Il mio grazie a voi, amati lettori, per l’entusiasmo e l’affetto con cui mi seguite: siete l’anima della mia penna, come amo sempre dire! Grazie al mio agente che, con tenacia e pazienza, ha deciso di credere in me sostenendomi in questa meravigliosa avventura che è la scrittura e tutto ciò che ruota attorno ad essa. Infine, un grazie di cuore ai miei cari, agli amici e a chi sopporta gli imprevedibili attacks of writing da cui spesso vengo colta in situazioni fuori dalla norma! E, come sempre, grazie alla mia tenacia che nulla teme e tutto ha la forza di affrontare. Desy Giuffrè
口渴
Vorrei presentarmi, ma non posso. Di solito, ci si presenta quando si ha un nome, un’età, un luogo di appartenenza… una vita. Una storia da raccontare. Ecco, io non ho nulla di tutto questo. Il mio volto ha oltrepassato i ricordi del fiume di vite che ho vissuto, -se di vita si può parlare- divenendo infine una sagoma dai contorni indefiniti, uno sbiadito schizzo di emozioni. Al contrario di me, però, il mio nome ha una sua storia da rivelare: un suo percorso, un suo significato. Ed è per questo che sono qui, desiderosa di poter dare un senso ad ogni goccia di sangue che ho versato. Che ho bevuto. E con le quali ho brindato alla mia eterna condanna. Vi presento, dunque, Sete. Colei che cambiò il destino dei Senza
Sangue.
月光
QUANDO LO RIVIDI
口渴 月光 Da ogni germoglio nasce un albero con molte fronde. Ogni fortezza si erige con la posa della prima pietra. Ogni viaggio inizia con un solo passo. Lao Tzu
Il primo giorno di scuola dell’anno in cui lo rividi, un cielo terso e un’aria afosa vestivano Firenze, la mia città. Non mi sentivo affatto tranquilla. Sapevo che sarebbe accaduto qualcosa, dopo tanto tempo di forzata e opprimente noia. Ma non potevo immaginare quale sarebbe stato l’elemento base che avrebbe letteralmente sconvolto la mia esistenza. Aimè, il dono della lettura del futuro non ha mai fatto parte delle mie particolari doti… eppure, una frizzante e inebriante onda energetica investiva la mia spina dorsale come mai prima d’allora. Da rituale, spazzolai lentamente i miei lunghi capelli lisci e corvini davanti al piccolo specchio dalla cornice ovale, posto sopra la mia scrivania
colma di cianfrusaglie. Decisi di legarmeli in delle basse code che scivolavano morbidamente lungo le mie spalle lasciate un po’ scoperte da una maglietta color lavanda. Jeans bianchi, non a vita bassa: non ho mai amato seguire con molta cura la moda. Però, sono sempre andata matta per le zeppe vertiginosamente alte, così ne indossai un paio dalle rifiniture turchesi. Ricordo perfettamente, come se fosse oggi, che mi guardai con più attenzione del solito allo specchio, prima di uscire dalla mia camera. Il mio volto, per assurdo, appariva più diafano e pallido del solito: gli occhi a mandorla erano orlati da peste ombre violacee, sebbene cercassi di mascherare i vivi segni della mia oscura natura attraverso fondotinta tanto costosi da far girare la testa. Tutto sommato, sembravo carina. Non ho mai prestato particolare attenzione al mio aspetto fisico, ma ho sempre saputo, in fondo, di non essere poi così male. Almeno, non quando il buonumore sembrava bussare alle mie giornate. Il che capitava piuttosto di rado da parecchio tempo. Scesi in un lampo le malconce scale che collegavano la piccola soffitta adibita a mo di rifugio dal mondo esterno- al resto del modesto appartamento al quarto piano che io e mia madre occupavamo già da quattro anni. Amanda, mia madre appunto, amava l’arte dei traslochi: fare e disfare bagagli, imballare e svuotare scatoloni, dipingere le pareti delle camere, organizzare tutto l’armamentario che ci portavamo dietro adeguandolo
alle esigenze della nuova abitazione. Ha sempre trovato interessante e soddisfacente tutto quel che io, invece, considero privo di utilità e a dir poco noioso. Oltre che snervante, vista la mia precaria mania dell’ordine. Era inevitabile che, ad ogni trasloco, perdessi sempre qualcosa a cui tenevo. Ma oramai vi ero abituata, quindi non ne feci un dramma quando scoprii di aver perduto la mia collezione di conchiglie. Collezionare qualcosa è uno dei passatempi migliori per chi ha l’eternità innanzi a sé: sai che alla tua ricerca non ci sarà mai fine e speri di aggiungere ai tuoi gingilli un esemplare raro ogni qualvolta ne hai l’occasione. Pazienza. Decisi di ricominciare la mia collezione appena terminato anche quell’ultimo anno scolastico, e ci fossimo trasferite nella prossima città. Era stato deciso per Londra, e ne ero veramente felice, perché ci avrebbe dato la possibilità di rivedere Iriza e il suo clan di sette scatenati vampiri rompiscatole, tanto simpatici quanto pericolosi. «Julia?». Era davvero singolare il fatto che Amanda riuscisse a chiamarmi con tanta facilità utilizzando i diversi nomi di cui dovevo appropriarmi nel corso del tempo e durante le varie identità assunte. «Mamma, eccomi. Sei stata fuori stanotte... Di solito avvisi prima di uscire».
«Prendo esempio da te. Di solito non avvisi mai quando decidi di trascorrere la notte fuori casa». Ricordo che, a questa sua affermazione, susseguirono alcuni minuti di profondo e imbarazzante silenzio. Cos’avrei dovuto risponderle? Forse la verità. Sì, credo che quello sarebbe stato il momento migliore per spiegarle che la notte sono sempre riuscita a sentirmi... bene. A mio agio. In totale sintonia con tutto ciò che mi circonda. E, solo allora, libera dai lacci della mia condanna. Le ombre mi sono da sempre amiche, le tenebre… sorelle. Sì, avrei dovuto dirle almeno questo. Eppure non lo feci. «Ti senti pronta per il grande giorno?». «Di cosa parli? Del primo giorno di scuola?». Mi guardava con espressione incredula, spalancando i grandi occhi di un caldo nocciola. «Del primo giorno dell’ultimo anno, ovviamente. Non ti dispiacerà lasciare i tuoi compagni? Mi sembra d’aver capito che ti sia legata particolarmente ai giovani incontrati in questa città. O sbaglio?». Come sempre, si sbagliava. È bene evidenziare la particolare capacità di mia madre nel non aver capito mai nulla dei miei problemi, dei miei disagi, e tantomeno della profonda afflizione che il terrificante passato, di cui eravamo entrambe state protagoniste, ha causato alla mia misera
esistenza. L’indicibile dolore che mi ha accompagnata per secoli, logorando i miei giorni fino a divenire parte di me stessa, sembra esserle passato inosservato. In tal modo, è riuscita a risparmiarsi la pena di dover vedere la propria figlia totalmente distrutta da una sofferenza più grande del possibile, e a far finta che nulla fosse mai accaduto. Spesso ammetto di averla profondamente invidiata per il suo modo di reagire ai terribili eventi che hanno sconvolto la nostra esistenza, a tal punto da renderci schiave del tempo e dei ricordi. «Semplicemente… non credo che loro sentiranno molto la mia mancanza. Mi meraviglia la tua domanda, sai bene che non amo legare con nessuno». Al contrario di lei, ovviamente. Sarà stato uno dei miei innumerevoli difetti, ma preferivo non dover dire addio a nessuno ogni qualvolta lasciavamo una città, e poi … non ho mai amato i saluti. Così, in realtà, godevo al solo pensiero di starmene cupa e silenziosa per i fatti miei, libera di poter osservare indisturbata tutto quel che mi circondava e di poterlo analizzare sotto ogni punto di vista. «Vado. Preferisco fare due passi, prima che inizino le lezioni». «Ma non sono neanche le sette!». Non le permisi di terminare la frase chiudendo la porta alle mie spalle. In fondo, però, dovetti ammettere a me stessa che qualcosa mi sarebbe mancato. E molto.
La città. Firenze è a dir poco… Magica, con le luci notturne dei lampioni che si riflettono sull’asfalto antico e profumato di vita, dei sogni e delle speranze, dei pianti e del dolore di tutti coloro che hanno posto il loro passo su esso. Misteriosa, con le sue mura che racchiudono le opere dei geni di questa terra, rendendola madre dell’Arte e donna assetata di visitatori. Segreta, coi suoi vicoli stretti e bui che nascondono innamorati, ladri, assassini e gattini indifesi. Con i pagliacci che girano per le strade cercando di donare un sorriso ai passanti, mentre dietro il gessoso biancore delle loro maschere cercano di celare una lacrima che scende silenziosa. Incantevole, con i colori caldi e fantasiosi di un cielo fuso nel morbido sciabordio delle acque, attraverso la visuale che un ponte può regalare. Mia. Sì, sin dal primo istante in cui io e mia madre giungemmo in questa città, ebbi una specie di premonizione. Il mio freddo e immobile cuore ha sentito che qualcosa, o qualcuno, tra quelle mura antiche e splendide, avrebbe cambiato la nostra vita. E giunsi con questa aspettativa e convinzione, fino a quel giorno. Fino al primo giorno di scuola del mio ultimo anno di liceo da trascorrere in Italia. Più mi avvicinavo all’istituto assaltato da una mandria di selvaggi adolescenti in jeans con tanto di lacca e gel sui capelli, più la gola mi si
serrava in una morsa difficile da spiegare. Era come se sentissi di stare per incontrare il peggior nemico da dover affrontare e, al contempo, fremessi dal desiderio di ritrovarmi faccia a faccia con lui. Non avevo affatto capito di dovermela vedere con i fantasmi del passato. Giunsi di fronte la porta bianca con su appeso il cartellino della mia sezione: III A. Tirai un profondo sospiro e decisi, infine, di varcare la soglia del mio prossimo inferno. Già le vacanze estive mi mancavano terribilmente. Ma la condanna degli emarginati, degli esclusi dai branchi compatti di ragazzi sempre uguali, oserei dire prestampati -a causa del loro modo di pensare e atteggiarsi-, può divenire un vero e proprio paradiso per chi, come me, ama osservare il mondo dall’esterno, decidendo di mantenere la propria stabilità mentale ben salda in testa, anziché riempire quest’ultima di farfalle e grilli vuoti. Nel mio caso, comunque, il fatto di non essere mai stata apprezzata dai miei coetanei, si è rivelato un punto notevole a mio vantaggio: più è alto il mio tasso di solitudine, minori sono le possibilità che qualcuno rimanga vittima della mia sete. E devo inoltre ammettere che tale distacco nei miei confronti sia sempre stato fortemente causato dal mio bizzarro e lunatico comportamento: difficilmente piacciono le ragazze sulle cui labbra non compare mai un sorriso, i cui voti sono sempre i più alti di tutto l’istituto e dalla quale l’aggettivo “logorroica” è in assoluto il più lontano d’attribuire.
Se mi si chiedesse però una minuscola motivazione per cui debba ringraziare la mia eternità, risponderei immediatamente e senza esitare: l’aver potuto vedere, nel corso dei secoli, la difficile e pericolosa ascesa della donna nel mondo. Ricordo che, già seduta dietro il banco centrale dell’ultima fila, quella mattina ripensai alla grandiosità dell’Impero Cinese, la mia terra d’origine, sotto il regno dell’Imperatrice Wu. Si era nel settimo secolo dopo Cristo, periodo in cui ero ancora una semplice e splendida umana. La sua determinata forza nel volersi ribellare alle terribili leggi con cui Confucio aveva deciso di schiacciare la donna sotto un dominio che le rinnegava l’alfabetizzazione, la libertà di parola, e la rendeva oggetto di schiavitù nei confronti dell’uomo, della famiglia, degli anziani, della sua stessa vita… mi rendeva orgogliosa di essere una donna cinese. Il suo volersi porre al pari di un uomo, in una società dove il titolo e le prerogative dell’Imperatore erano unicamente concesse alla figura maschile, dipinse la sua immagine delle forme più crudeli e mostruose. Ma… come non pensare, ad oggi, che il suo sia più che altro stato un rabbioso
tentativo
di
affermazione
del
moderno
femminismo,
atteggiamento tipico di chi è stato sottoposto a secoli di sottomissione?
Nella lunga attesa che le cose mutassero, ho avuto l’immenso piacere di poter assistere in prima persona, tappa dopo tappa, a questo radicale cambiamento. Bé, se non fossi stata un vampiro, non avrei mai potuto assaporare questa piccola, grande vittoria. I miei pensieri però, vennero interrotti bruscamente dall’arrivo dei miei compagni di classe. Otto ragazze -me esclusa- e otto ragazzi, dei quali ho potuto assistere alla crescita e allo sviluppo sia mentale che fisico, nei cinque anni di liceo che mi hanno legata a loro… in un modo o nell’altro. Ed eccoli, mentre camminavano allegramente, quasi saltellando con i loro zaini mezzi vuoti in spalla, entrare con aria baldanzosa e sghignazzando come anatre in uno stagno. La mia carnagione giallastra, seppur quasi oramai del tutto sbiadita nel pallore lunare tipico della natura da bevitori di sangue, continuava a contraddistinguersi tra il roseo colorito degli occidentali, facendomi apparire stonante come un fiore di papavero in un campo di grano. Francesca -una stangona dalla pelle color cioccolato grazie alle ultime vacanze estive appena trascorse, capelli ramati, mossi e lunghi fino ai gomiti, e un paio d’occhi verdi nascosti da una montatura glamour di occhiali da sole- mi osservava con aria superiore e una nota di compassione che m’infastidiva terribilmente. Quanto avrei voluto poter
affondare i miei denti forti e affilati nella tenera carne del suo esile e gracile collo da umana. E così, simili alla sua espressione, ricordo quella di Daniela, Giorgia, Eleonora, Paolo, Stefano e Roberto: membri di una giovane tribù di balordi pronti a gettare nel cupo pozzo della disperazione il primo, fragile elemento che avrebbe incrociato il loro cammino. Mentre tutti prendevano velocemente e con molta confusione i loro posti, estraevo dal mio zaino il clarinetto da utilizzare durante il breve spettacolo che si sarebbe tenuto prima della pausa pranzo, come buon augurio d’inizio anno scolastico. Non sono mai stata una cima di bravura in Musica, nonostante me la cavassi egregiamente persino in questa materia che poco amavo praticare. Pregai dunque il drago Qiuniu, affinché l’esecuzione da svolgere non risultasse per me un fiasco.
Fu in quell’istante che i miei occhi incontrarono i suoi. Ancora una volta. Dopo secoli di straziante sofferenza vissuti nel suo ricordo. Era accompagnato dal nostro insegnante di Letteratura, il quale gl’indicò l’ultimo banco libero rimasto -quello alla mia destra- , prima di passare alle presentazioni. Io, con gli occhi sbarrati e il veleno in ebollizione per il violento stato febbrile in cui mi ero improvvisamente trovata, continuavo a fissarlo come se stessi vedendo per la prima volta un qualcosa di arcano e celestiale.
Sara, la ragazza che occupava il banco alla sinistra, si accorse del mio strano cambiamento e, seppur raramente in passato avesse tentato di scambiare qualche parola con la sottoscritta, quel giorno non riuscì a trattenere la domanda che mi fece dopo qualche istante: «Julia, ti senti bene? Sembra che tu abbia appena visto un fantasma. Hai una cera…» Non le risposi. Almeno, non subito. La mia mente non riusciva ad essere del tutto collegata alla realtà presente, catapultata com’ero in un passato così remoto e dimenticato nel tempo, eppure sempre vivo e pulsante nella memoria che non mi ha mai abbandonata. Rapita dall’onda dei ricordi della mia prima vita, infatti, rividi me stessa attraverso gli occhi della mente: indossavo il mio cheongsam bianco e correvo disperatamente verso il corpo esanime di Ruben, trafitto dalla lama impugnata da mio padre. Vidi il suo sangue diramarsi sul leggero tessuto del mio abito di seta, i suoi occhi blu fondersi nei miei, i riccioli biondi schiacciati dal sudore sulla marmorea fronte e, infine, le sue labbra pronunciare il mio maledetto nome…
«Sete…perdonami. Non avrei voluto lasciarti. Scappa...và via da quest’inferno!». Ricordai persino di non aver gridato.
Il mio dolore rimase lì, saldato in una morsa di ghiaccio, paralizzato come il mio cuore immobile di freddo vampiro. No, non gridai. Restai per pochi istanti inerme, ferma ad ascoltare il suo flebile e soffocato respiro e gli ultimi battiti frenetici del suo cuore. Ma non era ancora finita. D’un tratto lo sollevai tra le braccia, mi guardai attorno con sguardo folle, perduto nell’oblio della disperazione, e corsi via, dileguandomi nell’oscurità della notte.
«Ragazzi, quest’anno avrete un nuovo compagno di studi. Il suo nome è Anthony Laurence e le sue origini sono americane. Vive in Italia da qualche anno…» Seguì una pausa forse più lunga del dovuto. «Abbastanza perché parli la nostra lingua meglio di tutti voi». Il prof. Tommasi rise di gusto della sua battuta, non notando lo scarso risultato ottenuto sui suoi alunni, i quali si divisero in due nette fazioni: le ragazze
osservavano Anthony con occhi languidi e sorrisini
ammiccanti… I ragazzi, invece, con sguardi torvi e nasi arricciati, visibilmente infastiditi dal nuovo oggetto di attenzione generale. «Spero avrò modo di memorizzare oggi stesso i vostri nomi, ragazzi! Mi piacerebbe imparare presto a conoscervi». In risposta all’intervento di Anthony si alzarono delle sciocche risate derisorie. Erano quegli idioti di Stefano e Giacomo: i peggiori in fatto di benvenuto ai nuovi arrivati.
«Tutto bene, davvero. Stamattina non ho fatto colazione, sarà stato un semplice capogiro». Sara mi osservò con stupore misto ad incertezza. «Meglio tardi che mai. Temevo fossi svenuta. Lo conosci?». Sorrise, indicandomi il ragazzo ancora accanto alla cattedra. Per la seconda volta, non riuscii a risponderle subito. Ma cercai d’accelerare i tempi: «No...non credo. L’avevo scambiato per un altro». «Me n’ero accorta, non preoccuparti. Ne vedremo delle belle!». Cercò di soffocare la genuina risata che le premeva in gola. «In che senso?». Le domandai intontita. «Ma non vedi?! Sono tutte pronte all’assalto. Soprattutto Francesca: se lo mangia con gli occhi». Non diedi peso alle constatazioni, per quanto fossero giuste, di Sara. I miei occhi restavano inchiodati al ragazzo alto, i cui riccioli biondi scendevano morbidamente sulla fronte dalla carnagione lievemente abbronzata; i suoi occhi blu brillavano di una luce calda e sincera, le labbra non troppo carnose e dalla linea seducente sorridevano, dando l’impressione d’ignorare del tutto lo scherno che i suoi nuovi compagni gli stavano riservando. «Puoi prendere il tuo posto, Anthony. Iniziate a munirvi di carta e penna, ragazzi: ho già una bozza del calendario delle lezioni da dettarvi».
Si alzò un lieve mormorio tra tutti i presenti; il ragazzo di nome Anthony, la cui rassomiglianza con Ruben mi fece credere sul serio si trattasse di un fantasma, avanzò a passo veloce verso il posto indicatogli da Tommasi. Per un attimo incrociò i miei occhi. Sorrise facendomi l’occhiolino, lasciando intravedere i denti bianchi e diritti. «Ruben…» Pronunciai in un sussurro. E lui, come se colto improvvisamente da una violenta scossa, mi osservò di nuovo; stavolta socchiudendo gli occhi in una sottile fessura indagatrice.
I estratto dal capitolo OCCHI NEGLI OCCHI
I fiori non parlano, ma profumano. Il silenzio è d’oro. Detto Orientale
… Sapevo che durante le fresche ore notturne a seguire sarei stata libera di vivere come il mio istinto mi suggeriva di fare, come l’inconscio desiderio richiedeva ogni istante di poter essere esaudito. Bastava solo andare a caccia di guai. Cercare, nei profondi silenzi delle tenebre, tutte le più svariate brutture che le strade possono regalare. Da sempre -o quasi-
avevo deciso di dissetarmi così, andando alla ricerca di assassini, criminali, farabutti il cui sangue potesse placare la mia sete perenne e incostante. Era stata una scelta a dir poco geniale, visto e considerato che non è affatto difficile riuscire a scovare simili individui, soprattutto nel cuore della notte. Certo, era necessario avventurarsi nei luoghi meno raccomandabili per una ragazza, ma non credo sia necessario sottolineare il fatto che, in quanto alla sottoscritta… esisteva un’evidente eccezione alla regola. Camminando lungo Borgo San Jacopo, giunsi all’inizio del Ponte Santa Trinita. Silenzioso, affascinante, carico dei profumi delle acque che al freddo della notte emergono, entrando nelle profondità del cuore di chi li ascolta. Di chi li
sente. Proprio come me. Mi sporsi leggermente, cercando di penetrare con la mia vista acuta le acque illuminate dal perlato spicchio di luna. Riempii i polmoni dell’aria fresca che la notte regala generosamente, quando… all’improvviso, un lontano grido accese i miei sensi dando vita alla nera fiamma che mi bruciava la gola.
La mia corsa lieve e impercettibile, simile a quella dei pulviscoli di polvere trasportati dal vento nel bel mezzo di una tempesta, riuscì a guidarmi verso l’esatto luogo in cui sentivo battere violentemente la percezione che stesse per avvenire qualcosa di terribile. Mi ritrovai all’inizio di un vicolo stretto, buio e impregnato da un forte odore di umidità che avrebbe in breve tempo fatto marcire i polmoni di un essere umano. Il respiro di una donna ansimante di terrore echeggiava tra le tetre mura rigonfie, mentre il sogghigno maleodorante di un uomo che le stava col fiato sul collo, rendeva la scena simile a quelle più acclamate dei film horror. Oltrepassando la coltre scura della notte, vidi la giovane ragazza vestita in una maniera tanto poco consona da farmi immediatamente intuire il suo mestiere. I lunghi capelli color dell’oro, morbidamente scivolati via dall’alta coda disordinata in cui erano stati legati, incorniciavano il volto dalla pelle ambrata. Gli occhi verdi brillavano, colmi di terrore e ubriachi di una vita insalubre e tormentosa. La smilza gonna argentata, aderente al fondoschiena, venne letteralmente lacerata dai modi grezzi e violenti dell’uomo dalla
corporatura massiccia che sovrastava, in tutta la sua volgarità, la lucciola inutilmente intenta a svincolare la sua presa strisciando sul freddo e umido selciato. Lo sguardo di lui, famelico e assetato di orrore, lasciava nitidamente intravedere l’animo raccapricciante che lo accompagnava. Finchè il rimbombo di morte che scuoteva il suo cuore arido, eppure mosso da un pompare inferocito e scoordinato, accese la mia sete. La stessa che lo portò alla fine dei suoi giorni. La stessa che, ancora oggi, potrei quasi sentire pulsare nelle mie vene come una segreta innamorata. Era giunto il mio momento. Mossi alcuni passi che risuonarono nel silenzio della stradina, facendo trasalire entrambi i personaggi dell’opera che, a breve, mi avrebbe eletta indiscussa protagonista. Il mio sorriso fece risplendere i denti di un bagliore diabolico, capace esso stesso d’immobilizzare l’aggressore, il cui volto adesso era divenuto una maschera di rabbia e incredulità. Ma non appena riuscì a distinguere la mia immagine, il suo ghigno divenne una risata aspra e gracchiante. Sputò verso la
donna ancora immobilizzata a terra, prima di gridarmi: «Sei in cerca di guai, bellezza? Perché non ti unisci a noi?». Riuscii a sentire il puzzo del suo alito impregnato di alcool e droga invadere l’aria profumata della notte. Il calore e l’aroma forte del suo sangue eccitato giunse finalmente fin dentro la mia gola. «No, bastardo. Chi si è cacciato in un grosso guaio sei solo tu». Quello smorzò per un attimo il ghigno famelico, prima di far riecheggiare con ancora più forza la sonora risata sotto lo sguardo frastornato della ragazza che spostava i suoi occhi da me al suo assalitore. Fu un istante. Tutto ebbe la durata di un sospiro. Annullai la distanza che mi separava dalla preda, il mio volto era ad un centimetro dal suo. «Riesci a sentire il battito del tuo cuore? Bene: ascoltalo attentamente. Saranno gli ultimi rumori che ti accompagneranno all’inferno». Sussurrando così al suo orecchio, arrestai l’inutile tentativo di colpirmi con il braccio massiccio e ricoperto da un folto strato di
peluria bruna, affondando i mie denti nella grossa arteria pulsante del suo collo tozzo e bagnato da alcune gocce di sudore. Le smorzate convulsioni di ciò che era divenuto il mio pasto, mi spinsero ad incastrare meglio il morso per permettere al sangue della vittima di sgorgare più facilmente dentro la mia bocca. La consistenza fluida e calda che scivolava a fiotti e percorreva gli abissi delle mie velenose zanne, donò pace ai miei arti febbricitanti e riuscì a placare i segreti tormenti del mio freddo involucro dalla parvenza umana. Il suo grido uscì soffocato. Già riuscivo a distinguere il cupo bagliore della morte nei suoi occhi incendiati di dolore. Quando sentii le forze della mia preda venir meno, feci scorrere lo sguardo sulla donna sconvolta, rannicchiata nel punto più buio della stradina in cui ci trovavamo, che mi fissava con gli occhi sbarrati dal terrore. «Và via. Scappa, se non vuoi fare la sua stessa fine». E lei obbedì all’istante. La mia voce dal tono appagato si espanse nel silenzio della notte, simile alle note di un’arpa. Non le avrei mai fatto del male. Ma non potevo permettere che mi
vedesse bene in viso. E poi… In me non sarebbe mai riuscita a distinguere l’eroina che l’aveva salvata da una terribile violenza… Oh, no di certo! Avrebbe sempre e comunque visto il mostro assetato di sangue che si aggira nelle tenebre per porre fine ai suoi tormenti. Avrebbe ricordato il volto di una leggenda divenuta realtà nella sua piccola grande avventura. Il mio salvare alcune vite umane ha ininterrottamente e inevitabilmente comportato la perdita di altre. Questa era la mia legge. E tale sarebbe rimasta. Bevvi per circa un’ora. Una buona parte della carcassa inerme tra le mie braccia era ormai stata svuotata. La mia gola non premeva più come prima e sentivo il fisico nuovamente rinvigorito dalle forze che erano venute a mancarmi. Secoli di allenamento e forzata abitudine avevano fatto sì che il mio stile di caccia divenisse quasi impeccabile; ricordo di aver sorriso a me stessa in quel preciso istante, mentre notai con soddisfazione di essere rimasta icredibilmente pulita negli abiti, sui quali non era caduta neanche una goccia di sangue. Per non parlare dei fori al collo della vittima accasciata al suolo: quasi del tutto invisibili. A breve sarebbero sembrati dei morsi d’insetto.
Improvvisamente, però, accadde qualcosa: per un istante, il volto dell’uomo che avevo da poco ucciso assunse le sembianze di Anthony. Del mio nuovo compagno di classe. I suoi occhi spalancati e velati dall’ombra del sonno eterno, i riccioli biondi sparsi sul freddo e scuro lastricato… Rividi Ruben, scosso dalle convulsioni provocate dalla ferita mortale infertagli, mentre lasciava che, per l’ultima volta, i suoi occhi si perdessero nei miei.
Capii subito perché l’immagine di Anthony, il gemello proveniente dal futuro, aveva appena invaso la mia mente: pensai a lui perché desideravo già il suo sangue.
II estratto dal capitolo NOZZE NEGATE
Non c’è altezza che non abbia al di sopra di sé qualcosa di più alto. Proverbio cinese
…
Il largo sorriso che illuminò il suo volto riuscì ad infondermi un po’ di buonumore. Si diresse euforico verso il posto che prima occupava, mostrandomi il volume che stava esaminando. Non appena capii l’argomento di cui trattava, lo guardai incredula inarcando -come sono solita fare- il sopracciglio destro: «E questo… cosa sarebbe? Devi fare una ricerca sulle antiche tradizioni cinesi?».
Arricciò il naso. «Non proprio. Più che altro, volevo scoprire quali fossero le vostre usanze riguardo il corteggiamento… o qualcosa del genere. Sapevo esistesse un autentico protocollo per simili circostanze, ma ne disconoscevo le pratiche. E, se proprio devo dirlo… alcune cose sono parecchio bizzarre!». Iniziò a ridere di gusto, tenendosi la pancia con entrambe le mani e sporgendosi all’indietro con la seggiola sulla quale sedeva. Si fermò solo dopo aver incrociato i miei occhi carichi di rimprovero verso il suo infantile comportamento. «Vorrei sapere cosa ci sia di così ridicolo da farti sbellicare dalle risate. Fammi un po’ vedere». Gli tolsi il libro da sotto il naso e iniziai a sfogliarne le pagine ingiallite. Mi ritrovai di fronte ad un vero e proprio elenco di antiche usanze cinesi utili al pretendente per chiedere la mano della
fanciulla
desiderata
alla
famiglia
d’appartenenza.
Conoscevo benissimo quelle regole assurde. «A cosa ti serviva sapere tutto questo? Non dirmi che... No. Non puoi arrivare a tanto».
L’improvvisa compostezza del suo volto m’indusse a credere di non essermi sbagliata. I suoi occhi cercavano di attraversare i miei. «Invece sì. Visto che non permetti a nessuno di avvicinarti, ho pensato che il motivo potesse essere un probabile legame ad alcune tradizioni del tuo Paese, e che avresti gradito se qualcuno le avesse praticate per te». Questo era davvero il colmo. Non riuscivo a credere alla serietà delle sue parole. «Anthony: non potresti essere su una scia più sbagliata di questa». L’allegria svanì del tutto dal suo viso. Corrugò la fronte in un’espressione contrariata, manifestando lo scontento per il tempo perduto inutilmente alla ricerca di qualcosa che non l’aveva aiutato affatto, facendo invece vacillare i piani da lui stesso stabiliti. Fu proprio quella particolare espressione dipinta sul suo volto che rievocò, ancora una volta nella mia mente, alcuni stralci di ricordi seppelliti oramai da tempo.
I miei occhi, come i miei pensieri, viaggiarono annaspando in scene confuse, alcune cariche di una gioia segreta e incontaminata, altre di profondo dolore, fino a giungere alla maledetta sera in cui ogni mio intimo sogno d’impossibile felicità progettata accanto allo straniero umano, venne infranto. Ogni speranza distrutta da un solo gesto, da un minuscolo e fatale : no. Ruben continuava a ripetermi di non temere nulla e che presto avrei riso di tutti i miei infondati e sciocchi timori. Ma io sapevo… sapevo quanto potessero rivelarsi spietate le regole che vigevano sulla mia stirpe, sulla mia vita. Ciononostante, volli ascoltare la serenità e la profonda sicurezza che le parole di Ruben riuscivano a infondermi…
«Sete, conosco bene le vostre usanze e l’importanza di questo incontro. Io non ho alcun dubbio: voglio te. Non importa come ti avrò, ma sono disposto a tentare qualsiasi via per realizzare ciò che più d’ogni cosa desideriamo, e questa mi sembra sia la prima da dover seguire. Perché violare le leggi? Non voglio ti debba sentire una traditrice nei confronti della tua gente». La sincerità dei suoi occhi affliggeva le mie tempie. Quando conobbi Ruben, la trasformazione che mi vide divenire il vampiro
quale ora sono, non era ancora del tutto completa, eccetto il tormento della sete che ustionava le mie giornate -primo sintomo che aveva dato il via alla metamorfosi del mio organismo-. Le sue promesse avevano funto da nefasto inganno per quello che in realtà avrei già dovuto sapere e che invece ignorai, gettando Ruben in pasto ai leoni. Tra le fauci di Chuang, mio padre. Ricordo ancora l’atmosfera della nostra dimora, delle varie camere di forma rettangolare così assolutamente conformi ai principi di equilibrio e simmetria che l’architettura cinese richiede in ogni edificio: il legno era da sovrano, simbolo di vita e forza; l’aria era impregnata dell’intenso profumo d’incenso acceso in tutte le stanze, le quali mostravano in ogni angolo vari oggetti rappresentanti i valori etici e sociali della nostra cultura. E ricordo… lo Shen-I marrone indossato da mio padre, così stonante con il gessoso pallore del suo volto, lì dove era stampata una vuota espressione di annoiata attesa, mentre aspettavamo l’arrivo del nostro ospite.
«Sete, non voglio chiederti il motivo per cui hai preteso con tanta enfasi il permesso di far mettere piede qui dentro a un
misero umano. Un umano non appartenente al nostro popolo! Voglio prima ascoltare ciò che avrà da dirmi. Deciderò poi se renderlo il mio prossimo pasto, o non avere così tanta pietà e riservargli una morte più dolorosa». Le sue parole fecero tremare le mie fredde carni. Continuavo a ripetermi di non dover dare molto peso alle sue minacce, nella vana speranza che l’intimo affetto di un padre per una figlia superasse ogni nero istinto della propria natura, Intanto, pregavo gli déi affinché Ruben decidesse infine di non venire. Preghiere che non vennero ascoltate. Xi Shi -colei che nella generazione attuale preferisce farsi chiamare Amanda, ovvero mia madre- fece accomodare lo straniero al tavolo. I nostri occhi s’incontrarono per una frazione di secondi durante i quali riuscii a sentire il pulsare frenetico del suo cuore, parallelo a quello delle mie vene. Era maestosamente e irragionevolmente bello, vestito della sua armatura da soldato e del coraggio di cui solo gli innamorati possono vantarsi. Ruben s’inchinò in segno di rispetto. Le mascelle erano tese, ma non vi era una goccia di sudore che lasciasse trasparire la sua
paura. Chuang lo fissava attraverso gli stretti occhi a mandorla ricolmi d’odio e illuminati da una fluorescente fiamma rossa, sintomo d’alto grado di sete. Non vi furono parole durante questo terribile e indimenticabile incontro. Solo muti gesti, sguardi di variabile identificazione e una sconsiderata avventatezza. Dietro silenzioso invito di Ruben, acconsentii con un lieve cenno del capo alla sua richiesta e andai a prendere il tè da servire. Sapevo che nessun membro della mia famiglia avrebbe potuto ingerire la bevanda per ovvi motivi di diversa alimentazione… Ma se solo mio padre avesse accettato il tè servito dalla sottoscritta e dal mio pretendente, avrebbe confermato il suo consenso al nostro futuro insieme. Un lieve -e forse soltanto a me visibile- sorriso dipinse le labbra del soldato che stava per chiedere la mia mano. In trepidante attesa che mio padre battesse l’indice e il medio sul tavolo, in segno di ringraziamento per la nostra offerta, io e Ruben ce ne stavamo lì impalati come due mummie, paralizzati nella nostra aspettativa.
Poi… Il suo rifiuto. Sfidando con sguardo assassino il giovane che gli stava di fronte, Chuang respinse l’infuso negando così il suo consenso alla nostra unione in matrimonio. Ruben piantò un pugno sul tavolo di faggio attorno al quale eravamo seduti, trattenendo un grido di rabbia senza rivolgermi neanche uno sguardo. E andò via. Lasciando me in preda a una sorda impotenza e frustrazione… «Julia? Stai bene?». Fu la voce di Anthony a richiamare la mia mente dal navigare nelle acque della memoria. Per i pochi attimi che seguirono rimasi interdetta, chiusa nella mia immobilità emotiva. «Sì, sto bene. È solo che... questi scritti mi hanno riportata indietro nel tempo, quando mia madre usava raccontarmi alcune storie collegate a queste... assurde e insensate usanze. Le ho sempre trovate a dir poco ridicole. Patetiche». «Devo ammettere che alcune sono davvero strane, ma hanno il loro fascino. E puoi starne sicura: se avessi avuto la certezza
che metterle in atto mi avrebbe aiutato ad avvicinarti, non avrei avuto alcun ripensamento. Mi sarei anche divertito… credo». Il suo mezzo sorriso sbilenco, come sempre, mise il centro del mio stomaco in subbuglio. Perché averlo così vicino, poter sentire il profumo irresistibile del suo sangue… della sua pelle, stava divenendo l’unico modo per sentirmi bene come non mai? Per riuscire a provare quel pizzico di felicità miscelato ad una quantità abnorme di terrore? «Non dovresti perdere il tuo tempo con queste sciocchezze. È meglio che tu mi stia lontano, Anthony». Mi voltai leggermente: odiavo la sensazione di essere osservata e commiserata per lo stato esangue e livido con il quale dovevo apparire. Il quel momento ero certa che fossi più pallida del solito, il ché non doveva essere un lieto spettacolo. «Non allontanarti». «Non mi sto allontanando». «A giudicare dal tuo comportamento instabile come le nuvole, direi di sì». Rispose, troppo sicuro di se stesso.
Furiosa contro ogni mia singola cellula morta che si rifiutava oltre ogni misura di allontanarsi realmente da lui, lo inchiodai ai miei occhi neri come la notte. Tutt’attorno a noi sentii piombare una coltre di tensione. L’uno attendeva una mossa dell’altro. Il grigio silenzio del cielo piovoso, al di fuori dell’edificio, accompagnava il concerto dei nostri respiri regolari e profondi.
III estratto dal capitolo L’ORA DELLA VENDETTA
L’uomo saggio non dimentica mai come fu punito a causa dei suoi errori. L’uomo stolto rammenta sempre i vantaggi che ottenne. Tao
…
Le ore gocciolarono velocemente. Il sole vide presto la sua lenta morte quotidiana. E, nonostante non c’entrasse affatto con tutto ciò che in quel giorno avrebbe dovuto tenere la mia mente occupata, ero felice di essere riuscita a rimediare l’episodio avvenuto il giorno prima con il prof. Tommasi. «Ci lasciamo qui». Le mani di Anthony erano fredde quasi quanto le mie.
«Ricorda quello che ti ho detto. Non devi temere nulla... tornerò. È una promessa». Che volevo ad ogni costo mantenere Dire addio a una felicità che aveva trovato il suo infinito ritaglio nella mia esistenza, sarebbe stato davvero uno strano e spietato scherzo del destino. «Abbi cura di te, Sete. Se non vuoi farlo per te stessa, fallo almeno per me. Ho bisogno del tuo amore per sopravvivere». Sapeva bene di essere l’unico motivo che mi teneva ancora vincolata a questa terra. Se fosse stato possibile, in sua assenza, mi sarei volentieri gettata tra le braccia di Chuang, e solo per trovarvi la fine alla quale agognavo da secoli. «Sei il centro dei miei sensi. La fiamma liquida che ha ridonato calore alle mie vene, quel calore perduto da un tempo incalcolabile. Ti amo Anthony Laurence. Amo ciò che hai scelto di donarmi. Amo te, perché hai avuto il coraggio di accostarti all’unico frutto proibito che potevo offrirti: il mio amore. L’amore di un essere freddo e morto». «Ma capace di amare come pochi saprebbero fare».
I nostri sguardi erano legati da un’unica certezza. Un respiro, ed io me ne andai. Senza più voltarmi, illuminata dai bagliori di un tramonto che cedeva il passo al crepuscolo, con in spalla il mio zaino e nel petto un’ascia piantatami da secoli, in attesa di essere rimossa.
I ciottoli del lungo viale -che conduce alle porte del Forte di Belvedere- erano rischiarati dai pallidi raggi di una luna crescente. Il cielo era terso. Durante il periodo trascorso a Firenze, più volte -nelle ore notturne- mi ero infiltrata all’interno di quelle mura: la possente struttura a stella che dominava sui Giardini di Boboli e su Palazzo Pitti, mi aveva accolta rendendomi partecipe del meraviglioso panorama sulla città, lì dove le colline che la incorniciano sono ammirabili dal palazzetto centrale racchiuso dalla fortezza. Nell’aria si poteva respirare il profumo di una Firenze antica e soggiogata da arcani segreti. Ritrovatami in cima ad un bastione triangolare, lasciai che ogni piccola parte di me s’inebriasse degli eccitanti profumi che i miei
sensi attenti riuscivano a percepire e ad assimilare. La solitudine, in simili circostanze, era la mia più cara amica, custode dei profondi -e meno spaventosi- segreti della mia natura. Tipica usanza dei Senza Sangue, praticata durante gli incontri riservati ai membri della stessa cerchia, era quella d’indossare delle maschere che riuscissero a nascondere il volto di ciascuno. Non ho mai capito realmente a cosa servisse un simile rituale, considerato il fatto che tutti sapevano perfettamente quale fosse il nome celato dietro ogni sciocca bautta. Tuttavia, per l’occasione pensai anch’io d’indossarne una: copriva il mio viso fin sotto il naso dietro il suo disegno dai tratti superbi; di colore nero, era impreziosita da chiare e lucenti perle argentate. «Pensavo che avresti deciso di non venire, Sete. Figlia mia». Giunse alle mie spalle, io non mi voltai. Quella voce. La sua voce. Nessuno avrebbe mai potuto capire cosa significasse per me udirla… Udire le note aspre e cavernose provenienti dalle sue corde vocali unite nel pronunciare il mio nome.
Odiavo il modo in cui mi chiamava. Riusciva a trasmettere, attraverso quelle quattro lettere, il lato più orrendo del termine che il mio nome voleva indicare. «Tutto ciò sarebbe dovuto accadere molto tempo fa. Quando il tempo era ancora dalla nostra parte». Continuò a parlare. Il tempo non era mai stato dalla mia parte. «Finalmente ci rivediamo… padre». Avrei preferito svanire in un solo istante piuttosto che ripetere quell’appellativo, ma poterlo pronunciare con il veleno schiumoso che si agitava all’interno delle mie labbra, mi diede un pizzico di soddisfazione. «Ci sono anch’io, bambina mia». Xi Shi? Amanda?! Mi volsi in un baleno, trovandomi innanzi una scena per la quale credevo non sarei mai più stata spettatrice: i miei genitori, mano nella mano, sospesi a mezz’aria sopra il cornicione del baluardo su cui mi trovavo, mi fissavano attraverso le loro maschere rosso sangue, con le labbra atteggiate ad un ghigno funesto e i mantelli neri al vento.
«Non essere tanto stupita nel vedermi accanto al mio sposo, Sete. Dove credevi che volessi andare, quando decisi di lasciarti sola? Ma adesso... adesso, piccola mia, sono tornata per ricondurti verso la giusta strada da seguire, com’è ovvio che faccia un genitore con la sua progenie». Non riuscivo a dare un senso logico alle sue parole . Mia madre non era mai stata una madre. O meglio, non da quando il suo cuore aveva cessato di battere. Schiava delle sue origini, serva del suo carnefice e complice dell’assassino di sua figlia. Erano piuttosto queste le uniche definizioni da poterle attribuire. In tutta la sua vuota e triste esistenza da vampiro non aveva mai rivolto una sola parola gentile nei miei confronti. Sentii un duro e soffocante nocciolo in gola, nel rivederla. Ma lasciai che nessuno dei due si rendesse conto di ciò che provavo. «Chuang. Xi Shi. Sono venuta fin qui perché ho ricevuto un esplicito invito da parte vostra. Non avrei mai deciso d’incontrarvi, se negli ultimi tempi non fossero accaduti eventi fuori da ogni mia aspettativa. Pretendo adesso delle spiegazioni
riguardo ciò che hai scritto nella tua lettera, Chuang». Mi rivolsi a lui, fissandolo con tutto l’odio che potessi trasmettere. «Cosa volevi dire riguardo la profezia alla quale mi hai condannata?». Svanirono in un lampo grigio. Iniziai a girare su me stessa, facendo volteggiare i miei capelli. Sentivo i loro respiri addosso. Sentivo che la mia paura procurava loro un brivido di piacere. Quando ricomparvero -così com’erano spariti- ad un paio di passi da me, la voce di Chuang mi colpì in pieno viso con una violenza tale da ripercuotersi in tutto il mio petto. «Colei che ha impresso il segno della Luna sulla propria pelle, è fautrice del destino di tutti coloro che incrociano i suoi passi. La profezia parla di ciò che potrebbe accadere al nostro regno, in base a quel che tu deciderai: se occupare il posto che ti spetta e regnare come imperatrice dei Senza Sangue sul mondo intero, o rinunciare a tutto e divenire vittima della tua stessa stoltezza». Continuavo a non capire. A quel punto, ero certa solo di una cosa: Chuang voleva propormi un patto. In fondo, ero io l’unica ad essere in grado di decidere se il suo regno avrebbe avuto ancora vita o meno. Ed era ovvio che, dopo il dolore al quale mi aveva condannata da secoli, temeva la mia sete di vendetta a suo discapito.
«Bambina mia…» Amanda - Xi Shi- mi si avvicinò con movenze lente e studiate, somigliando più ad una suggestiva marionetta di dama cinese che al vago ricordo di lei ancora custodito dalla mia memoria. Di umano non le restava più nulla. Persino i pensieri. «E’ giunto il momento di ripercorrere l’antica stirpe da cui provieni, Sete. Devi prima conoscere le tue origini per comprendere appieno la responsabilità che grava sul destino che ti ha scelta… Perché nelle tue vene scorreva lo stesso sangue dell’Imperatrice Wu, sovrana reggente nel periodo in cui non eri che una semplice umana. La grandezza delle sue azioni, del suo coraggio, della sua malvagia e insana volontà nel voler dominare su tutto ciò che osava toccarla, vive in te come una preziosa eredità. Sei destinata a indossare anche tu il suo mantello color indaco sul quale i draghi cavalcano le nuvole, e ad essere incoronata Imperatrice dei Senza Sangue con la corona di dodici file di giade che le apparteneva». Io... discendente dell’Imperatrice?! Oramai nulla avrebbe dovuto stupirmi, l’inverosimile era entrato a far parte della mia vita senza che me ne fossi mai resa conto.
Ma che diavolo potevo c’entrare con la stirpe di una delle donne dal profilo storico più oscuro che sia mai esistito? «Si può sapere cosa volete da me? Non ho più intenzione di udire simili follie. Non voglio più sapere nulla delle vostre stregonerie,
di
oracoli
che
preannunciano
ascese
e
capovolgimenti di troni… Basta! Sono stanca di fuggire e cercare me stessa in un volto che non mi appartiene. Adesso voglio solo dare una svolta alla mia esistenza ponendo fine ai vostri giochi e divenendo padrona del mio destino». «Non hai altra scelta, Sete: con noi, o contro di noi. Dimentica il passato che ci ha divisi, perché oggi sono io che desidero offrirti uno sposo. Il mezzosangue della profezia è qui. Stasera. Pronto ad incontrarti e a chiedere la tua mano». Tremai al pensiero di Anthony reso prigioniero dalla mia famiglia. No, stavolta non avrei messo a repentaglio la vita dell’uomo che amavo. Istantaneamente, mi misi in posizione di attacco mostrando loro i miei denti gocciolanti e affilati. Poi... una risata, improvvisa e rimbombante nell’aria fattasi più fredda grazie al lieve venticello alzatosi, bloccò il mio respiro.
«Sono davvero felice di scoprire che la mia futura sposa sia incline alla violenza. Renderà tutto molto più eccitante». Quella voce… Non poteva essere vero. Guardai verso la parte bassa e circostante del Forte, scorgendo ai piedi del bastione su cui io e i miei genitori ci trovavamo, il vampiro che aveva appena parlato: il volto era coperto interamente da una maschera dorata e dall’espressione sterile, un mantello color porpora vestiva le sue spalle. Sentii l’intenso aroma del suo sangue come se fosse stato ad un palmo dal mio naso. E lo riconobbi. Era lo stesso, identico in ogni sua venatura al sangue misto di Anthony. Non vi era alcun dubbio: chi aveva osato ritenermi sua sposa, era Jonah. L’implacabile. Come una piuma si lascia trasportare leggera dal vento, così il suo corpo raggiunse il luogo in cui mi trovavo, piazzandosi a pochi passi da me. Non riuscivo a credere in ciò che vedevo. Che sentivo. Nonostante quella sciocca maschera celasse del tutto i lineamenti del suo volto, il resto dei miei sensi non poteva far finta di nulla. Era come se Anthony si fosse trasformato nel mio
nemico. La loro era una somiglianza sconcertante, ricca di quei frammenti introvabili persino in due gocce d’acqua. «La Figlia della Luna non riesce a trovare le parole adatte per accogliere il proprio sposo? Davvero sorprendente... Ti avevano descritta diversa, molto diversa da come appari. Avvicinati». Io arretrai di un passo. Lui protese una mano per sfiorarmi. Per nulla esitante, bensì pretenzioso. «Non oserai». Dissi, a denti stretti. «Oh...sì che lo farò». Strinse a pugno la mano che prima mi offriva, stritolando l’aria rimasta incastrata all’interno del suo guanto. La sensazione di dover lottare contro chi mi ricordava la persona a me più cara al mondo, non rendeva certo le cose facili; ma dovevo essere consapevole della realtà: dietro quella finta e fredda maschera non si nascondeva il mio Anthony. Piuttosto, il migliore alleato di Chuang. «Sete… non riesci a capire? Lui sarà il solo in grado di far sì che la profezia si compia nel modo più giusto per te. Per tutti noi. È
il solo mezzosangue che abbia impresso sulla pelle il marchio della Luna. Il solo che può averti in sposa senza dover lottare contro un destino già segnato da tempo... Poichè è scritto: sarà lui l’uomo che governerà al tuo fianco la stirpe dei Senza Sangue». Finì di dire Amanda, con espressione buffamente contrita. Sulle mie labbra si dipinse un sorriso di trionfo. La mia voce risuonò ferma. «Vi sbagliate. Non è il solo mezzosangue ad avere queste caratteristiche. Esiste un contendente, un altro possibile uomo della profezia. Chi ci dà la certezza che sia Jonah quello giusto? Cos’accadrebbe se sposassi il mezzosangue sbagliato?». Sono certa che, se avessi potuto vedere nitidamente i volti di Chuang e Xi Shi, vi avrei letto il terrore dipinto addosso. Evidentemente, nessuno dei due avrebbe mai sospettato qualcosa di simile. Ma quel che giunse inaspettata fu la reazione di Jonah. I suoi movimenti divennero flessuosi come quelli di una pantera e quasi impercettibili, simili al soffice rumore di un sospiro. Mi ritrovai, senza che me ne rendessi conto, con una sua mano dietro la
nuca e l’altra all’altezza del mio cuore immobile; stringeva la presa alla cervice con le sue dita calde e forti. «Chi è costui?». L’energia che il suo corpo e la sua mente emanavano era a dir poco portentosa. Diversa da quella brillante di Anthony, più… impenetrabile. «Cosa importa? Ti basta sapere che non sei il solo aspirante al trono più ambito dalla nostra specie. Se pensi davvero di essere imbattibile, come in tanti ti descrivono, non dovresti temere nulla. E nessuno». Le mie parole suonarono in segno di sfida e lo indussero a premere con ancor più forza le dita nella mia fredda carne, accendendo l’ira di mia madre: «Fermati, Jonah! Senza lei, il nostro regno andrebbe perduto per sempre. È la continuatrice della tua immortalità, ricordalo». «Taci, Xi Shi! Non intrometterti, stupida donna». Chuang cercò di fermare l’improvvisa collera di Amanda, ma invano. «È inutile continuare a tenerle ancora nascosta la verità. Deve sapere!».
Di quali altre verità non ero a conoscenza? Amanda sembrava volesse rivelarmi qualcosa che avrebbe realmente potuto cambiare tutto. «Tua madre vuole semplicemente dirti che il tempo sta per scadere». Manteneva il volto così vicino al mio, da permettere al suo alito d’entrare nella mia bocca. Caldo, irresistibile... ipnotizzante. Capii subito che anche Jonah fosse dotato del potere dell’ipnosi.
Una suggestione intensa e impossibile da
respingere. «Facciamo già parte del settantottesimo ciclo, Sete. Il successivo periodo solare sarà quello di Dàhàn. La prossima eclissi totale di luna è vicina, e… il solstizio d’inverno segnerà la fine del tempo che ti è concesso per far sì che la famosa profezia si compia. Sete…» Per un attimo, ma solo per un attimo, non lo sentii nemico. Riuscii a percepire, oltre la dorata maschera che indossava, la sincerità della sua preoccupazione nei miei confronti. Ebbene, quel sentimento tanto umano aveva reso la sua immagine meno mostruosa ai miei occhi.
Peccato durò tutto per brevi ma indimenticabili istanti. «Se entro quella notte andrai in sposa al mezzosangue designato e ti concederai totalmente a lui, avrà inizio la leggendaria stirpe dei Prescelti. In caso contrario, allo scoccare del solstizio, accadrà qualcosa di terribile: tornerai umana. Una semplice e insignificante mortale». Seppure invisibile, percepii il ritorno del perfido sorriso sulle sue labbra. Umana. Quella piccola e cara parola risuonò nella mia mente come la più dolce delle note. Umana. Avrei potuto sentire il mio cuore battere ancora se solo... se solo questo non avesse significato dire per sempre addio ad Anthony. La felicità provata per l’incredibile rivelazione, si disciolse come neve al sole.