pittorico. Queste vicende sono state ricostruite da chi scrive 2011, pp. 49-55 e ead. in corso di pubblicazione. 34 ASPs, Fondo Archivio Notarile di Pesaro, notaio Giovannelli 1855. L’inventario è stato pubblicato da Paolucci 1946a, pp. 2974 e ripubblicato con lo stesso titolo in “Atti e memorie. Deputazione di Storia Patria per le Marche”, 1946b. 35 ASPs, Notaio Giovannelli 1855, n. 158 e Paolucci 1946a, p. 31. 36 Cellini 1997b, p. 164, con bibl. precedente. 37 ASPs, Notaio A. Giovannelli 1855, n. 163 e Paolucci 1946a, p. 32. 38 Ambrosini Massari 1995, pp. 121-126. 39 Simone Cantarini da Pesaro (…) vide pel colorito le migliori opere de’ veneti, e soprattutto studiò da principio quelle del Barocci. Molto si conforma a questo esemplare in una Sacra Famiglia, che in casa Olivieri se ne addita insieme con vari altri quadri e ritratti della stesso autore. Lanzi 1831, X, p. 52. 40 Sulla famiglia pesarese degli Olivieri e sulla collezione si veda Patrignani 2011, pp. XIII-C, in part. LXX-LXXV, con bibl. precedente. 41 Cfr. Inventario di Beni ed Effetti del defunto Gianfrancesco Almerici, aperto il 28 maggio 1828. ASPs, Fondo Archivio Notarile di Pesaro, Notaio L. Perotti, vol. 463, pubblicato in Brancati 1995, pp. 15-41, in part. 24. 42 ASPs, Notaio A. Giovannelli 1855 n. 164 e Paolucci 1946a,


p. 32, Nell’inventario Almerici il dipinto era citato come Un quadro rappresentante la Madonna, S. Giuseppe, il bambino ed un Angelo che gli porge dei frutti in un piatto. Simone Cantarini. Si valuta Scudi quaranta. Brancati 1995, p. 26. 43 ASPs, Notaio A. Giovannelli 1855 n. 165 e Paolucci 1946a, p. 32, Nell’inventario Almerici la descrizione è la seguente: Un quadro rappresentante una Notte, ossia la Nascita di Nostro Signore. Simone Cantarini. Si valuta Scudi Sessanta. Brancati 1995, p. 24.

57 Ambrosini Massari 1997b e Mancigotti 2006, p. 55. L’inventario del 1845 evidenzia come a quelle date la quadreria di famiglia fosse notevolmente impoverita. 58 FBF, ms Fondo Amiani, 125/7.

44 Oltre a pubblicare una copia di collezione privata (Imola, collezione Graziani) tratta dall’incisione, Emiliani cita un disegno della collezione Acqua, che riferisce alla parte centrale della composizione. Il dipinto Olivieri continua Emiliani fu copiato dal nipote Alessandro, e la copia figura aggiunta nell’ dei dipinti del Cantarini che dopo la sua morte tornarono alla famiglia. Emiliani 1997b, p. 210. Si veda inoltre Ambrosini Massari 1997a, pp. 279280 e Cellini 1997a, p. 124. 45 ASPs, Notaio A. Giovannelli 1855 e Paolucci 1946a, p. 54. 46 ASPs, Notaio A. Giovannelli 1855, n. 45/200 e Paolucci 1946a, p. 39. 47 Cfr. Cellini 1997b, pp. 196-197. 48 ASPs, Notaio A. Giovannelli 1855, n. 104/262 e Paolucci 1946a, p. 50. Diversamente dal resto della collezione la Santa Caterina Martire non pare sia stata inviata a Roma perché da una lettera intercorsa tra i padri gesuiti e gli esecutori testamentari dell’aprile del 1856 si evince che il dipinto è in Ancona dove viene valutato da un perito e giudicato mal restaurato, e rotto nella tela nella parte inferiore, il prezzo che potrebbe cavarsi dice il signor […] potrebbe essere 15 scudi ma converrebbe spenderne 4 o 5 per ritoccarla e farci una cornice quindi comprendendo le spese di trasporto o altro, è di sentimento che non convenga tanto più che in Roma crede difficilissimo l’esito…. Cfr. Archivio Romanorum Societatis Jesu, Fondo Gesuitico 1419, busta 6. Lettera inviata da Fano al collegio romano dei gesuiti il 23 aprile 1856. Le vicende sono ricostruite da Prete in corso di pubblicazione. 49 Cellini 1996, pp. 114. 50 La mezza figura ricordata da Campori è citata in Colombi Ferretti 1992, p. 130. 51 Mazza 1997b, pp. 359-393, in part. 366-373. 52 ASPs, Notaio A. Giovannelli 1855 n. 73/231 e Paolucci 1946a, p. 45. 53 Tra le opere di Cantarini non più reperibili ma note perché citate dalle fonti, vengono ricordati Una Madonna col bambino e san Carlo Borromeo nella Collezione Lazzarelli di Gubbio e il dipinto di analogo soggetto facente parte un tempo della dispersa Collezione di Vincenzo Olivieri di Pesaro, come scriveva Marcello Oretti nel 1777 in Pitture nella città di Pesaro, BACA, ms 165/11, Fasc. F, cc. 302-314, pubblicato in Patrignani, Barletta 1998, pp. 29-31 in part. 31. Cfr. Mancigotti 1975, p. 100 e Colombi Ferretti 1992, pp. 129-130. Che si tratti della stessa copia del Luffoli? 54 Mazza 1997b, p. 366. 55 ASPs, Notaio A. Giovannelli 1855 n. 200/358 e Paolucci 1946a, p. 61. 56 Si veda il saggio di Anna Maria Ambrosini Massari in questo volume.

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APPENDICE DOCUMENTARIA

Nella trascrizione degli inventari si sono tralasciate le parti dove i dipinti e le sculture non compaiono perché non riguardano, nello specifico, questo studio dedicato al collezionismo artistico; pertanto ciò che è stato omesso è indicato con puntini di sospensione. I termini non leggibili o di difficile interpretazione sono segnalati da puntini di sospensione tra parentesi quadre. Si è ritenuto opportuno mantenere l’originale stesura del testo, limitandoci ad intervenire sciogliendo le abbreviazioni.

1. 1680 Novembre 29, Fano Monsignor Pietro Corbelli in qualità di tutore dei figli del defunto fratello Camillo fa inventariare i beni mobili e immobili di famiglia iniziando dal palazzo di città ASF, Adizioni di Eredità, busta 6, 1525-1786 Inventario e descrizione de Beni della casa Corbelli ritrovati dopo la morte della bona memoria del Signor Cavaliere Camillo Corbelli, nelli quali come s’addinoterà in molti ha la parte et altri sono proprii di Monsignore Corbelli, e che si annotano senza pregiudizione Mobili esistenti nella casa grande de Signori Corbelli Prima Nella sala li corami d’oro usati per quattro portiere simili parte Monsignore Corbelli una tavola lunga di noce parte di Monsignor Corbelli Et più dieci arcibanchi di abeto parte di Monsignore Et più quattro sopraporti e due sopra finestre come ereditarii della Signora Elisabetta Corbelli spettanti tutti a Monsignore Et più un quadro grande d’un David et due altri quadri grandi di Santa Elisabetta et un altro quadro grande di Santa Maria Maddalena spettanti a Monsignor Corbelli come ereditarii della Signora Elisabetta Corbelli Nella Galleria appresso la Sala Prima Sei arcibanchi intagliati et nove piedistalli parimenti intagliati proprii del Signor Cavalier Corbelli Et più nove busti e teste di marmo parte di Monsignor Corbelli Et più tre quadri di paesi a guazzo per sopraporte con le sue cornige intagliate proprie del Signor Cavaliere Et più otto ritratti di donne con sue cornige […] intagliate proprii del Signor Cavaliere Et più otto paesini a oleo con sue cornigi intagliate proprie del signor Cavaliere Et più il Ritratto della Signora Giovanna Gabrielli del Signor Cavaliere con cornige intagliata et dorata del detto Signor Cavaliere Et più una portiera a tappeto di […] diversi colori del Signor Cavaliere Nella camera appresso la Galleria Prima Li parati di Broccolini rossi, e gialli, e verdi, e gialli con tre portiere simili proprii del signor Cavaliere Et più quattro specchi grandi con cornige dorata, et due scrigni grandi con specchi proprii del Signor Cavaliere Et più quattro statue di moretti due dorati e due no proprii del Signor Cavaliere Et più due vasi di […] inargentati con li suoi fiori di seta proprii del Signor Cavaliere Et più li piedi intagliati di due scrigni […] Et più quattro quadri a guazzo di paesi con cornige intagliata proprii del Signor Cavaliere Et più quattro sgabelli di noce coperti di broccatello parte di Monsignore Et più altri quattro rami di fiori parte del Signor Cavaliere Et più un buffetto di gesso bianco e negro con li suoi piedi parte di Monsignore Et più una spinetta di ebano a forma di un […] del Signor Cavaliere 82


Et più sei statuette piccole di marmo parte di Monsignore Nella camera seguente Prima Un parato di damasco cremesino proprio di Monsignore Et più sei sedie grande d’appoggio et sei a sgabelli coperti di broccatello cremesino con chiodature di ottone parte di Monsignore Et più altre sedie di raso rosso con chiodature di ottone parte di Monsignore Et più tre quadri da testa con cornige dorata due de quali sono di Monsignore et gli altri del Signor Cavaliere Et più quattro piedi di stalli inargentati parte di Monsignore Et più due paesi istoriati con cornige dorata proprii del Signor Cavaliere Et più due statuette di marmo parte di Monsignore Nella camera seguente Prima un letto con colonne dorate e rosse con cortinagio de cremesino cangiante con tre stramazzi e coscino lungo e due coscini piccoli parte di Monsignore Et più tre quadri con cornige dorata et negra da testa rappresentanti un Salvatore, la Madonna Santissima e San Girolamo parte di Monsignore Et più due ritratti di cardinali proprii di Monsignore Et più un’immagine della Madonna con cornige intagliata e dorata l’immagine parte di Monsignore, la cornige propria del Signor Cavaliere Et più un quadro da testa di Santa Maria Maddalena di Monsignore et come ereditaria del Signor Canonico Corbelli Et più un quadro di una Madonna con un Signorino e San Giovanni di Monsignore come ereditario della Signora Elisabetta Corbelli Et più un’immagine del redentore parte di Monsignore Et più sei quadri di paesetti con cornige dorata e nera di Monsignore come ereditari della Signora Elisabetta Corbelli Et più quadro ovato di fiori con cornige intagliata e dorata propria del signor Cavaliere Et più quadro di cimatura con cornige dorata rappresentante un Signorino proprio del Signor Cavaliere Et più un quadretto in rame con una testa di un Salvatore parte di Monsignore Et più un quadro di sopraporta con cornige nera parte di Monsignore Et più la portiera di raso turchino e giallo parte di Monsignore Et più due statuette di marmo parte di Monsignore Et più un secchietto d’argento del acqua santa parte di Monsignore Et più un scrigno di noce tinto d’ebano e un ginocchiatore di noce di Monsignore come ereditario della Signora Elisabetta Corbelli Et più un boffetto a scrittoio di noce proprio di Monsignore Et più sei sedie alla francese proprie di Monsignore Et più quattro sgabelli coperti di raso giallo e rosso di Monsignore come ereditarie della Signora Elisabetta Corbelli Et più quattro vasi di legno inargentato con rami e fiori di seta del Signor Cavaliere Et più un letto a credenza d’abeto dipinto di noce di Monsignore come ereditario della Signora Elisabetta Corbelli Et più due baciletti sopra il tavolino uno indiano finito d’argento di Monsignore come ereditari della Signora Elisabetta Corbelli L’altro dipinto franzese proprio del Signor Cavaliere Et più due boffetti dei gesso bianco e negro con li suoi piedi et un altro simile parte di Monsignore Et più quadretto rappresentante San Girolamo et un altro di una Pietà di legno parte di Monsignore Et più un quadro d’ebano […] d’argento di Monsignore come ereditario della Signora Elisabetta Corbelli Et più un quadro di San Gregorio parte di Monsignore Nella camera dello studio Prima Sette scansie d’abeto Et più libri di legge civile e canonica in quarto e più piccoli usati in tutto n. Settanta Due Et più libri di legge civile e canonica in foglio usati n. Cento Trentasetti Et più libri di teologia scolastica, e morale in grande n. Venti Et più libri di teologia morale e spirituale in quarto in sesto et in ottavo in tutto n. Cento Cinquanta Et più libri di historie e politica in 4º et in ottavo n. Cento Trenta Et più libri di grammatica et retorica e poesia in piccolo n. Novanta Et più libri d’altre poesie romanzi in piccol n. Sesanta Et più libri di diverse Comedie in piccol n. Quaranta Et più libri antichi in grande di retorica e politica n. venticinque Et libri di musica antichi n. circa Trecento Et più altri libri antichi coperte di pelle cioè breviari, legendari de Santi e simili in tutto n. Dieci li quali libri e scansie sono parte di 83


Monsignore e parte del Signor Cavaliere Et più una credenza grande d’abeto con due tiratoi parte di Monsignore Et più due scrigni di noce uno con una credenzetta rosso, e l’altro intagliato di fiori, parte è di Monsignore come provenienti dalla eredità della Signora Elisabetta Corbelli e l’altro in parte del Signor Cavaliere Et più quattro fusti di sedie grandi d’appoggio di noce parte del Signor Cavaliere Et più un fusto di noce di sedia alla franzese fornito parte di Monsignore Et più una tavola con li suoi piedi di noce usata parte di Monsignore Et più due sgabelli simili di noce con coperti Et più un banchetto usato coperto di punto franzeso, e due altre cassettine piccole usate parte di Monsignore Et più un quadro grande rappresentando San Francesco et otto altri quadri di ritratti parte di Monsignore Et più un altro quadro di storia antica romana in parte di Monsignore Et più una bandiera di seta antica del Signor cavaliere Et più panni da dosso del Signor Cavaliere esistenti nelli due tiratori della suddetta credenza d’abeto ……………… Nella camera prima dell’appartamento dove abitava di continuo il Signor Cavaliere Prima Le pareti di corame di tutte le camere con una portiera in parte di Monsignore Et più due quadri di frutto et uno San Domenico et il beato Luigi di Monsignore come provenienti dall’eredità della Signora Elisabetta Corbelli Et più un quadro di San Tommaso di Villanova del Signor Cavaliere Et più un quadretto ricamato con un Agnus del Beato Pio V di Monsignore come proveniente dalla Signora Elisabetta Corbelli Et più un ginocchiatore di noce e sei sedie simili coperte turchino e giallo di Monsignore per […] ragione Et più un cortinaggio paonazzo e giallo di bambagie del Signor Cavaliere Et più altro cortinaggio di bambagio e filo turchino e giallo parte di Monsignore Et più due stramazzi e coscini lungo et un altro coscino piccolo parte di Monsignore ………………. Nella camera appresso Prima Sette quadri diversi un tavolino di noce con copertina di corame un genocchiatore di noce parte di Monsignore ………………… Nel camerino di là della stanza del pozzo Prima un boffetto di noce una credenzetta di noce vuota dodici quadretti piccoli diversi con un quadro più grande di San Carlo parte di Monsignore ……………… Nella prima camera dell’appartamento terreno Prima Un boffetto di noce, un tavolino tondo di marmo con li piedi di noce, otto quadri parte grandi, et parte ordinarii, et dodici quadri tondi, et una portiera di corame et una rota antica di archibugio Nella seconda camera terrena Prima Dodici quadri di ritratti, et un quadro d’un Crocifisso. Una credenza grande di noce Et più due sedie a forbici di velluto verde usato fusto di noce Et più sei sedie di noce con vacchetta vecchia Et più due altre sedie di noce coperte con robbe di bambage, e filo turchino, e giallo Et più una portiera di corame Et più un boffetto con sopra un scrigno antico, con dentro diverse scritture di carta vecchie Nella terza camera terrena Prima Sette quadri di ritratti et un quadro di Ludovico Beltramo. Un boffetto di noce vecchio. Et più tre gelosie di abeto alle finestre delle dette tre camere terrene. In tutte le suddette robbe esistenti in dette camere terrene ha la parte Monsignore ……..

84


2. [1845], Fano I fratelli Francesco Vincenzo e Antonio Corbelli fanno inventariare e stimare i beni del palazzo di città per procederne alla divisione ASF, Fondo Marcolini, busta 11.4, [1845], pp. 1-16 Descrizione del Mobilio ed infissi ed altro con sua stima esistente nel Palazzo Corbelli, meno l’Argenteria, Biancheria da tavola e da letto, coperte e sopra coperte, Letti cioè Pagliacci, Materassi et Terraglie, Cristalleria, Lumi il tutto già ripartito tra i Signori Conti Fratelli Corbelli vari mesi sono comprensivamente agli Armadi, Tendine, […], et altri oggetti di cucina 1º Piano

Corridore di rimpetto alle scale in comune

1 O. 2 O.

Lume del corridore 4 piccoli Cassabanchi antichi intagliati

_:20 1:50 _____ 1:70

Saletta in comune tra il Signor Conte Vincenzo e Francesco, che immette nei loro rispettivi Appartamenti ora abitati 3 F. 4 F. 5 F. 6 O.

Letto a credenza con sopra il Torciere Seggiola con postergale coperte di […] antica Sedie 4 con sedile di sgarza Quadri n. 4

_:60 _:10 _:60 ___ _____ 1:30

Sala Grande in comune come sopra, che introduce e nell’Appartamento nobile abitato dal Signor Conte Vincenzo, ed in quello unico del Signor conte Francesco 7 A. F. 8 A.F. 9 A.F. 10 A. F. 11 O. 12 A. F. 13 A. F. 14 A. 15 V.

Credenzone con Torciere e Letto Due banchi lunghi di una tavola Due detti lunghi mezza tavola Due detti piccoli lunghi p. ¼ di tavola Quadri fra grandi e piccoli n. 23 Albero di famiglia movibile, ed Arme di Casa al muro Quattro portiere di panno rosso con suoi ferri Due baldacchini alle finestre con ferri e due tende _ di cotonina rossa di levante con frange bianche

4 2 1 _:80 ___ ___ 5 _:50 3 _____ 16:30

Appartamento nobile abitato attualmente dal Signor Conte Vincenzo Anticamera del Cammino ossia camera della ringhiera Si dichiarò dal Signor Conte Vincenzo che tutto il mobilio ed altro ivi esistente meno i seguenti oggetti essere di sua particolare proprietà, avendoli acquistati col proprio pecunio 16 V. 17 V. 18 V.

Tavolino da lavoro Due tende alle finestre ed una alla ringhiera di mussola ricamata a fiori ridò con aste e chiodi romani Due tavolini a muro con piana di marmo

6 13:50 20

Camera da cammino apparata gialla da conversazione 19 20 A.

Apparato giallo a rigatone teli 18 di Braccia 4 ½ l’uno ….. Canapè detto suddetto cioè due lunghi e tre curti con schienali

28:35

85


21 A. S

22 V.

e cuscini volanti ricoperti del suddetto apparato ….. specchiera sul cammino con intelerature di legno pinto filettato d’oro e suoi cornocopi di legno dorati con tre luci grande in mezzo e sei strisce ai lati Due scabelli di noce coperti di lanetta rossa damascata con imbottitura

12

35 3 _____ 117:85

Segue la camera apparata gialla da conversazione 23 V. 24 A. 25 V.

Due tende di mussola ricamato con Ridò, braccialetti, aste Due tavolini a muro con piana di marmo Pianoforte a coda

12 12 ___ _____ 141:85:7

Camera contigua apparata verde 26 O. 27 A. 28 A. 29 A. 30 A. 31 V. 32 V. 33 V.

Un quadro grande rappresentante San Tommaso parte nella perizia Lanci Apparato verde a rigoni ….. Soffà completo del suddetto drappo ….. N. 10 poltroncine ricoperte del suddetto drappo compreso il fusto e tutt’altro Due tavolini a muro con piane di marmo Una tenda con ridò e suoi braccialetti, asta Digiuné di noce impellicciato N. sei sedie alla moda

___ 37:68 5 8 12 5 10 6

Altra camera verde contigua 34 O. 35 A. 36 A. 37 A.

Quadro di mediocre grandezza rappresentante il Cristo morto parte della perizia Lanci Apparato verde a rigoni ….. Soffà ricoperto dello stesso apparato ….. Due tavolini a muro di legno pinto e filetato d’oro et piana di marmo

___ 13:50 2:50 12 _____ 244:83:7

Segue l’altra camera apparata verde ….. Camera da letto apparata di damasco rosso ….. Seguono i retrè del suddetto appartamento Gabinetto 55 V. 56 O. A. 57 V. 58 V. 59 V.

86

Soffà con due cuscini volanti di lanetta damascata turchina ….. Quadretto in rame rappresentante un Cristo Quattro scabelletti della suddetta lanetta elastici simili al canapè Sedie due con telari di sgarza Tavolinetto da scrivere rotondo di noce con suo piedestallo e vaso Etrusco

9 6 _:80 1:20


60 V. 61 V.

Tavolino a muro di ceraso a lustro Tenda di mussola ricamato con ridò e suoi braccialetti

2 4

Camera da Toletta ….. _____ 445:04:7 Altro Retrè Apparato verde 69 O. 70 A. 71 V. 72 V. 73 V. 74 V.

Quadri diversi N. 10 parte della perizia Lanci Apparato di settino verde ….. Tavola grande da 18 di abeto ….. Tavolino rotondo da lavoro Due sedie con telaro a sgarza ….. Baldacchino con ferramenta soltanto …..

_:50 4 _:50 _:40 _:15

Altra camera contigua detta la credenza ….. Altro appartamento domestico della parte Palazzi abitato parimenti dal Signor Conte Vincenzo Camera da Camino ….. _____ 473:14:7 Retrè della suddetta camera ….. Camera da letto ….. Camera dell’alcova del servitore 97 V. 98 A. 99 O. 100 V. A. 101 F. 102 F. 103 O.

Due burrò centinati di noce uno con 4 tiratori e l’altro con tre Un tavolino di ceraso a libretto Letto già diviso Un commodino di noce scusi 1:= un porta orinaletto baiocchi 60 Un lavamano baiocchi 20=tenda di panno in pessimo stato con Ferro baiocchi 20 Altri due ferri nell’alcova senza tenda Quadri tre grandi e due piccoli

4 1:20 1:60 _:40 _:20 ___ _____ 492:39:7

Camera detta degli armari ….. Cucina ….. Camera d’ingresso alla latrina ….. Appartamento nello stesso 1 º Piano abitato dal Signor Conte Francesco 87


Camera detta del Luminello introducendosi alla 1ª porta della Sala grande

110 O.

Letto ed Armario già divisi Quadri tre cioè due ritratti et una Madonna

111 F. 112 F. 113 O. 114 O. 115 F. 116 O. 117 O. 118 O. 119 F.

Due […] a muro con serrature e chiavi Comodino di ceraso Un canapè antico con suo coscino in pessimo stato Porta orinale Un tacca panni con sue tendine verdi Un lavamano Una sedia di noce con suo coscino Cornige dorata da specchio senza luce Ferro da Portiera sopra una porta

___ ___ _____ 535:89:7 2 1:20 1:20 _:60 1 _:10 _:35 _:20 _:10

Camera torchina 120 F. 121 F. 122 F. 123 F. 124 F. 125

Un tavolino a muro di noce Tavolino di ceraso centinato con piana di marmo Un tavolino a libretto Cinque sedie di sagome diverse con telari di finocchietto Sei sedie con schienali intagliati et cuscini stabili di pelle verde e raso Tre quadri ai sopra porte

3 1:20 1:75 2:10 ___

Camera da letto

126 F. 127 F. 128 F. 129 F. 130 F.

Letto già diviso Apparato giallo detto damascone in pessimo stato …. Un comò di noce con due tiratori 4 poltroncine pinte velate con cuscini in cattivo stato Un tavolino con piana di marmo Scrittoio di ceraso con coperchio e pozzetto

131 F. 132 F. 133 F. 134 F. 135 F. 136

Un comodino di ceraso Un lavamano tornito Specchiera al camino con luce rotta Tre sedie di noce Scansia da libri di abeto pinto Quadro al sopra porta

1.50 3.50 2 6:50 6 _____ 550:69:7 1:20 _:20 1 1:20 _:40 ___

Altra camera contigua alla suddetta 137 O. 138 F.

Quadri grandi tre, quattro piccoli et altro in rame con cristallo Un soffà diviso in tre pezzi con sue imbottiture di pelle verde con suoi cuscini volanti imbottiti di stoppe e crina 139 F. Un comò impellicciato d’olmo con figure sopra e meandro 140 F. Tolettina sopra con specchio 141 F. Un tavolino a muro con suo cassetto serratura e chiave 142 F. Sei sedie con le basi di sgarza 143 F. Altra sedia di noce con cuscino stabile di pelle verde Camera del Domestico 88

___ 5 7 1:50 1:20 1:50 _:35


….. _____ 597:14:7 Piano superiore abitato dal Signor Conte Antonio Pianetto superiore al tronco di scala ….. Saletta d’ingresso 149 V. 150 V. 151 V. 152 V. 153 A.

Un letto a credenza con suo torciere Un cassabanco con entro una cassa forte […] Altro cassabanco eguale Quadri tre con cornice velata Stemma di famiglia […]

2:50 1 _:25 ___ ___

Camera della libreria ….. Camera della ringhiera con un camino ….. _____ 631:94:7 Appartamenti di rimpetto alle retro scritte camere Anticamera con camino ….. Camera di conversazione con camino ….. Camera da letto ….. Retrè ossia gabinetto ….. Altro retrè ridotto a toletta ….. Altro retrè ossia camera della cameriera

175 F. 176 A. 177 F. 178 O. 179 O. 180 A. 181 A. 182 O. 183 V.

Letto già diviso Un burò di noce con 4 tiratori Un comò a due cassetti Una sedia con imbottitura di pelle verde Una credenza di abeto pinto con sportello Un porta orinale Un lavamano Tre sedie di noce Piccolo quadretto rappresentante la Beata Vergine della Misericordia Baldacchino con ferro alla finestra

2:50 2 _35 _40 _6 _20 _75 ___

Dispensa 184 A. 185 O. 186 O. 187 O.

Scrittoio a gargami con poltroncina Altro scrittoio di noce Due cassoni di abeto con divisione … Nove sedie di sagome diverse

7 3:50 _80 1:80 89


188 O.

Due quadri con cornige velata uno grande et l’altro piccolo

___

Soffitti contigui alla suddetta 189 O. 190 O. 191 O. 192 O. 193 O. 194 O.

Quadri undici con cornici velate Cassoni di abeto due Due casse di noce senza coperchio Altra piccola cassa di abeto in cattivo stato Una poltrona antica Un piccola cassettiera di noce

___ _80 _60 _10 _10 _10

Cucina e pasticceria ….. _____ 698:27:7 Piano terra abitato dal fattore Ingresso …. Saletta 201 202 203 204 205 206 207 208

Un tavolino di abeto con una cassettiera Un piccolo tavolino di noce centinato Un burrò fatto a credenza di abeto pinto Un tavolino a muro con piedi torniti Due quadri grandi e 5 piccoli Una credenza di abeto al muro Un tracantone di abeto in cattivo stato Una poltrona di noce in pessimo stato

_30 _15 _60 _30 ___ _15 _15 _15

Anticamera ove tiene ufficio il fattore 209 210 211

Letto a canapè con suo pagliaccio Poltrone 5 in cattivo stato con 4 cuscini di pelle Quadri 8 con cornici dorate di diversa grandezza

1 1 ___

Camere verso San Filippo nello stesso piano ad uso di magazzino 1 ª camera 212 213

Un quadro grande Una ringhiera di ferro di P. 80 circa

___ 2

Quadri 6 tre grandi e tre piccoli

___ _____ 712:32:7

2 ª camera …. 3 ª camera 220

Oggetti in comune esistenti presso il Signor Conte Vincenzo …… Totale della stima degli oggetti qui descritti 90

_____ 733:23


3. 1737 novembre 29, Fano Inventario dei quadri toccati a Marcantonio Marcolini Zanibelli a seguito della divisione dei beni del padre Ludovico col fratello Pietro Maria ASF, Fondo Archivio Notarile, notaio Guardinucci Agostino, BB, 1737, cc, 558-559

Ragguaglio della porzione di Quadri toccati nella divisione al Signor Marcantonio n. 2

Una Madonna con il Bambino e Santa Maria Maddalena con sua cornige dorata intaliata dipinta in tavola del Persciutti larga palmi 3 alta palmi 2 1/1 60

n. 4

Un Sposalitio della Beata Vergine di Pietro Perugino dipinto in tavola bislungo alto un 60 palmo lungo piedi 2 1/1 con sua cornige dorata

n. 6

Un Putto di Simon Cantarino, con sua cornige dorata intagliato alto palmi 4 largo 3

80

Un Battesimo di San Giovanni Battista della prima maniera di Filippo [Lanori] con sua cornige dorata

50

Una Madonna con il Bambino della scuola di Pietro Perugino con sua cornige dorata alto palmi 2 1/2

20

Una casta Susanna per traverso in mezza figura con sua cornige dorata lunga palmi 7 alta palmi 4

30

Una Madonna con il Putto che dorme di Sebastiano del Piombo con cornige dorata

80

Due Marine con sua cornige dorata alte palmi 2 1/1 larghe palmi 3

6

n. 17

Un San Girolamo dipinto in Tavola con sua cornige dorata

4

n. 19

Un disegno d’una Testa d’un Vecchio con sua cornige dorata

2

n. 41

Un Ritratto d’un Ragazzo in piedi con sua cornige filettata d’oro

6

n. 11

Due Sopraporti Rappresentanti Dafne e Apollo con sua cornige dorata

12

Due mezze figure di Giacinto Brandi Rappresentanti la Musica e la Pittura con cornige dorata

18

n. 38

Una Maddalena copia del Guercino con sua cornige dorata

15

n. 52 n. 30

Un Ritratto di un Filippino senza cornige Una Madonna con il Bambino e San Francesco di Pietro Perugino con sua cornige intaliata

4 30

Due Quadri per alto Rappresentanti un Putto e l’altro una Donna copie di Simon Cantarino con sua cornige dorata

15

n. 10

n. 20

n. 22

n. 33

n. 5

n. 34

n. 35

91


n. 37

Un Presepe originale con sua cornige dorata alto palmi 10 largo 7

50

Una Pietà Grande per traverso copia di Pietro Perugino con sua cornige dorata

15

n. 47

Un Ritratto con sua cornige dorata

20

n. 48

Un Cristo in Croce con sua cornige dorata

4

n. 43

Due Canestre di Fiori con sua cornige dorata

4

n. 55

Una Madonna con il Bambino e San Gioseppe per traverso sopra la porta con sua cornige Gialla e oro

8

n. 53

Un Ritratto d’un Papa con sua cornige

4

n. 59

Due Quadri d’Istorie rappresentanti Germanico et altra Istoria ambedue copie con sua cornige dorata alti palmi 8 larghi palmi 6

20

somma il valore de Quadri

617

n. 44

Pietro Maria Marcolini Zanibelli approvo quanto sopra … Marco Antonio Marcolini approvo quanto sopra …

92


...AL COLLEZIONISMO PRIVATO



Massimo Pulini LE ANTINOMIE DI SIMONE CANTARINI*

Sapienza e immaturità si contendono le opere del Pesarese. L’ansia della scalata e la facilità della discesa si incontrano a metà strada nei tratti di sanguigna che dispiegano un talento felice assieme all’inquietudine più stizzosa. Si può leggere attraverso una serie di antinomie lo stile di Simone Cantarini. Anche la chiarezza limpida di alcune sue pitture viene a volte offuscata da un velo di dramma in certe repliche autografe, rivisitate misteriosamente. Non è raro scoprire, lungo il suo periodo reniano, scene investite da una luce diurna, rifinite da un pennello smaltato e celeste, che di contro trovano, in una tela gemella, le medesime figure macerate nell’ombra, entro un impasto cromatico franto, dominato dalla materia, simile ad una terra calda. E’ il caso della Sacra Famiglia nelle due versioni romane1, quella della Galleria Colonna e l’altra di Palazzo Venezia. Il giovane pittore sembra sottolineare così la sua duplice natura anche nel ruolo di allievo, presso il genio bolognese. Era senza dubbio il migliore, dotato anche più del maestro, ma insieme il più sfacciato ribelle che la bottega di Guido avesse mai accolto: osava rifiutare con tono saccente ogni compito riduttivo, ogni correzione. Le opere solari erano di certo quelle volute da Reni, che era solito passare ai primi allievi le commissioni eccedenti, mentre le repliche cupe, forse, affermavano il gusto più sincero e intimo di Simone. Ma il pensiero instabile, l’insistere dei pentimenti quasi su ogni schizzo e su moltissime tele, doveva accompagnare la genesi di qualsiasi opera, anche se le parti cambiate, celate dalla scelta finale, risultano ai nostri occhi ugualmente belle, affascinanti, non errori dunque, ma nervose sterzate di umore, di idea, che lo porteranno a lasciare non finiti tanti quadri. Interrotta bruscamente, incompiuta, rimarrà anche la vita, che non giunse nemmeno al fatidico trentasettesimo anno, avvelenata alla corte di Mantova, forse da qualche rivale che non resse

la sua sfrontatezza, ormai famosa sia nell’arte che nell’amore2. Eppure dovette essere un lavoratore instancabile avendo prodotto una quantità di disegni che si stima in migliaia, centinaia le pitture, decine di incisioni e, malgrado non se ne sia identificata alcuna, anche diverse statue in terracotta. Le notizie e gli aneddoti di Carlo Cesare Malvasia3 lo restituiscono pienamente cosciente del proprio valore e tenacemente deciso negli obbiettivi professionali, anche se dovette calcolare male i tempi del successo, spendendo quasi tutta la sua vita a prepararsi ad un salto che non venne. Il primo elemento contraddittorio sta proprio nel fatto che il Pesarese, nonostante questa insofferenza alla subordinazione, avesse letteralmente fatto carte false per essere preso alla scuola di Guido, notoriamente despota, dichiarando di avere un’età inferiore al vero e andando a raddoppiare una formazione che aveva già compiuta presso Claudio Ridolfi4. Questo è il primo elenco dei dualismi radicati nell’esistenza, nel carattere e dunque nelle opere di Cantarini. Ma in fondo fu proprio quel processo incontentabile, quel perfezionismo dei preamboli a portargli l’ammirazione incondizionata di generazioni di artisti, che emularono soprattutto il suo modo di disegnare5. Perfino alcuni geniali pittori, già famosi ancor prima che Simone si affacciasse sulla scena, trassero dal suo stile molti elementi di riflessione e sfumature del gesto. I disegni a sanguigna che Guercino realizzò a partire circa dal 1648, anno di morte dello stesso pesarese, credo vadano definiti cantariniani, sono infatti composti da un groviglio di segni che si frammenta ai bordi delle figure, nelle cadenze e nel vibrato che muove da quel pensiero estetico6. Ho scelto di dedicare il saggio alle opere gemelle, alle invenzioni di Simone che dal foglio continuano dubbiose sugli strati della tela; alle fertili contraddizioni che accompagnarono la lunga sgambatura e

Simone Cantarini, Ritratto di due anziani, Bologna, Fondazione Cassa di Risparmio 97


la breve corsa di questo purosangue. Risulterà una partita doppia tra inediti e confronti, che spero ne restituisca un aspetto inaspettato, un calembour di quadri che danzano sulla tomba di una promessa, di colui che, non ho timore a dirlo, aveva numeri e risultati utili a farlo diventare qualcosa di molto prossimo ad un Velázquez italiano. A chi ritenesse questo accostamento uno sproposito, dovrebbe essere sufficiente mostrare un unicum: il Doppio ritratto di anziani, passato da qualche anno sul mercato antiquario e tuttavia ancora poco commentato dagli studi7. Uno straordinario quadro che scopre le carte più alte di Cantarini senza preoccuparsi di nascondere gli inciampi, in piena sintonia con le geniali incongruenze di cui sto parlando. L’attenzione pacata, quasi sonnolenta, del vecchio è cercata con passaggi morbidi e mirabili sull’incarnato caldo e sulle vesti, rese nella consistenza di un feltro che trova inedite coniugazioni di bruni e di neri. La figura dell’uomo, compiuta con tre colori in scala, avrebbe da sola risolto perfettamente il quadro, ma sbuca ai suoi margini il busto di un’arguta signora con un rosario in mano, che sbilancia la composizione e pure il contrasto chiaroscurale. Difficile ricostruire le ragioni di una scelta che sem-

bra aggregata successivamente a quella principale del ritratto virile, ma sia che fosse uno dei tanti provvisori pensieri di Simone, da lui stesso celato e magari fatto riemergere da un restauratore, sia che testimoni una richiesta tardiva del committente, l’opera si trova ad avere un sapore ineguagliabile, proprio in ragione delle sue ‘colte ingenuità’. Trovo davvero una grande somiglianza di temperamento, di senso estetico e di qualità tra il pesarese e il sivigliano, lo confermano non solo l’aria spagnola e le vette di questo dipinto ma soprattutto le tele incompiute dove le scudisciate del pennello di Simone, che conservano tutta la fresca libertà e l’acutezza del disegno, assomigliano al fioretto sprezzante e felice di Diego. Proprio nel concetto di ‘sprezzatura’, nella stessa accezione che ne dà Cristina Campo quando parla di alcuni genî irrequieti della letteratura, si riesce ad apprezzare la formidabile maestria di chi conduce con cura affettuosa un’idea, vi si appassiona al punto da correggerla ed elevarla verso l’assoluto, per poi voltarle le spalle in un punto imprecisato, con una schizofrenia contraddittoria che è forse più tipica del rapporto amoroso che non di quello artistico.

Simone Cantarini, Sacra Famiglia, Roma, Galleria Colonna

Simone Cantarini, Sacra Famiglia, Roma, Palazzo Venezia

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Simone Cantarini, Studio per Pietà con san Francesco, California, collezione privata

Simone Cantarini, Studio per Pietà, Pesaro, Biblioteca Oliveriana

Simone Cantarini, San Francesco contempla il Cristo morto sorretto da un angelo, Milano, collezione Luigi Koelliker

Simone Cantarini, San Francesco contempla il Cristo morto sorretto da un angelo, Arezzo, Antichità Giano 99


Simone Cantarini, San Girolamo, Pesaro, collezione privata

Simone Cantarini, San Girolamo, Bologna, collezione privata

Ma delle variazioni sul tema, delle coppie di opere che vorrei porre allo specchio, la prima parla di morte e ne richiede una intensa contemplazione essendo una Pietà. Dolcissimo è l’angelo vestito di un azzurro metallico, sembra aver tolto dal sepolcro il corpo senza vita di Cristo8, lo sorregge in una precaria seduta ricoperta dal sudario bianco per mostrarlo allo sguardo e alle meditazioni di san Francesco, durante un’apocrifa estasi visionaria. L’aria è tersa, di una freschezza mattutina, e la luce che inonda le figure viene dal lato stesso della grotta funebre. Non è un semplice compianto, siamo resi partecipi di una mistica apparizione, di un’orazione che si è fatta fisica davanti al santo di Assisi. La meditazione sulla morte è uno dei pensieri ricorrenti del martire onorario, che ricevette in vita i segni stessi della passione. Appare qui raffigurato smunto e ossuto da sembrare in scala ridotta, quasi rimpicciolito rispetto all’epifania divina, che osserva con misto di stupore e commozione. L’iconografia del Cristo morto sorretto dagli angeli sulla lastra del sepolcro è antica, molto diffusa tra Quattro e Cinquecento e quasi sempre correlata ad un programma di assistenza ai derelitti, ad una pietas rivolta ai bisognosi. E’ noto infatti che fu icona e insegna dei Monti di Pietà, detti comunemente dei pegni, vale a dire le

banche dei poveri. E’ dunque molto probabile che le ragioni tematiche, poste a movente di questo dipinto, siano da rintracciarsi proprio nell’ambiente dei Monti. Non credo infatti sia un dettaglio trascurabile la vista del Calvario che fa da sfondo alla scena, con le tre esili e storte croci, infilate come spadine alla cima del colle. L’intima poetica della piccola tela della collezione Koelliker si concentra nel corpo statuario eppure burattino del Cristo, nella delicata gestualità dell’angelo adolescente che lo abbraccia quasi carezzandone il ventre. La composizione acquista un taglio diagonale ed un accentuato contrasto del chiaroscuro grazie all’ombra rocciosa che fa da quinta al gruppo. Il candido e ampio lenzuolo si dispiega a terra in eleganti volute che offrono un corredo di altre affettuosità pittoriche in questa operetta morale che il tempo ha reso ancor più commovente grazie ad una crettatura vitrea, cristallina. Che appartenga a Simone Cantarini non sussistono dubbi, ne parla l’eleganza aulica delle forme e la colta leggerezza della pittura elevata al punto cuspidale tra classicità e natura, tra distacco e coinvolgimento. Piena è l’autonomia inventiva, anche se appare cosciente il dialogo con gli esiti più poetici del tema, realizzati tra XV e XVI secolo, per le chiese marchigiane e romagnole. Dai due dipinti

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di Giovanni Bellini fatti per Pesaro e Rimini fino a quello lasciato a Cesena da Francesco Zaganelli, in cui il Cristo sembra scivolare sul bordo del sepolcro come nella tela di Simone. Più sommaria e cruda, trasudata e notturna è l’opera abbinata, ora di proprietà della Galleria Giano di Arezzo9. A guardarla immediatamente dopo l’altra sembra quasi che di colpo il cielo si sia oscurato, allo stesso modo descritto dai vangeli durante il trapasso sulla croce. Un’eclissi pittorica che, sorprendendo ogni figura ancora nello stesso attimo, ne capovolge il contesto atmosferico, ottenendone un negativo emozionale imbevuto d’ombra. Nello scontro tra luce e tenebra credo che questa volta prevalga la versione più algida, certo la teletta scura è drammatica e intensa, ma nell’opera Koelliker al dolore si unisce un misto di scioglimento e tensione esaltato proprio dal clangore luminoso che descrive l’indomani della morte come una bellissima giornata primaverile. Ho ritrovato un disegno in una collezione californiana10, assegnato a Palma il Giovane, che ritengo vada interpretato come primo studio di Simone, ripetuto e aggrovigliato, sul tema di questa Orazione di san Francesco davanti al Cristo morto.

Il corpo di Gesù è sottoposto a verifica in quattro posizioni differenti, nessuna è ancora quella finale, ma nella matassa di segni vergati a penna, già si accenna alla caduta pesante delle braccia, all’allungamento rigido delle gambe e alla particolarità del piede sinistro rialzato. Lo stile è tipico dei disegni a inchiostro che indagano la massa compositiva, appuntando e scartando velocemente le pose delle figure. Anche san Francesco inginocchiato ha ancora quattro mani che gesticolano disperate, prima di congiungerle in preghiera. Anche un disegno a sanguigna già noto11, della Biblioteca Oliveriana di Pesaro, trova ora motivo in questa invenzione. Con segni essenziali e precisi, ritratti da un modello in posa, Simone fissa il sentimento e la frontale mestizia dell’episodio sacro, ottenendo un risultato formale altissimo che pure verrà trasformato sul cavalletto, cambiandone seduta e taglio di visione. A confrontare invece altre coppie pittoriche, come quella del San Girolamo in lettura12 di collezione privata pesarese e modenese, si ha la sensazione che la replica non muovesse da ragioni inerenti la luce, scura è anche la versione colorata, ma più per intenti di macerazione della materia, per attuare un

Simone Cantarini, Studio per san Girolamo, Besançon, Musée des Beaux Arts

Simone Cantarini, Studio per san Girolamo, Bremen, Museo

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Simone Cantarini, Agar e l’angelo, Fano, Pinacoteca Civica

Simone Cantarini, Agar e l’angelo, già Clermont-Ferrand, mercato antiquario

prosciugamento dell’impasto cromatico, ridotto ad un unico crudo colore, che sembra una pulitura di pennello, ma è ancora capace di modellare l’essenza della forma. Viene pure da credere che gli esemplari scabri assolvessero alla funzione, tutta privata, di conservare una traccia consistente della composizione definitiva, di fare regesto del proprio percorso. Finora gli studi non si sono occupati tanto degli aspetti legati alla memoria professionale degli artisti, di come si ponessero il problema, ora assolto dalla fotografia, di documentare quel che avevano già prodotto. Anzi gli storici e i filologi hanno quasi sempre cercato, di fronte alla presenza di due versioni della stessa icona, di metterle in guerra tra loro, di farne prevalere una sull’altra per comprendere quale fosse l’autografa e quale no. Senza tener conto che non tutti erano Reni o Guercino, non tutti avevano cioè schiere di copisti a disposizione per diffondere le invenzioni o per tenere in studio un repertorio delle principali imprese. Forse Cantarini, per indole, non avrebbe nemmeno voluto che qualcuno replicasse, al posto suo, una propria opera. Oltre a ciò disegni o incisioni non dovevano bastare a chi faceva della pittura un terreno di aperta creatività, di calligrafia individuale.

sieme testimoniano come l’atteggiamento dell’artista mutasse anche in funzione dello strumento usato. La punta metallica, che istilla inchiostro, tiene a maggiore distanza la messa a fuoco dell’immagine e privilegia la struttura, mentre la creta friabile della matita rossa si concede sfumati e dettagli espressivi che saranno vivificati dalla pittura. Sul mercato antiquario francese è riemersa la struggente variante dell’Agar e l’angelo, acquistata dal Musée des Beaux-Arts di Pau, invenzione già conosciuta grazie all’esemplare della Pinacoteca di Fano. I due dipinti divergono in sostanza nella posa dell’angelo che, pur indicando allo stesso modo, mostra una torsione opposta del busto, comportando anche uno spostamento totale delle ali. In questa occasione la tela più sommaria si dimostra la prima in ordine di tempo, dato che quella francese, sotto la cui pelle tamburata traspaiono vari pentimenti, aveva anch’essa, in un primo tempo, la grande ala scura sopra la testa di Agar. Si è dunque legittimati a parlare di bozzetto per l’opera fanese, anche se ha identiche misure15 e in altri frangenti si può giungere a opposte conclusioni. Non doveva esserci una regola unica nel processo creativo di Cantarini se non che, questa è l’idea che mi sono fatto, almeno una delle due versioni dovesse rimanere di sua proprietà. Forse un ‘magazzino’ di non finiti dava all’autore la possibilità di posticipare richieste non gradite, tra quelle che potevano venire dai collezionisti in visita allo studio. L’incompiuto più famoso di Simone è certamente il Lot e le figlie , per lungo tempo ritenuto di Reni stesso, arioso nella disposizione danzata dei corpi, pastellato e cinerino nella gamma cromatica, giocata su ribassati passaggi tonali, privi del bianco

Tenendo fede alle coppie presento due schizzi grafici, da me identificati in tempi diversi e inerenti allo stesso tema del santo eremita in meditazione. Si tratta ancora di un foglio stilato nervosamente a penna (Besançon, Musée des Beaux Arts, dove aveva una assegnazione ad Annibale Carracci)13 e di un altro più rifinito, a sanguigna (che nel museo di Bremen figura come opera di Andrea Sacchi)14. In102


Simone Cantarini, Lot e le figlie, già Roma, mercato antiquario

estremo e del nero. E’ tuttavia un incompiuto senza carenze, senza buchi nel racconto, tutto è condotto ad un grado sensibile di evocazione, sono assenti solo le rifiniture, ma la pelle ultima della pittura è una seta che lascia intuire un profondo paesaggio di strati, che contiene tutto il modellato delle idee. Qua e là alcuni segni di bruno, come tratti di una stenografia significante, vibrano dando una percezione di movimento alle figure. Non credo sia retorico dire che davanti al quadro si avverta il respiro leggero della pittura. In una collezione privata mi è stato possibile visionare direttamente anche l’inedita versione16 che ha portato a finitezza la medesima iconografia. Le forme hanno raggiunto perimetro e compattezza fisica, anche se la chiusura dei dettagli e la stesura piena ha come bloccato la pulsazione del momento inventivo

Simone Cantarini, Lot e le figlie, collezione privata 103


e insieme la penetrazione dello sguardo. L’esemplare già noto è da tutti gli studiosi considerato uno degli ultimi quadri eseguiti nell’officina reniana, dunque entro il 1637, anno del proverbiale scontro col maestro. Difficile e azzardato stabilire però se le tele più illustrate, che denotano una maggiore diligenza esecutiva ma una minore individualità, fossero quelle comandate da Guido e che Simone adottasse un doppio registro espressivo, come un orchestrale che di nascosto componeva una propria musica, un arrangiamento distante e antagonista rispetto a quello del Direttore. Analoga tornitura è presente in una Angelica e Medoro, oggi nelle collezioni del Credito Emiliano a Reggio Emilia, comprensibilmente passata in asta con una attribuzione a Gian Giacomo Sementi, altro importante strumentista dell’orchestra bolognese. L’opera è senza dubbi di Cantarini17, che ne studiò la composizione in un disegno18 conservato a Rio De Janeiro, nella collezione Costa e Silva. Nonostante che il giovane appaia nudo nello schizzo e vestito nella pittura, l’impostazione dell’episodio di amore

bucolico è già tracciata e si apprezzano le libertà che l’artista si riserva in corso d’opera. Si colgono nel dipinto anche affinità tra la posa di Angelica ed una delle figlie di Lot e, a questo punto, non va escluso che Simone abbia realizzato un alter ego abbozzato pure di questo soggetto. Per contro c’è, a mio avviso, da aspettarsi il riemergere di una versione rifinita dell’Amore disarmato dalle ninfe di Diana, tema più volte indagato sui fogli19 dell’artista, del quale ho già identificato un incompiuto, di spavalda freschezza20, posseduto dalla Galleria Altomani di Pesaro. E’ forse il più essenziale ed estremo dei non finiti cantariniani, solo la veste rossa di una ninfa è portata ad un livello elevato di descrizione, il resto è ancora ad uno stadio larvale che lo rende di una stupefacente modernità, compresa la scena in secondo piano che ritengo possiamo meglio comprendere in un disegno conservato al Metropolitan Museum di New York come opera di scuola italiana. Prima ancora che sulla tela è dunque sui fogli che il Pesarese fa palestra di varianti, con una felicità di

Simone Cantarini, Amore disarmato dalle ninfe di Diana, Pesaro, Altomani & Sons 104


immaginazione che sembra inesauribile e non teme confronti, entro il proprio secolo. Colgo l’occasione per attribuire a lui un’altro disegno acquisito dal Metropolitan come opera di Guido Reni21, si tratta dello studio per uno Sposalizio mistico di santa Caterina realizzato forse lo stesso giorno in cui tracciò un secondo disegno22 conservato a Rio De Janeiro, tanto è prossima l’idea sentimentale e quella narrativa. Lo scarto iconografico è minimo e riguarda soprattutto la posa del Gesù bambino, più statico e seduto nella composizione di New York, mosso e nervoso nella versione brasiliana. Emerge sempre dai fogli di Simone una piena generosità, un caparbio lavoro che convoglia, in un flusso continuo, le intuizioni e gli arrangiamenti, la capacità di osservare il mondo e di restituirne una vivida interpretazione. L’abitudine a lasciare incompiute molte opere, che altrove ho rilevato essere ben precedente al periodo reniano, fa di Cantarini un artista proiettato verso la modernità, verso i destini del frammentario e del parziale che saranno il terreno emancipato, e insieme il limite consapevole, della pittura novecentesca. Questa sua fuga cronologica in avanti, è anche la causa di malintesi attributivi, come è il caso che ho scoperto di una tavoletta non finita e conservata addirittura quale opera di Francisco Goya, presso il Museo di Saragozza23. L’Aparicion, così è inteso il soggetto, è in realtà lo sketch pittorico di una composizione più volte studiata da Simone in fogli24 ora sparsi per tutto il mondo. La Vergine che incorona santa Teresa d’Avila dovette essere una commissione davvero importante ricevuta da Cantarini forse nel suo soggiorno romano, intorno al 1640. Ciascuno dei bellissimi disegni che realizzò sul tema propone una differente collocazione di ogni figura, prova di una insoddisfazione che supera pure i già alti livelli di perfezionismo del pittore. Non si conosce alcuna sua pala d’altare che abbia questo soggetto, ma forse è un indizio il fatto che la santa sia spagnola e che il bozzetto si trovi proprio in una città iberica. Non è la prima volta che pittori operanti a Roma ricevessero incarichi dalla Spagna, ho in preparazione un saggio su un consistente nucleo di opere chieste ad Orazio Riminaldi, al Cavalier d’Arpino, al marchigiano Andrea Lilio e anche ad Alessandro Turchi, negli stessi anni in cui risale l’amicizia e la reciproca stima tra l’anziano pittore veronese e il giovane Cantarini. Per curiosa combinazione alcuni dipinti spagnoli dell’Orbetto furono attribuiti, sin dal finire del Seicento, al Pesarese, segno di una conoscenza dell’artista, in qualche modo radicata presso quelle terre.

Il piccolo legno, che ha una profonda fenditura verticale, è approntato con poche pennellate e non più di qualche grammo di colore, ha sfumature che vanno dal viola spento alle terre meno ombrose. In un’atmosfera da limbo, circondata da nuvole basse e da parvenze indefinite, si svolge la decorazione mistica della santa alla quale la Madonna sta per donare una collana che ancora non si vede. Alle loro spalle san Giuseppe non è che un vuoto scontornato di grigio, mentre dall’alto quattro angioletti assistono curiosi, dopo che sulla carta avevano visto la stessa scena in ciack differenti. Dovrebbe dimostrarsi dello stesso momento espressivo di un altro inedito, questa volta un rame, che raffigura una Immacolata Concezione 25, sospesa sopra un essenziale paesaggio marino. Il corpo sinuoso e il volto corrucciato della Vergine vennero indagati dall’artista in un foglio26 ora nella raccolta genovese di Palazzo Rosso, nel quale è ripetuta per più volte la stessa esile figura, con una curiosa disposizione trinitaria. Forse non ci sono quadri di Cantarini che non abbiano avuto un disegno a monte ma potrebbe essere vicino al vero anche il contrario. Nelle Gallerie dell’Accademia di Venezia c’è un foglio già riconosciuto all’artista e ripartito su due registri27. In alto è posto il profilo paffuto e un po’ generico di un bambino, sotto il quale ci guarda il volto intenso e trasognato di un adolescente dai capelli scomposti ma tagliati a caschetto. Quando ho ritrovato il dipinto28, corrispondente a questa parte inferiore del disegno veneziano, figurava attribuito a Ottavio Vannini. Il nitore delle superfici e la tornitura epidermica del San Giovanni Battista in effetti prestano il fianco a confusioni con il naturalismo temperato del pittore toscano, ma quel tanto di serena classicità che vi è contenuta ha un’aria bolognese e dialoga più da vicino con la quadratura formale delle opere di Michele Desubleo. Ascoltata dal vero l’opera intona una delle voci più limpide usate da Cantarini, levigata e polita, quasi da tenore, ma se non fosse sufficiente l’eloquenza del viso pittorico sovrapposto a quello grafico, si cerchi l’eco insistente, tra le immagini di Simone, della posa del Battista. Vi sono molti casi in cui l’artista usa il medesimo braccio, la stessa mano che serra il pollice alla giuntura dell’indice. Dall’Autoritratto di Palazzo Barberini al San Giovanni Evangelista di Bondeno, dall’Allegoria della Pittura di San Marino al Sant’Antonio da Padova di Brera, ed è soprattutto con la compattezza del trattamento pittorico e con la resa espressiva di queste ultime tele che il dipinto di Pesaro trova i migliori confronti. Più accaldato e ombroso, come dire più aperto al 105


riemergere dell’imprimitura rossastra, è un’altro bellissimo dipinto, finora negletto e identificato come un Giovane pastore che suona il flauto. Sono invece convinto rappresenti un Mercurio 29 camuffato da contadino mentre, su incarico di Giove, si appresta ad incantare con la musica Argo, il guardiano che custodiva la ninfa Io, già tramutata in giovenca. La dolcezza del flautista, tangibile e quasi malinconica nella pittura è solo apparente nel mito, perché di lì a qualche istante il dio ragazzo taglierà di netto la testa al vecchio pastore. Credo sia la stessa opera che Marcello Oretti, sul finire del Settecento, vide in una collezione bolognese, identificandola nell’autore ma confondendone anch’egli il soggetto: un San Giovanni Battista in atto di suonare un flauto che tiene con ambo le mani 30. Il tema di Mercurio e Argo venne trattato dall’artista in una incisione ma segnalo anche due nuovi disegni31 legati all’elaborazione dell’opera, così come va notata la ripetizione, con minime varianti, della mirabile testa del giovane, nel Giuseppe e la moglie di Putifarre di Dresda e ancor più nella replica conservata nei depositi della Pinacoteca Nazionale di Bologna, che non avrebbe sfigurato in questa sfilata di pariglie32. Distanza e prossimità, ammirazione e conflitto erano le condizioni ineludibili del rapporto tra Simone e Guido e anche alla luce di questa sequenza di coppie, di tele sorelle in emulazione o in agone tra loro, si comprende meglio lo spirito di uno dei dipinti nei quali Cantarini investì tutti i suoi talenti antitetici. Forse intorno agli inizi degli anni Trenta Guido chiese a Simone di eseguire una copia del proprio celeberrimo David con la testa di Golia (Parigi, Louvre) e Cantarini rispose con un’opera superlativa, che è riemersa due decenni fa sul mercato antiquario e che, per diversi anni, è stata esposta alla National Gallery di Londra sotto il nome dello stesso Reni, fino a quando, nel 2002, uscì Il secondo sguardo 33, in cui ne restituii la paternità al Pesarese. Il mio libro è quasi interamente dedicato al David e Golia di Cantarini, a questo esemplare caso in cui una copia riesce a superare con concretezza oggettiva, gran parte dei valori espressivi, qualitativi ed estetici dell’originale, restituendo un afflato sentimentale che si pone quale supremo atto creativo pur entro i limiti angusti di un compito servile, come fosse l’enunciato più estremo e coraggioso del proprio programma stilistico. Tra tele imbevute di sole e abbozzi crepuscolari, in mezzo a disegni che preparano un nido e dipinti che non si contentano nemmeno della bellezza, sfiorando copie che non accettano il loro ruolo, le 106

molteplici nature di Simone Cantarini sembrano trovare un accordo armonico entro una flessibile impalcatura di idee che necessita di contrappesi e di opposizioni, non diversamente dalla metà di una cuspide che, per raggiungere il punto più elevato e per reggere la propria inclinazione, ha bisogno di una parte speculare, uguale e contraria.

Note * Per gentile concessione dell’autore si ripubblica qui la quasi totalità dell’articolo di Massimo Pulini, uscito su Storia dell’Arte, 20, 2008, pp. 7-40, di particolare rilevanza per il tema della mostra. La selezione delle immagini connota ulteriormente l’argomento. 1 I due dipinti hanno misure quasi identiche: 64 x 52 cm quello della Galleria Colonna e 59 x 51 cm la versione di Palazzo Venezia. 2 Simone morì in verità a Verona l’11 ottobre 1648, ma solo perché vi aveva cercato rifugio e assistenza, presso il fratello religioso che viveva nella città veneta, dopo essere stato avvelenato, quattro giorni prima, a Mantova. 3 Malvasia 1678, ed. 1841. 4 Simone Cantarini ebbe in Claudio Ridolfi, pittore veronese trasferitosi nelle Marche, il primo vero maestro, che gli trasmise una cultura pittorica e grafica derivata dal grande urbinate Federico Barocci. Tutta la prima attività del giovane pittore pesarese è segnata da uno stile corsivo e da tipologie fisionomiche che dimostrano questo alunnato. E’ noto tuttavia che le opere marchigiane di Guido Reni affascinarono Simone al punto da spingerlo a cercare con ogni mezzo di entrare nella bottega bolognese. 5 Il lascito di Cantarini nella storia del disegno a Bologna è di grandissimo rilievo, a partire dagli allievi Flaminio Torri e Lorenzo Pasinelli, continuatori raffinati del suo stile, si diffonderà fino a tutto il Settecento, fin nella penna acuta di Donato Creti e oltre. 6 Ho trattato dettagliatamente di questo argomento in Pulini (a cura di), 2005, p. 34.


7 L’opera è transitata sul mercato antiquario americano, all’asta Christie’s New York del 6 aprile 2006 con la corretta attribuzione a Cantarini dovuta a Federico Zeri in una lettera del 18 giugno 1968. Credo che l’importanza del dipinto meriti un impegno di studio che superi la brevità di questo mio testo, su di esso, nel contesto della ritrattistica di Cantarini, di veda Ambrosini Massari 2009b, pp. 363-364. 8 La piccola tela della collezione Luigi Koelliker di Milano, inventariata al n. LK 1302, misura 59 x 45 cm. 9 Il dipinto, visibilmente incompiuto e che misura 50 x 38 cm, è stato pubblicato Cellini 2001, p. 115. 10 Il disegno, eseguito a penna con inchiostro bruno, è pubblicato come opera di Palma il Giovane in Master Drawings... 1968 n. 125. 11 Vedi Cellini 1996, p. 120. 12 Entrambe le versioni esposte in mostra sono eseguite ad olio su tela, quella di Pesaro misura 85 x 60 cm, mentre il monocromo di Bologna, ora in collezione privata a Modena, misura 71 x 58 cm. 13 Besançon, Musée des Beaux Arts, inv. D 2234. L’attribuzione ad Annibale Carracci venne mutata da chi scrive in favore di Simone Cantarini durante una verifica sistematica della collezione avvenuta nel 1996 e segnalata a Marina Cellini che la ricorda, senza pubblicarne la foto, in Emiliani 1997, p. 279. 14 Il disegno, che io sappia inedito, è inventariato al n. 42/8 come opera di Andrea Sacchi. 15 Entrambe le opere sono eseguite ad olio su tela. La versione francese, battuta all’asta a Clermont-Ferrand da Vassy & Jalenques il 20 luglio 2006, misura 59,5 x 76 cm, mentre quella della Pinacoteca di Fano è di 59 x 77 cm. 16 Non mi sono note purtroppo le dimensioni esatte di questo esemplare ma anche in questo caso dovrebbero risultare analoghe all’incompiuto già in collezione bolognese (180 x 223 cm), transitato di recente presso la Christie’s di Roma. 17 Sotheby Milano, asta 13 e 14 dicembre 1995 lotto n. 549 (118 x 157,5 cm) come Angelica e Medoro e con l’attribuzione a Gian Giacomo Sementi. Come Cantarini in Pulini 2008, p. 24 e in Benati 2010, pp. 138-139, nella scheda del dipinto nelle collezioni del Credito Emiliano a Reggio Emilia. 18 Rio De Janeiro, collezione Costa e Silva inv. 28,15; 531.886 - 1979 AA, sanguigna su carta bianca 202 x 245 mm con giusta attribuzione a Simone Cantarini, vedi Ambrosini Massari 1995. Andrea Emiliani interpreta il tema del disegno come il momento in cui Dafni detta rime a Cloe, 1959, 8, p.447. 19 Due differenti versioni appaiono al recto e al verso di un foglio transitato a Milano, vedi Bareggi 1990, p. 39. Il foglio misura 210 x 220 mm ed è eseguito a sanguigna. Pubblicati anche da Bellini 1987, 27. Altri tre disegni che trattano lo stesso tema sono presenti nell’Album Horne di Firenze, inv. 6184 r; 6184 v e 6191 (rispettivamente schede 3, 4 e 11 del citato catalogo Cellini). Anche un ulteriore foglio inedito e che ritengo di Cantarini, conservato al Metropolitan Museum di New York come anonimo di scuola italiana, si cimenta in un soggetto analogo, nel quale un Amorino imbronciato viene rimproverato da Diana (mm. 111 x 139, inv. 374).

21 New York, Metropolitan, catalogato come Guido Reni al n. 80.3.331, il disegno è eseguito a sanguigna e misura 119 x 108 mm. 22 Rio De Janeiro, collezione Costa e Silva, inv. A 24, catalogato sotto il giusto nome di Cantarini, eseguito a sanguigna in un foglio che misura 141 x 120 mm. I due disegni sembrano eseguiti, come dire, lo stesso giorno, tanto sono inerenti allo sviluppo di una stessa idea inventiva e cercano una angolazione solo di qualche grado differente. 23 Saragoza, Museo de Aragón, olio su tavola 33 x 22 cm, pubblicato come Goya nel catalogo 1995, p. 196, e nella monografia generale: Gudiol 1970 n. 133. 24 Le immagini pubblicate si riferiscono ad un foglio conservato a Rio de Janeiro, collezione Costa e Silva, inv. 28,20, eseguito a sanguigna su un foglio che misura 263 x 194 mm, sia sul recto che sul verso è tracciata una versione molto differente dello stesso soggetto. Altri fogli che sviluppano il medesimo tema si trovano nell’Album Horne di Firenze inv. 6186 (scheda 5 del catalogo Cellini) e inv. 6192 (scheda 12). 25 Montiano, Collezione privata, olio su rame 35,5 x 25,5 cm. 26 Genova, Palazzo Rosso, inv. 1149, sanguigna 190 x 166 mm. 27 Venezia, Gallerie dell’Accademia, Gabinetto Disegni e Stampe, inv. 700, sanguigna 270 x 201 mm. 28 L’identificazione come opera di Cantarini è avvenuta quando il dipinto si trovava presso la collezione Pratesi di Firenze, nel quale recava un’attribuzione a Ottavio Vannini dovuta al Cantelli che l’aveva pubblicato nel suo Repertorio... 1983, n. 703. Ora la tela, che misura 70 x 51 cm è stata acquisita dalla Galleria Altomani di Pesaro e già pubblicata da me in una rubrica di scoperte che tenevo su Agorà, la pagina domenicale di un quotidiano: Pulini 2004, p. 22. 29 Londra, Galleria J.L. Baroni Ltd. olio su tela, 75 x 63 cm. 30 Oretti, Ms B 104, b 30/4, conservato a Bologna presso la Biblioteca dell’Archiginnasio. 31 L’incisione misura 260 x 305 mm, una copia si conserva a Bologna, presso il Gabinetto dei Disegni e delle Stampe della Pinacoteca Nazionale. I disegni che qui riferisco a Cantarini per la prima volta sono conservati rispettivamente a Rio de Janeiro, collezione Costa e Silva (penna e inchiostro bruno su carta bianca, 140 x 185 mm), catalogato come Salvator Rosa da Luis Marquez in Ambrosini Massari e Morselli, Op cit, n. 232 p. 278. Il secondo disegno, del quale purtroppo non ho ricevuto in tempo la foto, è conservato, come opera anonima, a Ellesmere, nella collezione Leicester inv. 12682 bis. 32 Bologna, Pinacoteca Nazionale, Depositi inv. n. 64 cat. 635. L’opera (che misura 185 x 225 cm) è considerata una copia di Benedetto Gennari ma a mio avviso dispone di sufficienti qualità per essere intesa come replica autografa, anche se di minore freschezza rispetto alla variante di Dresda (che misura 138 x 179 cm). Le leggere differenze del volto di Giuseppe rispetto a quello raffigurato nell’esemplare tedesco corrispondono comunque a tipologie cantariniane e anche il Mercurio Baroni lo conferma. 33 Pulini 2002.

20 Pesaro, Galleria Altomani 120,7 x 103,5 cm.

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Anna Maria Ambrosini Massari SIMONE CANTARINI INQUIETO: METAMORFOSI CREATIVE E MERCATO ARTISTICO

Sempre volendo partire dall’esistente, accanto alla imponente triade delle opere storiche della Pinacoteca Civica di Fano, la Fondazione della Cassa di Risparmio offre lo spunto per articolare l’omaggio all’artista, su un altro aspetto altrettanto centrale per la comprensione della sua intensa e complessa poetica. Le opere di proprietà della Fondazione, l’Agar e l’angelo e la Madonna della rosa, sono invenzioni note da fonti e inventari, dall’esistenza di più di un esemplare, modelli di grande successo e altrettanto diffusi, secondo la prassi caratterizzante dell’epoca, che vedeva una sempre maggior richiesta, per un pubblico sempre più stratificato, che prevedeva l’esistenza di anche più di un originale dell’artista, dunque di sue repliche del soggetto, eventualmente con qualche variante, che caratterizzasse quel certo esemplare, fino a una scala di realizzazioni che comprendeva le copie del modello di grande successo, realizzate sotto il controllo del maestro, secondo un sistema che viene codificato in modi senza precedenti alla scuola del Reni, di cui abbiamo un compiuto e vivace racconto fornito da Carlo Cesare Malvasia nella sua Felsina Pittrice. Nel quadro di un collezionismo sempre più vivace ed allargato, risulta del tutto normale che le invenzioni di maggior successo vengono richieste in più versioni, con l’esistenza di repliche bellissime, quali, per esempio, nel caso dell’Agar e l’angelo della Fondazione della Cassa di Risparmio di Fano e nella delicatissima tela del Musée des Beaux-Arts di Pau ma anche di repliche e copie più o meno con l’intervento dell’artista, come nel caso esemplare della Madonna della rosa. L’esigenza di rispondere alle richieste del collezionismo si coniuga in Cantarini con una natura inquieta e volubile che indubbiamente contribuisce a mettere in campo l’esistenza di più versioni di numerose invenzioni. Rimando senz’altro, su questi temi, al saggio in

catalogo di Raffaella Morselli, in grado di portarci come nessuno, dentro il rigido e sorprendente sistema del mercato seicentesco, mentre lo scritto di Massimo Pulini mette a fuoco quel sistema, nella ricezione della speciale nota di carattere di Simone Cantarini, con le sue inquietudini e con una ricerca mai del tutto soddisfatta. La sezione introdotta da Rodolfo Battistini sul tema delle bellissime acqueforti del pittore, diventa parte integrante di questa tematiche, che segue le potenzialità inventive fino alle estreme possibilità, dentro i meccanismi produttivi e divulgativi, che hanno nella serie sublime di acqueforti, per loro stessa natura, un completamento e una definizione di centrale importanza per l’argomento. La facilità e felicità1 con cui operava sostengono il pieno inserimento di Simone Cantarini in questo mondo di amatori e di mercanti, con il fantasma di Guido Reni sempre su una spalla. Come Guido, meglio di Guido, niente a che fare con Guido: è il tema della biografia ufficiale di Cantarini e dovette essere un po’ la sua ossessione in vita, nel bene e nel male. Anche perché, comunque, quel modello, nelle sue diverse potenzialità espressive: prima maniera, seconda, fase caravaggesca, argentea, dà corpo alle diverse declinazioni del temperamento eclettico di Cantarini, in tutta la carriera, con corsi e ricorsi di dati di stile, talora sorprendenti e fuorvianti, come ho avuto di recente modo di approfondire2, con un buon numero di esempi. Eppure, in questo nodo reniano, Cantarini sa mettere in campo una straordinaria novità, che gli garantirà il successo e una profonda influenza sui pittori più giovani. La sua bellezza, variata, replicata, diurna, notturna, diventa soprattutto ‘vaghezza’: la linea femminile dell’arte3. Una linea che attraversa tutta l’opera di Cantarini:

Simone Cantarini, Autoritratto, Roma, Palazzo Corsini Simone Cantarini, Allegoria della Pittura, Repubblica di San Marino, Cassa di Risparmio di San Marino 109


forse, é lui stesso a suggerircelo per primo, quando dipinge il proprio Autoritratto, così somigliante all’Allegoria della Pittura, che è donna. In origine, il pittore aveva pensato la dolcissima figura femminile in posizione frontale. Infine, però, ha preferito la posa attuale, leggermente girata di tre quarti, privilegiando l’accentuazione del movimento fugace, dello sguardo furtivo ma accattivante, improvvisamente rivolto allo spettatore. Una scelta non del tutto disgiunta, forse, da poetici e simbolici rimandi con l’opera con cui questa dialoga più di vicino, per punto di stile e impostazione, come avevo in precedenza proposto, l’Autoritratto Corsini4. Leggendo la descrizione di un dipinto che Lanzi vedeva in casa Mosca a Pesaro, mi sembra che tale sintonia fosse evidente anche ad alcuni dell’epoca, e, forse, consapevole in Cantarini, che giocava su una sovrapposizione simbolica dell’Allegoria della pittura come proprio Autoritratto. Dice infatti Lanzi -tra l’altro aprendo un’ipotesi di provenienza di un esemplare come questo, dalle collezioni Mosca, famiglia, come vedremo, molto legata al pittore-: Ivi ritratto di una giovane donna per parte con tavolozza e pennelli: ha una sopra vesta così legata su la spalla come le antiche statue donnesche. Credesi da alcuni Ritratto suo proprio ch’è falso, forse ha effigiato la pittura stessa. Il volto è bellissimo pieno di grazia e di espressione…5. Un dipinto che, tra l’altro, conserva una fattura corsiva e a tratti abbozzata, che l’ha fatto talora riconoscere, come più sopra accennato, nell’autoritratto ricercato da Malvasia, descritto, appunto, come ‘non finito’6. Il filo rosso che apparenta queste creazioni, quali varianti della stessa modalità operativa di Cantarini, che trascorre dai pentimenti, ad opere abbozzate, fino a vere e proprie stesure sommarie, che si addensano nelle opere della maturità, non può certo essere un’anacronistica interpretazione postromantica, per cui il pittore indulge ai valori emozionali del ‘non finito’, alla bellezza dell’incompiuto, della potenzialità inespressa. La spiegazione è piuttosto nella sua ricerca inquieta e insoddisfatta, sempre sostenuta dalla propensione grafica, che fatica a trovare composizione definitiva. La stessa sostiene le invenzioni con varianti, nelle versioni diversamente illuminate, diurne, notturne, con ‘gruppi di famiglia in un interno’ o in esterno, come nei casi delle Sacre famiglie della Galleria Colonna e della Galleria Nazionale di Palazzo Barberini a Roma. Oppure nelle varianti, gamme di colori, pose, tipologie: come nelle due versioni del Sogno di san Giuseppe del Duomo di Camerino e della Cassa Depositi e Prestiti di Roma. Molte problematiche si risolvono dentro le pieghe delle pra110

tiche di bottega, che potevano dare adito a varie possibilità che un’opera si fermasse allo stato di abbozzo. Poteva trattarsi di eseguire copie da un prototipo, o repliche del maestro che avrebbero dovuto essere completate dagli allievi, il più spesso delle volte si tratta di un intensificarsi delle commissioni che rende difficile il loro espletamento7. Qualche volta, possiamo anche immaginare, dietro casi del genere, la vita turbolenta delle botteghe artistiche, quale è quella del Reni, tramandata da Malvasia, dove si stipa un numero altissimo di allievi, che rispecchiano le più disparate virtù e vizi8. Di questi ultimi, Cantarini è rappresentante all’estremo9, per il suo orgoglio smisurato e l’arroganza. Come nel caso di quel san Girolamo, che suscitò per la prima volta il risentimento di Guido Reni, avvisaglia dei futuri, insanabili contrasti, in picciola teletta bozzato in poche ora di nascosto, poi lasciato sullo stesso trepiedi del maestro alla vista di que’ giovani, nissuno de’ quali fu, che vedutolo, non lo giudicasse e asseveratamente non lo divulgasse per mano di esso appunto, per esser così felicemente operato;…10. Un’opera della quale potremmo trovare suggestivamente un riflesso nella piccola tela di collezione privata modenese con San Girolamo nel deserto, da vedere, peraltro, in strettissimo rapporto col dipinto omonimo in collezione privata romana, che rappresenta la stessa invenzione portata a completamento, forse lasciando immaginare, appunto, un tema di successo che veniva replicato e del quale le due versioni esistenti rappresentano l’una, l’opera finita, l’altra, la stessa, con minime varianti, in fase di lavorazione. Già Lanzi, in un certo senso, l’aveva capito. Quando dice che Cantarini si avvicina a Guido come nessuno ma con un possesso ch’è proprio di pochissimi imitatori11, vuole sottolineare la personalità autonoma e interpretativa del pittore di Pesaro, che sceglie un fare meno nobile ma più grazioso, che apre verso un nuovo linguaggio, pittoresco e borghese, più intimo e inquieto, che si spinge verso il Settecento internazionale, come Lanzi stesso saprà compendiare, osservando la storia già ‘à rebours’, cogliendo i termini esatti e antitetici della questione: Non ha idee sì nobili, - da paragonarsi a Guido Reni - ma a parer di molti le ha più graziose 12. Un mondo di nuove sensibilità, di accenti elegiaci che declinano al pittoresco. Lo stesso è per Pier Francesco Mola o Pietro Testa, nelle tele da cavalletto da cui si snocciolano le storie bellissime e i meravigliosi paesaggi, contesto artistico con cui Cantarini si incrocia con tanto singolari quanto misteriose sintonie. In questa cornice, accanto alla Maddalena di Pesaro, vanno viste invenzioni come il prezio-


so Agar e l’angelo, nella versione della Fondazione della Cassa di Risparmio di Fano, contrappuntato dalla delicatissima tela del Musée des Beaux-Arts di Pau13, dove il paesaggio sconfina su un orizzonte che guarda ormai verso nuovi, dolcissimi, moderni traguardi.

5 Lanzi (1783) ed. 2003, p. 41. Su un reciproco riflettersi delle due immagini, anche Cellini 2008. La somiglianza dei due volti fa pensare, per la descrizione di Lanzi, a questo modello. Va detto che esistono altre redazioni della stessa allegoria, certo meno efficaci, repliche di bottega, come quella di Varsavia, Narodne Galerie. Una serie di disegni documenta l’elaborazione del soggetto, (Ambrosini Massari 2003) in particolare connessione col dipinto, secondo Pulini, op. cit., un disegno di Brera inv. 62, con Studio di figure, nella figura di sinistra. 6 Nell’edizione del 1678, p. 381, le ricerche del quadro hanno avuto esito infruttuoso. Solo in un’aggiunta agli Appunti inediti, come avevo già rimarcato, 1996, p. 37, nota 24 dichiara che dopo la stampa della Felsina, il compitissimo Signor Conte Alessandro Fava, glielo aveva mandato, ritrovato fra le altre sue tante cose che di questo gran pittore possiede, Malvasia in Marzocchi 1980, p.193. Sulle collezioni Fava, tema centrale per gli sviluppi della pittura a Bologna, fin dai Carracci, relativamente al periodo in esame, anche per l’ importanza anche quale palestra per gli artisti bolognesi nel secondo Seicento, Mazza 2003(2004), pp. 313-377, in relazione a opere di Cantarini e agli esordi di Donato Creti, da vedere, in relazione al tema e a Cantarini, anche Mazza 1997, pp.359-396. 7 Sul tema, numerosi esempi possono ricavarsi dalla lettura degli inventari seicenteschi, in particolare, nel caso di quelli bolognesi, dove è frequente trovare dipinti citati come ‘bozze’, oppure cominciati dal maestro e finiti dall’allievo. Diversi esempi sono menzionati come iniziati da Cantarini e finiti da Flaminio Torri. Per una panoramica selezionata su Cantarini, si rimanda alle liste, a cura di Morselli e Bonfait, pubblicate in Colombi Ferretti 1992, pp. 126-132. Sull’argomento, si veda anche Morselli 1997; Spear 1997 in particolare, pp. 225-252. In un certo senso, anche la Madonna col bambino e san Filippo Benizi, Bologna, Pinacoteca Nazionale, terminata da Francesco Albani, per la morte di Cantarini, rientra in questa categoria. 8 Malvasia cit., pp. 5-66. Sulla scuola del Reni, oltre al volume a cura di Negro e Pirondini 1992, anche per questo aspetto di un rendiconto del numero, altissimo di allievi, che descrive Malvasia, si veda Pellicciari 1988, pp. 119-141.

Note 1 …che in poc’ore diede fatto il ritratto molto simile e buono [co tanto brio, vaghezza e somiglianza che fu uno stupore]….massime in quella operazione di copiare con tanta felicità, e facilità ciò che davanti vedevasi [ch’era la sua dote più ribondante e peculiare] ne prese così tormentosa….Malvasia in Marzocchi 1980, p. 80. 2 In particolare 2009a; anche 2009b. 3 Pulini 2006, p. 27 e nota 12, in quello stato d’animo, femminile, si riconosce anche la pittrice Ginevra Cantofoli. La riflessione nasceva, tra l’altro, in rapporto al dipinto della Cassa di Risparmio di San Marino e da meditazioni innescate da Emiliani 1997b, pp. 36-37, quando, in relazione a temi dell’estetica barocca, che attraversa personalità quali Malvezzi e Manzini, nell’interpretazione di Raimondi 1995, introduceva una sorta di dualismo, appunto, tra pittura di ‘senso maschile’, robusta e aspra e quella di ‘senso femminile’, soave e vaga. 4 Nella scheda dell’opera che scrivevo nel 2003 seguivo senz’altro le indicazioni di Daniele Benati nella bella mostra, da lui curata, Figure come il naturale: il ritratto a Bologna dai Carracci al Crespi, 2001, pp. 68-69, n. 8, su una collocazione giovanile del dipinto, precedente alla presenza a Bologna presso Reni, e ne rilevavo la singolare sintonia, anche compositiva, con l’Autoritratto, opera degli stessi momenti e stimoli.

9 La vita di Cantarini nel Malvasia disegna il carattere moralistico dell’orgoglio e dell’arroganza, come spiegato in Colombi Ferretti 1992; Ambrosini Massari 1997a, pp. 49-52; Unglaub 1998-‘99. 10 Malvasia, cit., p. 376. Un episodio che dimostra l’abilità del pittore, la sua facilità in questo particolare soggetto del quale abbiamo importanti testimonianze, in opere tuttora esistenti ma anche a livello di menzioni di fonti. Si tenga presente, in particolare, la poetica versione della Galleria nazionale delle Marche di Urbino, depositata presso la Pinacoteca Nazionale di Bologna, che raffigura San Girolamo in atto di leggere, Cellini 1997b, p. 116; l’altra, con San Girolamo che contempla il teschio, in collezione privata bolognese, Emiliani 1997b, p. 120, e i due dipinti in collezione privata, con San Girolamo nel deserto, per le cui schede si rimanda in ibidem, pp.131-132. 11 Lanzi ed. 1809, p. 80. 12 Ibidem. 13 Pubblicato da Ambroise 2008, 1, pp. 60-63, 110, 112, dove andrà rilevato che la Sacra famiglia del Museo di Grenoble, con cui viene proposto un confronto, (si veda in Mancigotti 1975, p. 54) non è opera di Cantarini. Sul dipinto fanese, Ambrosini Massari 1997b, pp. 127-128 e si vedano schede più avanti.

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Simone Cantarini, San Girolamo nel deserto, Olio su tela; 71x58 cm, Modena, collezione privata Ecco una coppia di dipinti che ci porta nel cuore del tema: non solo il problema del mercato artistico ma anche il temperamento inquieto di Cantarini, la sua ricerca costante e le varianti anche dell’animo, nella versione ‘non finita’, bruna, terrosa, inquieta e in quella ‘finita’, armonica, sfavillante, calibrata. 112


Simone Cantarini, San Girolamo nel deserto, Olio su tela; 85x60 cm, Pesaro, collezione privata

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Alessandro Marchi I DUE SAN GIROLAMO NEL DESERTO

Con il metro dell’inquietudine vengono spesso a doversi leggere codeste doppie redazioni di un medesimo soggetto, così frequenti nel catalogo di Simone Cantarini, soprattutto quelle come le presenti così diverse, come ben detto da Massimo Pulini: antinomiche1. Ed è proprio il sagace critico a riproporre una nuova lettura delle due versioni del San Girolamo nel deserto 2, da lui rinominato San Girolamo in lettura: “si ha la sensazione che la replica [il quasi monocromo di raccolta bolognese] non muovesse da ragioni inerenti la luce, scura è anche la versione colorata, ma più per intenti di macerazione della materia, per attuare un prosciugamento dell’impasto cromatico, ridotto ad un unico crudo colore, che sembra una pulitura di pennello, ma è ancora capace di modellare l’essenza della forma. Viene pure da credere che gli esemplari scabri assolvessero una funzione, tutta privata, di conservare una traccia consistente della composizione definitiva, di fare regesto del proprio percorso. Finora gli studi non si sono occupati tanto degli aspetti legati alla memoria professionale degli artisti, di come si ponessero il problema, ora assolto dalla fotografia, di documentare quel che avevano già prodotto. Anzi gli storici e i filologi hanno quasi sempre cercato, di fronte alla presenza di due versioni della stessa icona, di metterle in guerra tra loro, di farne prevalere una sull’altra per comprendere quale fosse l’autografa e quale no”3. La disamina continua prospettando che Cantarini, data la propria esuberante ed intricata personalità, non permettesse che a se medesimo di copiare le sue invenzioni, diffondendo comunque le idee migliori attraverso le bellissime incisioni di cui è autore. Così l’articolo in Storia dell’arte (l’autorevole rivista diretta da Maurizio Calvesi, qui ripubblicato) propone una serie di disegni, due dei quali in relazione con l’idea compositiva di San Girolamo nel deserto, il primo “stilato nervosamente a penna”, conservato a Besançon, Musée de Beaux Arts, inv. n. D 2234; il secondo “più rifinito, a sanguigna” custodito a Bremen, Museo, inv. n. 42/8, 114

particolarmente suggestivo quest’ultimo, forse in reale contatto con la gestazione dell’immagine cantariniana4. Andrea Emiliani, su comunicazione di Prisco Bagni, ha segnalato due ulteriori disegni sul tema, di mero orientamento il primo, nella Collezione Certani della Fondazione Giorgio Cini a Venezia (inv. n. 32444); il secondo, più diretto e circostanziato, di elevatissima qualità di proprietà Zeitlin and Ver Brugge di Los Angeles5. Altri spunti affini, nel settore della grafica, si possono suggerire in alcuni ulteriori studi, su un argomento, davvero caro al pittore. Per esempio, uno Studio per un santo che legge, a Brera, o il bel disegno, da considerare nella filiera tematica, anche se riflette una redazione leggermente variata, col santo in posizione frontale, Studio per san Girolamo in meditazione sul teschio, che ha anche sul verso una prova sullo stesso argomento ma meno in sinotnia con le nostre invenzioni6. Una testimonianza, peraltro, degli sviluppi variati che l’artista offre sul tema, che ripropone anche in altre redazioni pittoriche, diverse dalle nostre, con una presa più diretta sul santo, meno interessata al contesto paesaggistico, come nel celebre esemplare della Pinacoteca di Bologna o in altri soggetti analoghi. Fatto è che l’opera ‘colorata’, cioè la versione pesarese, s’impone per quell’avveduta definizione d’insieme, il santo e il paesaggio ‘feltresco’ oltre l’imboccatura della grotta, compresa l’impennata sapiente del manto sanguigno, rosso e accartocciato (di baroccesca memoria come nei due Giovanni Evangelisti di Bondeno e di collezione privata bolognese: si rammenta che proprio quest’ultimo ha fatto scattare la critica appassionata di Francesco Arcangeli nel lontano 1950), e confina nell’angolo con quella natura morta di libroni rilegati in cuoio chiaro, carte bianche srotolate ed un teschio di forme rifinite e naturali come un Giovan Francesco Guerrieri. C’è tutto, tranne il rosso manto, anche nella redazione di Modena, riferita al nostro dall’occhio sapiente di Carlo Volpe, ma tutto é tagliuzzato nella macerazione degli scuri, dal bitume di fondo che inghiotte e nasconde, o trasforma in puro atto lirico. Fu proprio un San Girolamo a scatenare ire e risentimenti di Guido Reni: una picciola teletta bozzato in poche ore di nascosto, poi lasciato sullo stesso trepiedi del maestro alla vista di que’ giovani, nissuno de’ quali fu, che vedutolo, non lo giudicasse e asseveratamente non lo divulgasse per mano di esso appunto, per esser così felicemente operato 7. Si deve ad Anna Maria Ambrosini l’aver riportato l’attenzione su questo brano per un suggestivo


Simone Cantarini, Studio per un san Girolamo, Milano, Brera, Gabinetto Disegni e Stampe Simone Cantarini, Studio per san Girolamo, recto, collezione privata Simone Cantarini, Studio per san Girolamo, verso, collezione privata

“riflesso nella piccola tela di collezione privata modenese con San Gerolamo nel deserto, da vedere, peraltro, in strettissimo rapporto col dipinto omonimo in collezione privata romana, [vale a dire quello che definiamo ‘colorato’ e pesarese] che rappresenta la stessa invenzione portata a completamento, forse lasciando immaginare, appunto, un tema di successo che veniva replicato e del quale le due versioni esistenti rappresentano l’una l’opera finita, l’altra la stessa, con minime varianti in fase di lavorazione.” La evocazione del brano di Malvasia in qualche relazione col nostro soggetto, porterebbe anche a collocarlo cronologicamente negli anni del primo soggiorno bolognese di Cantarini, quelli presso Guido Reni, quando si consumano anche i momenti nodali del loro rapporto, che culmineranno, nel 1637, con il famoso, irrevocabile litigio8. E certo è fortissima la vicinanza con modelli del maestro di grande temperamento, in particolare l’esemplare ‘finito’ pesarese, ben si confronta, tra l’altro, con opere quali il capolavoro oggi a Brera, proveniente dalla collezione Sampieri a Bologna, con I santi Pietro e Paolo. Finito non-finito, i termini di una interpretazione che trova in Cantarini un terreno fertile di ricerca, man mano che progrediscono i tempi e matura la sua carriera, in un parallelo suggestivo con quanto avviene nel suo amato-odiato maestro Guido Reni. Si ritorna così all’inquietudine ed al gusto moderno che apprezza e ricerca il non finito, il suo aspetto

post-romantico, il suo ‘impressionismo’, la sua tensione interiore ad una perfezione irraggiungibile ed estrema, appunto il motivo per cui oggi amiamo il doppio registro creativo di Simone Cantarini.

Note 1 Mi riferisco al brillante saggio di Pulini, intitolato appunto Le antinomie di Simone Cantarini, 2008, pp. 7-40, qui ristampato. 2 Emiliani 1997b, pp. 131-132; Benati 1999, n. 7, pp. 58-60 (scheda della versione ora in collezione modenese). 3 Pulini 2008, pp. 9-10. 4 Ivi, pp. 10 e 14 nn. 13-14. Si vedano illustrazioni a p. 101 5 Emiliani 1997b, p. 132, (già presso Sotheby’s Londra, 2 luglio 1984, sanguigna 246 x 154 mm). 6 Cellini 1997b, p. 280, collezione privata. Per lo studio di Brera, Ambrosini Massari 1997a, p. 170. 7 Malvasia 1678, ed. 1841, II, p. 376. 8 Ambrosini Massari 2009b, p. 331. 115


Simone Cantarini, Madonna della rosa, Olio su tela; 127x95 cm, Reggio Emilia, collezione privata Siamo qui di fronte a una delle invenzioni di maggior successo e diffusione del pittore pesarese. Il caso, appunto, di un modello fortunato che dovette essere molto richiesto, tanto da sollecitare numerose repliche e copie: senza minime variazioni. Un’icona di bellezza, assorta, algida e modernamente meditabonda: un vero e proprio ‘must have’ dell’epoca. 116


Simone Cantarini, Madonna della rosa, Olio su tela; 103x82 cm, Fano, Fondazione Cassa di Risparmio

117


Alessandro Marchi LA MADONNA DELLA ROSA

Da quando Daniele Benati ha felicemente scoperto l’originale della Madonna della Rosa di Simone Cantarini, qui in esame in coppia, accanto all’esemplare di proprietà della Fondazione di Fano, è tutto un fiorire di nuove composizioni: altri originali, altre redazioni, copie, desunzioni, che dimostrano lo straordinario successo e la conseguente diffusione di questa sublime invenzione di Simone Cantarini. Sembra utile pertanto imbastire un regesto che metta a confronto i dipinti esistenti con le attestazioni documentarie e le testimonianze letterarie, non solo per mettere ordine in una materia che va ingarbugliandosi, piuttosto per dar ragione e risalto a codesta che fu una delle più nobili composizioni ‘da stanza’ del Pesarese, bella ed amata. Le fonti, soprattutto quelle bolognesi, citano un cospicuo numero di Madonne della rosa del Cantarini, s’inizia dalla: Collezione Bellucci: Madonna col bambino con una rosa in mano opera di Carlo Cignani, copiata da un originale di Simone da Pesaro1; Collezione Brunetti: Madonna della rosa: mezza figura con una rosa in mano e il bambino figura intera al naturale …quadro di cui si conoscono molte copie tra cui, a Bologna, una di Flaminio Torre e una di Giulio Cesare Milani. L’originale era ritenuto quello che fu già del Brunetti, venduto a Bologna 2; Collezione Natali: Madonna detta della rosa… figure dal vero, copia 3; Collezione Rampionesi: Madonna col bambino… copia da quella di Simone da Pesaro detta della rosa fatta da buon maestro 4; Collezione Ranuzzi: Madonna della rosa… la Beata Vergine col bambino sulle ginocchia detta della rosa, copia del Pesarese 5; Collezione Sampieri: Madonna della rosa… copia 6; Collezione Varotti: Madonna della rosa… Beata Vergine col bambino sulle ginocchia, copia di Simone Cantarini7; Collezione del Conte Carlo Alberto Malvasia, Madonna della rosa copia del Cignani da Cantarini8; Ranuzzi Annibale (notaio Lodi Giuseppe, 1698/04/29), Bologna; 16 Camera n. 16 contigua 118

alla suddetta che a due finestre che guardano nel cortile Un quadro con entrovi una B.V. con il bambino sul ginocchio detta della Rosa copia del Pesarese con cornice intagliata e dorata e color morello in cassa L. 150; Ranuzzi Girolamo (notaio Teodori Zenobio Egidio, 1788/03/13), Bologna; n. 10 camera annessa al camerone, con due finestre che guardano nel gran cortile Un quadro rappresentante in mezza figura al naturale una B.V. col bambino con una rosa in mano, copiata dall’originale di Simone da Pesaro, con cornice intagliata e dorata alto P. 3 d. 5 largo P. 2 d. 7 L. 60 9. Siamo dunque a quota dieci (o addirittura dodici esemplari contando come diverse le due ultime tele in casa Ranuzzi), e tutte opere concentrate in Bologna, indistinte fra originali e copie, tra le quali si vorrebbero attestati - con totale sicurezza - i sette esemplari sino ad oggi riemersi. S’inizia con quello già citato, protagonista della mostra e conservato in collezione privata a Reggio Emilia10, come detto, identificato da Benati nell’asta Sotheby’s del 1990 dove era presentato con un’attribuzione all’ambito di Simon Vouet (il grande pittore francese secentesco, convertitosi parzialmente al caravaggismo nel lungo soggiorno italiano), messo in relazione dallo studioso con un bellissimo disegno del Cantarini conservato all’Accademia di Ve-

Simone Cantarini, Madonna della rosa, collezione privata


Simone Cantarini, Studio per Madonna con bambino, Firenze, Museo Horne

Simone Cantarini, Studio per Madonna col bambino, recto, Venezia, Gallerie dell’Accademia

Simone Cantarini, Studio di tre teste, verso, Venezia, Gallerie dell’Accademia

Simone Cantarini, Studio per ritratto di Lorenzo Pasinelli, Venezia, Gallerie dell’Accademia 119


Simone Cantarini, Studio di panneggio, Venezia, Gallerie dell’Accademia

nezia con inventario 96 r/v11. Nelle Collezioni Reali inglesi a Kensington Palace esiste una seconda versione (la numerazione è puramente indicativa e corrisponde ad un desiderio d’ordinare la materia complessa in una successione più facilmente intellegibile, rispettando i metodi della filologia storico-artistica), segnalata ma non riprodotta da M. Levey nel 196412, già indicata da Benati come inferiore qualitativamente ed effettivamente dura nei lineamenti, nella stesura dei colori e conduzione della luce, tanto da far propendere per una replica, se non una copia antica. E’ interessante notare che il catalogo ottocentesco delle collezioni reali (Law 1881, poi ’89) presentava il dipinto come Cignani, autore del quale risultano copie da un prototipo del Cantarini, di cui una è citata nell’inventario della collezione del conte Carlo Alberto Malvasia13. Terza versione, codesta delle raccolte della Fondazione Cassa di Risparmio di Fano, esposta nella Pinacoteca di San Domenico14, giunta qui per acquisto nel 1982 dal mercato antiquario con provenienza sconosciuta, che gode di alta considerazione fra gli studiosi: eseguita in bottega sotto l’alta 120

sorveglianza del Cantarini (Daniele Benati, comunicazione orale ad Anna Maria Ambrosini15); pur ritenendo essenziale un restauro, ritiene che sia opera di Simone Cantarini (Denis Mahon comunicazione orale alla Medesima16); Simone Cantarini sotto il diretto controllo del maestro (Ambrosini Massari e Marina Cellini17); Simone Cantarini e aiuti (ancora Ambrosini18); di Cantarini o comunque una esecuzione all’interno della sua bottega (Franco Battistelli19). Ricomparsa da poco, una nuova redazione, passata in asta a New York il 5 dicembre 2007, lotto 58 (collezione privata)20. Uno smagliante autografo, il più bell’esemplare ad oggi noto, con tanta enfasi presentato da Anna Maria Ambrosini che lo ha prontamente pubblicato nel suo denso, ultimo saggio in cui Simone ‘diventa’ finalmente Simone21. L’inaspettata trouvaille reca una fondamentale iscrizione in antica grafia sul retro: Anno 1642, il signore Simeon da Pesaro fece questo quadro; nonostante non sia passata a verifica degli studiosi, l’epigrafe mette in subbuglio le proposte di datazione della composizione, originatesi dallo studio del corredo grafico che ne accompagna l’invenzione, di cui poi si dirà22. Siamo ora alla numero cinque: una copia di scarsa qualità, segnalata da Anna Colombi Ferretti nei depositi delle Collezioni Comunali d’Arte di Bologna23. La sesta è stata identificata come copia tout-court da Emilio Negro che ne ha suggerito l’esistenza ad Anna Maria Ambrosini, ed è conservata in una non specificata raccolta modenese24. L’ultima è transitata da Christie’s a Londra il 24 gennaio 2012, lotto 258, con una prudente ascrizione after Simone Cantarini 25. Invenzione e stile. La modernità di questa immagine è sorprendente: la qualità di pittura, il nitore neoclassico delle stesure, l’acidissimo contrapposto dei colori si riverberano sui nostri sensi e ci precipitano in uno stato di sbigottimento: come e quando? Come possibile che il Seicento abbia prodotto una tale visione, chi se non un outsider quale Cantarini, l’eclettico marchigiano-emiliano, poteva darle forma. Non bastava comunque la totale immersione nell’algida prosa reniana, occorreva traguardarne i presupposti e spiccare il salto nell’ignoto futuro. Riguardando Vouet, la produzione italiana (ma fors’anche un poco la succesiva francese) non sorprende la virata attributiva dei consulenti Sotheby’s, ma ci sono i disegni. Attraverso la buona prassi del disegno: Cantarini ci arriva per gradi. L’idea di una donna che abbraccia un fanciullo in


piedi sulle sue gambe, guardandolo negli occhi, è espressa in un bellissimo foglio, tracciata a matita rossa nell’Album Horne, al n. inv. 6206 (conservato a Firenze presso il Museo Horne)26. La Madonna è a figura intera, inginocchiata a terra come le antiche Vergini in Umiltà, il bambino, in piedi sulle sue cosce, tenta di abbracciarla con entrambe le braccia distese, Ella lo accoglie nel mentre che lo sostiene con le sue forti braccia intrecciate dietro la schiena. Nonostante la tenda raccolta verso il soffitto, nonostante la riquadratura prospettica, non è ancora una composizione finita, si capisce bene che il pittore ha fissato un’azione in movimento, osservando e appuntando sul foglio i personaggi collocati ad altezze diverse: Non risulta ancora sperimentata quella soluzione che creerà nella traduzione pittorica una linea di forza più accentuata in virtù dell’inarcarsi, tipicamente infantile, della schiena del bambino 27. A seguire l’elaborazione progettuale sono i fogli di Venezia (matita rossa e nera, gessetto bianco), l’intero all’inv. n. 96 r, in precisa corrispondenza col dipinto con i protagonisti di profilo allineati l’uno all’altro; il volto della Madre studiato ben tre volte nel verso del medesimo foglio28, con il sembiante pressoché identico delineato nel foglio inv. n. 730 (sempre Venezia, Accademia, matita rossa; qui ancora più somigliante alla versione pittorica: un volto femminile caratterizzato da un’ampia e morbida mascella arrotata e dalla bocca appena imbronciata in una smorfia di tristezza trattenuta) sul cui verso è l’iscrizione: 1646 luglio in Bologna di mano dell’illustrissimo S. Simon da Pesaro questa testa da lui abozzata per Lorenzo Pasinelli suo discippolo del sudt.o il Pasinelli di età ani minore 1729. Come accennato, l’indicazione è stata ritenuta utile a datare la Madonna della Rosa al 1646, altresì ravvisando nel profilo un ritratto dell’allievo diciassettenne di Cantarini30. Il ritrovamento della data 1642 mette tutto in discussione. Crediamo possibile che Cantarini replicasse per Pasinelli (Bologna 4/IX/1629 - 4/III/1700) a mo’ di esempio, la testa di una fra le sue Madonne più belle, è qui infatti - inequivocabilmente - delineato un volto femminile che, solo in linea di massima, poteva presentare qualche somiglianza col profilo di un avvenente giovincello non ancora diciassettenne. Tanto più che le sembianze della Madonna della Rosa sono le stesse di quella dipinta nella pala di Arcevia, nella Trinità/Sacra Famiglia ora nella raccolta della Fondazione Cassa di Risparmio di Pesaro, o di quella dell’Adorazione dei Magi - già Salina - ora nelle Collezioni Rolo Banca di Bologna (e ciò non può essere casuale: la medesima modella, l’ultima splendida amante dell’intraprendente pittor

pesarese). Altro foglio, tracciato a gessetto rosso e bianco su carta ocra (Venezia, Accademia, inv. n. 135), è stato identificato da Mario Di Giampaolo come preparatorio per il panneggio della nostra Madonna31; ulteriore indizio di una gestazione lunga ed elaborata come si conviene ad un’idea che ambisce raggiungere la perfezione. La Madonna della Rosa, questo cammeo di umana bellezza, è dunque una creazione della maturità del Pesarese - lo si è ribadito in più sedi -, abbiamo già speso gli aggettivi ‘nitore’ e ‘neoclassico’ che possono essere persino appaiati, ne spiegano però soltanto l’aspetto esteriore col gusto di oggi à rebours; le ragioni storiche sono probabilmente altre: i francesi a Roma nel quarto decennio del Seicento, l’avanzare e l’imporsi - almeno in certi ambienti della corrente cosiddetta ‘purista’, la riscoperta di Raffaello da parte di artisti come il Sassoferrato, che ha certamente punti di contatto con Cantarini, che sarebbe opportuno investigare perdendoci un po’ di tempo e qualche riflessione meno affrettata. Iconografia e simboli. Gesù bambino è ragione di una profonda inquietudine nella Vergine, la guarda interrogandola o meglio presentandole la crocetta di legno del rosario ed una rosa centifoglia al colmo della fioritura. Due simboli di doloroso destino che interagiscono e si intrecciano come già in Cagnacci (Santarcangelo di Romagna, 1601- Vienna, 1663) nella Madonna col bambino che conosciamo in due redazioni (Fondazione Cassa Risparmio di Ferrara in deposito alla Pinacoteca Nazionale; Milano Collezione Koelliker) o in Desubleo (Michel Desoubleay, Maubege, 1602 - Parma, 1676), Madonna della rosa di collezione privata in cui il bambino impugna una passiflora. Le connessioni specifiche, i rimandi biblici ed alla trattatistica cristiana sono profondamente investigati da padre Giovanni Pozzi che ne ha ribadito l’ambivalenza a livello di metafora (al suo complesso e vasto argomentare si rimanda, anche per non ridurre alle solite ovvie generalità la materia simbolica32). Fortuna critica. In apertura si è già detto della fortuna collezionistica del dipinto. Di quella tutta contemporanea in sede critica, pure. Rimane da trattare della fortuna che la composizione ebbe tra i pittori di Bologna fra sei e settecento; non è il caso di perder tempo, meglio di noi lo ha già fatto il bravissimo Angelo Mazza: Il nobile classicismo aristocratico che caratteriz121


za il profilo della Vergine stagliato sul colore fondo della tenda ha un parallelo nell’eleganza francesizzante di Ludovico Lana che seguendo la codificata iconografia della Madonna della Ghiara in una pala della chiesa di San Giuseppe di Fanano conferisce alla testa della Vergine, posta di profilo contro la rupe opportunamente scurita, lo stesso effetto di scontornato risalto. L’invenzione gode di una fortuna a lunga gittata. Dopo gli esiti innumerevoli nella pittura neo-manieristica e nella grafica alessandrina di Creti, ad esempio nel disegno degli Uffizi preparatorio alla Cleopatra già in Collezione Fava ed ora in collezione privata bolognese (inv. 6319), riemerge con la medesima dolcezza degli affetti cantariniani nel bellissimo dipinto con la Sacra Famiglia di Ubaldo Gandolfi di collezione privata bolognese dove anche l’altera impostazione della Madonna ritrova l’umana cordialità 33.

122


Note 1 Oretti, Ms. B 109, 141/5.

28 Il volto è certamente studiato dal vero su un modello maschile: un garzone di bottega fermatosi a posare; Ambrosini Massari 1997b, p. 188 (con bibliografia precedente).

2 Giordani, Ms. 1549, c. 21.

29 Ivi p. 239.

3 Oretti, Ms. B 109, 25/13.

30 Ambrosini Massari 2009b, p. 384.

4 Oretti, Ms. B 109, 106/21.

31 Di Giampaolo 1992, ed. 1995, p. 77 fig. 7.

5 Campori 1870, p. 415.

32 Pozzi 1993, spec. capp. 6,7 e 8.

6 Oretti Ms. B 104, b 30/7.

33 Mazza 1997, p. 383.

7 Oretti, Ms. B 109, 9/18. 8 Archivio di Stato di Bologna, Inv. 31/7/1697, Ambrosini Massari 1993, p. 276; Ambrosini Massari 1997b, p. 186; Morselli 1998, p. 447. 9 Bonfait, edito in Colombi Feretti 1992, p. 131. 10 127 x 95 cm; in rete l’esemplare di Reggio Emilia è detto appartenente alla Collezione Magnanini (cfr. Arte Antica.eu - archivio Bulgarini d’Elci; o anche comune.mo.it/tesori_ritrovati); Cellini 1996, p. 122 la cita erroneamente nelle raccolte della Banca Popolare dell’Emilia. 11 Benati 1991, pp. 165-166. Il dipinto era stato individuato da Benati al momento del suo passaggio in asta da Sotheby’s a Londra il 4 luglio 1990, lotto n. 79. 12 Levey 1964, p. 68, n. 421, 116,8 x 86 cm. 13 Ambrosini Massari 1999, p. 166. 14 103 x 82 cm. 15 Ambrosini Massari 1993, p. 276. 16 Ivi. 17 Ivi e Cellini 1996, pp. 26 e 122 (da cui la citazione). 18 Ambrosini Massari 1999, pp. 166-167 (con foto -purtropporovesciata). 19 Battistelli 1999, pp. 26-27; la citazione è carpita da Battistelli 2007, p. 255. 20 Sotheby’s, 127,8 x 96,3 cm. 21 Ambrosini Massari 2009b, pp. 334 fig. 13, 384 n. 47 (l’esemplare di Reggio Emilia è riprodotto alla fig. 14). 22 Ivi. 23 Colombi Ferretti 1992, p. 124 n. 55 “ma molto scadente”; localizzata anche nei depositi della Pinacoteca Nazionale (Ambrosini Massari 1997b, p. 186). 24 Ambrosini Massari 1993, p. 276. 25 L’ho ritrovata in rete, riprodotta in minuscolo formato, con una gran cornice dorata, ma in giudicabile. 26 Cellini 1996, pp. 25-26, 122 scheda 28. 27 Ivi p. 122.

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Simone Cantarini, Il sogno di san Giuseppe, Olio su tela; 183,5x130,5 cm, Camerino, Duomo Un fondale assai simile per allestire la scena sommessa, in due composizioni legate dallo stesso momento inventivo, che ben si confronta con quello delle opere fanesi, in particolare il San Tommaso da Villanova ma anche il San Pietro che risana lo storpio, con gli sfondi su scorci di cittĂ e connotati da eleganti architetture. Probabilmente la tela romana segue la piĂš impegnativa commissione del dipinto di Camerino, come raffinata versione ‘da 124


Simone Cantarini, Il sogno di san Giuseppe, Olio su tela; 103x70 cm, Roma, Cassa Depositi e Prestiti stanza’, per il collezionismo e la devozione privata. L’intenzione teatrale, la poesia luministica, l’intimità dell’episodio, offrono un saggio altissimo del temperamento ‘barocco’ del pittore pesarese, che specchia le due invenzioni l’una nell’altra, in posizione chiasmica.

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Anna Maria Ambrosini Massari IL SOGNO DI SAN GIUSEPPE

Se pur nella cornice di una neoclassica distillazione della pittura, questi dipinti1 di Cantarini sono forse tra i vertici del suo fraseggiar barocco. L’intenzione teatrale e narrativa, l’enfasi dei gesti, la connotazione luministica, offrono un saggio altissimo del temperamento eclettico del pittore pesarese, restituito in tutta la sua efficacia dal restauro del 1997, a cura di Marco Sarti, condotto in occasione delle mostre di Pesaro e Bologna, che ha consentito di fugare ogni dubbio sull’autografia, per la tela di Camerino2 ed ora, grazie al restauro effettuato per questa mostra, anche il dipinto della Cassa Depositi e Prestiti ci è restituito nella sua gamma dorata e rilucente di colori e sfumature, specialmente sullo sfondo nebbioso, nell’ora crepuscolare. In entrambi, si vede in secondo piano un’apertura sottile, su architetture eleganti, nell’opera di Camerino, da cui balugina una luce ‘cenerina’, marchio stilistico negativo, appiccicatogli da Francesco Albani3, e che diventa più tardi, nell’interpretazione romantica di Stendhal, una dote di moderna, intima poesia: dont la couleur cendrée est d’accord avec la douce extase de mon âme4. La luce grigio-azzurra rischiara appena l’interno nero, dove il soggetto, saldamente unificato dal contenuto, la rivelazione dell’incarnazione di Gesù, si sviluppa in due episodi, calibrati con sapiente narrazione scenica: in primo piano l’evento pregnante, l’annuncio dell’angelo a Giuseppe e, in secondo piano, la prefigurazione dell’Annunciazione a Maria, con la Vergine, ‘Ancilla Domini’, pronta ad accogliere il suo grande e grave compito. In effetti, se una differenza c’è, nella declinazione delle due tematiche, è proprio in questa dimensione della consapevolezza della Vergine di fronte al suo destino, rispetto alla più ardua presa di coscienza di Giuseppe che, non per niente, riceve l’annuncio mentre dorme, col filtro del sogno. In ogni caso, Cantarini partecipa, come in particolare i pittori bolognesi dell’epoca, di una rivalutazione della figura di Giuseppe, soprattutto dopo l’imposizione di papa Gregorio XV Ludovisi nel 1621, il quale aveva deciso che ogni anno si sarebbe dovuta celebrare la festa di san Giuseppe il 126

19 marzo5. La contiguità dei due soggetti, entrambi ‘annunci’ della nascita di Cristo, è particolarmente sottolineata qui dal pittore, forse anche per esigenze di committenza, che oggi non è possibile indagare, in quanto il dipinto è stato donato al Duomo di Camerino dal cardinale Mario Mattei (Pergola 1792-Roma 1870) e dal fratello Nicola (Pergola 1780-Montefiascone 1843)6, arcivescovo della cittadina, dal 1817 al 18427. È probabile che l’opera sia stata donata in occasione della conclusione dei lavori, nel 1832, di riedificazione dell’edificio, dopo la distruzione avvenuta in seguito al terremoto del 1799. In quello stesso anno, tra l’altro, il Mattei, di famiglia della piccola nobiltà di Pergola, in provincia di Pesaro-Urbino, fu nominato cardinale8. Lo studio della compresenza dei due episodi è specialmente testimoniata da un disegno della Biblioteca Nacional di Rio de Janeiro9, dove la Vergine annunciata figura in primo piano, seduta a un inginocchiatoio, mentre legge (Isaia 7,14). A terra si vedono alcuni attributi del contesto domestico ‘femminile’ che caratterizza le Annunciazioni: le colombe e il cesto con la lana, legato a una leggenda secondo cui ella tesseva per i sacerdoti del tem-

Simone Cantarini, Studio per Annunciazione e Sogno di san giuseppe, Rio de Janiero, Biblioteca Nacional


Simone Cantarini, Studio per san Giuseppe, nudo maschile e angelo, Stuttgart, Staatsgalerie, Graphische Sammlung

pio di Gerusalemme ma anche una seggiolina molto simile a quella effettivamente realizzata, accanto a un cesto, ai piedi della Vergine, nel dipinto di Camerino. In secondo piano, è studiato l’episodio dell’annuncio a Giuseppe, in controparte rispetto alla redazione di Camerino e come invece lo troviamo realizzato nella tela di analogo soggetto dipinta da Cantarini e conservata a Roma, alla Cassa Depositi e Prestiti, dove il pittore sceglie anche di eliminare il motivo della Vergine. La tela romana, di dimensioni più contenute, da quadro ‘da stanza’, destinata al collezionismo raffinato del tempo10, ben rappresenta una pratica consueta in Cantarini, quella di replicare soggetti fortunati, variati in minimi particolari, talora solo con un cambio di fondale scenico, come la mostra in corso permette di approfondire. Le potenzialità del registro cantariniano trapassano da morbidezze naturalistiche a purezze cristalline, senza necessariamente seguire una precisa traiettoria cronologica, anzi, specialmente nel secondo, fortunato soggiorno bologne-

se, ricchissimo di committenze, tra 1642-1646 circa, è possibile documentare questa alternanza, che ha pur sempre origine nel progressivo arricchimento di nuove fonti, specialmente romane, dalle due ‘maniere’ dell’ odiosamato ma indiscusso maestro, Guido Reni11. E proprio dentro l’atelier reniano ci conduce un aneddoto di Malvasia, registrato nelle carte inedite12, che riguarda una correzione che Cantarini avrebbe osato apporre al braccio di un angelo per un tema analogo, perduto, dipinto da Giovanni Andrea Sirani per il cardinale Falconieri. Lì il braccio stava volto all’ingiù e Cantarini, pregato dallo stesso Falconieri, fece un disegno di lapis rosso: l’ istesso Angelo col braccio volto all’insù, come in realtà lo vediamo nelle due versioni del Sogno di san Giuseppe ed anche nel dipinto da Cantarini (Bologna, Pinacoteca Nazionale, deposito a Urbino, Galleria Nazionale delle Marche) e acquaforte con Angelo custode, mentre bellissimi disegni connessi sono quelli di Genova, Palazzo Rosso e New York, collezione Philippson13. 127


Simone Cantarini, Giudizio di Paride, Pesaro, Fondazione Cassa di Risparmio

In ogni caso, è senza dubbio il bellissimo angelo, il protagonista assoluto del nostro dipinto, come già notava Raffaella Morselli14 rilevando la sua posizione strategica in entrambi i dipinti. Più immediato e complice, quello di Roma, catalizzante, con le ampie ali spiegate, fulcro e perno della composizione, quello di Camerino. Come l’angelo eseguito per Sant’Agostino a Fano, nel 1641, da Guercino15, oggi nella Pinacoteca cittadina, che indubbiamente Cantarini doveva conoscere, anche se sappiamo di un prototipo reniano, copiato, ancor giovane, presso i nobili pesaresi Mosca, suoi protettori16. La rappresentazione di angeli, occasione iconografica per raffigurare giovani di straordinaria grazia e bellezza, trascorre dall’Angelo custode, all’acquaforte con quello che scuote l’albero di datteri per sfamare la sacra famiglia in fuga17, che già prelude, anche per l’impostazione della Vergine, naturalisticamente stesa nel paesaggio, all’Agar e l’angelo della Fondazione della Cassa di Risparmio di Fano e del 128

delicatissimo esemplare del Musèe des Beaux-Arts di Pau, entrambi qui confrontabili. Con la consueta complessità di fonti, che risale, nella versione della Cassa Depositi e Prestiti, a persistenti memorie

Simone Cantarini, Studi per figure maschili, Milano, Pinacoteca di Brera, Gabinetto disegni e stampe


carraccesche: specialmente Ludovico, per la figura della Vergine18. Modello base per la messa in scena, lo sfondo di architetture resta il grande quadro di Reni del san Giobbe a Notre Dame, che ha una più compiuta trascrizione nel Miracolo di san Pietro che risana lo storpio, - alla cui scheda si rimanda - dove il san Giovanni pare davvero l’angelo di Camerino senza ali. Un più diretto documento a favore di una datazione delle invenzioni per il Sogno di san Giuseppe, nel periodo di piena maturità artistica di Cantarini, viene altresì da un disegno, conservato a Francoforte, Staatsgalerie, Graphische Sammlung, (inv. III/292)19, dove il pittore studia in primo piano la figura di un san Giuseppe, poggiato a un plinto che dorme, come poi troviamo nella versione romana del Sogno. Ma sul disegno figurano altri due studi, un angelo confrontabile coi nostri, mentre, a mio parere, quello al centro, con un giovane seduto con gambe leggermente accavallate, può essere confrontato con un’invenzione della carriera estrema di Cantarini, quale è il Giudizio di Paride della Fondazione della Cassa di Risparmio di Pesaro, dove Paride figura rappresentato similmente, seppure in controparte, come nel disegno preparatorio, conservato presso la medesima istituzione e come riflesso in un disegno braidense con Studi per figure maschili 20. Dove accanto al pensiero per Paride, uno studio di figura che dorme poggiata su un braccio sopra una colonna, evoca il nostro tema, se pure il soggetto risulta un uomo più giovane. Uno studio per un angelo ricollegabile all’episodio in parola è quello della Kunsthalle di Brema21.

Note 1 Restauri: O. Pieramici 1987; M. Sarti 1997. Per un orientamento bibliografico: Giordani 1866, Ms. 1549, foglio sparso; Conti 1872, p. 144; Serra 1924-1925, p. 408; Mancigotti 1975, p.138, fig. 80; Zampetti 1990, III, ill. p. 398, n. 46; Ambrosini Massari 1995, pp. 107-109, n.54; Morselli 1997a, pp.102-104, n.13; 1997b, pp. 147-148, I.40; pp. 154-155, I. 43; Mancigotti 2006, p. 166, ill. p. 137, 164; Ambrosini Massari 2009a, p. 360; Ambrosini Massari 2010, pp. 142-144, n. 7. 2 Colombi Ferretti 1992, non lo inserisce tra le opere autografe. Ambrosini Massari 1995, p. 109. Un S. Giuseppe che dorme e un angelo si trova nel Settecento nella collezione Aldrovandi a Bologna, Colombi Ferretti 1992, p. 131. 3 Malvasia 1686, p. 152; Lanzi ed. 1809, III, p. 80. 4 Stendhal in Schnapper, p. 663. 5 Morselli 1997a; 1997b. 6 Conti 1872, p. 144. 7 Sansa 2009, Ambrosini Massari 2010. 8 Ibidem. Ad oggi, la più antica menzione del dipinto si trova in un foglietto sparso nel manoscritto 1549, di Gaetano Giordani, databile al 1866 e conservato presso la Biblioteca Oliveriana di Pesaro. 9 Inv. A 17, Ambrosini Massari 1995, n.54, pp. 108-109. 10 Morselli 1997a/b, p. 147. 11 Sul tema Ambrosini Massari 2009a. 12 Malvasia in Marzocchi 1980, pp. 180-181. 13 Ambrosini Massari 1997b, pp. 319-320. 14 1997a; 1997b. 15 Sul tema Ambrosini Massari 2011, pp. 35-37. Si veda qui alla scheda per Agar e l’angelo. 16 Bonamini, ed. 1996, p.104, sul tema Ambrosini Massari 1997b, p. 319; Ambrosini Massari 2009a, in part. pp. 347-348 e si veda infra, nel saggio introduttivo alle pale fanesi, anche per altra bibliografia. 17 Bellini 1980, n. 23; Ambrosini Massari 1997b, p. 334 e si veda più avanti nella sezione delle acqueforti. 18 Vitalini Sacconi 1985, p. 193; Morselli 1997a/b. 19 Morselli 1997b, p. 148, I.40.a. 20 Inv. 111, Cellini 1997a, pp. 164-165, n. 23. 21 Inv. 44, Brink 1994, n. 44.

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Simone Cantarini, Agar e l’angelo, Olio su tela; 59x77 cm, Fano, Fondazione Cassa di Risparmio La bella coppia di opere apre sulla poetica del pittore più sfaccettata di sfumature, protesa verso la nuova sensibilità ‘pittoresca’ e aggraziata, che tanto influenzerà la pittura bolognese del secondo Seicento. La loro contiguità, ribadita da misure pressoché identiche, ci introduce al meglio nel sistema di varianti, anche minime, che risponde alle esigenze del 130


Simone Cantarini, Agar e l’angelo, Olio su tela; 59,5x77 cm, Pau, Musèe des Beaux-Arts mercato artistico seicentesco e riflette molto bene la mentalitĂ del pittore, ben disposto, sempre, ai mutamenti e pronto a rispondere alle richieste dei collezionisti.

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Anna Maria Ambrosini Massari AGAR E L’ANGELO

Il soggetto1 rimanda a un episodio biblico, tratto dalla Genesi (21, 9-21). Abramo, dopo la nascita di Isacco da Sara, scacciò la prima moglie Agar con Ismaele, il figlio generatogli da lei. Nel deserto di Betsabea, Agar piangeva per l’imminente morte del figlioletto, a causa della mancanza d’acqua. Ma l’Arcangelo Michele, giunse a consolarla e le indicò un pozzo, da cui madre e figlio ebbero salva la vita. Malvasia nella Vita di Simone Cantarini racconta che Matteo Machiavelli, uno dei principali protettori bolognesi del pittore, gli fece fare un dipinto su rame rappresentante Agar, su commissione del mercante veneziano Gaspare di Luca. Non si accordarono sul prezzo e l’opera fu rimandata a Bologna ma poi finalmente venduta a un Nobile Veneto che aveva potuto ammirarla quando era a Venezia. Nel frattempo, però, il Machiavelli si era fatto eseguire una copia alquanto mutata dell’opera, che vendette al sig. Bartolomeo Musotti e da questi venduta per quaranta -doppie- a’ Signori Sampieri di strà Maggiore, presso il superbissimo museo dé quali oggi si trova. Un caso dunque, di successo ben documentato, frutto di grande guadagno visto che il prezzo iniziale di dodici doppie lievita fino a trentatrè per il rame acquistato dal veneziano e quaranta pagate dai Sampieri per la

versione che rimase a Bologna, nella loro mitica collezione2. Anche anni più tardi l’invenzione destava grande ammirazione, tanto che fu da giovani dell’Accademia Reale di Francia del 1672, considerato opera del Reni3: L’Agar del Pesarese che hanno i signori Sampieri fu da giovani dell’Accademia Reale di Francia del 1672, infine dell’anno, preso per dell’Albani, per Guido. Per l’opera fatta eseguire sul primo modello in rame da Machiavelli, non si precisa se si trattasse di altro rame o di una tela, come sembra d’altra parte più probabile ritrovando effettivamente, ancora nel secolo successivo, nella quadreria Sampieri, un Agar con l’angelo che addita il fonte definito quadretto4. La descrizione si appunterebbe a entrambi i nostri dipinti, ma bisogna mantenere una certa cautela nel riconnetterli a quella derivante dalle trattative narrate da Malvasia, eventualmente nella versione voluta dal Machiavelli5. Il fatto stesso che dopo la recente riacquisizione alla conoscenza del dipinto di Pau6, siamo di fronte a due esemplari molto simili, di misure identiche, risolti con minime varianti che potessero soddisfare le richieste di quel soggetto o comunque consentirne la circolazione, suggerisce tanto più tale atteggiamento prudente7. In aggiunta, è nota una incisione d’aprés8 opera di Pietro Monaco (1707-1772) tratta da un dipinto all’epoca di proprietà del conte Giovanni Pesenti di Bergamo, disperso ma reso noto grazie a una vecchia fotografia9. Cantarini morì a Verona e può essere che non la città fosse stata solo quella tappa drammatica che ci viene rappresentata da Malvasia ma un’area di riferimento, dove anche la presenza del fratello poteva garantire rifugio dalle delusioni mantovane ma anche nuove committenze. D’altra parte, Bergamo e Brescia erano state in qual-

Simone Cantarini, Agar e l’angelo, ubicazione ignota

Marcantonio Franceschini, Agar e l’angelo, Palazzolo di Sona (VR)

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Simone Cantarini, Studio di angeli e altri schizzi, Firenze, Museo Horne 133


che modo tappe per i suoi dipinti, che risultano apprezzati anche in collezioni venete di città quali Verona e Venezia10. Nel dipinto disperso con Agar si è vista una finestra di dialogo con la cultura veneta, specialmente nella singolare apertura paesaggistica, d’altronde nelle corde del Cantarini dopo Roma, e nella figura dell’angelo ‘ieratico’, rimandando, altresì, anche al riflesso che tale invenzione potè avere nel dipinto di Marcantonio Franceschini di analogo soggetto, conservato nella parrocchiale di Palazzolo di Sona, in provincia di Verona11. La certezza dell’esistenza di altre versioni, connaturata alle modalità di lavoro, alla creatività di Cantarini e al suo inserimento nel mercato collezionistico, si rende ancor più evidente, grazie a confronti con la grafica. Un disegno, infatti, documenta variazioni sul tema, con Agar che tiene il figlioletto in braccio e l’angelo in veste di viandante le indica la strada, stando non di fianco e al centro della composizione, come qui, ma dietro la protagonista12. Anche le fonti inventariali confermano la diffusione del soggetto. Il Giordani registra un Agar e Ismaele nelle collezioni bolognesi Franchini e Bovio, uno a Roma, collezione Zagato13. Malvasia ci aiuta anche per collocare cronologicamente almeno quello che potè essere un importante modello per altre versioni, vale a dire l’opera per Matteo Machiavelli, che viene inserita tra le prime opere eseguite al rientro a Bologna dopo varie peregrinazioni tra le Marche e la sosta a Roma, dunque dopo il 1642. Negli Appunti sparsi è anche più preciso e riferisce che appena tornato da Roma fece due opere per il Machiavelli, la prima è il terribile Moisé, la seconda fu l’Agar in rame 14. L’Agar dialoga bene, stilisticamente, con lavori ormai documentati alla metà del quinto decennio15, come la Maddalena del Museo Civico di Pesaro o spinti verso quelle date, come puntualizza la bella Agar, da confrontare con la figura femminile del San Pietro che guarisce lo storpio (Fano, Pinacoteca Civica) e con invenzioni testimoniate soprattutto dai Riposi delle acqueforti, o in un dipinto quale il Riposo nella fuga in Egitto del Louvre. Si è detto anche delle affinità con la coppia qui esposta di Sogni di san Giuseppe (si veda sopra), dei quali le tele in esame sembrano riproporre, tra l’altro, la variazione della posa dell’angelo, come un altro espediente che muta accento lasciando incorrotto il senso del racconto. Come un gioco da teatro, si passa dalla posa di fronte (Pau) a quella leggermente girata (Fano). La creazione di Cantarini, in entrambi i dipinti, è un gioiello di delicata poesia, dove la luce accende di grazia il corpo dell’angelo in primo piano, infiammandosi sulla veste rossa di Agar e infine delicatamente accompagnando il digradare del 134

paesaggio desertico, sullo sfondo del cielo nuvoloso. L’angelo ormai rivendica il suo ruolo da protagonista: è naturalissimo e carnale, coperto solo da un panno rosato che svolazza sull’inguine, più vicino all’Apollo dello studio della Galleria Estense a Modena, (inv. 1214), che a una divina presenza. Un confronto, in tal senso, mi sembra in particolare quello in studi, come l’angelo in basso a sinistra, di un bellissimo foglio del Museo Horne a Firenze16. Il paesaggio circostante ha assunto quel ruolo da protagonista che caratterizza le opere degli anni estremi, mescolando le memorie reniane con novità romane, specialmente, per questo caso, da pittori quali Pier Francesco Mola, mentre sembra indelebile il ricordo di bagliori e accenti naturalisti provenienti da Carlo Bononi. Da quegli angeli veri, più che da quello recitante di Guercino, deriva l’angelo di Simone.

Carlo Bononi, Angelo custode, Ferrara, Pinacoteca Nazionale


Note 1 Ambrosini Massari 1993, p. 277, n. 505 (Fano); Battistelli 1999, pp. 28-29; Ambrosini Massari 1997b, pp. 127-128, I.28 (Fano); Ambrosini Massari 2004, p. 171, n. 17 (Fano); Mancigotti 2006, p. 167(Fano); Battistelli 2007, p. 256-257; Ambroise 2008, pp. 60-63 (Pau); Pulini 2008, p. 10, 22, fig.8 e 9; Ambrosini Massari 2009a, p. 151, fig. 168; Ambrosini Massari 2009b, p. 368; Ambrosini Massari 2011, p. 37. 2 Malvasia 1678, II, p. 380. 3 Malvasia in Marzocchi 1980, p. 176. 4 Oretti ms B 104, b 44/30, Calbi-Scaglietti 1984, p.55; ms. B 128, c.438. 5 Non è autografa Colombi Ferretti 1976, p.1537, quella di collezione inglese pubblicata da Mancigotti, 1975, p. 133, fig. 72. 6 Pubblicato da Ambroise 2008, 1, pp. 60-63, 110, 112. La Sacra famiglia del Museo di Grenoble, con cui viene proposto un confronto, (si veda in Mancigotti 1975, p. 54) non è accoglibile nel suo catalogo. Il dipinto di Pau si veda anche in Pulini 2008, p. 22; Ambrosini Massari 2009a, fig. 168. 7 Pulini 2008, p. 10 vede nel quadro di Fano un possibile bozzetto, o comunque la più sommaria delle due, notando, tra l’altro che quella di Pau, da cui traspaiono vari pentimenti, aveva in origine la grande ala scura sopra la testa di Agar. 8 Bellini, op. cit. 1987, p. 81, n. 29; Apolloni 2000, pp. 330-331, n. 107. 9 Marinelli 1999, p. 127. 10 Mason 2007, si pensi poi all’Immacolata e santi Giovanni Evangelista ed Eufemia, commissionata dai Gavardini, residenti a Pesaro, ma di Limone di Gavardo (BS), dove poi, verso il 1646 venne trasferita nella chiesa di Sant’Antonio, Morselli 1997b, pp. 87-88. 11 Emiliani 1959c, p. 38; Marinelli cit., p. 129. Il prototipo di Franceschini è quello di Palazzo Spinola a Genova, inciso da Pissarri. La versione di Palazzolo di Sona, pur in controparte rispetto al dipinto di Genova è un’opera autografa di Franceschini, si veda sul tema anche per altre versioni, Miller 2001, pp. 196-197. 12 Inv. 1978.2; Cambridge, Fogg Art Museum; Neerman 1968, n. 39, come studio di figure; Schaar 1977. 13 Pesaro, Biblioteca Oliveriana, Giordani, (metà XIX secolo) ms 1549, c. 21. Una copia da Cantarini è citata nel 1679 nell’inventario bolognese Biagi (Morselli in Colombi Ferretti 1992, p. 130). 14 Malvasia ed. 1980, p. 187. 15 Ambrosini Massari 2009a. 16 Cellini 1996, p. 123, che lo confronta con il tema dell’Angelo custode.

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Guido Reni copia da, La Madonna con il bambino e i santi Tommaso e Girolamo (Pala Olivieri), Olio su tela; 105x80 cm, Fano, Fondazione Cassa di Risparmio Un’attribuzione a Cantarini che documenta la storia della sua fortuna critica. Il modello della Pala Olivieri di Reni, giunto a Pesaro in Duomo, segna la conversione del giovane pittore che, come attesta il suo biografo ufficiale, Carlo Cesare Malvasia, se ne innamora, copiandolo, più e più volte. 136


Guido Reni copia da, La Madonna con il bambino e i santi Tommaso e Girolamo (Pala Olivieri), Olio su tela; 87x60 cm, Pesaro, Fondazione Cassa di Risparmio

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Anna Maria Ambrosini Massari DA GUIDO RENI: LA PALA OLIVIERI

Significativamente in possesso delle due più importanti Fondazioni bancarie del nostro territorio, le due opere singolari rappresentano uno squarcio importante sulla ‘fortuna’ di Simone Cantarini, sulla base dell’aneddotica del suo principale biografo, il canonico bolognese Carlo Cesare Malvasia. Nel suo vivido racconto1, entro gli entro il profilo emblematico delle vite degli artisti, infatti, il giovane Simone resta folgorato dalla Madonna in gloria coi santi Tommaso e Girolamo di Guido Reni, eseguita per l’altare della famiglia Olivieri e collocata nel Duomo di Pesaro - oggi alla Pinacoteca Vaticana - tanto da mettersi a copiarla più e più volte e a ricavarne un nuovo stile e la decisa e definitiva conversione verso Reni e poi verso Bologna. Un po’ quello che era avvenuto a Guercino quando aveva potuto ammirare la pala di Cento di Ludovico Carracci, come lo stesso Malvasia si affretta a precisare. Ma, a parte questa suggestiva tradizione, che fa comunque di questi documenti pittorici importanti elementi della storia, non solo della fortuna di Simone ma anche di quella del gusto, non è possibile ricavare concreti dati che avvallino l’autografia di Cantarini. Non ci sono documenti diretti e certo lo stile è difficilmente giudicabile in tal senso, essendo vere e proprie copie del modello, di variabile tenuta qualitativa2. D’altra parte Malvasia segnala la presenza di copie di mano del Cantarini - non fornendo però la loro ubicazione - della pala Olivieri, totali e parziali, come pure delle altre due pale fanesi del Reni: Annunciazione e Consegna delle Chiavi; e il fatto non necessita di venir contestato e neppure sorprende. Il giovane pittore si sarà nutrito di quell’ esercizio con voracità, e se il Malvasia amplifica, parlando degli effetti sconvolgenti ed immediati di quell’ opera su di lui, d’altra parte nelle pale più precoci di Simone, tra 1632 e ‘34, - soprattutto Madonna della Cintura - quel modello riflette un’ influenza più che evidente, che continua nel tempo, in molti spunti, nei suoi San Girolamo, nell’impianto delle sue pale di quegli anni, nell’attitudine assorta e nobilissima dei protagonisti, fin nel recentissimo Pentimento di 138

Pietro di collezione privata londinese, che ricorda il san Girolamo del Reni, nella posa e nell’intensità espressiva sommessa. Ai fini dell’autografia, solo un esame della fattura dell’opera, dei dati di stile può tentare di dare una possibile soluzione al problema e si dovrà tenere a mente che Malvasia parla di copie più che pregevoli, forse non proprio la descrizione che si può riservare ai nostri esemplari, specialmente in certi particolari, come i volti degli angioletti e del bambino, le estremità dei Santi e la stesura affrettata e priva di trapassi di sfumature della cerchia di nubi da cui appare la Vergine. Non solo, assai dispari rispetto all’ originale reniano ma anche in confronto con la pala di Brettino, in cui é riprodotto in maniera quasi identica, il gruppo celeste. Il rosso e il giallo dei manti, infine, appare anche troppo ostentato, con un panneggio forzatamente reniano, per pensarlo uscito dal pennello naturale del Pesarese3. Non é comunque giusto escludere categoricamente che si tratti di un cimento affrettato ed entusiastico del giovane pittore, impaziente di appropriarsi del modello glorioso, se non altro in un percorso anche affettivo, che naturalmente si addensa nella sua terra d’origine e ci rende più vero e più vivo quel racconto, comunque insostituibile della sua vita, appassionata e inquieta, così come Malvasia ce l’ha consegnata. Una grande tela con una copia dal san Girolamo della Pala Olivieri si trova alla Diocesi di Pesaro.

Note 1 1678, ed. 1841, II, pp.373-383. 2 I due dipinti venivano ascritti al catalogo del pittore dal Mancigotti nella sua monografia del Pesarese, risalente al 1975, dove dava l’indicazione delle proprietà delle opere in quel momento, la Collezione Menghi di Rimini e quella dei Conti Perticari Cacciaguerra di Sant’Angelo in Lizzola (Mancigotti 1975, p. 75, figg. 11 e 12). Lucidamente negativa sull’attribuzione già Colombi Ferretti 1976, p. 1532 ma anche Pietro Zampetti, pubblicando in Pittura nelle Marche la copia fanese, introduceva perlomeno un dubbio sull’ attribuzione al Cantarini (Zampetti 1990, p. 392, n. 35). Tornava sull’ argomento la Colombi Ferretti nel suo recente saggio sull’ opera del pittore, ribadendo la difficoltà di accettare una sua paternità per la piccola tela, sia di Fano, che di Pesaro, 1992, p. 130. 3 Per altre idee e rilievi in merito, Ambrosini Massari 1993, pp. 277-278, n. 506; Battistelli 1999, pp. 30-31; Mancigotti 2006, p. 50 (Pesaro); Battistelli 2007, p. 259.

Guido Reni, Madonna in gloria coi santi Girolamo e Tommaso, Pinacoteca Vaticana


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Raffaella Morselli DA GUIDO RENI A CANTARINI. L’ARTE DI BEN COPIARE E RITOCCARE AL SERVIZIO DEL MERCATO FELSINEO

Imitazione, emulazione, invenzione, meditazione, memoria, replica, variante sono diversificazioni lessicali che caratterizzano la forma e la sostanza della copia: se, a uno sguardo veloce, potrebbero sembrare dei sinonimi, in realtà nella prassi artistica hanno un peso determinante nella stima dell’opera e del suo doppio. La lunga tradizione della copia, che accompagna la pratica della produzione di un manufatto e dunque propaga la fama dell’inventio in ogni direzione, tra il Cinque e il Seicento subisce un’accelerazione con una conseguente modulazione di varianti. Sotto la spinta del collezionismo e dunque del mercato, che ne costituisce il motore, l’oggetto di pregio e il suo autore assurgono a prototipo, diventano un’icona irrinunciabile cui accostarsi in sfumature di differente livello. Siamo ancora lungi dal poter delineare per la civiltà occidentale una storia della copia in epoca di ancien régime, tuttavia i diversi esempi che sono stati oggetto di studio nel corso degli ultimi decenni, contribuiscono a far luce su una consuetudine che divenne portante nel sistema delle arti1. Il caso di Bologna, che si desume dalla letteratura artistica, - attraverso il suo grande mentore, il conte Carlo Cesare Malvasia nella Felsina Pittrice (1678), - da quella periegetica, dai documenti connessi al collezionismo e da intere filiere di copie, si attesta soprattutto sul lavoro di colui che ha trasformato il valore della prestazione professionale sui mercati della penisola italica, cioè Guido Reni. Fu lui a conseguire, per primo, la stabilizzazione dei prezzi dei quadri da immettere sul mercato, riuscendo a creare una sorta di tariffario per i pittori, suddivisi in tre categorie: mediocri, ordinari e straordinari. Attorno alla sua produzione e alla pratica della sua bottega, alla grande richiesta di quadri di vera mano, alla rarefazione mirata del suo operare, alla bizzarria delle sue motivazioni, si scatenò una vera e propria corsa al quadro originale, di qualunque formato, iconografia e declinazione di stile.

Ed è proprio sui dati che emergono dalle fonti, che si può tentare un bilancio del fenomeno copia e suoi derivati, a Bologna più chiaro che in qualsiasi altra parte d’Europa nella prima metà del Seicento. Giovan Battista Marino chiese in dono al poeta Cesare Rinaldi il dipinto raffigurante Arianna di Ludovico Carracci e questi gli rispose Io conosco le bellezze della mia Arianna, e ne sono però fieramente innamorato e ingelosito; e s’altri abbandonolla su la riva del mare, già non m’indurò a lasciarla su la riva del Tevere; la copia non posso, l’originale non voglio 2. Basta questo incipit letterario-collezionistico per introdurre le differenziazioni che accompagnano il significato di copia: il gentiluomo bolognese non solo non voleva privarsi della sua Arianna, oggi dubitativamente associata alla versione un po’ ottusa con Bacco della Pinacoteca Civica di Vercelli3, ma non permetteva nemmeno se ne traesse una copia. Come dire che non voleva tramandarne memoria e non intendeva esporla al mercimonio. Le differenze, i fini e le destinazioni delle copie completano un catalogo assai ampio. La loro funzione principale, già prima del Seicento, era quella di servire per studio personale: si copiava per impadronirsi dell’anima del quadro, della sua composizione, delle pennellate e degli improvvisi cambi di materia. Ludovico, Agostino e Annibale replicarono Tiziano e Parmigianino per istudio; Malvasia scrive che non finiressimo mai se tutte le copie cavate dagli altri maestri per mano di essi registrar volessimo 4. Annibale si faceva addirittura beffa dei conoscitori e attraverso la copia cercava di eguagliare Parmigianino: da un antiquario a Roma si fece prestare un disegno del maestro, lo riprodusse annerendo la carta, sgualcendo i margini e glielo riconsegnò in luogo dell’originale, a dimostrazione che la sua bravura era pari a quella del parmense. Cesare Aretusi, a sentire Angelo Michele Colonna, era il miglior duplicatore che fosse mai esistito, avendo egli ammirato una copia della Notte del Cor-

Guido Reni, San Sebastiano, Genova, Palazzo Rosso 141


reggio eseguita da lui perfettamente5. Copiavano anche gli allievi dai maestri: di una mezza figura d’Ecce Homo con due teste d’angeli di Annibale esisteva una copia dell’eccellente Albani presso il Duca Salviati, mentre il Cristo morto di Annibale su rame, di proprietà Sampieri, era stato riprodotto da Guido6. Le copie sono viste dunque come perno centrale del tramando della conoscenza: lo scrive bene il cardinale Federico Borromeo nel 1625, rivolgendosi agli intenditori che le disprezzavano: le cose umane sono caduche e in breve spazio di tempo si guastano e periscono; perciò era da desiderarsi per il bene dell’umanità che giungessero a noi quelle degli antichi quadri più famosi…preferendo i più esposti al pericolo di essere distrutti o per essere già guasti o per altra ragione 7. La replica poteva anche sostituire l’originale quando non si riusciva ad ottenerlo: il cardinale legato di Bologna, Benedetto Giustiniani nel 1606 desiderava il San Sebastiano del Francia conservato presso i Padri della Misericordia - opera paradigmatica, stando alle fonti, che oggi non è possibile identificare8 -, ma i religiosi glielo negarono, nonostante egli avesse offerto un gran prezzo. Ne fece dunque cavare una copia, questa ben anche cattiva e mal fatta riposta nella stessa cornice 9. Una riproduzione di pessima fattura non poteva però ottemperare la funzione di tutela e di memoria, ne’ tantomeno servire alla didattica. Nel caso felsineo si riscontrano esempi in tal senso: la Vergine col bambino e santi che Lavinia Fontana eseguì nel 1589 per l’altare del Pantheon degli Infanti nel monastero dell’Escorial (Madrid, Monastero dell’Escorial)10, contava una decina di copie, portate a termine pochi anni dopo la sua collocazione, alcune assai ordinarie e di poco valore, l’una peggiore dell’altre 11. In questa occasione dunque la replica rese un pessimo servizio al quadro, alla pittrice e alla fama di Felsina. Ma le copie sono anche parte della storia familiare: se ne ordinavano dei quadri di proprietà della famiglia, quando uno dei suoi membri otteneva incarichi importanti, per esempio l’ambasceria a Roma, e in quel caso non si spostava l’originale, che rimaneva nel palazzo avito, ma si traslocava la replica per dare lustro e gloria alla propria collezione. Una testimonianza che merita di essere citata riguarda la collezione dei principi Hercolani in cui facevano bella mostra di sé alcuni quadri rappresentativi di questa casistica: lo Sposalizio di santa Caterina del Parmigianino fatta da Calvaert, la Betsabea del Guercino che Gennari trasse dall’originale nella stessa raccolta; Amore e Psiche a figure intere, copia 142

di Guido fatta da Viani; il Cristo alla Colonna ancora copia da Guido, infine due repliche del Gessi, una Santa Apollonia e una Beata Vergine, attestate nell’inventario del 169212. Le copie si presentavano dunque, nelle raccolte bolognesi, con una fenomenologia tanto ampia e articolata da indurre a chiedersi se non occorra attrezzarsi con nuove categorie. La querelle sulle copie di quadri di vera mano di Guido è una delle questioni chiave per la comprensione del rapporto tra originale e replica, e di conseguenza per lo studio delle relazioni intercorrenti nell’ambito della bottega del maestro. È anche una delle maggiori preoccupazioni del Malvasia che, in più punti della biografia di Reni, la pone in evidenzia, ora in tono preoccupato, ora lusingato, affermando che le copie poi tuttodì ricavate anche dai bravi maestri, sono innumerabili. Solo in città, nel XVII secolo, esistevano infatti centinaia di riproduzioni da Guido, le quali costituivano parte integrante di numerose collezioni. È necessario, dunque, fare chiarezza sulla scorta del lessico che viene impiegato dallo storiografo, ma soprattutto prestando attenzione alle definizioni fornite negli inventari legali. Nell’accezione di copia esiste una gamma di quadri che vengono da, cavati, forniti, forzati, ritoccati; ognuna di queste specificazioni ha un significato a sé stante e l’una non è sinonimo dell’altra. Le copie da Reni potevano essere d’autore, come quelle di Giovanni Andrea Sirani e Flaminio Torri, in grado di raggiungere valutazioni fino a 400 scudi, o eseguite da uno specialista in materia, come Ercole de Maria, valutate entro i 200 scudi, poiché copiava ben le cose di quest’ultimo in modo che nissuno di quella gran scuola da quelle del maestro distinguerle talor sapea13, o infine anonime. Assumono dunque un valore autonomo, un significato culturale che esige d’essere valutato per se stesso. Nella cerchia reniana infatti c’era chi copiava, ma anche chi veniva copiato: Francesco Gessi e Giovanni Giacomo Sementi sono di quelli, e così Simone Cantarini da Giulio Cesare Milani, il Cittadini dal Valeriani, Elisabetta Sirani da Bartolomeo Zanichelli. Alcuni originali di Guido costituivano prototipi tanto importanti da impiantare una filiera riproduttiva all’interno della scuola; la spinta, oltre allo studio, era quella del mercato, italico e straniero, collezionistico e altolocato o semplicemente popolare e devozionale. E così serie innumerevoli si crearono attorno ai San Sebastiano di Genova (Palazzo Rosso)14 e Madrid (Museo del Prado), mentre la Crocifissione dei Cappuccini (Bologna, Pinacoteca Nazionale) è una delle opere più riprodotte, non solo nella totalità ma soprattutto nelle singole teste e nelle riduzioni


Guercino e Bartolomeo Gennari, Cristo caccia i mercanti dal tempio, Genova, Palazzo Rosso

di scala15. La questione delle copie si gioca dunque in maniera aggiornata e moderna all’interno della bottega di Guido: ed è sempre qui che si sviluppa il tema del ritocco, della pennellata aggiunta dal maestro, della replica aggiustata che viene immessa sul mercato come originale traendone un grande, e immeritato, profitto. Molto spesso ciò accadeva all’insaputa dello stesso artista, come vuole farci credere Malvasia, altre volte lui compiacente. Non che il tema del ritocco fosse ignoto agli altri pittori del Seicento europeo e che non fosse diffuso prima di tali date: ma l’uso tanto modulato e conscio di questa tecnica, e il cascame di tale applicazione, è talmente

vasto proprio durante gli anni di Reni che vale la pena valutarne la portata. Il 5 settembre 1508 Raffaello Sanzio ringraziava Francesco Francia per l’invio del suo autoritratto tanto vivo e bellissimo, scusandosi per non avergli ancora mandato il proprio per i troppi lavori che lo tenevano impegnato; avrebbe potuto farlo eseguire da un allievo e ritoccarlo lui stesso ma non si conviene 16. L’artista urbinate riconosceva che non sarebbe stato cortese e professionale inviare un ritocco al posto dell’originale, tanto più a un collega che stimava. Eppure la pratica continuò a farsi strada. Narra Malvasia, nello strenuo tentativo di trasformare Guido in truffato, che egli non fece come 143


Tiziano che permetteva le copie dei suoi quadri, poi le requisiva e quindi ritoccava e le spacciava per sue, anzi quando venne in cognizione di simili trufferie altamente se ne offese e coraggiosamente vi si oppose non ammettendo per valida scusa che simili contratti fossero fatti a fuoco e a fiamma ne’ ciò giovando fu forzato a caciarne fuori dalla stanza i più contumaci17. Sull’esempio dell’illustre caposcuola altri pittori bolognesi sperimentarono il ritocco: Guercino, per esempio, lo registra diligentemente nel suo Libro dei conti a partire dal 1638 e onestamente ne fa una valutazione economica, come avvenne per la copia ritoccata del Cristo che scaccia i mercanti dal tempio (Genova, Palazzo Rosso) eseguita per il centese Antonio Fabbri a memoria di quella originale donata al Cardinal Pallotta e oggi perduta18. Anche Albani seguiva tale pratica, e Lucio Massari, quando passava da Roma, andava a rivedere la sua copia della Santa Caterina tramutata in Santa Margherita ritocca da Annibale 19, identificabile con la Santa Margherita in Santa Caterina dei Funari a Roma, oggi perlopiù attribuita al solo Annibale20. Giovanni Andrea Sirani invece prometteva ritocchi di Guido in cambio di favori. Malvasia sembra tuttavia disinteressato ai ritocchi degli altri pittori e si sofferma con insistenza sul solo Guido, che rappresenta il fenomeno più macroscopico di tale sistema. Minore ancora non fu il guadagno che si fe’ nei suoi ritocchi che molte volte spacciaronsi per originali, non so con qual coscienza de’ venditori ma so con poco onore bene speso del maestro del quale francamente asseronsi; e tanto più che sotto pretesto di correzione e d’insegnamento veniva egli innocentemente tratto a migliorarvi qualche cosa ad aggiungervi più d’una pennellata. Insomma il caposcuola era salvo, a detta dello storiografo; eppure altri episodi descritti nella Felsina, sia nel testo a stampa che negli appunti preparatori, fanno emergere un’altra realtà, a scapito a volte degli allievi più dotati, tra i quali Simone Cantarini. L’insediamento di Simone a Bologna deve essere considerato ondivago e oscillante, come ha dimostrato ampiamente Anna Maria Ambrosini Massari, e certo il suo arrivo nella città felsinea in forma stabile per almeno un quinquennio non deve cadere prima del 1633-1634. Un lustro che gli permise di comprendere quanto fosse diversa la committenza urbinate-pesarese, legata a una corte e ai suoi esponenti, da quella di una città in cui uno dei principali commerci, oltre a quello fiorente della seta, era il traffico dei quadri. Ma certo non si può escludere che Simone vi fosse passato altre volte prima del suo insediamento, forse di ritorno da quel viaggio a Venezia compiuto nella prima giovinezza. Senza 144

dimenticare che dalla fine dell’estate del 1630, per almeno un anno, le porte di Bologna erano rimaste chiuse a causa della peste e che nessun forestiero, e nessuna merce, poteva entrare e uscire senza essere stata messa preventivamente in quarantena21. Il Pesarese doveva essere attratto dalla città dei pittori, perché già conosceva e aveva avuto modo di studiare l’Annunciazione e la pala con la Consegna delle chiavi a san Pietro, inviate da Guido rispettivamente nel 1621 e nel 1626, in quel tempio della pittura che era diventata la chiesa dei Filippini di San Pietro in Valle a Fano. Bologna dovette rappresentare per lui, giovane e talentuoso artista, una sorta di miraggio da cui venire lusingati senza riserve. Ma come un’illusione morganesca, essa lo accolse e lo respinse, mettendolo alla prova sul suo status

Annibale Carracci, Santa Margerita, Roma, Santa Margherita dei Funari


di pittore contemporaneo, identità di difficilissima costruzione in una città che viveva sotto l’ombra di Guido entro le mura e di quella del Guercino nel contado. La Felsina dei mercanti, degli speziali, dei collezionisti e dei mediatori si accorse subito del giovane talento, che era entrato nell’entourage di Reni dapprima come uno tra tanti e poi divenne il preferito del maestro. E così le lusinghe e le spire del mercato lo tentarono, ma era troppo ingenuo per riuscire a tenere testa agli esperti in maneggi d’arte. La sua storia bolognese inizia con una copia ritoccata da Guido. Come spesso accade quando si è vittime di atti di violenza, l’oppresso si trasforma in carnefice una volta diventato adulto. La pratica di Guido di far copiare o ridurre le sue opere in copie, per poi ritoccarle e venderle o smerciarle, derivava infatti dal suo primo maestro, il fiammingo Denis Calvaert. Lui stesso era stato perseguitato da tale abitudine e ora che esercitava il ruolo di docente la metteva in pratica nello stesso modo. Racconta Malvasia, con totale disprezzo per l’insaziabilità che rodeva Calvaert di ottenere sempre nuovi guadagni, che questi aveva messo a dura prova Albani e Reni ai quali …facendo ridurre le sue tavole grandi in piccioli rami…ritocchi poi che gli avesse esitava per di sua mano vendendone quantità incredibile ai mercatanti che tenendone commissione in Fiandra…colà mandavanli guadagnandovi e talora raddoppiandovi sopra lo speso 22. Forse Guido non si era spinto a tanto, ma certo lo fecero per lui gli amici e i torcimanni, che avevano imparato a lucrare sulla sua fama e sulla richiesta inesaudita delle sue opere. Cantarini capiva che le regole del mercato erano queste e non poteva essere soddisfatto di essere scambiato per un altro, proprio lui che aveva una cifra stilistica così meditata. Lui che si distingueva per capacità e originalità, doveva tuttavia passare per Guido. Segnala Malvasia come adducesse molte cosette sue passate per mano degl’intendenti e comunemente tenute ed avvantaggiosamente rivendute per di Guido, fra le quali la picciola Madonna in rame fattagli fare dall’istesso, ritoccata poscia e donata come opera sua ad un compare nel levargli un putto al sacro fonte 23. Tuttavia nella versione malvasiana degli appunti si dice più chiaramente Volendo il Signor Guido per un battezzo regalare, fece all’istesso Simone fare una picciol Madonna in rame che alquanto ritoccò e che questa, essendo di là in poco tempo venduta per di Guido, fu pagata quaranta ducatoni, onde il Pesarese s’instaffò vedendo che le sue cose andavano per di Guido 24. Passa proprio per questo verbo, instaffarsi, poi emendato da Malvasia, la decisione del Pesarese di non accettare di essere scam-

biato per il maestro. E in quel peccato di ùbris che gli costerà caro, cominciò a giudicare, a esprimere valutazioni taglienti, a farsi seguire da un manipolo di giovani allievi di Guido, tentando di spiegare questo e quello. Persino il mite Guercino, raggiunto dalle sue maldicenze, rifiutava di incontrarlo. E quando Simone si presentò a casa sua per vederlo dipingere, accompagnando il medico-amico di pittori Orazio Zamboni, intimo di Giovan Francesco, questi si stupì non avendolo mai ammesso nelle sue stanze, ma iniziò ugualmente a dipingere. Non appena il Pesarese prese a lodarlo, Guercino rispose che la fortuna a tutti compartiva i suoi doni, ne’ ad uno solo dava ogni cosa: a chi dava la ricchezza, a chi la virtù, che così appunto aveva fatto con lui che gli dava ricchezze incredibili correndo tutti a farlo lavorare a che prezzo egli voleva, ad altri aveva dato poi la virtù, ma non la ricchezza sì che morivano pezzenti senza aver mai un soldo 25. Un colpo ben assestato: un pittore di successo era in grado di costruirsi una carriera in cui la domanda e l’offerta convergevano; e a Cantarini mancava ancora una fissa dimora bolognese, uno studio proprio e una posizione sociale. C’era pur sempre Pesaro e la bottega là impiantata, ma la città dei della Rovere non era Bologna. La sua carriera procedeva dunque nella semioscurità che l’illustre Guido procurava e il suo talento si rivelava soprattutto per la di lui eccelsa aemulatio: per la copia di una Madonna acquistata da personaggi della corte del legato Savelli, percepì cento scudi, più dell’originale26. La novità stava nel fatto che la sua replica era ancora più bella della versione del maestro. Questa, all’inizio del soggiorno bolognese, doveva essere la sua vocazione: egli cominciò dunque a giocare con questa abilità, tanto che Pregato da que’ giovani talvolta del suo parere sulle copie che frequentemente ricavavano dal maestro, consigliava e mostrava loro non indecente il prendersi qualche libertà, tornando ciò meglio nell’accrescere o diminuire, sino anco mutare or questa or quell’altra parte…27. Sembra un procedimento messo a punto per non essere oppresso dalla noia nel ripetere le composizioni di un altro, seppur eccelso. E proprio all’interno di questa analisi non si può non prendere in considerazione un caso emblematico giunto sino a noi, seppure con poche notizie certe. Nel 1605-1606 Reni dipinse il celeberrimo David con la testa di Golia (Parigi, Musèe du Louvre), cui Giovan Battista Marino dedicò un componimento ne La Galeria (1619). Della tela esistono una decina di repliche28, ma quella in deposito alla National Gallery di Londra non è solo una tra le tante. Come ha ben puntualizzato Massimo Pulini si tratta di 145


Guido Reni, David con la testa di Golia, Parigi, Louvre

Simone Cantarini, David con la testa di Golia, collezione privata

una versione talentuosa, vibrante, macchiata e variata. E’ un altro capolavoro, di diverso stile, che viene da Guido ma non è di Guido: si deve infatti riferire a Simone Cantarini29. Un Simone ispirato, che varia copiando, così come lui stesso aveva spiegato, con piglio saccente, agli scolari della scuola di Reni. E le differenze sono tante e di tale rilevanza, che a ben guardare il quadro recita un assolo tra le copie: innanzitutto la luce che rialza le ombre da sinistra in Cantarini è più vivida e scolpisce con maggior forza i piani; la grande testa di Golia è leggermente più inclinata e il gigante socchiude la bocca lasciando intravedere i denti, nonché l’orecchio ben disegnato. Il collo reciso lascia una scia di sangue più materica rispetto alle scelte di Guido, mentre i legacci di cuoio che tengono insieme il magnifico vello di lupo, Simone li inventa lì per lì. Ma quello che più differenzia i due dipinti è il volto del protagonista. Pur nello stesso atteggiamento e con la medesima capigliatura e cappello, il giovane Davide è un ritratto dal vero, anzi un autoritratto30.

Lo si confronti con l’Autoritratto di palazzo Corsini (Roma, Galleria Nazionale d’Arte Antica): si ritrova esattamente la stessa tipologia facciale, con la bocca corrucciata, l’occhio incavato e tondo e quel naso pronunciato leggermente triangolare che viene scorciato di sotto in su proprio per non renderlo più evidente. Che azzardo per il giovane pittore: autoritrarsi come Davide che osserva la testa colossale di Golia, una metafora che non deve essere sfuggita a quella turba che viveva alle spalle del maestro in via delle Clavature. D’altra parte la tentazione di fare capolino dai propri quadri, come un vissuto che ha necessità di autorappresentarsi per affermare il tempo e lo spazio, era una necessità per Cantarini. Egli si era già trasformato nell’ispirato san Terenzio presente nella Madonna in gloria col bambino e i santi Barbara e Terenzio oggi a Aicurzio (chiesa di Sant’Andrea), pala collocata, all’epoca della sua esecuzione nei primi anni del quarto decennio del Seicento, nella chiesa pesarese di San Cassiano, dove il giovane pittore era stato battezza-

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to31. Un hic et nunc che ora si ripeteva nel Davide; la sua presenza ribadiva il ruolo di pittore molto più di qualsiasi firma. La coincidenza tra la fonte e l’evidenza di questo dipinto, portano a chiedersi sia il possibile anno di esecuzione, sia la cronologia delle repliche del più famoso Davide di Guido. Proprio su questo punto le strade si sovrappongono e invece di offrire certezze, sollecitano nuove riflessioni. Ripartiamo da quello più antico, ovvero il quadro oggi a Parigi (Musée du Louvre) cantato da Marino nel 1619 e ricordato da Malvasia come già esistente nelle collezioni reali di Francia32. Tra il 1619 e il 1678, anno di pubblicazione della Felsina, passano quasi sessant’anni. Il fatto che un’opera analoga, citata dallo storiografo, fosse in possesso del Duca di Crequì (non sappiamo se Carlo I morto nel 1638 o Carlo III deceduto nel 1687) e che il dipinto non compaia nell’inventario reale di Le Brun, non adduce nessuna certezza sul fatto che fosse in Francia ad una data entro il 1638. Dunque la tela di Guido, per quel che ne sappiamo, poteva ancora trovarsi a Bologna. La storia si complica ulteriormente quando contiamo l’esistenza di ben dodici copie, compresa questa di Cantarini, ed aggiungiamo indizi che si desumono da missive, letteratura artistica e altre evidenze documentarie. La prima è una lettera del 27 luglio del 1631 che il cardinale Bernardino Spada, durante la sua lunga permanenza a Brisighella a casa del fratello Francesco per tentare di fuggire alla peste che flagellava Bologna, scriveva all’abate di San Luca, agente per conto della regina di Francia Maria de’ Medici. Nella lunga e documentata missiva egli si dispiaceva di dover abbandonare la trattativa con la regina in materia di quadri a causa dei rovesci di fortuna da lei subiti in quei mesi, e aggiungeva di essere maggiormente amareggiato in quanto proprio ora aveva rintracciato un David fatto nuovamente da Guido Reni e venduto 200 ducatoni su l’andar del primo; ma secondo ch’ei dice assai più bello; e con q.sto occasione havevo imparato che, se bene il quadro del Theodosio Porta era stato ritoccato da Guido, ad ogni modo non era il vero originale, il q.le professa che si trova in Genova 33. E’ chiaro che Bernardino Spada, dopo aver parlato con Guido di un quadro di questo soggetto, si trovava di fronte a una seconda redazione, venduta allo stesso prezzo della prima, cioè 200 ducatoni, ma ancora più bella. E proprio in tale circostanza il cardinale era stato edotto che il quadro di Teodosio Porta non era il primo, ma un’altra versione ritoccata. Quindi, all’altezza del 1631, ci troviamo di fronte ad almeno tre redazioni: una a Genova, appena venduta, dal momento che duecento ducatoni per una figura

sola e una testa, era un prezzo assai alto, che Reni potè permettersi di ottenere solo a partire dagli anni Trenta; una seconda che Spada stava trattando, ma evidentemente non aveva visto e che Guido considerava assai più bella della prima; infine una terza, presso Porta, che non era originale ma ritoccata, e forse la sola che Spada avesse visto. Nessuna di queste notizie ci permette comunque di affermare con certezza che il quadro, all’epoca a Genova, coincida con quello ora a Parigi. Se ciò non bastasse un anno e mezzo dopo, nel gennaio del 1633, il conte Cornelio Malvasia, agente per Francesco I Duca di Modena, sguinzagliato alla ricerca di qualche capolavoro di Guido per le raccolte ducali, scriveva: E’ anco in vendita un altro quadro nel quale è un Davide con la testa di gigante ucciso d’assai maggior grandezza dell’altro [un San Sebastiano], ma questo pareva me che non habbi paragone in bellezza et hora il Sr. Cardinale legato ne fa cavar copia. Questo quadro merita di venire nella galleria di V.A. se bene è ancor lui assai caro 34. Dunque il dipinto che Spada proponeva in Francia doveva essere ancora a Bologna, e perdipiù il cardinale legato, che all’epoca era Antonio Santacroce, ne stava facendo trarre una copia. Secondo Pepper quella descritta da Cornelio Malvasia è la versione di Cantarini, da lui reputata originale di Reni, acquistata per il Duca di Modena e poi passata a Vienna presso il Principe Eugenio di Savoia35. Anche in questo caso il passaggio non è chiaro: in primis è difficile pensare che Malvasia si sbagliasse

Simone Cantarini, David con la testa di Golia, Rio de Janeiro, Biblioteca Nacional 147


di fronte a una copia di Reni, se pure bellissima, e certo non può averla acquistata spacciandola per Guido a un estimatore ed esperto di pittura del calibro di Francesco I. In seconda istanza il quadro era sul mercato a Bologna da diciotto mesi e dunque, se fosse stata una copia anche ritoccata, l’omertà non avrebbe retto così a lungo. Per finire il passaggio, eventuale, da Modena a Vienna, quindi a Torino non è chiaro e conseguente36. Più interessante invece puntare l’attenzione sulla copia che il legato Santacroce si stava facendo fare: siamo nel 1633, anno nel quale Cantarini doveva essersi presumibilmente stabilito a Bologna. Due anni prima il giovane cardinale Santacroce - era nato nel 1598 - venne trasferito nella sede metropolitana di Chieti e, a partire dal 1636, dopo la legazione bolognese, a quella di Urbino37. Il 1633 è anche una data che funziona bene con le prove di copie da Guido di Simone, richiestegli dal maestro stesso perché evidentemente gli riuscivano bene, non nell’imitatio, ma proprio nella variatio. Che sia possibile, dunque, datare il David di Cantarini, ora a Londra, al 1633? E riconoscerlo nella copia per il legato Antonio Santacroce? La data coinciderebbe, dal punto di vista stilistico e cronologico, con gli autoritratti citati e esattamente per prima la pala pesarese, poi l’autoritratto con taccuino e matita e infine questo

mutato in David. In un bel disegno vibrante, cronologicamente più avanti negli anni, Simone riprenderà lo stesso tema, con il re d’Israele a mezzo busto e una scanzonata leggerezza che è tanto distante dal modello reniano, quanto sarà invece vicina alle invenzioni cretiane della seconda metà del Seicento38. Cantarini si trovava dunque a Bologna intorno ai vent’anni, giovane e valente pittore in patria, altrettanto promettente nella nuova città. Le sue capacità non potevano passare inosservate a chi faceva affari con i dipinti e con gli artisti. Ecco allora, che tra i suoi primi incontri, si annovera lo speziale Matteo Macchiavelli, figura centrale del mercato artistico felsineo, proprietario della più rifornita drogheria di Bologna. Collezionista e mercante, acquistò e fece fare delle copie alquanto mutate dei lavori più richiesti di Cantarini39, ma era in contatto anche con Reni, Guercino e Elisabetta Sirani. La sua bottega sotto il Pavaglione, in cui si vendevano l’azzurro oltremarino, vernici, lacche polveri, fungeva da luogo di scambio tra artisti e collezionisti. Nei racconti di Malvasia, suffragati e ampliati dalle carte d’archivio, Macchiavelli emerge come il mercante più agguerrito e scaltro nella Bologna di metà Seicento e certo non nascondeva le sue bramosie sotto mentite spoglie di letterato o protettore. La sua logica era

Simone Cantarini, Autoritratto, Roma, Palazzo Corsini

Simone Cantarini, Madonna in gloria coi santi Barbara e Terenzio, Aiucurzio, Parrocchiale, particolare

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puramente mercantile, sapeva quali erano le tendenze del mercato e chiedeva ai pittori quadri che assecondassero il gusto dei collezionisti. Il rapporto tra lo speziale e Simone non era frutto di frequentazioni occasionali, perché i due intrattennero una vera relazione commerciale. Arrivare a Bologna, entrare nello studio di Guido, farsi incatenare dai tentacoli dei mercanti d’arte fu per Cantarini tutt’uno. Tra i tanti casi vale la pena ricordare la peripezia di quell’opera di Cantarini, Agar e Ismaele, che fece più volte il viaggio Bologna-Venezia proprio per motivi di denaro e con l’intervento di Macchiavelli. E’ come al solito Malvasia a ricordare il fatto, reso più preciso dal ritrovamento dell’inventario legale del protagonista di questa vicenda. L’episodio legato al Pesarese è vicenda molto complessa che apre uno squarcio sull’attività dello speziale. Questi gli aveva già commissionato un Mosè fatto di colpi all’usanza de’ vecchi di Guido, quindi avanzando una richiesta stilistica precisa e invitando l’allievo a mutare lo stile del maestro. Macchiavelli infatti voleva un’opera simile alla Testa di san Pietro di Guido che già possedeva. In seguito gli richiese un Agar e l’angelo nel deserto, su rame, da far pervenire al mercante veneziano Gaspare di Luca, forse tratto dallo stesso soggetto su tela, oggi a Fano (Collezione Fondazione Cassa di Risparmio)40 o dalla versione di Pau (Musée des Beaux Arts)41. Il quadretto percorse due volte la strada tra Bologna e Venezia: giunto nella città lagunare, Gaspare lo aveva respinto adducendo il prezzo troppo alto (Macchiavelli pretendeva quindici doppie: dodici per il quadro e tre di commissione). Sostiene lo storiografo che, una volta rientrato a Bologna, venne nuovamente richiesto a Venezia da un nobile, che lo pagò trentatrè doppie. Non contento dell’affare andato a buon fine, Macchiavelli pretese da Cantarini una nuova copia su tela alquanto mutata, al costo di dodici doppie, quindi lo rivendette a Bartolomeo Musotti, che a sua volta lo cedette ai Sampieri per quaranta doppie. Macchiavelli non fu l’unico per cui Simone lavorò: era incappato anche nel commercio più raffinato messo a punto da Bernardino e Cesare Locatelli42. I due avrebbero desiderato averlo al loro servizio con uno stipendio mensile, in cambio di un numero prefissato di opere al mese43, e forse, per un certo periodo, tale accordo fu mantenuto. Sarebbe stata la soluzione più sicura per il giovane, senza casa fissa e privo di appannaggio, e anche la più lucrosa per i due mercanti che avevano allestito una vera e propria raffinatissima galleria, in cui quadri di Guido, e alcuni del Guercino, erano copiati in infinite varianti dagli allievi. La presenza di Cantari-

ni in casa Locatelli ha lasciato un’impronta decisa, sia per quanto riguarda i quadri originali, sia per le copie e le incisioni. Nove sono le teste autentiche, tra cui due versioni dello stesso quadro, la Circe. E’ complesso stabilire quale delle redazioni conosciute di quest’opera, modernamente indicata come Donna vestita all’orientale con una conchiglia 44, l’originale a Bristol (City Art Gallery) e la copia a Pesaro (collezione privata), corrisponda alle due repliche autografe di Simone e alle tre copie presenti in casa Locatelli. Il soggetto doveva avere una buona fortuna in questi anni, visto che i mercanti possedevano un altro quadro con la medesima iconografia, che si differenziava solo per la presenza di un pennacchio sul turbante, riferito a Gennari, probabilmente Cesare, dati i rapporti che questi intratteneva anche con l’altro ramo della famiglia Locatelli45. L’officina Locatelli aveva anche un’altra particolarità che coinvolse Cantarini in prima persona: una stanza al pianoterra dove erano depositati un gran numero di rami, pronti per essere incisi per la stampa, e accanto un ripostiglio in cui si trovavano un torchio da stampare in rame fornito. Sei tellarini da Santi con la tela, quattrocento ovadini di legno storti con le sue assicelle dentro per accomodare santini di carta pecora... Tinta nera da stampare in una cassetta. Si trattava dunque di un vero e proprio laboratorio d’incisione: i rami e gli inchiostri, la carta per stampare, erano impilati sugli scaffali pronti per l’uso, mentre i quadri da tradurre in incisione si trovavano nelle stanze al piano superiore. I Locatelli avevano quindi aperto una piccola azienda cui Simone doveva in qualche modo sovrintendere, visto che lo stesso Guido era convinto che lui fosse il miglior intagliatore che mai avesse avuto nel proprio atelier. Puntualizza infatti Malvasia che non aveva mai Guido desiderato maggiormente amicizia e famigliarità, che d’un bravo intagliatore, che ponendo molte di sue fatiche alla stampa, facesse passare oltre i monti, con la comune partecipazione di quell’opera, il suo nome 46. Si rallegrava quindi Reni d’avere finalmente trovato in Simone un degno divulgatore, come era stato Marcantonio Raimondi per Raffaello e Agostino Carracci per Tintoretto; anche se spesso gli rimandava indietro i disegni fattigli pervenire per la riproduzione all’acquaforte, dicendo: …volere egli tagliare le cose proprie, non le altrui: sapere ben anch’egli metter giù pensieri e istorie d’invenzione al pari di ogni altro47. Dall’inventario stilato alla morte di Guido si capisce che non esisteva un centro incisorio nella sua articolata bottega-casa e quindi è molto probabile che si appoggiasse a questo dei Locatelli, così ben attrezzato e rifornito di materiale, e che Simone fosse approdato in quella casa sulla scia 149


dell’impellenza, che il suo maestro aveva d’incidere le proprie opere. L’inventario Locatelli annovera rami lisci, preparati, imprimiti per dipingervi sopra e altri per essere intagliati. C’erano quindi quelli intagliati da autori famosi e altri incisi con immagini degne di essere riprodotte. La qualità e la quantità dei rami ci fa capire che siamo di fronte ad uno dei centri nodali di diffusione iconografica a Bologna nel Seicento: qui si contano infatti quelli della Madonna del Rosario e della Strage degli innocenti di Guido, della Madonna del Rosario e del Sant’Antonio da Padova di Guercino, ma anche le lastre incise da Agostino Carracci su disegni suoi e di Annibale, e poi le incisioni tratte dai quadri esposti in casa Locatelli. La presenza di Simone è determinante: sue sono tre acquaforti piccole con Madonne e altre due più grandi, e inoltre tre rami mezzani. Ma anche con i Locatelli Simone, ad un certo punto, allentò i rapporti e in quel momento fu intercettato da un altro astuto sfruttatore di pittori, Luigi, padre di Giovan Battista Manzini. E’ ben noto che Reni, quando il vizio del gioco lo aveva completamente annientato, venne pagato 40 scudi al giorno per dipingere quattro ore e produrre delle mirabili teste, che ovviamente venivano rivendute a 50 scudi l’una da chi aveva stabilito quest’affare, ovvero Manzini, già vicino a lui, forse più per interessi economici che vera condivisione intellettuale48. Ritornato in se’ Reni, riappacificatosi con la sua vita e la sua casa in via delle Pescherie e riprese le sue altolocate commissioni, il marchese Manzini pensò di intercettare qualcuno altrettanto bravo e certamente più bisognoso. Presa l’occasione di costui [Cantarini] che per il suo mal procedere era da tutti abborrito onde di fame si moriva…se lo prese in casa facendoselo padrino e protettore, dandogli partamento e facendogli lautissima tavola con patto gli lavorasse tante opere l’anno49. Al Pesarese dovette sembrare una soluzione perfetta: vivere in una casa nobile, in compagnia di un poeta stimato e buon conoscitore di quadri, replicando un ruolo che Guido aveva già avuto. In realtà, con il passare delle settimane, l’invito si trasformò in una trappola: Luigi Manzini pretendeva di dir la sua su ogni quadro, ogni invenzione, ogni pensiero e non gli lasciava spazio. S’aggiunge che de’ quadri che faceva per convenzione al Marchese e per i quali sempre gl’era sopra, ne facesse dispaccio massime a Venezia sotto nome di Guido che facilmente passava onde conosciuto nudrirsi sotto coperta di genio virtuoso una avidità interessata sovra le sue fatiche appoggiata prese tanto odio al marchese che nulla di più, onde ciò che a quella tavola mangiava se li convertisse il tanto velleno. L’inganno stava annidato ancora una volta nel cono d’ombra di Reni: Simone 150

non era stato accettato in casa Manzini per il suo estro, per i suoi pensieri, per il suo stile forte e generoso, ma per la capacità di emulare il divino Guido. La crisi vera irruppe poco dopo quando il Pesarese diede in prestito tutti i suoi guadagni, 700 piastre fiorentine scrive Malvasia, - cioè circa 700 scudi romani, ovvero 3500 lire bolognesi50 -, al Marchese per risanare un debito. Manzini non restituì la somma, così Cantarini se ne andò da palazzo spargendo maldicenze e fu costretto a scappare da Bologna. Ritornò solo grazie all’intervento del legato Giulio Sacchetti, ma la crisi ormai era in atto: nel 1637 litigò anche con Reni per la commissione della Trasfigurazione per la chiesa di Forte Urbano a Castelfranco Emilia e in breve lasciò la città.

Note 1 Sulla copia si vedano Paolucci 1971; Ferretti 1981; Cervini 1989; Morselli 1992; De Vito 1996; Vodret 1998; Tra committenza e collezionismo 2000; Caretta 2004; Terzaghi 2008; Terzaghi 2009; La copia 2010. 2 Malvasia 1678, p. 493. 3 Brogi 2001, p. 242 n. A1. Concordo sul fatto che l’opera tanto celebrata e desiderata da Marino, dovesse essere più smagliante dal punto di vista stilistico. 4 Malvasia 1678, pp. 467, 495. 5 Malvasia 1678, p. 333. 6 Malvasia 1678, pp. 500, 502. 7 De Benedictis 1991, p. 307. 8 Negro, Roio 1998, p. 313. Si veda anche Danesi Squarzina 2001, p. 230. 9 Malvasia 1678, p. 47. 10 Si veda la scheda di Scolaro 1994, pp. 184-185, n. 39. 11 Malvasia 1678, p. 224. 12 Si veda Ghelfi 2007, pp. 405-469, in particolare nn. 1915,


1922, 2066, 2129, pp. 434, 435, 451, 457, 465n. 13 Malvasia 1678, p.253. 14 Su questo tema si veda Guido Reni 2007, e il saggio di Spear 2007. Alla serie delle repliche del San Sebastiano di Madrid si deve aggiungere una copia riferita a Francesco Costanzo Catanio, allievo di Reni, che si trova nella chiesa dei Santi Giuseppe Tecla e Rita di Ferrara.

29 Pulini 2002. Della stessa opinione sono sia Anna Maria Ambrosini Massari che Daniele Benati, comunicazione orale. 30 Si deve a Massimo Pulini questa intuizione. 31 Si veda la scheda diAmbrosini Massari 1997b, pp. 85-86. 32 Malvasia 1678, I p. 96, II p. 31; Marino 1619 p. 62; Pepper 1988, pp. 221-222 n. 19.

15 Pepper 1988, pp. 240-241. Lo stesso Reni ne fece una replica (come ricorda Malvasia, Pepper 1988, n. 85 e n. 55 p. 241, per le copie). Il biografo ne ricorda altre: due di Francesco Gessi per i Cappuccini di Modena, di Jean Boulanger per le Fiandre, di Bolognini per i Cappuccini di Parma, una copia a Ferrara in Santa Caterina da Siena (perduta), un’altra presso i cappuccini di Frascati, una a Berlino nel Kaiser Friedrich Museum, andata distrutta.

33 Dirani 1982-1983, p. 85. La lettura di questa lettera da parte di Pepper l’ha portato a ritenere che il quadro del Louvre si trovasse a Genova e quello di Teodosio Porta fosse perduto.

16 Malvasia 1678, p. 45. La discussa lettera di Raffaello al Francia citata da Malvasia non permette di riconoscere alcun quadro certo del Francia, sebbene l’Autoritratto di Angers (Musée des Beaux Arts) firmato in alto a sinistra, sia stato dubitativamente associato a tale menzione, Negro, Roio 1998, p.188 n.63.

36 Diekamp 2012, pp. 51-75.

17 Malvasia 1678, p.24. 18 Il 21 novembre 1638 Guercino ricevette 50 ducatoni da Antonio Fabbri per il ritocco della copia di Cristo che scaccia i mercanti dal tempio donata al cardinale Pallotta (Libro dei conti 1997, n. 184), si veda la scheda di Boccardo 2009, pp. 116-117.

34 Venturi 1882, p. 186. Sui dipinti bolognesi acquistati da Francesco I si veda Ghelfi, in corso di stampa. 35 Pepper 1988, pp. 336-337.

37 Il 16 dicembre 1632 il cardinale acquistò dal Guercino per 262 scudi una Primavera, oggi irrintracciabile, che, stando a Malvasia, era un quadro grande con due puttini, si veda scheda di Ghelfi 2011, p. 173. 38 Si veda la scheda di Ambrosini Massari 1995, p.145 n. 90. 39 Morselli 1997b; Morselli 1998. 40 Ambrosini Massari 1997b, n. 28, pp. 127-128.

19 Malvasia 1678, p.553.

41 Ambrosini Massari 2009b, pp. 325-394 e nota 205.

20 Secondo Baglione Gabriele Bombasi, dopo aveva fatto arrivare da Bologna una Santa Caterina da Annibale con gran maniera, ad imitatione del Correggio fatta, gli chiese di trasformarla in Santa Margherita. Ottonelli riteneva che l’opera fosse il frutto di un intervento di Carracci sulla copia eseguita da Massari, idea ripresa anche da Bellori. Alla partecipazione di Massari ha creduto Posner 1971, ma già Cavalli 1959 prima e Cavina 1986 poi hanno riaffermato la piena autografia di Annibale, Ginzburg 2006, n. VI.5. Le varie proposte attributive, come nel caso del Guercino sopra analizzato, dimostrano come, dinanzi ad un quadro ritocco, la critica rimanga spiazzata e divisa.

42 Morselli 1997, p. 51 sgg.

21 A tal proposito si vedano le lettere di Bernardino Spada riparato a casa del fratello a Brisighella, che riportano notizie di esportazioni di quadri messi in quarantena, Dirani 1982-1983.

48 Malvasia 1678, II, p. 17. Manzini aveva pubblicato Il trionfo del pennello: Raccolta d’alcune composizioni nate a gloria d’un Ratto di Elena di Guido, Bologna, si vedano Ciammitti 2000 (2001), p. 203, nota 7; Morselli 2010.

22 Malvasia 1678, p.256. 23 Malvasia 1678 ed.1841, p.376. 24 Marzocchi 1983, p.188. 25 Marzocchi 1983, p.180. 26 Marzocchi 1983, p.185.

43 Marzocchi 1983, p. 181. 44 Bellini 1987, n. 76. 45 Morselli 1997, p. 51 sgg. e 1998. 46 Malvasia 1678, p. 376. 47 Malvasia 1678, p. 377.

49 Marzocchi 1983, pp. 183-184. 50 La somma risparmiata da Cantarini, all’epoca venticinquenne, è abbastanza sostanziosa per un pittore forestiero e basta da sola a far capire che egli non era in ristrettezze economiche e che avrebbe potuto permettersi uno studio proprio e l’affitto di una casa.

27 Malvasia 1678, ed. 1841, II, p. 376. 28 Pepper 1988, pp. 221-222: al Kunsthistorisches Museum di Vienna, a Monaco, Alte Pinakothek (inv. 5781), a Lille (Musée Wicar) e Orléans (Musée des Beaux Arts), a Palazzo Pitti (inv. 1890) e nella Pinacoteca Nazionale di Bologna, per cui si veda Emiliani 1973, p. 253. Una copia del dipinto è attestata anche nell’inventario di Palazzo reale a Torino nel 1635, Pepper 1988, p. 222.

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Rodolfo Battistini LE ACQUEFORTI DI SIMONE CANTARINI: LA COLLEZIONE LICINI

Il Cantarino aveva l’abilità d’intagliare le sue opere in acqua forte e perciò veggonsi molti suoi rami stimatissimi, perché senza nome e spesso confusi con quelli del di lui famoso maestro Guido Reni Domenico Bonamini Il nostro territorio ha perduto testi pittorici fondamentali per comprendere la personalità più universalmente stimata del suo passato artistico e non mi riferisco solo a capolavori autografi, come la Madonna con il bambino in gloria e i santi Barbara e Terenzio, già nella chiesa del monastero di San Cassiano, ora confinata nella Parrocchiale di Sant’Andrea Apostolo ad Aicurzio, nel milanese, ma penso anche a opere determinanti per la sua formazione: la pala di Girolamo Savoldo, in origine nella chiesa di San Domenico, dal 1811 nella Pinacoteca di Brera a Milano; la Madonna col bambino e i santi Tommaso e Girolamo di Guido Reni, trasferita dalla cattedrale alla Pinacoteca Vaticana e il triste elenco potrebbe continuare. Ricordando tutto questo la curatrice del catalogo e i suoi collaboratori hanno ritenuto opportuno dedicare una sezione della mostra a una collezione che Roberto Licini ha iniziato a costituire dal 1974, con l’intento di riportare a Pesaro il maggior numero di acqueforti eseguite da Simone Cantarini. Oggi la raccolta comprende trentatré incisioni su trentasette conosciute1, presenti in più esemplari, anche in controparte. Le riflessioni sulle acqueforti scelte per essere esposte in questa sede hanno ulteriormente confermato le conclusioni a seguito dello studio condotto su tutta la produzione incisoria di Cantarini da Anna Maria Ambrosini Massari nel 1997, lavoro talmente approfondito da rappresentare un’acquisizione storiografica ormai definitiva e al quale si rimanda per un esame completo di tutta la problematica e per quanto riguarda ogni singola incisione.

Simone Cantarini era non solo un esperto pittore, quando giunse a Bologna, ma in più un abile incisore, i cui metodi e le caratteristiche stilistiche si rivelano ampiamente debitori, della lezione di Federico Barocci, senza dimenticare naturalmente le incidenze di Agostino, Ludovico, Annibale Carracci, già ampiamente evidenziate dalla storiografia critica. Sono stati però i segni nello stesso tempo sciolti e rigorosi appresi dal pittore urbinate ad assecondare la libertà interpretativa di Cantarini nel declinare stati sentimentali ora profondamente meditativi, ora soffusi di una tenerezza anticipatrice di atmosfere settecentesche, senza trascurare situazioni più concrete, la sofferenza fisica ad esempio, come nel Cristo caduto sotto la croce - n. 32 -, l’ultima incisione. L’esempio di Barocci riguarda anche le soluzioni tecniche, le particolari modalità di correzioni a bulino, l’adozione delle morsure coperte e delle morsure ripetute, l’utilizzo del puntinato insieme alle linee intrecciate per orchestrare le ombre, fin dagli esordi (n. 4 o n. 3). Le prime prove incisorie del pittore pesarese corrispondono alla prassi, attestata dalle fonti2, di copiare dipinti di maestri famosi, iniziata poco prima di trasferirsi a Bologna. L’opera di esordio, Marte che spoglia Venere e Amore - n. 1 -, testimonierebbe la preferenza accordata dai pittori emiliani per Veronese; inoltre da Cantarini, a sua volta, sarebbe stata esercitata una notevole influenza sui veneti, come Giulio Carpioni3, autore di una incisione identica4 alla Sacra Famiglia della tenda - n. 3 -, peraltro indice di un raggiunto equilibrio, da parte di Cantarini, tra gli esempi di Barocci e Claudio Ridolfi. D’altra parte gli echi delle suggestioni provate di fronte alle opere dei grandi maestri operosi nel ducato si ritroveranno anche nella produzione più tarda, come quelli di Barocci nel Piccolo sant’Antonio da Padova - n. 26 - o di Giovanni Francesco Guerrieri nelle prime stampe appartenenti alla fortunatissima serie del Riposo in Egitto - n. 14, n. 15 -. Il successo in patria fu certa-

Simone Cantarini, copia da, Riposo nella fuga in Egitto, Pesaro, collezione Licini Simone Cantarini, Riposo nella fuga in Egitto, acquaforte, Pesaro, collezione Licini (cat. n. 25) 153


Simone Cantarini, copia da, Riposo nella fuga in Egitto, Pesaro, Fondazione Cassa di Risparmio Simone Cantarini, Riposo nella fuga in Egitto, acquaforte, Pesaro, collezione Licini (cat. n. 16) 154


Simone Cantarini, Riposo dalla fuga in Egitto, Milano, Brera

Simone Cantarini, Riposo dalla fuga in Egitto, acquaforte, Milano, Brera (cat. n. 18)

mente favorito dai più alti esponenti della declinante corte roveresca, appartenenti alle famiglie Bonamini, Diplovatazio, Giordani, fedeli mecenati e sostenitori, utilissimi per introdurlo nell’ambiente romano e ampliare i contatti con potenziali committenti, ad esempio i principi Borghese, conosciuti attraverso Girolamo Giordani. Alla nobile famiglia romana è dedicata l’acquaforte rappresentante Giove, Nettuno e Plutone fanno omaggio delle loro corone alle armi del cardinale Borghese - n. 21 -; uno schema celebrativo che ebbe un discreto successo, così da essere replicato nel disegno a matita rossa ritrovato da Anna Maria Ambrosini Massari5, con diverso stemma. La nostalgia per la signoria roveresca e per ciò che essa aveva determinato nella promozione dell’economia pesarese, e dunque del sistema delle arti, traspare sia nei dipinti che nelle incisioni, come l’Allegoria del fiume Foglia e stemma di Pesaro - n. 6 -, dove compare lo stemma ideato per la città nel 1574 da Guidobaldo I della Rovere, con il ramo di quercia sostenuto da quattro mani giunte e corredato da un cartiglio con il mot-

to Perpetua et firma fidelitas; quella fedeltà alla casata dimostrata da Cantarini ben dopo la devoluzione del 1631, dato che la stampa è riferibile al 1641-42. Il quinto decennio del Seicento, purtroppo l’ultimo per l’artista, conferma la sua capacità di sperimentare, con la stessa padronanza, linguaggi in parte differenti, prima in pittura e poi, naturalmente, nelle traduzioni incisorie. La Fortuna - n. 8 -, Il Ratto di Europa - n. 13 - e soprattutto la Vergine incoronata6 - n. 12 -, segnano il momento di massima assimilazione dello stile di Guido Reni, tanto che dipinti e stampe di Cantarini erano venduti come fossero del maestro bolognese7. Certo è comprensibile il disagio che deve aver provato un artista tanto consapevole di se stesso, ma d’altra parte a quelle date nessuno dava prova di comprendere e possedere la poetica di Reni in egual misura e le acqueforti cantariniane destinate a suscitare maggiore interesse furono proprio quelle più vicine allo stile del maestro, ma non solo. Uno degli aspetti più interessanti della produzione incisoria di Cantarini, segnalato a più riprese 155


da Anna Maria Ambrosini Massari nei saggi dedicati all’argomento, è stato, attraverso Guido Reni, il recupero di un neoraffaellismo anticipatore di un gusto che attraverserà i limiti del Seicento. Dunque se la sicurezza, unita alla scioltezza e morbidezza del tratto, appresa sulle stampe di Barocci, ha anticipato la grazia rococò, il neoraffaellismo, conseguito risalendo alle radici dello stile reniano, ha reso le acqueforti di Simone Cantarini, copiate per oltre due secoli, modelli paradigmatici fino ai pittori puristi dell’Ottocento. Nel contempo il permanere di intonazioni neovenete e il confronto con i linguaggi romani di Pier Francesco Mola8 e di Andrea Sacchi portarono il pittore pesarese a sperimentare soluzioni a loro affini, nei dipinti di piccole dimensioni. Le storie calate nei peasaggi di Cantarini riescono a conciliare la lezione di Guido Reni con il controllato naturalismo dei pittori romani, giungendo a un classicismo ben diverso da quello nitido e accademico di Giacinto Geminiani o elegantemente tornito di Francesco Romanelli. Questo splendido equilibrio tra naturalismo e rigore classico impronta la serie con il Riposo in Egitto, destinata a influenzare il futuro sviluppo della pittura bolognese. Il suo successo non solo è provato dalla grande diffusione delle incisioni, ma pure dal numero delle tele, tuttora esistenti, basate sulle idee concretizzate in un primo tempo nei dipinti. Del n. 16 il prototipo è conservato al Louvre (inv. 175), da cui deriva una pregevole replica, quasi della stessa grandezza, certamente uscita dalla bottega9 di Simone Cantarini, acquisita ora dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Pesaro. La tela a origine del n. 18 si trova alla Pinacoteca di Brera, a Milano, mentre del n. 25 è riapparso presso la Casa d’Aste Christie’s un olio su rame10 proveniente dalla Quadreria Boschi di Bologna, sicuramente autografo, mentre l’altra pregevole versione su tela, quasi delle stesse dimensioni, appartenente alla Collezione Licini ed esposta in mostra, sembrerebbe più tarda, riferibile alla seconda metà del Seicento. Al Louvre si trova anche il quadro da cui derivano le ultime due incisioni con il Riposo in Egitto11 - nn. 27 e 28 -. La capacità di stupirci di Simone Cantarini non si ferma ad anticipare il clima d’Arcadia, perché il tono elegiaco poteva declinare nella profonda e assorta malinconia della Vergine col bambino e l’ uccellino12 - n. 19 -. Immagine immersa in un’atmosfera sentimentale così altamente turbata e non del tutto conforme al nobile controllo reniano da suscitare forti perplessità nei contemporanei13, in difficoltà di fronte a una creazione così moderna.

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Note 1 Non sono ancora presenti nella Collezione Licini le seguenti acqueforti, particolarmente rare: Sacra Famiglia (Ambrosini Massari 1997b, p. 316, n. 4); Frontespizio per Le Grazie rivali, dedicata al granduca Ferdinando II di Toscana, (Ibid. p. 323, n. 8); Giuseppe nella prigione interpreta i sogni, incisione sconosciuta anche al Bartsch (Ibid. p. 324, n. 9); Frontespizio di libretto per nozze (Ibid. p. 342, n. 24), incisa in occasione delle nozze di Girolamo Giordani, tra i più importanti sostenitori a Pesaro di Simone Cantarini, con Ortensia Borghese, nipote del cardinale Pier Maria, al quale è dedicata l’acquaforte n. 21 dell’inventario che segue questa introduzione. Per il catalogo generale delle acqueforti di Cantarini si rimanda in particolare a Ambrosini Massari 1997b, pp. 304-357, per tutte le informazioni riguardanti le incisioni, l’analisi critica, la datazione, totalmente recepite in questo intervento. 2 Bonamini, Ms. Oliv. 1009, ed. 1996, p. 104 (f. 142). Nella stessa pagina del suo Abecedario pittorico dei pittori pesaresi Domenico Bonamini ha scritto la frase riportata all’inizio di questo intervento. 3 Marini 1999, pp. 193 - 206. 4 Marinelli 1999, p. 283. 5 Ambrosini Massari 2009b, p. 340. 6 Ibid. p. 359. L’acquaforte deriva dall’Immacolata Concezione di Guido Reni, ora a New York, Metropolitan Museum of Art. 7 Malvasia 1678, ed. 1841, II, pp. 379-380. 8 Anna Maria Ambrosini Massari (2009, pp. 367-368) ritiene il Mercurio e Argo di Pier Francesco Mola, conservato a Oberlin, Allen Memorial Art Museum, derivato dall’analoga incisione di Cantarini (n. 22). Andrea Leonardi (2006, pp. 102-104, scheda n. 14), ritiene il Mercurio e Argo della Collezione Gavotti di Simone Cantarini e modello per la stampa, ma la qualità del quadro non sostiene l’attribuzione. 9 Composta da Girolamo Rossi, Lorenzo Pasinelli, Giulio Cesare Milani e Flaminio Torri (Malvasia 1678, ed. 1841, II, p. 383). 10 Milano, 30 maggio 2012, n. 36. Olio su rame, 28x37,5 cm. Sul retro della bellissima cornice originale intagliata e dorata è presente l’iscrizione “Boschi” e i numeri d’inventario 32 e 61. 11 Inv. 176. Si veda Ambrosini Massari 1997b, pp. 149-150. 12 Acquaforte collegata a un disegno a matita rossa pubblicato da Anna Maria Ambrosini Massari 2009b, p. 373. 13 Malvasia 1678, ed. 1841, II, p. 172.


LE ACQUEFORTI DI SIMONE CANTARINI NELLA COLLEZIONE LICINI: CATALOGO

LEGENDA Malvasia I, II: Malvasia 1678, ed. 1841, I, pp. 97-100; II, pp. 373-383 Malvasia ed. 1983:

Malvasia 1983, in particolare, pp. 98 e 115-116

GGDA:

Gori Gandellini - De Angelis, 1771VII, pp. 288-294

B:

Bartsch 1803-1821, XIX (1819), pp. 122-146

Nagler:

Nagler 1904, pp. 406-411

Le Blanc:

1854-1888, I, p. 581

Emiliani:

Emiliani 1959, pp. 451-455

Bellini:

Bellini 1980

TIB:

Spike, (Bartsch), XIX, parte seconda, 1981


1. Marte che spoglia Venere e Amore acquaforte, II, 262x197 mm (inciso), 311x228 mm (lastra) Pesaro, Collezione Licini bibliografia generale: Malvasia I, p. 98; ed. 1983, p. 176; Cretti, Ms B 1286, C. 446c; Gori, Gandellini I, 221; GGDA. VII, XXIII; B n. 32; Nagler K-L, p. 410; Le Blanc n. 31; Emiliani n. 32; Mancigotti 1975, p. 207, fig. 133; Bellini 1980 n. 9; TIB 32; Prosperi Valenti 1989, n. 142; Ambrosini Massari 1997a, p. 51, 265; Idem 1997b, p. 305, 312 stati: I: in basso a destra sono presenti le lettere “P C I”: “Paulus Caliari Inventor” II: in basso al centro è aggiunto “P. Veronensis in.” dipinti: citazioni documentarie: Malvasia ed. 1983, p. 176; Campori 1870, p. 389 Malvasia, I, p. 98: Marte che, a sedere sotto arbori, sostiene sulle ginocchia Venere, e Amore sotto, che grida assalito da un cane, cavato da un quadro del gran Paolo Veronese, che copiò anche in pittura: onc.8. e mez.onc. 6. P.C. per dirit.

2. San Benedetto libera un indemoniato acquaforte, II; 392x270 mm (inciso), 396x274 mm (lastra) Pesaro, Collezione Licini bibliografia generale: Malvasia I, p. 72 e 98; Indice 1677, pp. 77-78; Gori Gandellini 1771, I, p. 221; GGDA. VII, XVIII; B. 27; Nagler K-L, p. 410; Le Blanc 24; Emiliani 27; D’Abrosca 1975; Mancigotti 1975, p. 186, fig. 103; Bellini 1980, n. 10; TIB 27; Campanini 1994, pp. 89-92 e note 3-12, ill. 30; Ambrosini Massari 1997b, pp. 305306, 313 stati: I: antilettera II: in basso a destra è scritto: “LVD. CARACC. INVENT.”. III: in basso a sinistra nome e indirizzo dello stampatore: “Gio. Jacomo de Rossi alla Pace all’insegna di Parigi”. IV: l’indirizzo è stato abraso. disegni: Bologna, collezione Lorenzo Pasinelli, inventario 8, aprile 1707: Lo spiritato dipinto da Lod.co nel Claustro di S. Michele in Bosco dissegno di Simone da Pesaro di lapis rosso alto 13 largo 9; Mariette 1741, n. 601; Stockolm, National Kunstmuseer (Ambrosini Massari1997b, p. 314). Malvasia I, p. 98: Lo spiritato famoso di Ludovico, tocco sopra nelle sue cose da altri tagliate: onc. 12. e mez. onc. 8. e mez. per dirit.

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3. Sacra famiglia della tenda acquaforte, I; 130x83 mm (inciso e lastra) Pesaro, Collezione Licini scritte e timbri: sul bordo inferiore destro: A 31. 4 bibliografia generale: Malvasia I, p. 99; Gori-Gandellini 1771, I, p. 221. B 14; Nagler K-L, p. 409; Le Blanc n. 7; Petrucci 1938, p. 53; Ronci 1957, p. 8, fig. 15; Emiliani n. 14; Bellini 1980, n. 33; TIB 14; Bellini 1987, p. 54; Orlandini 1992, 16; Ambrosini Massari 1995, p. 120, ill. p. 122; Idem 1997a, p. 237; Idem 1997b, p. 305, 315, Idem in Federico Barocci 1535-1612…, 2009, pp. 397-398 stati: I: in basso a sinistra la scritta “S.C. da Pesare fe”; inoltre a destra della mano sinistra di S. Giuseppe si notano due tratti verticali paralleli. II: appena visibili i due segni verticali; sotto il tallone del piede sinistro di Gesù vi sono alcuni punti. III: lunga linea diagonale dal volto della Vergine alla spalla sinistra di S. Giuseppe. disegni: Milano, Pinacoteca di Brera, inv. 99r.; Rio de Janeiro, Biblioteca Nacional, inv. A8 Malvasia I, p. 99: Un’altra della stessa misura a sedere, che tiene il Bambino nudo, che le ha posto un braccio al collo; con S. Gioseffo, che alzando un panno con ambe le mani, si volge a rimirarlo. S. C. da Pesaro fe. (I).

4. Sacra famiglia con san Giovannino acquaforte, III; 128x90 mm (inciso e lastra) smarginata Pesaro, Collezione Licini scritte e timbri: sul bordo inferiore destro: A 31. 4 bibliografia generale: Indice, 1766, pp. 77-78; Gori - Gandellini 1771, I, p. 219; Oretti, BOBCA, ms B 128, c. 440; GGDA. VII, VII; B. 15-16; Nagler K-L, p. 409; Le Blanc nn. 8-9; Petrucci 1938, p. 54 nota 15; Emiliani nn. 1516; Petrucci 1953, 304; Mancigotti 1975, p. 197, fig. 119; Bellini 1980, n. 34; TIB 15-16; Bellini 1987, p. 54; Benati 1991, p. 150; Ambrosini Massari 1997b, p. 306, pp. 317-318 esposizioni: San Severino Marche 1987 stati: I: antilettera. II: antilettera, stessa lastra con diversa dosatura dell’inchiostro III: con la scritta in alto al centro: “Gio. Iacomo Rossi formis Romae alla Pace”. dipinti esistenti: Milano, Pinacoteca di Brera, replica; Roma, Galleria Borghese, originale citazioni documentarie: Bologna, collezione Tanari: Sacra famiglia con S. Giovannino (la Beata Vergine a sedere in profilo, tiene il Bambino a sedere in grembo S. Giovannino bacia la mano al Signorino, e S. Giuseppe (Oretti ms B 128, c. 440). 159


5. Angelo custode acquaforte, 191x124 mm (inciso), 194x128 mm (lastra) smarginata Pesaro, Collezione Licini bibliografia generale: Malvasia I, p. 99; Indice, 1766, pp. 77-78. Gori-Gandellini 1771, I, p. 219. GGDA. VII, XIX; B. 28; Nagler K-L, p. 410; Le Blanc n. 28; Petrucci 1938, p. 50 ill.; Petrucci 1953, 307;. Kurz 1955, p. 38 n. 27; Emiliani n. 28; 1959, pp. 33-34, n. 15; Bellini 1980, n. 29; TIB28; Bellini 1987, p. 75; Orlandini 1992, 13; Cellini 1996, p. 124; Cerboni Baiardi 1997, p. 135; Ambrosini Massari 1997b, p. 305, 319 unico stato, antilettera e con un margine bianco in basso, alto 23 mm. dipinti: Bologna, Pinacoteca Nazionale, in deposito presso Urbino, Galleria Nazionale delle Marche, (replica di bottega) citazioni documentarie: un dipinto con Angelo custode era nei beni degli eredi Cantarini divisi nel 1738 (Cellini 1997a, p. 124) disegni: Firenze, Uffizi, gabinetto disegni e stampe, inv. 4184; Genova, Palazzo Rosso inv. 1966; New York, collezione Philippson; Windsor Castle, inv. RL 3375. Malvasia I, p. 99:: Il grazioso Angelino Custode, che camminando per paese con un figliuolino in camicia, che tien per un braccio con la sinistra, con la destra gli cenna verso il Cielo ad uno splendore: onc. 6. e mez. onc. 4. per diritto. 6. Allegoria del fiume Foglia e stemma di Pesaro acquaforte, 141x88 mm (inciso e lastra) Pesaro, Collezione Licini bibliografia generale: Indice, 1766, pp. 77-78. Gori-Gandellini 1771 I, p. 220; GGDA. VII, XXVI; B. 35; Nagler K-L, p. 410; LB. 36; Calabi 1931, ill. p. 31; Petrucci 1953, n. 313; E. n. 35; Emiliani 1959, p. 30 n. 7; Johnston 1973, p. 74; Mancigotti 1975, p. 32; Bellini 1980, n. 27; Scorza 1980, p. 65, tav.1; TIB 35; Bellini 1987, p. 80; Prosperi Valenti 1989, n. 145; Cellini 1996, p. 115; Ambrosini Massari 1997a, p. 51 con ill, p. 146, p. 173; Idem 1997b, p. 307, 321 esposizioni: San Severino Marche 1987 unico stato, con le iniziali “S. C.� in basso a destra. disegni: citazioni documentarie: Geni che sostengono uno scudo nelle nuvole e al basso la figura di un fiume, schizzo a matita rossa o sanguigna (in Giordani, Bops, Ms 1549, c. 17, tratto dal Cabinet de M.r Dijouval del Bernard, Parigi 1810). esistenti: Firenze, Uffizi, gabinetto disegni e stampe, inv.4176S, (n. 7a)

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7. Il piccolo san Giovanni Battista acquaforte, 101x90 mm (inciso) 108x97 mm (lastra) Pesaro, Collezione Licini bibliografia generale: Indice, 1766, pp. 77-78; Gori-Gandellini 1771, I, p. 218; GGDA. VII, XIII; B. 22; Nagler K-L, p. 410; LeBlanc n. 25; Petrucci 1938, p. 50; Emiliani n. 22; D’Abrosca 1975; Mancigotti 1975, p. 198, fig. 121; Bellini 1980, n. 2; TIB 22; Ambrosini Massari 1997b, p. 325 unico stato, antilettera dipinti: citazioni documentarie: Roma, collezione cardinale Domenico Maria Corsi, inventario 19,4,1698: un S. Giovanni con sua pecorella di palmi tre, e più, con cornice nera, e battente dorato mano di Simone Cantarino

8. La Fortuna acquaforte, II, 237x146 mm (inciso e lastra) Pesaro, Collezione Licini bibliografia generale: Malvasia I, p. 98; Gori-Gandellini 1771, I, p. 218; GGDA. VII, XXV; B. 34; Nagler K-L, p. 410; LeBlanc n. 33; Petrucci 1938, p. 54 n. 10; Emiliani n. 34; Bellini 1979, ed. 1983, pp. 56-57; Bellini 1980, n. 5; Prosperi Valenti 1989, n. 141; Ambrosini Massari 1997b, p. 307, 326 esposizioni: San Severino Marche 1987 stati: I: antilettera II: in basso a destra è scritto: “G. Renus in. et fec.”; minime variazioni di tratti e ombreggiature dipinti: citazioni documentarie: Parma, collezione Boscoli, Fortuna, con la precisazione “macchia” (Campori 1870, p. 392). disegni: citazioni documentarie: Bologna, collezione Malvasia (I, p.98). Malvasia I, p.98: La Fortuna in piedi sul globo, che versa la borsa piena di moneta, fatta a concorrenza di quella del suo Maestro, così fortunato, diceva egli; ed aggiuntovi misteriosamente Amore, che afferrandola per i capelli la tira; e della quale abbiamo noi due disegni: once 7. e mez. onc. 4. e mez. per dirit.

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9. Adamo ed Eva acquaforte, I, 200x173 mm (inciso e lastra) smarginata Pesaro, Collezione Licini bibliografia generale: Malvasia I, p. 98; Malvasia ed. 1983, p. 175; Indice, 1766, pp. 77-78; Gori-Gandellini 1771, I, p. 219; GGDA. VII, I; B. 1; Nagler K-L, p. 407; LeBlanc n. 1; Petrucci 1938, p. 42; 1953, n. 296; Emiliani n.1; Bellini 1980, n. 18; TIB 1; D’Amico-Faieti 1983, p. 66; Orlandini 1992, n.11; Cellini 1997, p. 165; Ambrosini Massari 1997b, p. 327 esposizioni: San Severino Marche 1987 stati: I: prima dei danni sulla lastra. II: accidentale segno nero nell’angolo inferiore sinistro della lastra dipinti: citazioni documentarie: un Adam et Eve figura nelle vendite d’arte francesi nel 1851 (Mireure 1902, p. 60). disegni: citazioni documentarie: Bologna, collezione Giovan Pietro Zanotti, (Malvasia I, p. 98, nota 3); Bologna, collezione conte Ulisse Aldrovandi, opuscolo 1833, n. 30, descritto dal Giordani (BOPS, ms 1549, c. 17): Altro similmente eseguito, che figura Adamo ed Eva, e a tergo uno studio per le medesime figure, da lui inciso. Nel 1855 un disegno descritto come Un jeune homme et une femme représentés debout è nei cataloghi di vendite francesi (Mireure 1902, p. 60). Malvasia I, p. 98: Eva in bel paese (3), che sedendo su un masso. porge con la sinistra il pomo ad Adamo volto a noi di schiena, a sedere in terra, e sostenendosi sul braccio destro, allungando la sinistra mano a prenderlo; dietro lui il serpente sull’arbore, che uno n’ha in bocca; un’aquila su un tronco presso di lui, e in lontanissima distanza due cavalli: onc. 6. e mez. gagl. onc. 5. e mez. scars. per dirit.

10. San Giovanni Battista nel deserto acquaforte, I, 165x166 mm (inciso), 171x170 mm (lastra) Pesaro, Collezione Licini bibliografia generale: Malvasia I, p. 99; ed.1983, p. 178; Indice, 1766, pp. 77-78. Gori-Gandellini 1771, I, p. 218; GGDA. VII, XIV; B. 23; Nagler K-L, p. 410; Le Blanc n. 26; Petrucci 1938, p. 50; Emiliani n. 23; Petrucci 1953, n. 308; Bellini 1980, n. 17; TIB 23; Orlandini 1992, n. 10; Ambrosini Massari 1997b, p. 328 stati: I: antilettera II: con un tratto obliquo sul piede e braccio sinistro e sul volto disegni: Madrid, Museo del Prado, inv.F.D.1710 (n. 13a) Malvasia I, p. 99: Il grazioso S. Gio. Battista in paese, sedente su un masso in faccia, presso ad una rupe, da cui uscendo acqua, ne prende entro la scudella con la sinistra, poggiata la destra, nella quale ha la Croce: onc. 5. e un quar. onc. 5. e un quar. per dirit. 162


11. San Sebastiano acquaforte, 193x128 mm (inciso e lastra) Pesaro, Collezione Licini bibliografia generale: Malvasia I, p. 98; Indice, 1766, pp. 77-78. Gori-Gandellini 1771, I, p. 218; Petrucci 1938, p. 50; GGDA. VII, XV; B. 24, Nagler K-L, p. 410; Le Blanc n. 27; Emiliani n. 24; Bertelà Ferrara n. 114; Petrucci 1953, n. 309; Mancigotti 1975, p. 199, fig. 122; Bellini 1980, n. 25; TIB 24; Ambrosini Massari 1997a, p. 246; Idem, p. 329 unico stato, antilettera dipinti: citazioni documentariei: Bologna, collezione Bovio, S.Sebastiano e un angelo (BOPS, Giordani, ms 1549, c. 21) disegni: Stoccolma, National konstmuseer, inv. NMH 1252/1863 Malvasia I, p. 98: Il S.Sebastiano in paese, legata la destra sopra il capo ad un arbore, e a cui un nudo Angelino in aria porta la corona, mostrando volergliela porre in capo, e nella destra la palma: onc. 6. e mez. onc. 4. per diritto.

12. Vergine incoronata acquaforte, I, 210x139 mm (inciso) 215x144 mm (lastra) Pesaro, Collezione Licini bibliografia generale: Malvasia, I, p. 99; Gori-Gandellini 1771, I, p. 218; GGDA. VII, XI; B. 21; Nagler K-L, p. 409; Le Blanc n. 21; Emiliani n. 21; Mancigotti 1975, p. 202, fig. 126; Bellini 1980, n. 28; Czére 1989, p. 102 con ill.; Birke-Kersétz 1995, p. 1394; Ambrosini Massari 1997b, p. 330; Idem 2009, p. 359, con ill, p. 356 stati: I: antilettera II: con la scritta in basso a destra: “S. C. da Pesare fe” III: è aggiunto un punto dopo “fe”. dipinti: citazioni documentarie: un dipinto con questo soggetto, In piccolo con Angeli è nell’inventario redatto dagli eredi Cantarini nel 1738 (Cellini 1997a, p. 124) disegni: iter collezionistico: Bologna, collezione Pasinelli, Assonta in piedi, tre teste di Seraffini, e due Puttini di lapis rosso ratto da Guido Reni per mano di Simone Cantarini; (inventario del 8 aprile 1707) Crozat, (Mariette 1741, 604); Vienna, Albertina, inv. 2468 Malvasia I, p. 99: Una B.V. come Assunta, sulle nubi, calcante con un piè la luna e le mani incrociate al petto; coronata da due Angeletti nudi, e in aria sulle nubi, e sotto tre teste di Serafinotti: onc. 6. e mez. gagl. onc. 4. e mez. per dirit. 163


13. Ratto di Europa acquaforte e punta secca, I, 228x318 mm (inciso e lastra) Pesaro, Collezione Licini bibliografia generale: Malvasia I, p. 98; Gori-Gandellini 1771, I, p. 218; GGDA. VII, XXI; B. 30; Nagler K-L, p. 410; Le Blanc 29; Rosenthal 1909, ill. 18; Petrucci 1938, p. 54 n. 10; Emiliani n. 30; 1959, pp. 30-31 n. 8; Bellini 1979, ed. 1983, pp. 56-57; Bellini 1980, n. 6; Bellini 1987, p. 76; Ambrosini Massari 1997a, pp. 247-248; Idem 1997b, p. 307, 331 stati: I: antilettera II: con la scritta in basso a destra: “G. Renus. in. et fec.” 164

disegni: Milano, Pinacoteca di Brera, inv. 49; Londra, British Museum, inv. 1856-7-12-8 recto e verso; collezione privata; Venezia, Museo Correr, inv. 1709; Vienna, Albertina, inv. 2470 citazioni documentarie: Bologna, collezione Giovan Pietro Zanotti (Malvasia I, p.98, nota 1) un disegno a matita rossa è citato nelle vendite d’arte francesi nel 1756, ritroviamo le stesse caratteristiche in un altro disegno citato nel 1773 (Mireure 1902, p. 60) Malvasia I, p. 98: La graziosissima, tanto giusta e ben tocca Europa rapita dal Toro (I), con concerti varii d’Amoretti scherzanti; mezzo foglio per traverso.


14. Riposo in Egitto acquaforte, 225x171 mm (inciso e lastra) Pesaro, Collezione Licini bibliografia generale: Malvasia I, p. 98; Gori-Gandellini 1771, I, p. 220; GGDA. VII, VI; B. 5; Nagler K-L, p. 408; Le Blanc n. 16; Petrucci 1938, p. 49; Emiliani n. 5; Petrucci 1953 n. 299; Bellini 1979, ed. 1983, pp. 56-57; Bellini 1980, n. 19; Tamassia 1981, p. 25; Orlandini 1992, 12; Bellini 1995, ill. p. 648; Ambrosini Massari 1997b, pp. 307-308, 333 esposizioni: Milano 1980; San Severino Marche 1987 unico stato, antilettera disegni: Firenze, Uffizi, inv. 4152S; Lockinge, Berkshire, C.L. Loyd collection; New York, Pierpont Morgan Library, inv. 1982.50 Malvasia I, p. 98: La B.V. in bel paese, sedente qui davanti in faccia con invoglio, cappello e fascia da un lato: porge con la sinistra datteri al Signorino, che sostiene con la destra nudo a sedere sulle ginocchia: S. Gioseffo a sedere in profilo e in distanza appoggiato con ambe le braccia ad un greppo, rimirando due Angeli vestiti più da lontano, uno de’ qualipiega le frondi ad una palma per coglierne: once 7. onc. 6. e un quar. per dirit.

15. Riposo in Egitto acquaforte, I, 209x169 mm (inciso e lastra) Pesaro, Collezione Licini bibliografia generale: Malvasia I, p. 98; ed. 1983, p. 178; Indice, 1766, pp. 77-78. Gori-Gandellini 1771, I, p. 219; GGDA. VII, II; B. 3; Nagler K-L, p. 408; Le Blanc n. 14; Petrucci 1938, p. 49; Emiliani n. 3, tav. 185d; Mancigotti 1975, p. 189, fig. 106; Bellini 1980, n. 23; TIB 3; Bruscaglia 1988, ill. 94; Ambrosini Massari 1997b, p. 334 stati: I: antilettera II: in basso al centro la scritta: “G. Renus in. et fec.”; completati tratti e ombreggiatura sul panneggio a sinistra del braccio della Vergine disegni: Firenze, Uffizi, gabinetto disegni e stampe, inv. 4150S (n. 18a); Parigi, Louvre, inv. 7078 Malvasia I, p. 98: Una B. V. in paese, che sedendo in terra col Bambino mezzo fasciato, che latta, risguarda con la testa volta in profilo a un Angelo, che con ambe le mani piega una palma, per coglierne frutti; rimirato da S. Gioseffo in distanza, a sedere anch’egli in terra: onc. 6. e mez. gagl. onc. 5 e mez. per dirit.

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16. Riposo in Egitto acquaforte, II, 174x264 mm (inciso) 180x271 mm (lastra) Pesaro, Collezione Licini bibliografia generale: Malvasia I, p. 98; ed. 1983, p. 178; Indice, 1766, pp. 77-78; B 6; Nagler K-L, p. 408; Le Blanc n. 17; Petrucci 1938, pp. 49 e 54, n. 15; Petrucci 1953, 298; Emiliani n. 6, tav. 190c; D’Abrosca 1975; Mancigotti 1975, p. 192, fig. 110; Bellini 1980, n. 30; TIB 6; Loire 1996, p. 109, fig. 38; Ambrosini Massari 1997b, p. 335 stati: I: antilettera. 166

II: con ritocchi a bulino sulle labbra della Vergine, sul suo manto e sul profilo di S. Giuseppe. dipinti: Parigi, Louvre, replica Malvasia I, p. 98: Un’altra similmente in paese, con frasca ben tocca, nella quale essendosi sforzato levarsi dal suo far gentile, e dare in un grande Carraccesco, è riuscito men grazioso del solito. Tiene il Puttino nudo con ambe le mani, che apre le braccia; da una parte San Gioseffo a sedere sotto arbori, che lo guarda; dall’altra un invoglio di panni in terra: onc. 8. gagl. onc. 5. e mez. gagl. per traverso.


17. Sant’Antonio da Padova acquaforte, III, 262x173 mm (inciso) 266x175 mm (lastra) Pesaro, Collezione Licini bibliografia generale: Malvasia I, p. 98; ed. 1983, p. 178; Indice, 1766, pp. 77-78; Gori-Gandellini 1771, I, p. 218; GGDA. XVI; B. 25; Nagler K-L, p. 410; Le Blanc n. 22; Petrucci 1953, n. 310; Emiliani n. 25; 1959, p. 31 n. 9; Bellini 1979, ed. 1983, pp. 56-57; Bellini 1980, n. 26; TIB 25; Emiliani 1992, p. 209; Ambrosini Massari 1995, p. 104; Cellini 1997, p. 204; Ambrosini Massari 1997b, p. 336 stati: I: antilettera e con un margine bianco n basso. II: in basso a sinistra, sopra il margine bianco è scritto: “Simone Cantarini In. e Fe. originale” III: in basso a destra, nel margine, è aggiunto: “Gio. Giacomo Rossi formis Romae alla Pace”. dipinti: Milano, Pinacoteca di Brera, in deposito nella chiesa di San Lorenzo; citazioni documentarie: Bologna, collezione Natali S. Antonio da Padova con angioli, figure intere al naturale, (Oretti, ms B 109, c. 108/10); Pesaro, inventario 1738, spartizione beni eredi Cantarini: tre quadri con Sant’Antonio da Padova (Cellini 1997, pp. 124-125). disegni: citazioni documentarie: Bologna, collezione Lorenzo Pasinelli, S. Antonio di lapis nero con Angeli, inventario 8, aprile 1707; Mariette 1741, n. 604; esistenti: Firenze, Uffizi, gabinetto disegni e stampe, inv. 4182S, inv. 4187S; Harlem, Tylers Museum, inv. D35; Milano, Pinacoteca di Brera, inv. 499; Napoli, Gallerie Nazionali di Capodimonte, inv. 655; Rio de Janeiro, Biblioteca Nacional, inv. A11, inv. A14; Stoccolma, Statens Konstmuseer, inv. NMH 1249/1863 Malvasia I, p. 98: Un S. Antonio di Padova, che genuflesso in profilo abbraccia e sostiene il Signorino voltogli similmente contro di profilo, e che l’accarezza con ambe le mani sotto il mento; assistito da due Serafini, con gloria d’Angeli sopra e tre vestiti, che graziosamente cantano a Coro: onc. 8. onc. 5. e mez. per dirit. rintagliato dal Curti a bolino e dedicato al P. Pittorino di S. Francesco.

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18. Riposo in Egitto acquaforte, I, 297x188 mm (inciso), misure della lastra non note Pesaro, Collezione Licini bibliografia generale: Malvasia I, p. 98; Gori-Gandellini 1771, I, p. 219; B 2; Nagler K-L, p. 408; Le Blanc n. 13; Petrucci 1938, p. 49; Emiliani n. 2; 1959, p. 28, n. 3; Mancigotti 1975, p. 187, fig. 105; Bellini 1979, ed. 1983, pp. 56-57; Bellini 1980, n. 22; TIB 2; Benati 1991, p. 145; Menaguale 1996, p. 45; Ambrosini Massari 1997b, p. 338 stati: I: antilettera prima dei ritocchi a bulino II: il ventre dell’Angelo a destra, la coscia sinistra e la schiena del bambino sono ombreggiati. Inoltre, sotto i due Angeli, compare un’ombreggiatura ottenuta con tratti orizzontali. III: in basso a sinistra nel margine la scritta: “G. Renus in. et fec.”. IV: in basso a destra, nel margine è aggiunto: “J. Robillart ex.”. dipinti: Milano, Pinacoteca di Brera disegni: Gallerie dell’Accademia di Venezia (inv. 698); Washington National Gallery of Art di (B 28, 645); Windsor Castle (RL inv. 3423). Malvasia I, p. 98: La Madonna sedente nel mezzo di bel paese col Puttino in grembo, sopra un cuscino, che a braccia aperte prende un dattero portogli da S. Gioseffo, che distro salito su un greppo, poggia l’altra mano sul tronco; duoi Angeletti nudi dall’altre parte in aria, che s’affaticano a chinar le frondi della palma: onc. 10. Onc. 7 scars. Per dirit.

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19. Vergine col bambino e l’uccellino acquaforte, I, 209x144 mm (inciso) 219x148 mm (lastra) Pesaro, Collezione Licini bibliografia generale: Malvasia I, p. 98; Indice, 1766, pp. 77-78. Gori-Gandellini 1771, I, p. 219. GGDA. VII, IX; B. 18; Nagler K-L, p. 409; Le Blanc N. 11; Voss 1924, p. 516; Emiliani n. 18; Petrucci 1953, 305; D’Abrosca 1975; Bellini 1980, n. 4; TIB 18; Emiliani 1997, XLV-XLVI; Ambrosini Massari 1997b, p. 340; Idem 2009, p. 370 con ill. p. 371 esposizioni: San Severino Marche 1987 stati: I: con un margine bianco di 7 mm in basso II: con ritocchi nel velo della Vergine e più ombreggiature dipinti: citazioni documentarie: Malvasia II, p. 172; Malvasia I, p. 98: La B.V. a sedere, che con lamano sotto la guancia contempla il Signorino, che con un filo tiene la rondinella che mira; sul gusto del maestro Guido, massime ne’ panni così grandoni e facili: onc. 7. onc. 4. e mez. gagl. per dirit.

20. Vergine col bambino acquaforte, II, 145x117 mm (inciso e lastra) Pesaro, Collezione Licini bibliografia generale: Malvasia I, p. 99; GGDA. VII, VIII; B. 17; Nagler K-L, p. 409; Le Blanc n. 10; Emiliani n. 17; Bellini 1980 n. 24; TIB 17; Ambrosini Massari 1997b, p. 341 stati: I: antilettera II: con la scritta in basso a destra: “S. C. da Pesare fe” Malvasia I, p. 99: Una Madonna sulle nubi in faccia, che tiene il Bambino nudo in pedi, postagli una mano al fianco e l’altra sotto il piede, ed egli le ha gettato un braccio al collo; sotto le nubi Angeletti, due de’ quali l’adorano con le mani giunte, discorrendo fra di loro: onc. 4. e mez. onc. 3. e mez. per dirit. (2). La medesima rintagliata più grande, cioè onc. 8. onc. 6. e mez. per diritto, dal franco bolino di Mariette, ed aggiuntavi la camicia al Puttino, che in quella del Pesarese è nudo, e attribuita a G. R. invent. sotto: O homo, ne avertas etc.

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21. Giove, Nettuno e Plutone fanno omaggio delle loro corone alle armi del Cardinale Borghese acquaforte, II, 312x436 mm (inciso) 315x440 mm (lastra) Pesaro, Collezione Licini bibliografia generale: Malvasia I, p. 97; Oretti ms B 128, c. 442; Gori-Gandellini 1771, I, pp. 217; GGDA. VII, XX; B. 29; Nagler K-L, p. 407; Le Blanc n. 37; Petrucci 1938, p. 54 n. 10; Emiliani n. 29; 1959, p. 38; Mancigotti 1975, p. 184, fig. 101; Bellini 1980, n. 35; TIB 29; Prosperi Valenti 1989, n. 143; Orlandini 1992, 17; Cellini 1996, p. 116, fig. 21, p. 118; 1997, p. 161, p. 170; Ambrosini Massari 1997b, p. 309, 343; Eadem 2009, p. 340 stati: I: armi del Cardinale Borghese nello stemma e emblema della famiglia Fantuzzi nel cartiglio in basso (un elefante sormontato da una torre) II: il cartiglio in basso è vuoto: è stato abraso l’interno III: anche la cornice del cartiglio è stata abrasa IV: abrase anche le armi Borghese disegni: citazioni documentarie: un disegno con Giove e Plutone a matita rossa è menzionato nella collezione 170

bolognese Aldrovandi nel 1782 (in Colombi Ferretti 1992, p. 131) come copia da Simone da Pesaro; un altro disegno, sempre a matita rossa, ma con diverso stemma, è stato pubblicato di recente da Anna Maria Ambrosini Massari 2009, p. 340 Malvasia, I, p. 97: La conclusione fatta del 1633, per la sostenuta dal sig. Dottor Fantuzzi, contenente le tre Deità principali; cioè Giove sul carro tirato dall’ Aquile; Plutone da’ cavalli, che spirano fuoco e ch’escono dalle fiamme; e Nettuno in mare su una conchiglia condotta da’ cavalli marini e corteggiato da graziosissimi Trtoni e Naiadi, e che tutti e tre levatasi di capo la propria corona, ne fanno cortese offerta, per triplicatamente coronarne l’arme del Cardinal Borghese, a cui fu dedicata e che comparisce in cielo, non con altro corteggio che di cinque puttini sostenenti uno il Cardinalizio Cappello, e gli altri quattro li quattro simboli delle quattro Virtù Cardinali, cioè lo Specchio, la Serpe, la Bilancia, la Colonna, e i due vasi; taglio del più gentile, ma scientifico disprezzo, che mostrar possa con l’acqua forte bravo Maestro, e venduta gran tempo per di Guido: onc. 14 onc. 12 per trav.


22. Mercurio e Argo acquaforte, II, 256x300 mm (inciso) 260x305 mm (lastra) Pesaro, Collezione Licini bibliografia generale: Malvasia I, p. 98; Indice, 1766, pp. 77-78; Gori-Gandellini 1771, I, p. 220; GGDA. VII, XXII; B 31; Nagler K-L, p. 420; Le Blanc n. 30; Petrucci 1938, p. 50; Petrucci 1953, n. 312; Emiliani n. 31; D’Abrosca 1975; Mancigotti 1975, p. 204, fig. 132; Bellini 1980 n. 37; Prosperi Valenti 1989, n. 144; Duckers 1994, p. 285; Ambrosini Massari 1997b, p. 345; Idem 2009, pp. 366-368 stati: I: antilettera II: con la scritta, in basso verso destra: “Gio. Jacomo Rossi formis Romae alla Pace” dipinti: Stocholm, National Kunstmuseer, copia; citazio-

ni documentarie: Bologna, collezione Cattalani, un pastore che suona il liuto, forse soggetto connesso, nell’inventario del 13, febbraio 1668 (Morselli, in corso di pubblicazione) Collezione Aldrovandi, Mercurio e Argo, copia dall’incisione (Oretti ms b104, b 3/18 in CalbiScaglietti 1984, p. 56) disegni: citazioni documentarie: Mariette 1741, n. 606; un disegno a penna è negli elenchi di vendite in Francia nel 1857 (Mireure 1902, p. 60) Malvasia I, p. 98: Il tanto ben inteso, e corretto Argo, che sedente nudo in terra da un lato, ascolta Apollo, che similmente in forma di nudo pastorello sedendo nel mezzo su un masso, sotto arbori bellissimi, poggiata una gamba sul bastone, gentilmente tocca il flauto, per oddormentarlo; ascoltato dall’altra parte da un cane in molto bello e pittorico paese: onc. 9. e mez. onc. 8. e un quar. per trav. 171


23. Sacra famiglia con santa Elisabetta e san Giovannino acquaforte, II, 124x192 mm (inciso e lastra) Pesaro, Collezione Licini bibliografia generale: Malvasia, I, p. 99; B. 10; Nagler K-L, p. 409; Le Blanc n. 3; Petrucci 1938, p. 50; Emiliani n. 10; Bellini 1980 n. 21; Di Giampaolo 1993, p. 102; Maz-

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za 1995, p. 93, fig. 7; Ambrosini Massari 1997a, p. 154, p. 159; Idem 1997b, p. 346 esposizioni: San Severino Marche 1987 stati: I: antilettera. II: con la scritta in basso al centro: “G. Renus. in. et fec.” e in basso a destra “J. Robillart ex.” disegni: Zanotti in Malvasia , I, p. 99 nota 1.


24. Sacra famiglia con Gesù bambino addormentato, sant’Elisabetta e san Giovannino acquaforte, 130x182 mm (inciso e lastra) smarginata Pesaro, Collezione Licini bibliografia generale: Malvasia I, p. 99, n. 2; Indice, 1766, pp. 77-78; B. 9; Nagler K-L, p. 409; Le Blanc n. 2; Petrucci 1938, p. 50; Petrucci 1953, n. 303; Emiliani n. 9; 1959, p. 28 n. 4; Bellini 1979, ed. 1983, pp. 56-57; Bellini 1980 n. 11; Di Giampaolo 1993, p. 102; Ambrosini Massari 1997a, p. 154, p. 159; Idem 1997b, p. 347 unico stato: senza alcuna scritta e con una linea margi-

nale incisa tutt’intorno. disegni: Milano, Pinacoteca di Brera, inv. 94; Venezia, Gallerie dell’Accademia, inv. 701 Malvasia I, p. 99: La famiglia Santa (I); cioè in paese pittorico la B.V. a sedere in profilo presso ad un arbore, sostenente colle mani insiem serrate il Signorino nudo, verso di noi sedente sulle ginocchia: di rincontro a lei S. Anna, che volta di profilo, appoggiata col braccio sinistro su un masso alza la destra, e dietro lei S. Gioseffo a sedere di dietro in mezzo a tutti, sbattimentato affatto; postosi il dito alla bocca, cenna che s’accheti: onc. 6. once 4. per trav. 173


25. Riposo in Egitto acquaforte, 157x197 mm (inciso e lastra) Pesaro, Collezione Licini bibliografia generale: Malvasia I, p. 99; Gori Gandellini 1771, I, p. 219; GGDA. VII, III; B. 4; Nagler K-L, p. 408; Le Blanc n. 15; Petrucci 1938, p. 49; Petrucci 1953, n. 297; Kurz 1955, pp. 83-84, n. 35; Emiliani n. 4, tav. 190b; Mancigotti 1975, p. 189, fig. 108; Bellini 1980 n. 15; Ambrosini Massari 1997b, p. 348 174

unico stato, antilettera disegni: Windsor Castle, inv. RL 3426 Malvasia I, p. 99: Un’altra a sedere in paese sotto due arbori, che di profilo tiene il Signorino tutto nudo e colle gambe aperte sulle di lei ginocchia; S. Gioseffo a sedere presso di lei le cenna colla sinistra, sbattimentato in bel paese e contro loro, nel cantone qui davanti l’asino che pasce, sbattimentato, vedendosi la testa solo e le due gambe davanti: onc. 6. e un quar. onc. per trav.


26. Il piccolo sant’Antonio da Padova acquaforte, 80x60 mm (inciso), 83x63 mm (lastra) Pesaro, Collezione Licini bibliografia generale: Malvasia I, p. 100; Indice, 1766, pp. 77-78. Gori-Gandellini 1771, I, p. 220; GGDA. VII, XVII; B. 26; Nagler K-L, p. 410; Le Blanc n. 23; Petrucci 1953, n. 311; Emiliani n. 26; Bellini 1980 n. 20; TIB 26; Ambrosini Massari 1995, p. 104; Cellini 1997, p. 203; Ambrosini Massari 1997b, p. 349 esposizioni: San Severino Marche 1987 unico stato, antilettera disegni: Milano, Pinacoteca di Brera, inv. 70 Malvasia I, p. 100: Un S. Antonio da Padova, che presso un Altare genuflesso sulla predella, ove sta steso il giglio, in faccia verso di noi, con ambe le braccia sostenuto il Signorino nudo, lo contempla: onc. 2. e 3. quar. onc. 2. per dirit. (2).

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27. Riposo in Egitto acquaforte, 80x123 mm (inciso, ottagonale) 83x125 mm (lastra, rettangolare) Pesaro, Collezione Licini bibliografia generale: Malvasia I, p. 99; Gori-Gandellini 1771, I, p. 220; B. 7; Nagler K-L, p. 408; Le Blanc n. 18; Petrucci 1938, p. 49; Petrucci 1953, 300; Emiliani n. 7; Bodart 1975, p. 164; Mancigotti 1975, p. 194, fig. 113; Bellini 1980 n. 16; TIB 7; Colombi Ferretti 1992, p. 122, fig. 103; Loire 1996, p. 109, fig. 39; Ambrosini Massari 1997b, p. 350 esposizioni: Milano 1980; San Severino Marche 1987 176

unico stato, antilettera dipinti: Parigi, Musée du Louvre (scheda n.); citazioni documentarie: inventario beni famiglia eredi Cantarini, Pesaro 1738 (Cellini 1997a, p. 124) disegni: Besancon Musée des Beaux Arts, inv. 2238v.; Firenze, Uffizi, deposito del Museo Horne, inv. 6215H; Milano, Pinacoteca di Brera, inv. 89 Malvasia I, p. 99: Un’altra più fiera con invoglio in capo, ma l’istesso Puttino; dall’altra parte San Gioseffo steso presso una macchia, dorme con la mano sotto la gota, e lontananza di paese, forma ottangola per traverso: onc. 4. onc. 2. e mez. per trav.


28. Riposo in Egitto acquaforte, 83x130 mm (inciso) 86x133 mm (lastra) Pesaro, Collezione Licini bibliografia generale: Malvasia I, p. 99; B. 8; Nagler K-L, p. 408; Le Blanc n. 19; Petrucci 1938, pp. 49 con ill. e 54, n. 14; Petrucci 1953, n. 301; Emiliani n. 8; 1959, p. 28, n. 3; Bellini 1980 n. 7, Ambrosini Massari 1997b, pp. 350-351 esposizioni: Milano 1980 unico stato, antilettera

dipinti: Parigi, MusÊe du Louvre disegni: Besancon MusÊe des Beaux Arts, inv. 2238v.; Firenze, Uffizi, deposito del Museo Horne, inv. 6215H; Milano, Pinacoteca di Brera inv. 52; inv. 508; Malvasia I, p. 99: Una Madonna a sedere in paese, in profilo, che tien sulle ginocchia il Signorino, del quale poco altro si vede, essendo in iscorto; dall’altra parte in distanza S. Giuseppe in faccia, che legge un libro, che tiene con ambe le mani, di pochissimi segni: onc. 4. gagl. onc. 2. e mez. gagl. per trav.

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29. Sacra famiglia con san Giovannino acquaforte e bulino, 158x223 mm (inciso), 160x225 mm (lastra) Pesaro, Collezione Licini bibliografia generale: Malvasia I, p. 99; GGDA. VII, V; B. 11; Nagler K-L, p. 409; LB. 4; E. 11; BF. 90; Petrucci 1953, 302; D’Abrosca 1975; Mancigotti 1975, p. 195; Bellini 1980, n. 8; Bellini 1987, p. 37, fig. 7; Bellini 1992, p. 15; Ambrosini Massari 1997a, p. 223; Idem 1997b, p. 352 unico stato, antilettera, con ritocchi a bulino. 178

disegni: Milano, Pinacoteca di Brera, inv. 124r; inv. 508; Parigi, Louvre, inv. 7079bis. Malvasia I, p. 99: Un’altra a sedere similmente in paese, che sostenendo a sedere su un ginocchio il Signorino in profilo, con ambe le mani accarezza S. Giovannino, che ginocchioni, fattosi delle braccia Croce al petto, l’adora, mentre da lontano sedendo S. Gioseffo presso a certi arbori ben tocchi e leggendo un libro, che sostien con la destra, con la sinistra si fa ombra agli occhi per ben leggere: onc. 7. gagl. per trav. poco bene impressa.


30. Sacra Famiglia con il rosario acquaforte, I, 128x85 mm (inciso) 131x88 mm (lastra) Pesaro, Collezione Licini bibliografia generale: Malvasia I, p. 99; Gori-Gandellini 1771, I, p. 221; B. 13; Nagler K-L, p. 409; Le Blanc n. 6; Bellini 1980, n. 32; TIB 13; Petrucci 1938, p. 53; Emiliani n. 13; Bellini 1980 n. 32; 1987, p. 54; Cellini 1996, p. 114; Ambrosini Massari 1997b, p. 353, Idem in Federico Barocci 1535-1612…, 2009, pp. 398-399 stati: I: con la scritta in basso a destra: “S.C. da Pesare fe”. II: segno evidente diagonale sul muro in basso, altro più lieve sopra la firma dipinti: Roma, Palazzo Colonna, Palazzo Venezia disegni: Firenze, Uffizi, Album Horne, gabinetto disegni e stampe, in deposito del Museo Horne, inv. 6195H; Budapest, Szépmuvészeti Muzeum, inv. 2440, copia Malvasia I, p. 99: Un’altra della stessa grandezza a sedere in profilo, col Puttino a sedere in grembo di rincontro; e che con una ano stringe un dito a quella della B.V. San Gioseffo a un tavolino legge un libro; un vaso sopra una finestra e un panno: S.C. da Pesaro fe.

31. Sacra famiglia con san Giovannino acquaforte e bulino, 130x82 mm (inciso e lastra) Pesaro, Collezione Licini bibliografia generale: Malvasia I, p. 99; Gori-Gandellini 1771, I, p. 219; GGDA. VII, VI; B. 12; Nagler K-L, p. 409; Le Blanc n.5; E.miliani n.. 12; Bellini 1980, n.31; TIB 12; Orlandini 1992, 14; Ambrosini Massari 1997b, p. 354 unico stato, recante in basso a sinistra la scritta: “S. C. da Pesare fe”. disegni: Budapest, Szépmuvészeti Muzeum, inv.58.1020, copia; Malvasia I, p.99: Una B.V. sedente col Bambino nudo in piedi, che appoggiata la faccia alla sua, lo bacia; S.Gioseffo con la mano sotto la guancia lo guarda, e S. Giovannino. S.C. da pesaro fe.onc. 2. e mez. gagl. per diritto.

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32. Cristo caduto sotto la croce acquaforte, 122x200 mm (inciso e lastra) bibliografia generale: Malvasia, I, p. 98; ed. 1983, p. 178; Gori-Gandellini 1771, I, p. 218; GGDA. VII, XII; B. 20; Nagler K-L, p. 409; Le Blanc n. 20; Petrucci 1938, p. 54 n. 10; Emiliani n. 20; Bellini 1980, n. 13; Bellini 1987, p. 47; Ambrosini Massari 1997b, p. 355 unico stato, antilettera dipinti: citazioni documentarie: Bologna, collezione Pasinelli, Un Christo portante la croce con un Manigoldo, inventario 4,8,1700, Morselli, in corso di pubblicazione; 180

Pesaro, collezione Bonamini, un Cristo caduto sotto la croce (ASPS, Notaio Perotti Luigi, inventario Bonamini, 30 giugno 1828, c. 480) disegni: citazioni documentarie: Bologna, collezione Beroaldi, disegno a lapis rosso di un Xpo (sic) Caduto in terra con la croce, inventario del 15, gennaio 1695 (Morselli, in corso di pubblicazione); collezione Zanotti, un disegno a matita nera Malvasia I, p. 98: Il Signore caduto in terra in portar la Croce (2), sostenuta da un manigoldo, con veduta di villaggio in distanza: onc. 6. e tre quar. onc. 4. per trav.


33. Venere e Adone acquaforte, I, 117x175 mm (inciso e lastra) Pesaro, Collezione Licini bibliografia generale: Malvasia I, p. 100; Indice, 1766, pp. 77-78; Gori-Gandellini 1771, I, p. 220; GGDA. VII, XXIV; B. 33; Nagler K-L, p. 410; Le Blanc n. 32; Emiliani n. 33; Servolini s.d.; ill. p. 37; D’Abrosca 1975; Mancigotti 1975, p. 203, fig. 129; Bellini 1980 n. 12; TIB 33; Ambrosini Massari 1997a, p. 245; p. 257; Idem 1997b, p. 356

stati: I: antilettera II: in basso la scritta: “G. Renus in. et fec.”. dipinti: citazioni documentarie: Pesaro, famiglia Cantarini, un dipinto con Venere, Adone e un amorino, inventario 1738, (Cellini 1997a, pp. 125). Malvasia I, p. 100: Venere e Adone a sedere nudi su un masso in paese, e Amore in ginocchioni, appoggiato sul ginocchio di Adone, coll’asta in mano e il cane che riposa, di pochissimi, ma graziosi segni: onc. 5. onc. 3. e 3. quar. per trav.

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BIBLIOGRAFIA GENERALE

a cura di Maria Maddalena Paolini

Fonti manoscritte

Visita pastorale De Simone, 1778, Pesaro, Archivio Diocesano

B. Borgarucci, Istoria della nobiltà di Fano, (sec. XVII), Fano, Biblioteca Federiciana, Ms Amiani 35; ed. a cura di A. Deli 1994

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Finito di stampare nel mese di giugno 2012 presso la Grapho 5, Fano


DIREZIONE REGIONALE PER I BENI CULTURALI E PAESAGGISTICI DELLE MARCHE SOPRINTENDENZA PER I BENI STORICI ARTISTICI ED ETNOANTROPOLOGICI DELLE MARCHE

Diocesi di Fano Fossombrone Cagli Pergola

Museo Archeologico e Pinacoteca del Palazzo Malatestiano

Fano per Simone Cantarini Genio ribelle 1612

Sotto l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica

2012

REGIONE MARCHE

Provincia di Pesaro e Urbino

Comune di Fano


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