Raccolta di racconti brevi, in uscita gratuita online, firmata da Desy Giuffrè. Tutti i diritti sono riservati all’autrice.
A tutti i miei amati lettori, che non smettono di alimentare il fuoco della mia fantasia riscaldandomi anche nei giorni pi첫 freddi.
Merry Christmas and Happy New Year!
SULLE ALI DELLA MORTE Scendevano. Nere e leggere scendevano, volteggiando in una moltitudine di spirali immaginarie, fino al debole atterraggio sul manto nevoso che si estendeva a perdita d’occhio in un bianco nuziale e accecante per tutto il bosco lì vicino ed oltre. Il sentiero di piume grigie -che dal portone proseguiva fino al vecchio pozzo gelato, lontano un centinaio di metri da casa- si presentava come una lunga scia poltigliosa e cinerea ai miei piedi. Non avevo idea a quale triste presagio si potesse agganciare una simile manifestazione, ma fui subito certa che quello, probabilmente, sarebbe stato il mio ultimo Natale. Mentre procedevo affondando i miei stivali rossi sulla spessa coltre nevosa che aveva ricoperto ogni forma di vita presente in lungo e in largo per l’intera valle, ripercorsi con la mente gli ultimi vent’anni della mia insanabile vita. La mia solitaria, segreta e ignota al mondo discesa agli inferi. Se fossi stata spettatrice esterna alla mia storia, avrei persino potuto credere che una ragazzina appena diciassettenne- , sarebbe stata abbastanza forte da superare l’improvvisa e violenta morte del suo primo amore, nonché padre del figlio che lei portava in grembo. Avrei pensato che sì, una donna tanto giovane e inesperta avrebbe potuto ritrovare un senso alla sua esistenza e, perché no, ricostruire passo dopo passo la vita che le si presentava… ancora tutta da scoprire. L’avrei creduto sul serio. Cadendo nell’ennesimo, imperdonabile errore. Perché un amore non si può cancellare con il sangue lavato via dal selciato, freddo letto di morte che ha visto esalare l’ultimo respiro di Thomas, l’unico uomo che abbia mai amato davvero… nonostante il brevissimo tempo trascorso al suo fianco. No, un amore non perdona il rifiuto dato a un figlio appena venuto al mondo, l’averlo abbandonato tra le braccia di un’infermiera anonima senza neanche aver visto il suo primo sorriso comparirgli sulle labbra. Un amore non muore di ricordi, ma si aggrappa ad essi per continuare a sopravvivere. Sopravvivere. Ciò che non sono riuscita a fare io, morendo giorno dopo giorno. Ora dopo ora. Caduta dopo caduta, fino al declino della mia stessa dignità. I canti natalizi che si espandevano nell’aria, provenienti dalla Chiesetta distante appena due isolati dalla mia abitazione, mal si addicevano alle immagini scottanti che si accavallavano nella mia
mente al pensiero della serata in via di conclusione con l’ultimo cliente di turno: un ragazzo o poco più tutt’ossa, ma dotato -a suo dire- di un’impetuosità senza pari. Un amante così sarebbe difficile da incontrare due volte nella stessa vita , era persino stato capace di dirmi. Certo non avrei potuto negare l’acuta fantasia che queste sue parole mi avevano provocato, sebbene oramai sarei dovuta essere abituata alle false promesse d’ogni uomo che aveva attraversato il mio cammino e sostato almeno una notte tra le lenzuola del mio letto. Dal sentiero che intanto percorrevo, riuscivo a vedere la villetta dei Crowell, illuminata dal tetto al recinto di minuscole perline lampeggianti. La cascata di colori elettrici sorvolava sull’improvvisato Santa Claus che aveva appena varcato la soglia di casa, dando il via alla sua finta entrata in scena con tanto di sacco sulle spalle e tutto il resto. Mi strinsi fino a sentirmi quasi svanire all’interno del paltò nero che indossavo, ripensando agli anni in cui anch’io ero stata capace di vivere un Natale con la gioia nel cuore e lo spirito di chi crede ancora nella speranza. Speranza? Un sorriso più simile ad una smorfia tentò di ridare vita alle mie labbra intorpidite dal freddo. La speranza, quella sì: era stata lavata via dal sangue di Thomas, il maledetto giorno in cui fu investito da un tir senza alcuna possibilità di scampo. Smisi finalmente di seguire il sentiero creato dallo strano piumaggio svolazzante nell’aria, arrestando i miei passi paralizzata da ciò che mi ritrovai a vedere, appena dietro il vecchio pozzo ghiacciato: un uomo -per quel poco di umano che in esso riuscii a riconoscere- disteso a terra, le gambe già ricoperte per metà di neve, il torso nudo e riverso al suolo. Dalle falde dei jeans neri che indossava spuntavano delle terribili zanne maculate di grigio e dotate di artigli lunghissimi e neri come la pece. Da profonde e sanguinanti ferite che gli squarciavano la schiena, si estendevano due lunghissime ali dal piumaggio scuro, lo stesso che aveva creato le tracce da me seguite per giungere fin lì; erano talmente grandi da risultare difficile credere che quell’individuo riuscisse a sostenerne il peso. «Non ti verrà in mente di fuggire, Sarah. Il viaggio che ho dovuto affrontare per venire a prenderti è stato incredibile». Conosceva il mio nome. Ed era venuto a prendermi. Se pensai davvero di fuggire? No. Avrei venduto la mia stessa anima pur di vedere il volto di chi, per una volta nella mia vita, aveva fatto qualcosa in mio nome. Non importava a quale scopo, né il risvolto che da ciò ne sarebbe nato. L’avrei conosciuto a qualsiasi prezzo. «Chi sei? Perché proprio io?». «Perché proprio tu… cosa? Quando saprai perché sono qui maledirai il mio nome. Tuttavia non potrai fare a meno di ringraziarmi in eterno». Così dicendo, decise finalmente di voltarsi e di puntare i suoi occhi neri e ardenti nei miei. E lo vidi. Era lui. In fondo lo sapevo già, ne ero quasi sicura. Avevo solo bisogno di sentirmi il cuore spaccato in due per far svanire ogni dubbio.
Thomas mi si scagliò addosso con una violenza inaudita, scaraventandomi contro le pareti di ghiaccio frastagliato che andava formando i bordi del pozzo a noi vicino. Sentii il cranio trafitto da una quantità incalcolabile di lame, la vista si annebbiò e caddi senza riuscire a trovare un appiglio a cui aggrapparmi. Dopo pochi istanti dal trauma, il sangue iniziò a scorrere copioso per tutto il mio viso e giù fino a chiazzare di rosso il manto di neve che a breve avrebbe abbracciato il mio massacro. L’Angelo Nero mi raggiunse in un balzo agganciando i suoi artigli alla carne scoperta delle mie clavicole, e risollevandomi da terra come fossi un peso morto. Ci volle qualche attimo prima che mi rendessi conto di essere io stessa la fonte delle urla agghiaccianti che si espandevano intanto nell’aria, mascherate dal suono ridondante delle campane a festa per i rintocchi della mezzanotte. Quando Thomas avvicinò il suo volto al mio, osservandomi attraverso gli occhi orlati di sangue e lacrime, l’alito freddo proveniente dalle sue labbra mi pervase di gioia e indicibile dolore. «Avrei voluto evitare tutto questo, ma tu… Tu non mi hai dato scelta! Tutti questi anni sprecati a logorarti dentro, a rendere la tua carne un mero pasto per cani!». Avrei voluto trovare la forza di rispondere alle sue accuse, ma non avevo più neanche il fiato per respirare. Sì, avrei voluto dare voce ai pensieri che mi tormentavano da sempre, quelli che erano stati capaci di gettarmi in una cieca disperazione utile soltanto a vendermi al migliore offerente. Centinaia di uomini avevano pagato profumatamente per una notte da trascorrere tra le mie gambe, ed ero stata io a volere che fosse così. Così, per non avere il tempo, il modo, né la voglia di ricordare. Perché l’unica cosa che aveva dato un senso alla mia vita, dal giorno in cui avevo perso l’amore di Thomas, era stato il piacere della carne. Quello estremo, capace di annebbiare i sensi e la percezione della stessa realtà. «Buon Natale!». Esclamò qualcuno in lontananza, mentre d’un tratto mi sentii perforare l’addome da un palo incendiato, che scoprii poi essere un intero braccio del mio assassino. Di colui che era giunto a salvarmi. «Se non avessi provato sulla mia pelle l’orrore dei luoghi che ho dovuto attraversare, adesso non sarei tanto sicuro di ciò che sto facendo. Io avrei potuto farcela: l’eternità sarebbe stata accettabile se almeno avessi saputo te e Raoul al sicuro. Ma ho dovuto rinunciare a tutto… e venire fin qui, dicendo per sempre addio all’immortalità che mi era stata promessa». Il suo dolore sembrava sincero. Lo era realmente. Con la bocca piena di sangue, la lingua gonfia tra i denti e ogni singola arteria del mio corpo in procinto di esplodere, riuscii a chiedergli prima di esalare il mio ultimo respiro: «Perché?». Mi guardò con tutto l’amore d’un tempo, con il tormento e la pace di chi sa bene cosa gli riservi il futuro: «Se questa notte l’avessi trascorsa insieme al ragazzo che hai lasciato ad aspettarti a casa… anche tu, un giorno, saresti diventata come me. E nulla avrebbe potuto impedirlo: è tuo figlio, Sarah. Nostro figlio. E’ Raoul, lo stesso bambino che hai abbandonato subito dopo averlo dato alla vita. Il frutto di un amore maledetto da un destino già segnato. Non potevo permettere che…»
L’Angelo Caduto smise di parlare. Mi cinse poi delicatamente alla vita, quasi come se -per assurdo- temesse di farmi male. Abbozzai un sorriso che mi costò ogni residuo di energia rimasta. Raoul. Il bambino che avevo rimpianto per tutta la mia misera esistenza, l’unico tesoro avuto tra le mani e lasciato andare via a causa della mia malsana paura di vivere come avrei dovuto in assenza di Thomas. Il terrore della solitudine aveva trasformato la mia vita in una prigionia senza fine. La paura era divenuta realtà, e l’unica artefice di un isolamento tanto distruttivo… ero stata io. L’amore che mi univa a Thomas aveva dimostrato di essere più forte della morte, della condanna che pendeva sul nostro capo, degli Inferi e di ogni altra potenza che ci sovrastava. L’unica cosa che importava, adesso, era l’aver scampato l’abominio che stavo per compiere, seppure inconsapevolmente. Ebbi solo il tempo di sentirmi adagiare sulle sue ali soffici e calde, e di percepire il volo in cui ci lanciammo. Non mi spaventava l’idea dell’eterno vagare che ci attendeva, né l’ignoto di ciò che sarei diventata… dopo che la morte mi avrebbe colta. Pensai solo a quanto fosse bello sentirmi cullata da quella gelida salita verso l’infinito.
WONDERFUL KILLER
Da piccola amavo le farfalle. Così delicate e indifese, fragili al tatto e in balìa del tempo. Eppure talmente belle da non dover temere confronto alcuno. La loro forza risiede in ogni piccola sfumatura colorata, in quella rete di venature che va a formare le ali di cui si vestono per attirare l’incanto di chiunque le veda, e attraverso le quali può essere letta un’intera storia… la trama di un destino ancora da percorrere. D’affrontare. Sì, amavo le farfalle. Finché non sono diventata una di loro. Non per mia volontà, sia chiaro, ma adesso non c’è nulla che mi differenzi da una pupa bell’e cresciuta. Niente. Neanche la memoria. Tutto ebbe inizio una lontana Vigilia di Natale, non ricordo esattamente l’anno. Quella sera la famiglia si era riunita ai piedi dell’enorme albero addobbato di fiocchi e caramelle per eseguire il repertorio canoro natalizio in attesa della mezzanotte. Ognuno con il suo plaid e la propria ciambella fumante tra le mani, ridendo e scherzando come se quei precisi attimi fossero i più belli di tutta una vita. Nessuno avrebbe avuto motivo di allontanarsi da quel nido caldo e colmo di serenità. Nessuno. Eccetto la sottoscritta. Attendevo da un anno il momento in cui avrei potuto assistere allo stupore comune nel vedermi scendere dal camino con tanto di cappello rosso e barba bianca. Sì, per una volta sarei voluta essere io l’artefice della loro gioia nell’aprire i regali che avevo confezionato personalmente; desideravo stupire i miei cari e lasciare in loro un ricordo di cui parlare in vista della mia prossima partenza per il rientro al College. Avevo preparato tutto: una corda per affrontare la discesa in sicurezza, le protezioni in caso di caduta accidentale, gli scarponi antiscivolo. Per dirla breve, ero certa che -se il mio piano fosse fallito miseramente- nessuno avrebbe potuto incolparmi di trascuratezza, e già mi piaceva immaginare le risate che avrebbero rallegrato ulteriormente la serata. Le cose, però, andarono diversamente. Quel Natale… cambiò radicalmente la mia intera esistenza, capovolgendo il mondo di cui prima mi sentivo parte. Sgattaiolata fuori casa, mi diressi verso la scala esterna. Nonostante le ore di festa, lungo la strada regnava un silenzio quasi irreale, spezzato dal miagolio di un micio in lontananza. I gradini erano lastricati di ghiaccio, e il mio primo errore fu proprio quello di mettere un piede in fallo rischiando di rompermi l’osso del collo nel cadere all’indietro.
Ma non caddi. Qualcuno mi afferrò per le spalle, impedendo il peggio. Pensai subito a mio fratello Karl, allo zio William... in realtà non ebbi il tempo di vedere il volto del mio soccorritore: una lurida pezza imbevuta di cloroformio premuta sulle mie labbra spalancate per il terrore, e tutto ebbe inizio. Il sapore della paura, di quel terrore che inizia a scorrere nel sangue, nella bocca, che ti stringe i polmoni fino a farti soffocare, prendendo a ruotare in una voragine impazzita strizzando le palle degli occhi finché non le senti esplodere e forarti il cervello come proiettili… Sì, parlo dello stesso suono che il buio ha la capacità di proiettare nella mente umana, dell’indefinibile odore che l’aria riesce ad assumere quando anche soltanto un respiro sembra essere in grado di annientare tutto di noi, in carne e spirito. Insomma, ciò di cui parlo… lo conoscete? È lo stato forzato dell’immobilità. È la possibilità di aprire gli occhi e d’un tratto scoprire di essere in un mondo dove ogni istante viene scandito dall’eterna condanna che qualcuno, lì fuori e senza motivo, ha deciso per te. È vedere la tua vita ridursi al gocciolare di un tempo privo di memoria, schiacciato da soffici catene che impediscono ad ogni arto di muoversi, di vivere. Giacqui così, inerme come un bruco e avvolta nel mio cuscino di seta divenuto ben presto la prigione che mi avrebbe resa la Lucilla di oggi: una meravigliosa assassina. Quando riaprii gli occhi fu per mai più richiuderli. Richiuderli davvero. Mi resi subito conto di essere del tutto immobilizzata, fasciata come uno spiedino da una pelle che non riconoscevo più come la mia. Rischiai di perdere il respiro per il terrore da cui venni sopraffatta, finché non vidi le altre. Le altre farfalle. Eravamo tutte lì, mantenute in forma di bruco e in attesa di schiudere le nostre ali. Non saprei dire se qualcuna di loro fosse, come me, ancora viva. Nessuna avrebbe potuto guardare negli occhi delle altre, impossibilitate a muoverci com’eravamo. La stanza era apparentemente vuota, ma in seguito capii che in fondo alle pareti più oscurate dovevano esserci dei tavoli con i diversi arnesi infernali che lui utilizzava per mantenerci nello stato in cui desiderava. Lui. L’uomo senza voce, senza anima o pensiero. L’essere raccapricciante la cui esistenza ruotava chissà, forse da sempre, attorno ad un unico desiderio ossessivo: trasformare le sue preziose vittime in splendide farfalle, in quegli esseri superiori che parevano essere la sua unica fonte di felicità e orgoglio. Perché sì, era questo che riuscivo a leggere attraverso i suoi occhi, quando se ne stava disteso sul mio ventre violentandomi come fossi un pezzo di legno da spezzare in due. Un orgoglio smisurato, una soddisfazione ai limiti del possibile, un piacere che sfiorava l’apice della follia si rifletteva nelle sue iridi buie e quasi invisibili, mentre mi sbatteva con tutta la forza brutale di cui era dotato. In verità, era l’unica espressione che il suo volto sembrava capace di assumere, indipendentemente da ciò che le sue mani stessero facendo. Dunque durante tutte quelle volte in cui sollevava le bende all’altezza dei genitali per pulirli con così tanto vigore da spellarmi fino a farmi sanguinare. O anche quando, ogni giorno, ci infilzava con una siringa per iniettare il liquido giallastro contenente le vitamine necessarie alla nostra sopravvivenza. Perché sì… noi sopravvivevamo.
Ci aggrappavamo con sovrumana disperazione a quelli che sarebbero potuti essere, di volta in volta, gli ultimi istanti della nostra vita, per quanto poi… durante il resto del tempo, avremmo desiderato ardentemente di morire una volta per tutte. Finché giunse il giorno in cui iniziai a non provare più nulla. A credere che anche la mia anima, così come il corpo, stesse finalmente assumendo le sembianze volute dal mio prigioniere, arrendendosi a quella metamorfosi forzata che, d’improvviso, divenne la mia unica fonte di salvezza. Era sera, lo capii perché dall’unico lucernaio che lasciava intravedere la differenza tra il giorno e la notte -attraverso due spaccature delle tavole di legno che erano state inchiodate ad esso- , non filtrava più neanche un filo di luce. Lui era intento a umiliare un’altra pupa nella carne e nello spirito, ed è terribile pensare che la sofferenza di un’altra vittima sia valsa la mia libertà. Mentre lo stupratore mi voltava le spalle, iniziai a sentire qualcosa muoversi lungo tutta la mia schiena. Non provai dolore, né paura. Fu una sensazione irripetibile: l’aprirsi di un mondo ancora inesplorato, il caldo flagello di una prigione che era stata per così tanto tempo la mia casa, la mia seconda pelle. Un fluido semidenso iniziò a scorrere via dalla parte alta del mio addome, facilitando l’uscita definitiva dall’involucro in cui avevo giaciuto durante l’intera prigionia. E fui libera. Attirato dai rumori alle sue spalle, il mostro si voltò in maniera fulminea per poi rimanere impietrito innanzi la visuale che gli offrivo. Così, senza soffermarmi a pensare su ciò che non aveva bisogno di essere ponderato, mi fiondai sul primo oggetto che sentii scontrare sui miei piedi, ritrovandomi con un bisturi tra le mani. Non fu affatto difficile. Quando mi si scagliò addosso, non dovetti far altro che puntare la lama dritta al suo ventre e colpire. Colpire. Colpire. Colpire un numero incalcolabile di volte, finché non sentii la carne sfaldarsi tra la mia mano serrata a pugno e l’arma che quest’ultima stringeva avidamente. Allora incisi un taglio profondo dal torace al basso ventre, svuotandolo velocemente delle interiora e di tutto ciò che riuscii a strappare via. A quel punto, le sue urla agghiaccianti dovevano aver cessato da un bel po’ di rimbombare per l’intero scantinato in cui ci trovavamo, ma io continuavo a sentirle: così vivide e accese, eccitanti e micidiali… la musica più dolce per le mie orecchie. Dopo averlo sventrato, andai a sostituire quel che avevo eliminato con i lembi dell’involucro di cui mi ero liberata . Lo farcii come un tacchino ripieno, per poi ricucirlo di tutto punto -dopo aver trovato ago e filo su uno dei tavoli da lavoro lì vicino- . E sì, pensai che anche lui avesse diritto ad una nuova casa per coronare l’eterna prigionia che lo attendeva. Afferrai dunque le budella ancora arrotolate al suolo e le attorcigliai attorno al suo capo, facendo bene attenzione a lasciare che soltanto gli occhi restassero liberi di potersi “muovere”.
Allucinata e fuori da ogni ragionevole contegno, mi guardai attorno senza più essere certa di chi… o meglio, di cosa fossi e di ciò che a quel punto avrei dovuto fare. Mi guardai attorno annaspando in quella coltre di oscurità alla quale mi ero oramai abituata, e diedi uno sguardo veloce al resto degli altri involucri lì presenti: erano tutte morte. Mi soffermai su ogni cadavere, ma fui presto sicura che lì dentro nessun’altra farfalla avrebbe potuto spiccare il volo. Non ricordo esattamente come, ma infine trovai una via d’uscita. Il gelo che mi accolse fuori dal nascondiglio da cui ero miracolosamente fuggita, sconvolse ogni mio muscolo. Nuda e indifesa, ero ancora impiastrata del liquido gettato via durante la schiusa, e fu allora che le sentii: un peso all’altezza delle spalle che ciondolava fino a sfiorarmi il polpaccio, un fardello divenuto condanna e salvezza… le mie ali. Provai ad aprirle, lentamente. Iniziai a pompare emolinfa, la sentivo scorrere lungo tutta la rete di venature che tracciavano la superficie corvina delle ali. «Caspita! Hai un costume strepitoso, bellezza. Buon Natale!». Un ragazzo passava di lì a cavallo della sua vespa e con un carico di pizze da portare a domicilio. Quando si accorse della mia nudità integrale, rimase a bocca aperta per lo stupore, rischiando di andare a schiantarsi contro un palo della luce. Ed io, spiegate del tutto le ali, spiccai il volo. «Buon Natale!». Gridai dall’alto, per nulla sicura che il garzone fosse riuscito a sentirmi, visto l’improvviso sopraggiungere del rintocco a festa della mezzanotte. Per uno strano scherzo del destino, il Natale aveva segnato la fine della mia precedente vita, nonché l’inizio di un’altra esistenza… nuova, ignota, spietata. Libera.
I BAMBINI DI HORRORS STREET Le strade dell’intero villaggio erano permeate dal buon odore proveniente dai forni delle abitazioni. Ovunque vi erano enormi calderoni attorno ai quali la gente, al sopraggiungere delle ore serali, faceva la fila per comprare, a pochi spiccioli, un cono fumante di caldarroste. Le vetrine non erano mai colorate come il quel periodo dell’anno, e il profumo di zucchero bruciato mai tanto intenso. Perché il Natale si sa, ha il proprio inconfondibile aroma: di cannella, cioccolato, panbiscotto, frutta secca e abbondanza. Soprattutto, abbondanza. Un’eccessiva, ingorda, sovraccarica abbondanza che, immancabilmente, miete le vittime di turno mascherando la loro fine dietro una grassa risata. In quel paese, tuttavia, esisteva un luogo dove la magica atmosfera natalizia era capace d’infondere nell’animo delle famiglie soltanto terrore e sete di vendetta. Un luogo fetido e putrescente, abitato da miserabili affamati di vita. Quel luogo pareva non aver mai avuto neanche un nome, ma tutti lo conoscevano come Horrors Street. In questa strada sempre affollata di bambini cenciosi e perlopiù affetti da malattie causate da uno stile di vita misero e disagiato, nessun genitore poteva dirsi realmente fortunato se non dopo il compimento, da parte dei loro figli, del sedicesimo anno di età. Il motivo? La prematura, imprevista, misteriosa scomparsa di ogni fanciullo che fosse abitante del luogo, godesse di una discreta salute e avesse la sfortuna di possedere un volto grassottello e delle guance rosee da mettere in bella mostra. Accadeva così ogni Natale, chissà… forse da sempre. Finché qualcuno non decise che qualcosa, quell’anno, sarebbe dovuto cambiare. Il piccolo Tom, figlio del mulattiere e primogenito di sette fratelli, il 25 Dicembre avrebbe compiuto esattamente sedici anni. Nonostante i ragazzini di sua conoscenza facessero di tutto per apparire smagriti e malaticci -soprattutto in vista del periodo natalizio- , Tom non si era mai fatto coinvolgere troppo dalla paura comune che circolava lungo la Via nella quale la sua povera famiglia era costretta a vivere, piuttosto non riusciva a placare la curiosità che lo divorava: scoprire che fine facessero i bambini scomparsi era per lui divenuta una vera e propria ossessione.
Un giorno, si ritrovò a dover percorrere la strada di ritorno verso casa con terribile ritardo, avendo assistito al difficile parto di una vacca. Il tramonto era scemato già da un paio d’ore, e quando il ragazzo giunse finalmente nei pressi della modesta casupola in cui abitava -dove sia gli anziani genitori che i fratelli aspettavano il suo ritorno trepidanti e con un macigno nel cuore che non presagiva nulla di buono- , fu accolto dalle strade deserte e terribilmente silenziose del villaggio. L’ansia iniziò a soffocare il suo ferreo autocontrollo, un brivido gli percorse la schiena facendolo vacillare. La paura si respirava nell’aria, ogni minimo movimento faceva sì che la gola si chiudesse in un nocciolo impossibile da inghiottire. Poi un urlo, breve e agghiacciante, echeggiò tra le sterrate vie del paese. Tom si sentì braccato e senza alcuna possibilità di fuga, ma il vero terrore sopraggiunse quando vide con i suoi occhi il piccolo Claus -figlio del calzolaio e compagno di giochi del fratellino minore- correre disperatamente e venire acciuffato per il colletto della giacca lacera che indossava, da un uomo alto e scheletrico che in un batter d’occhio riuscì a infilarlo dentro un enorme sacco di tela. Incapace di dare voce allo sgomento da cui si sentì sopraffatto, Tom capì di dover fare una scelta, e subito: fuggire, fuggire il più lontano possibile finché il fiato glielo avesse concesso, o farsi catturare e cercare una volta per tutte la verità sul mistero di Horrors Street. Anche a costo della propria vita. Lo sconosciuto caricò sulle spalle il piccolo fardello umano, per poi dirigersi verso il carro che aveva lasciato incustodito poco lontano da lì. Fu quello il momento giusto per mettersi allo scoperto. Non appena Tom diede un calcio al primo sasso sottotiro, l’uomo raddrizzò il collo indirizzando gli occhi infuocati come tizzoni ardenti dritti nella sua direzione. E lo vide. Nonostante il ragazzino abbia realmente tentato di sfuggire alla furia abominevole mostrata dalla corsa in cui l’aguzzino si lanciò, non ebbe neanche il tempo di percorrere un centinaio di metri che si ritrovò colpito da un pugno e steso a terra, privo di sensi. Il suo risveglio fu scandito da un forzato tossire a causa dei fumi che aleggiavano per tutto l’ambiente. Gli occhi presero a lacrimargli e dovette acuire la vista a lungo, prima di riuscire a distinguere ciò che circondava la gabbia in cui era stato segregato: numerosi operai correvano in lungo e in largo e qualcuno, dalle scale in fondo allo stanzone, lanciava ordini su come condire un pasticcio, quale cottura utilizzare su un determinato taglio di carne, con che tipo di nastro incartare il polpettone e via dicendo. Gli enormi calderoni emanavano un profumo delizioso e capace di procurare terribili crampi di fame allo stomaco. Ma quel che attirò maggiormente l’attenzione di Tom, furono i lamenti soffocati che accompagnavano ininterrottamente il continuo lavorio circostante. E allora si rese conto di non essere solo. Di non essere l’unico imprigionato in quella sorta di cucina infernale. Quando gli occhi iniziarono ad abituarsi al calore e ai vapori, Tom vide la mano nodosa che aprì velocemente la gabbia adiacente alla sua. Da questa ne fu letteralmente strappato via un corpicino alto non più di un metro, nudo e scalpitante. Il bambino era imbavagliato fino al naso ed emetteva grida soffocate simili a grugniti.
«La tua ciccia renderà il paté ancora più gustoso, ah ah! E smettila di scalciare come un maiale!». Strepitò la vecchia cuoca che in una mano brandiva un coltello da cucina e con l’altra riusciva a mantenere sospeso il povero bambino come fosse un salame. Poi avvenne. Lo schianto del corpicino sul piano di lavoro, una breve lotta di calci e pugni… fino a quel rumore, soffice e quasi melodioso, della lama che entrava nella carne dell’infante, tagliando la sua gola e aprendola a metà. Il sangue che ne uscì a fiotti schizzò tanto da raggiungere la cella di Tom, rimasto impietrito di fronte lo scempio che intanto si consumava proprio lì, a pochi passi da lui. Il ragazzo fu colto da tremendi conati di vomito al vedere l’assassina chinarsi sul collo della vittima e succhiare via generosi sorsi di sangue per assaporarne la consistenza. «Signora, la carne è freschissima! Che ne direste se ne utilizzassi una parte per il pasticcio?». La donna che impartiva gli ordini dalle scale fece un segno d’assenso, così l’altra iniziò a spellare, squartare e fare a pezzi la preda di turno. Intanto, il medesimo… macabro spettacolo si ripeteva di continuo sul resto dei tavoli lì presenti. Oramai certo che quella fosse la fine anche a lui riservata, Tom arretrò fino ad accartocciarsi in un angolo della gabbia. «Tom! Tom! Sono io, Claus». Sobbalzando per lo stupore, il ragazzo rivide il suo compagno di sventure. Era rimasto per tutto il tempo alle sue spalle, paralizzato per il terrore. «Mentre eri ancora privo di sensi, ho visto il suo volto. È lei, la signora Muller! La moglie del fornaio. Tom, proprio non lo capisci? E’ questo il destino a cui vanno da sempre incontro i bambini scomparsi di Horrors Street. E per noi… per noi non sarà diverso!». Il piccino scoppiò in lacrime, aggrappandosi a una manica lacera di Tom nella vana ricerca del conforto di cui aveva bisogno. In realtà, al figlio del mulattiere era bastata una manciata di secondi per comprendere appieno le dinamiche della vicenda, ma ciò non fece che accrescere a dismisura il disgusto per la comunità in cui era nato, cresciuto, e la quale avrebbe visto la sua morte. Probabilmente imminente. La bottega dei Muller era rinomata in tutta la regione per i suoi succulenti e prelibati incarti natalizi. I pasticci di carne, così come tutte le altre leccornie che offriva, erano tra i primi piatti che le tavole delle famiglie “perbene” offrivano ai loro commensali durante i giorni di festa. Nel corso del tempo, le ricchezze dei Muller erano aumentate a tal punto da permettere a questi ultimi di costruire un vero e proprio laboratorio d’occasione, utilizzato unicamente per i prodotti venduti in tutto l’arco del periodo natalizio. Chi avrebbe potuto immaginare la serie di orrori che, anno dopo anno, si ripeteva come un rituale mostruoso capace di seminare panico e desolazione in tutte le povere famiglie del villaggio? La carne dei bambini rapiti aveva riempito le pance di persone avide e ingorde -seppure inconsapevoli di ciò che in realtà ingurgitavano-, ingrandendo la profonda piaga che andava a separare una popolazione sempre più legata alle differenze sociali.
Il piano diabolico di donna Lilian Muller aveva dato i suoi frutti perché alimentato da un terreno velenoso, ostile. Finché Tom non fu sicuro di ciò che avrebbe dovuto fare per salvarsi la vita. «Ascoltami bene, Claus: se farai tutto quel che ti dico, domani potremo festeggiare il Natale a casa, con le nostre famiglie».
Le ore trascorsero lente, inesorabili. Il momento in cui il killer di turno sarebbe dovuto andare a prendere Tom per farlo a pezzi, sembrava non giungere mai. Il vociare comune era divenuto un ronzio costante che accompagnava il rumore sordo dei corpi massacrati e gettati a bollire nei calderoni o tra i tizzoni ardenti dei forni. Tom tremava così forte da temere che il suo piano risultasse fallito in partenza, ma quando fu l’ora di agire, il suo polso si rivelò fermo come quello del più spietato ed esperto assassino. «Muoviti! Non ho tempo da perdere!». Ringhiò l’uomo sopraggiunto alle sbarre brandendo un’accetta con movimenti feroci. Senza pensarci su, Tom si scagliò contro il nemico aggrappandosi al suo collo e piantando in quest’ultimo il piccolo pugnale che quel giorno aveva portato con sé per affrontare il parto della vacca. L’uomo non ebbe modo di emettere alcun suono, né di lanciare l’allarme al resto della squadra di cuochi dell’orrore. Così, mentre stramazzava al suolo in un lago di sangue, Tom riuscì a sganciargli via dalla cinta il mazzo di chiavi per aprire il resto delle celle. Seppure sotto choc, il piccolo Claus non esitò a seguire come un’ombra il suo salvatore, sgusciando via dalla gabbia in cui erano stati rinchiusi. I bambini vennero liberati uno ad uno e, per quanto risulti sconcertante, Tom ringraziò in cuor suo la densa coltre di fumo che ovunque aleggiava proveniente dagli stufati umani che intanto ultimavano la loro cottura- , facilitando alle vittime la possibilità di muoversi senza essere scoperti facilmente. Striscianti tra i tavoli da macello, ognuno si armò di un’arma con cui effettuare la propria vendetta. «Ehi, tu! Da dove diavolo sbuchi?!». Gridò uno dei più giovani agli ordini di Miss Muller. E la carneficina ebbe inizio. Le lame sfrecciavano ovunque come fulmini d’argento. Alcuni bagliori apparivano e svanivano alla velocità della luce, attraversando l’aria pesante e intrisa di uno strano profumo dolciastro e pungente misto tra sangue e spezie. Non vi era più alcuna distinzione tra vittime e carnefici: fegato, occhi, cuore… tutto veniva letteralmente spaccato in due, in uno sfacelo di vite umane che mai più avrebbero potuto raccogliere i loro pezzi e rimetterli in sesto. I ragazzi rapiti furono decimati. I loro aguzzini rasi al suolo, annegati in quegli stessi calderoni che soltanto fino a qualche attimo prima avevano raccolto le loro gocce di sudore, unendole ai liquidi dei corpi in cottura.
Senza neanche discuterne -perché nessuno avrebbe avuto obiezione alcuna a tale iniziativa- , i sopravvissuti si accinsero a dare tutto alle fiamme e uscire via dalla fabbrica infernale, tornando alla vita di sempre per mai dimenticare ciò che avevano visto e vissuto. Un incendio, quello che inghiottì l’intera bottega degli orrori, al di là del possibile: le lamine di fuoco si ergevano guizzanti e altere verso il fondo blu del cielo, gonfiandosi in bandiere incandescenti che stridevano parole sussurrate al silenzio della notte, segreti inconfessabili e grida di libertà. Quel Natale, Tom e il resto dei bambini di Horrors Street lo trascorsero a casa, con le loro famiglie. Nessuno chiese loro cosa fosse accaduto, né osò parlare ancora di quella storia divenuta leggenda. Certo è che non un solo abitante del villaggio ebbe il benché minimo intento di estrarre la testa della signora Muller via dal palo in cui era stata piantata. E tutti lasciarono che i suoi occhi sbiancassero alla luce del sole, e le cervella venissero divorate dai vermi.
ANIME GEMELLE Restai a guardarla per ore, immobile per il timore di svegliarla e non poter godere di quell’immagine perfetta. Il sonno, dopo aver fatto l’amore, la rendeva ancor più bella del solito. Riempii per una buona metà il mio calice di vino, finché non scesero le ultime gocce dal fondo della bottiglia. Il fuoco danzava allegro nel camino, crepitando indisturbato. Stagliate sullo sfondo del tappeto nero su cui Nora era sdraiata, le curve nude e morbide del suo corpo venivano carezzate dalla patina dorata che si rifletteva per tutto il soggiorno del nostro chalet. La sua pelle, così simile all’avorio più pregiato, brillava come la neve che intanto fuori cadeva in lente giravolte. Non avevo mai vissuto il Natale con lo spirito giusto. Non avevo mai vissuto il Natale. Quell’anno, però, c’era lei. E questo valeva dire poter essere, almeno per una volta, parte di quel mondo in cui mi ero sempre sentito stretto, inappropriato, inutile. Tremavo al pensiero di perderla, di ritrovarmi improvvisamente con la giusta condanna pendente sul mio capo… e tutto per ciò che avevo commesso. Finché questa segreta e inconfessabile paura non si materializzò innanzi i miei occhi, mostrandosi in tutto il suo orrore. Quando gustai le ultime gocce del vino con cui avevo tentato di annebbiare la ragione, trasalii al sopraggiungere di un rumore sordo. Qualcuno o qualcosa graffiava con i suoi artigli gli infissi della porta d’entrata che, dopo alcuni istanti di assoluto silenzio, si spalancò con inaudita violenza. Dapprima entrò un vento gelido, capace di penetrare fin dentro le ossa e intorpidire i sensi. Poi avanzò lei. Lei, che avevo amato più del sangue che mi scorreva nelle vene. Lei, che ogni giorno era in grado di entrare nei miei peggiori incubi. Lei, delizia e follia dei miei più reconditi desideri. Lei, che avevo ucciso nel peggiore dei modi con le mie stesse mani. Nessuno avrebbe mai potuto anche solo immaginare il passato che da anni, oramai, trascinavo dietro i miei passi in un silenzio incapace di dimenticare.
No, nessuno era stato in grado di leggere la cieca gelosia che aveva preso a divorare le parti migliori di me, fino a divenire un’autentica ossessione; né la brutalità dei miei pensieri, neri e spaventosi sotto il filo spinato della sete di vendetta che anelavo nei confronti di Claudia e del suo presunto mai accertato- tradimento. Quella maledetta sera di cinque anni prima, rovesciai i dadi del mio destino lasciandomi trasportare da una furia animale incontenibile e capace di strappare via la cosa più importante di tutta la mia vita. Da un mese, oramai, il sospetto di una relazione segreta tra Claudia e un suo collega di lavoro si era insinuato in me senza darmi tregua. Giunto al limite della sopportazione decisi di dirle la verità, sperando che un dialogo aperto e sincero potesse appianare il mio stato d’animo. Ma le cose andarono diversamente dal previsto… Una sera non riuscii a credere ai miei occhi: se fossi rincasato solo qualche secondo più tardi, non avrei visto il saluto fin troppo caloroso che Claudia era intenta a scambiarsi con uno sconosciuto di cui avrei per sempre ignorato l’identità. Alla vista di quelle effusioni qualcosa, nella mia mente, si ruppe. Attesi che l’uomo senza volto svoltasse l’angolo con la sua Mercedes nera, poi iniziai a percorrere lentamente il vialetto di casa, mentre Claudia era ancora con il mazzo di chiavi in mano. «Lorenzo, sei tu! Mi hai spaventata. Sei uscito prima dall’ufficio?». Ma la sua domanda rimase priva di risposta, appesa all’orrore che a breve avrebbe preso vita tra le mura di quello che, un tempo, era stato il nostro nido d’amore. Non ebbe neanche il tempo di varcare il ciglio di casa, prima che io la facessi atterrare all’ingresso con un pugno sordo e mirato dritto all’addome. Lo stupore pieno di terrore e sconcerto che vidi riflesso sul suo volto non mi scalfì minimamente e anzi, iniziai a sentirmi attraversato da un’onda anomala di rabbia capace di eccitarmi e spingermi a sfogare l’energia distruttiva di cui mi sentivo incredibilmente dotato. Chiusi la porta alle mie spalle e continuai a colpire. Picchiare. Ferire. Rompere ogni singolo arto del suo corpo, dello stesso corpo che avevo amato con tutta l’anima e nelle cui braccia avevo trovato rifugio innumerevoli notti. Finché il tempo smise di scorrere. E il nome della donna che mi apparteneva non svanì sul volto tumefatto che non smettevo di umiliare, nonostante oramai si fosse ridotto ad un ammasso deforme di carne e sangue. Quando mi resi conto di ciò avevo fatto, era quasi l’alba di un nuovo giorno. Il primo che avrei iniziato a vivere senza Claudia al mio fianco. Il tempo del dolore avrebbe trovato il suo momento per sopraggiungere implacabile, ma quella… quella era l’ora della sopravvivenza. Sapevo bene di dovermi assolutamente liberare d’ogni traccia che avrebbe reso me unico colpevole della terribile morte di Claudia. E così feci, dando vita al peggiore degli incubi che fui costretto ad affrontare: la sua assenza.
Trascorsi un anno intero nel delirio più straziante, il senso di colpa mi lacerava l’anima e la ragione. La mia palese sofferenza per la perdita subita -unita alla totale mancanza di prove che avrebbero potuto incriminarmi per la sua scomparsa- indusse amici e conoscenti a compatirmi; erano tutti consapevoli del fatto che nulla sarebbe riuscito a placare il mio dolore. Poi decisi di trasferirmi, dicendo per sempre addio al passato vissuto con Claudia e a tutto ciò che ne aveva fatto parte. Così lasciai l’Italia e andai a vivere ad Oxford, dove avrei trovato il modo d’incontrare, conoscere, frequentare e iniziare una storia con Nora, gemella della mia defunta compagna. Avevo progettato tutto nei minimi particolari, il mio piano era elevato alla perfezione. Quando inscenai il primo incontro fortuito, Nora non avrebbe certo potuto immaginare che fossi l’ex fidanzato della sorella -mai conosciuto per via dei difficili rapporti che avevano raffreddato il legame tra le gemelle a causa della passata separazione dei genitori-. Era, questo, l’unico modo per ritrovare la felicità perduta, quell’amore per cui avevo venduto la mia stessa anima. Potermi perdere in quegli occhi che tanto ricordavano quelli della mia Claudia, sentire ancora il profumo della sua pelle, il sapore dei suoi baci. Fingere, fingere che nulla fosse mutato di quell’amore che avevo tradito e distrutto con le mie mani. Ed è incredibile pensare che tutto sarebbe andato secondo i miei programmi, se la terra non avesse deciso di ridarmi ciò che avevo seppellito per sempre e sostituito con l’inganno.
Il carillon inserito nelle luci intermittenti che accendevano di colori l’albero addobbato, prese a suonare una canzone natalizia che si espanse nell’aria come colonna sonora a ciò che presto sarebbe accaduto. L’orologio a cucù si mise in azione segnando il rintocco della mezzanotte. Era Natale. Claudia mi fissava immobile attraverso gli occhi accesi di una luce incandescente, selvaggia. Le sue guance erano tinte di un colore livido, le mani che protraeva quasi a indicarmi apparivano ossute e violacee come quelle di uno zombie. Ancora oggi non saprei dire a quale creatura soprannaturale associai la sua immagine, ma quel che è peggio… non saprei affatto definire l’essere nel quale è stata capace di trasformarmi. Avanzò di qualche passo trascinando i piedi nudi e incrostati di sangue e fango. Io non la fermai. Non ci provai neanche. In fondo alla mia anima nera, avevo sempre sperato nel suo ritorno. Si arrestò a pochi centimetri dal corpo di Nora, indifeso in un sonno che la rendeva estranea al mondo di morte e orrore che la circondava. La osservò a lungo senza alcuno stupore, incantata ad ammirare e rimpiangere la sua antica immagine riflessa. Finché il timore che aveva iniziato a raschiarmi dentro quasi non si realizzò: colta da un moto di rabbia e frustrazione, Claudia alzò i lunghi artigli con l’intento di piantarli nella gola di sua sorella e sfigurare quel viso perfetto che un dì le era appartenuto.
Ma si fermò. Piegandosi in due per il dolore, non si trattenne dal manifestare la lacerante sofferenza causata dalla pena che ero stato in grado d’infliggerle. D’un tratto si voltò nuovamente a guardarmi, e stavolta fui io a restare incredulo… I lineamenti di Claudia splendevano di nuova bellezza, illuminati da una luce argentea proveniente dalle lacrime che scendevano a rigarle le guance scaldate dal pianto. Potei specchiarmi, un’ultima volta, attraverso i suoi occhi verdi e pieni d’amore. Infine, avvenne. Sentii il mio respiro arrestarsi, i battiti del cuore echeggiare nell’aria. Claudia protese una mano fino a poggiarla sul mio petto. Poi mi guidò a imitare il suo gesto. Allora capii. Lì dove un tempo anche il suo cuore batteva, vi era il vuoto. Un profondo, occulto, incolmabile vuoto che non ammetteva perdono. In un battito di ciglia tornò ad essere la bestia feroce ricomparsa a pretendere il suo riscatto, e mi si scagliò contro addentando la parte centrale del mio volto. Niente e nessuno avrebbe potuto fermare la sua fame di vendetta, ed io lasciai che il dolore divorasse le mie carni fino a non provare più nulla. Fu questo il Natale più bello di tutta la mia vita, e me ne resi conto nel momento in cui sentii il freddo della neve scontrarsi con i brandelli di carne aperta ciondolanti da ogni parte del mio corpo, adesso trascinato via dalle fauci della donna che amavo e inghiottito dal nero della notte che avvolse entrambi nel suo ignoto abbraccio. Era tornata a riprendermi.
FINE
Ho sempre pensato al Natale come ad un bel momento. Un momento gentile, caritatevole, piacevole e dedicato al perdono. L’unico momento che conosco, nel lungo anno, in cui gli uomini e le donne sembrano aprire consensualmente e liberamente i loro cuori, solitamente chiusi... Charles Dickens, "Canto di Natale"