iapsalmata Rivista di Filosofia Riccardo Fanciullacci L 'ordine del bene, l 'ordine del giusto e il soggetto pratico. Visione e opacitĂ in etica tra Moore, Ross e Murdoch
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Diapsalmata Rivista di filosofia issn: 2036-5217 Š 2009-11 |||||||||||||||||||||||||
L’ORDINE DEL BENE, L’ORDINE DEL GIUSTO E IL SOGGETTO PRATICO. VISIONE E OPACITÀ IN ETICA TRA MOORE, ROSS E MURDOCH
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Anno II - Numero 2 Giugno 2011
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L’ordine del bene, l’ordine del giusto e il soggetto pratico. Visione e opacità in etica tra Moore, Ross e Murdoch
_______________________________________________ Riccardo Fanciullacci (Università Ca’ Foscari di Venezia)
«Il problema è accogliere all’interno della filosofia morale il fatto che buona parte del comportamento degli esseri umani è mosso da energia meccanica di genere egocentrico e suggerire dei metodi per trattarlo». Iris Murdoch . «La visione giusta, perfino nel caso di problemi che riguardano più strettamente l’intelletto, e in particolare quando si tratta di percepire sofferenze e malvagità, è una questione morale. Le stesse virtù, e alla fine un’unica virtù (l’amore), sono continuamente richieste e la fantasia (l’io) può impedirci di vedere un filo d’erba così come un’altra persona». Iris Murdoch .
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a bellezza delle composizioni architettoniche delle teorie etiche di George Edward Moore (1873-1958) e di David William Ross (1877-1971), ciascuna con le sue simmetrie e le sue tensioni ricomposte da superiori richiami analogici, non è stata sufficiente a risparmiare a queste costruzioni filosofiche numerose critiche e, anzi, potrebbe essere proprio l’effetto eccessivamente rassicurante di tanto equilibrio di proporzioni ad aver consegnato irrimediabilmente questi due discorsi al passato, a far apparire così poco promettente l’idea di tornare a svilupparli per affrontare le sfide che l’esperienza morale contemporanea ci presenta . Ciò nonostante, la posizione che le opere di questi due filosofi occupano rispetto alla storia della teoria etica analitica, una posizione inaugurale, fa sì che abbiano alcune caratteristiche che per noi possono avere valore: in particolare, il fatto di non potersi realmente appoggiare ad un dibattito già articolato e definito e dunque di non subire l’incanto di un presunto linguaggio filosofico tecnico , le cui distinzioni possono essere impiegate e date per scontate senza bisogno di una sempre nuova riattualizzazione della loro introduzione critica, fa sì che tanto i Principia Ethica di Moore, quanto The Right and the Good di Ross si presentino come opere classiche, che non intervengono su problemi specifici senza ridisegnarne il senso e senza, quindi, ricongiungerli I. Murdoch, Esistenzialisti e mistici. Scritti di filosofia e letteratura (1997), tr. it. di E. Costantino - M. Fiorini - F. Elefante, Il Saggiatore, Milano 2006, p. 340. Ibi, p. 354. In queste righe faccio riferimento ai paradigmi dominanti: è chiaro infatti che nel variegato panorama della filosofia contemporanea, non manca chi difende, sviluppa o corregge l’intuizionismo etico di Moore e Ross; cfr. in particolare: R. Audi, The Good in the Right. A Theory of Intuition and Intrinsic Value, Princeton University Press, Princeton 2005; M. Huemer, Ethical Intuitionism, Palgrave Macmillan, New York 2005. Ovviamente, non nego che esita un linguaggio tecnico in filosofia, nego che esso funzioni, nella comunità di coloro che si dedicano alla filosofia, come i linguaggi tecnici di altri saperi (ad esempio la medicina o l’ingegneria o la geologia) funzionano nelle comunità di coloro che si dedicano a questi altri saperi. Detto altrimenti: esistono dizionari ed enciclopedie filosofici, ma in ciascuna delle voci da cui sono composti, sono registrate oscillazioni semantiche da un filosofo all’altro, lungo la storia, ma anche nel presente, che rendono impossibile che questi vocabolari ed enciclopedie svolgano la funzione che pubblicazioni analoghe svolgono in riferimento ad altre discipline.
Riccardo Fanciullacci
alla domanda, il corpo a corpo con la quale ne impone la risoluzione . Insomma, proprio in quanto gli strumenti concettuali impiegati in questi scritti sono introdotti e legittimati all’interno del movimento teorico che li attraversa, allora le tesi e le argomentazioni in cui tali strumenti ricorrono hanno meno il sapore dell’autoreferenzialità o della dipendenza da cornici e paradigmi ricevuti, di quanto non l’abbiano molti dei saggi, più circoscritti e più dettagliati, che sono poi stati prodotti e vengono ancora prodotti nella tradizione che ha in Moore e Ross due dei suoi padri fondatori . Ora, questa caratteristica delle opere di Moore e Ross, oltre ad avere un interesse per chi si dedica a una riflessione filosofica sulla natura della filosofia, fa sì Come è noto, Iris Murdoch, oltre che autrice di alcuni libri di filosofia morale, ha scritto ventisei romanzi; ebbene, nel primo, Sotto la rete, c’è un personaggio, invero piuttosto secondario, di cui si dice che «stava scrivendo un articolo per Mind sull’assurdità dei sosia», notizia che il protagonista-narratore glossa aggiungendo: «diverse volte aveva cercato di spiegarmi la sua soluzione, ma io non ero ancora riuscito ad afferrare il problema»; I. Murdoch, Sotto la rete (1954), tr. it. di A. Micchettoni, Garzanti, Milano 1966, p. 204. Un’insofferenza non solo e tanto contro certe metodologie del lavoro filosofico come la discussione di esperimenti mentali e controesempi, quanto soprattutto contro la fissazione quasi esclusiva della ricerca su queste strategie e il conseguente irrigidimento dello scacchiere teorico in cui la riflessione ha da muoversi è uno dei tratti che caratterizzano più di frequente i pensieri, per il resto anche radicalmente differenti, delle filosofe morali di lingua inglese: cfr. A.C. Baier, What do women want in a moral theory? , in Id., Moral Prejudices. Essays on Ethics, Harvard University Press, Cambridge (MA) 1994, pp. 1-17. Questa insofferenza, comunque, coinvolge anche alcuni uomini: tra i possibili esempi (A. MacIntyre, C. Taylor, S. Cavell ecc.) cito l’interessante e decisa critica ad un approccio alla moralità centrato sulla teoria dei giochi con i suoi famosi casi (ad esempio quello del prigioniero) che è offerta ad esempio da I. Hacking, Winner Take Less. Review of R. Axelrod “The Evolution of Cooperation”, «New York Review of Books», 31, June 28 (1984). Naturalmente, non esiste filosofia che riesca ad esprimersi in un linguaggio interamente rinnovato o rifondato e, dunque, che non sia esposta a un linguaggio ricevuto e ai confini incerti dei significati delle parole di esso: esiste tuttavia una fondamentale differenza tra il caso in cui il riscatto e la delucidazione filosofici, seppure sempre locali, operano sul linguaggio comune, il linguaggio che per noi è intrecciato alla stessa esperienza dell’essere, e il caso in cui operano su un linguaggio la cui istituzione dipende dai processi di specializzazione: in questo secondo caso, i pensieri non hanno il carattere sorgivo rispetto all’esperienza, che manifesta la radicalità di un’interrogazione filosofica. Si noti comunque che osservazioni come quelle appena offerte subiscono spesso questa sorte: convincono e, prima ancora, sono realmente comprese, solo da parte di chi, in qualche modo, è già d’accordo, cioè con chi ha già avvertito e provato insoddisfazione per ciò che qui ho chiamato “autoreferenzialità” di alcuni modi di praticare la filosofia. È dunque questo un dialogo tra sordi? Tra chi accusa gli altri di autoreferenzialità a causa della frattura tra i loro pensieri e scritti e l’esperienza concreta e chi accusa i primi di autoreferenzialità a causa della mancata coordinazione con qualche programma di ricerca scientifico (ad esempio quello della psicologia morale o delle scienze cognitive)? Tra chi accusa di produrre solo del verbalismo vuoto e chi accusa di produrre solo esercitazioni intellettualistiche su puzzle e casi controfattuali di dubbio significato? Tra chi accusa gli altri di saper solo fare della storia della filosofia e chi risponde che i primi mancano totalmente di prospettiva storica, ad esempio nel trattare l’Etica Nicomachea come una sorta di articolo più lungo del solito in cui è possibile trovare interessanti, anche se un po’ ellittiche, argomentazioni? Io non credo sia fruttuoso entrare in questa disputa e mi limito ad esplicitare alcune convinzioni che ho maturato, per proporle, non già alla discussione, ma a ciascuno e ciascuna, affinché, se vuole, le commisuri alla sua esperienza: (a) c’è una differenza tra il discorso sulla chiarezza della filosofia analitica e la messa in opera della chiarezza o il delucidare, che spesso i filosofi analitici realizzano; (b) questa messa in opera, quando nasce da un confronto con la cosa e non dall’applicazione rigida di uno scacchiere, produce un’esperienza che non saprei descrivere altrimenti che come un’esperienza filosofica: ciò che appariva annodato, che si sentiva annodato, che aveva effetti paralizzanti sul pensiero anche al di fuori del momento in cui si gioca a risolvere rebus logici o a render conto di rompicapi di ontologia in forma di storielle, rivela ora il suo ordine interno, il percorso seguendo il quale si può attraversarlo; (c) questa messa in opera della chiarezza non accade, ovviamente, solo nell’ambito della letteratura analitica, ma può accadere anche lì; (d) accade anche lì, tanto più il testo che fa accadere questa esperienza di messa in chiaro è uno che fa riemergere le distinzioni più importanti di cui fa uso, dal confronto con la cosa stessa e non si limita a trarle da un armamentario dato (e la cui validità è affermata sulla base di una generale deferenza nei confronti del lavoro comunitario); (e) questo confronto con la cosa non sta alla base di ogni scritto che si presenta come “di filosofia” e ciò emerge anche nel senso di insoddisfazione verso la loro formazione e, soprattutto, il modo di praticare la filosofia cui essa porta, manifestato, ad esempio, da Robert Nozick, Hilary Putnam, Stanley Cavell, Alasdair MacIntyre e Arthur Danto nel volume: G. Borradori (a cura di), Conversazioni americane, Laterza, Roma-Bari 1991.
L’ordine del bene, l’ordine del giusto e il soggetto pratico
che il loro attraversamento, seppure non metta a disposizione il modello teorico sulla base del quale “andare ai dettagli”, consenta la formulazione di alcune importanti domande o uno sguardo diverso su alcune questioni di fondo, sempre attuali. Qui, in particolare, mi occuperò di alcune domande circa la fondazione dei giudizi dell’etica e il rapporto tra il giusto e il bene, a cui Moore e Ross consentono di riaccedere seguendo sentieri diversi, ma interessanti. D’altro canto, tra le critiche più radicali che sono state mosse all’impostazione filosofica (non solo analitica) dell’interrogazione morale, quelle che riguardano il fatto che tale impostazione trascurerebbe il tema dell’io o della prima persona o del soggetto concreto, potrebbero essere ingenerose nei confronti di Moore e Ross . Più esattamente, vorrei suggerire che il lavoro di una delle filosofe di lingua inglese che ha prima e con più impegno tentato di rimettere al centro della filosofia morale la soggettività concreta e il punto di vista della prima persona, cioè Iris Murdoch (1919-1999), può essere letto, non in opposizione ad alcune tesi metaetiche e fondamentali di Moore e Ross, bensì come recupero delle stesse all’interno di una prospettiva più profonda e comprensiva appunto perché articolata alla concretezza della nostra esperienza morale .
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L’irriducibilità dell’esplorazione dell’ordine del bene. G.E. Moore e l’Open Question Argument
1.1. Anche Iris Murdoch riconosce a Moore la paternità della cornice teorica in cui ancora si muoveva la teorizzazione morale inglese a lei contemporanea, cioè quella degli anni ’50 e ’60 del XX secolo. Secondo Murdoch, tale ruolo spetta a Moore perché egli ha per primo operato nettamente e chiaramente una distinzione, poi rimasta indiscussa: Per comprendere la filosofia morale corrente è necessario pensare alla sua storia a partire da momento in cui G.E. Moore introdusse una specifica distinzione, sostenendo che si debba distinguere tra due questioni: “Quali cose sono buone?” [cioè, “che cosa è buono?”] e “Che cosa significa la parola ‘buono’?”
È come risposta alla seconda domanda che va compresa la celebre tesi di Moore sull’indefinibilità del bene, quella da cui discende il suo antinaturalismo e la sua difesa dell’irriducibilità dell’etica ad una scienza naturale; tuttavia, il modo specifico in cui l’autore dei Principia Ethica (1903) introduce la distinzione tra le due domande merita di essere evidenziato perché è significativamente diverso da quello generalmente inteso e perché, dunque, una sua delucidazione getta luce sul senso di quella celebre tesi e sulle sue immediate conseguenze. Per Moore, in particolare nei già citati Principia Ethica, il compito generale dell’etica non coincide affatto con il rispondere alla domanda sul significato del predicato “è buono”, ma anzi trova in questa risposta solo un suo presupposto generale: la vera mira dell’etica consiste invece nell’indagare che cosa è buono. (Evidentemente, non si tratta di passare in rassegna le molteplici cose del mondo per separare le buone dalle altre, ma di individuare il principio o i principi secondo cui il bene si diffonde sulle varie cose buone). Ciò che Moore chiama “etica”, Questa critica è ad esempio sviluppata da Bernard Williams; cfr. B. Williams, Sorte morale (1981), tr. it. di R. Rini, Il Saggiatore, Milano 1987. Un esame del lavoro di Iris Murdoch sul concetto di bene, anche attraverso un esame delle sue osservazioni sulla tesi di Moore intorno all’indefinibilità del bene e, poi, in rapporto alle prospettive che apre in ordine ad una rilettura del discorso platonico sull’Idea del Bene, l’ho offerto nel saggio: R. Fanciullacci, La sovranità dell’Idea del Bene: Iris Murdoch con Platone, «Etica & Politica / Ethics & Politics», 13 (2011), pp. 393-438 (http://www392.units.it/etica/2011_2011/FANCIULLACCI.pdf ). Questo saggio è strettamente legato a quello presente e perciò non andrebbe troppo separato da esso Murdoch, Esistenzialisti e mistici. Scritti di filosofia e letteratura, p. 88. Cfr. pure p. 302: «Moore rappresenta, per così dire, la cornice del quadro»; inoltre, cfr. pp. 103, 180, 338.
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dunque, non coincide con la filosofia morale comunemente intesa: è qualcosa di più ampio, infatti, non riguarda solo la condotta buona o cattiva, la sfera dell’agire in rapporto alla bontà e alla malvagità, ma riguarda più in generale tutto ciò che ha quello specifico valore che è il bene – essendo inteso che questo valore, questo esser buone, non spetta solo a certe azioni o tipi di azione e a quelle altre realtà strettamente legate all’agire, come le disposizioni pratiche: vi sono beni, cose buone, che non appartengono alla sfera della praxis10. Da questo lato, che evidentemente richiama Platone, per Moore l’etica è più che una filosofia morale o dei costumi (mores), in quanto è una filosofia del bene e di tutto ciò su cui il bene si diffonde, considerato appunto in quanto il bene vi è diffuso; in proposito, David Ross preciserà che una tale indagine potrebbe anche essere intesa come una parte della metafisica o comunque come una generale “assiologia”: la filosofia morale sarebbe di questo sapere solo una parte, quella appunto sul bene morale, ossia, sul bene in rapporto all’agire11. Questi chiarimenti illustrano come per Moore l’etica non si riduca alla metaetica, ma, al contrario, essa includa in sé anche la “casistica” (Casuistry), cioè un’indagine teorica, e non cronachistica o istorica, delle cose che sono buone, come ad esempio le virtù12. Ciò nonostante, è soprattutto l’elaborazione metaetica che sta all’inizio dei Principia ad aver influenzato la filosofia successiva. In particolare, molti, sia tra i contemporanei, sia tra i successori di Moore, erano persuasi dalla sua difesa della tesi che il predicato centrale dell’etica, cioè “è buono”, non fosse di pertinenza delle scienze naturali e che i tentativi di aggirare questo fatto fossero destinati ad incappare in una specifica forma di fallacia. Come osserva Thomas Baldwin nella sua ricca introduzione alla Revided Edition del capolavoro di Moore, però, non tutti coloro che assentivano alla pars destruens consideravano altrettanto condivisibile la proposta positiva avanzata nei Principia Ethica: «così, una reazione comune era di mettere in questione un’assunzione che era ritenuta comune tanto a Moore quanto ai teorici che criticava [scil. i fautori di en’etica naturalistica], cioè quella per cui i giudizi etici pretenderebbero di caratterizzare alcuni definiti stati di cose il cui realizzarsi fornirebbe loro le condizioni di verità. Invece, veniva proposto che i giudizi morali dovessero essere considerati primariamente come espressioni di certe emozioni o attitudini»13. Baldwin fa qui riferimento agli allora influenti programmi di ricerca di Charles Leslie Stevenson (1908-1979) e a quello tracciato da Richard Hare (1919-2002) nel suo The Language of Morals, programmi che, appunto, negano che l’etica abbia un importante legame con la verità, più esattamente, che esistano verità morali14. Come precisa lo stesso Baldwin, Cfr. il § 2 di G.E. Moore, Principia Ethica (1903), Cambridge University Press, Cambridge 1993, pp. 53-55. Di quest’opera di Moore esiste una traduzione italiana (da anni fuori commercio) che non ho utilizzato: G.E. Moore, Principia Ethica, tr. it. di G. Vattimo, Bompiani, Milano 1972. 11 Cfr. W.D. Ross, Il Giusto e il Bene (1930), tr. it. di R. Mordacci, Bompiani, Milano 2004, pp. 122123. 12 Cfr. il § 4 di Moore, Principia Ethica, pp. 55-57. Il termine “casistica” (o “casuistica”) risulta oggi fuorviante perché induce a pensare alla rincorsa sistematica delle eccezioni; esso è comunque attestato nella tradizione. Con un’accezione non identica a quella di Moore, lo usa, ad esempio, anche Kant nell’Introduzione alla parte seconda della Metafisica dei costumi: I. Kant, La metafisica dei costumi, tr. it. di G. Vidari, Laterza, RomaBari 1983, pp. 265-266. La definizione fornita da Sofia Vanni-Rovighi è invece molto simile a quella che vale nei Principia Ethica: «Si chiama casistica l’applicazione della norma morale a certi tipi di circostanze per determinare la bontà e la malizia di certi tipi di azione»; S. Vanni-Rovighi, Elementi di filosofia, 4 voll., Marzorati, Milano 1950, vol. IV, p. 169. 13 T. Baldwin, Editor’s Introduction, in G.E. Moore, Principia Ethica, Cambridge University Press, Cambridge 1993, pp. ix-xxxvii; cit. p. xvi. 14 Cfr. R.M. Hare, Il linguaggio della morale (1952, 1961), tr. it. di M. Borioni, Ubaldini, Roma 1968; C.L. Stevenson, Etica e linguaggio (1944), tr. it. di S. Ceccato, Longanesi, Milano 1962. Il passaggio storico dalla proposta etica di Moore a quelle di Stevenson e di Hare è filosoficamente indagato anche da Iris Murdoch: cfr. ad esempio, I. Murdoch, Etica e metafisica (1957), in Id., Esistenzialisti e mistici. Scritti di filosofia e letteratura, tr. it. di E. Costantino - M. Fiorini - F. Elefante, Il Saggiatore, Milano 2006, pp. 88-102. Ho ricostruito questo suo esame e approfondito le ragioni di quella sorta di riavvicinamento a Moore che è compiuto dalla Murdoch nell’articolo: Fanciullacci, La sovranità dell’Idea del Bene: Iris Murdoch con Platone. 10
L’ordine del bene, l’ordine del giusto e il soggetto pratico
questo non era invece negato da Moore e, aggiungo, neppure da Ross o da Iris Murdoch: questi tre pensatori, dunque, condividono a livello metaetico ben più che un’istanza antinaturalista. Ecco alcune delle tesi metaetiche cardinali affermate da Moore e poi esplicitamente riprese da Ross ne Il giusto e il bene (1930) e che operano sullo sfondo della ricerca di Iris Murdoch. (I) I giudizi morali avanzano una pretesa di verità e dunque hanno un valore di verità. Data l’accezione corrente del termine, dovremmo dire che sia Moore sia Ross sono cognitivisti etici. (II) Inoltre, come per tutti coloro che hanno scritto prima che John Mackie rendesse note le sue convinzioni metaetiche, anche Moore, Ross e Murdoch quando affermano che i giudizi di valore e i giudizi morali avanzano una pretesa di verità non separano questa tesi dalla tesi che esistono effettivamente delle verità assiologiche e morali15. (III) I giudizi morali veri sono resi veri dal reale esistere di fatti morali, cioè dal reale inerire a cose delle proprietà morali. Il loro cognitivismo etico di Moore, Ross e Murdoch si fonda dunque su una tesi realista: attribuire il predicato “è vero” a giudizi morali comporta l’impegno sulla tesi che quei giudizi hanno condizioni di verità che si sono realizzate, comporta insomma impegnarsi sulla tesi per cui esistono effettivamente (moral) truth makers16. (IV) Come abbiamo visto, Moore, Ross e Murdoch non condividono solo quello che oggi chiamiamo un cognitivismo realista: ritengono anche che le proprietà morali, che sono proprietà reali, non sono proprietà naturali; questo significa, perlomeno, che non spetta alle scienze naturali né definirle, né stabilire che cosa le esemplifichi17.
La tesi di Mackie, oggi molto nota, è che i giudizi morali hanno un valore di verità (cognitivismo etico), ma che tale valore è sempre il falso giacché non esistono le proprietà che in essi vengono attribuite e dunque non esistono verità morali; cfr. J.L. Mackie, Etica: inventare il giusto e l’ingiusto (1978), tr. it. di B. De Mori, Giappichelli, Torino 2001. 16 Questa tesi differenzia la metaetica di Moore e Ross da tutte quelle posizioni che o affermano l’esistenza di verità morali, per poi negare l’esistenza di fatti morali o di reali proprietà morali istanziate nelle cose del mondo (in questo caso, tali posizioni sostengono che, perlomeno in riferimento ai giudizi morali, il predicato “è vero” assume un nuovo significato che, secondo alcuni, lo rende sinonimo di “positivamente coerente con il miglior senso comune o con gli endoxa etici”, oppure, “tale da meritare l’assenso razionale di una comunità ideale di parlanti impegnati in una discussione argomentativa”), oppure negano l’esistenza di verità morali, aggiungendo che il cognitivismo etico è già garantito dall’attribuire ai giudizi morali una pretesa di validità o di asseribilità garantita. Quest’ultima posizione è quella difesa da J. Habermas, Verità e giustificazione. Saggi filosofici (1999), tr. it. di M. Carpitella, Laterza, Roma-Bari 2001. Quest’ultima posizione è quella che, secondo John Skorupski, dà luogo ad una forma di cognitivismo antirealista: J. Skorupski, Irrealist cognitivism, «Ratio (new series)», 12 (1999), pp. 436-459. Su questo tema, mi sono soffermato un poco più distesamente nel già citato articolo: Fanciullacci, La sovranità dell’Idea del Bene: Iris Murdoch con Platone; cit. p. 402n. 17 Ho fornito una caratterizzazione epistemologica della nozione di proprietà naturale, giacché mi pare una caratterizzazione più semplice e che pone al centro l’elemento che quoad nos è più importante e cioè il fatto che un realismo naturalista nega l’autonomia dell’etica dalla scienza (il che è molto più che affermare la necessità che l’etica consideri i risultati della ricerca scientifica giacché questi possono avere conseguenze sulla sua comprensione del dominio i cui rapporti con le proprietà morali essa indaga: si pensi in proposito all’importanza della ricerca psicologica per l’etica, un’importanza che non può essere negata per lo meno da tutti coloro che ritengono che il sapere sull’uomo è rilevante per la ricerca del bene umano, la quale è per lo meno una parte dell’etica). Riconosco comunque che in sé la questione epistemologica è subordinata a quella ontologica: una proprietà naturale ha innanzitutto delle speciali caratteristiche ontologiche (prima fra tutte: entra in rapporti di causalità efficiente) ed è per questo che può o deve essere indagate attraverso quei metodi costruiti per ottenere sapere intorno alle proprietà aventi quelle caratteristiche. Una sobria difesa di una definizione epistemologica del naturalismo si trova nel saggio di J.C. King, Can Propositions Be Naturalistically Acceptable?, «Midwest Studies In Philosophy», 19, “Philosophical Naturalism” (1994), pp. 53-75. 15
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Quest’ultima tesi è quella per cui si è parlato, ad esempio in riferimento a Moore, di un realismo platonista18: se un giudizio morale in cui la bontà è attribuita a qualcosa, ad esempio ad una massima o a un progetto di comportamento, ha un truth maker che non è un fatto naturale, cioè, se non è reso vero dall’inerenza a quel qualcosa di una proprietà, la bontà appunto, identica o riducibile ad una proprietà naturale, allora, si dice, l’oggettività che può spettare al truth maker di quel giudizio e alla proprietà che in esso è attribuita dovrà essere la stessa che il platonismo invoca per gli oggetti con cui arricchisce l’inventario dell’arredamento ontologico del mondo. Ora, nonostante il grande valore che ha il riferimento a Platone e il suo esempio tanto per Moore, quanto per Ross e per Murdoch, il ragionamento appena esposto vale solo se è vero che è impegnato in una forma di platonismo ontologico chiunque neghi che l’unico modo di esistere sia l’esistere in rerum natura. Piuttosto che entrare nella disputa di che cosa meriti la classificazione, trattata come infamante, di “platonismo ontologico”, preferisco limitarmi a chiarire gli impegni ontologici (ed epistemologici) condivisi da Moore, Ross e Murdoch. Per Moore (e Ross e Murdoch) la bontà è una proprietà che può essere esemplificata da cose (di certi tipi); il suo essere esemplificata è un “fatto” in questo senso: è un truth maker, è qualcosa che può render vero l’asserto che lo pone come reale; questa minimale condizione ontologica (che ho chiamato l’essere un truth maker) ha anche una caratteristica da un punto di vista epistemologico: ciò che è un fatto o un truth maker è conoscibile, nel senso che è intellegibile (cioè può essere rappresentato) e che può essere affermato sulla base di ragioni che ne giustifichino l’affermazione; perlomeno per alcuni fatti, tra le ragioni cui può appoggiarsi una loro affermazione, c’è lo stesso essere in vista del loro darsi, ossia, c’è il loro stesso essere in evidenza (e non solo l’avere delle evidenze in loro favore, da cui il loro darsi possa essere induttivamente o deduttivamente inferito)19; per Moore (e Ross e Murdoch), poi, le procedure delle scienze naturali non solo l’unico modo per conoscere i fatti, ossia, non tutti i fatti sono conoscibili attraverso le procedure delle scienze naturali; i fatti morali, cioè i moral truth makers, sono tra i fatti non conoscibili attraverso le procedure delle scienze naturali. (Si noti: se per render conto della possibilità di conoscere un fatto fosse necessario affermare che le proprietà che entrano in esso stanno in quello specifico rapporto di causalità con il corpo umano in cui possono stare solo le proprietà naturali, se cioè fosse conoscibile solo ciò che entra in interazioni causali, definite dalle scienze naturali, con il corpo umano, allora il realismo non naturalista di Moore, Ross e Murdoch, come qualunque altro realismo non naturalista, etico o non etico, conterrebbe effettivamente in sé una contraddizione). A proposito del rapporto ontologico tra i fatti morali e i fatti naturali (cioè conoscibili attraverso le procedure delle scienze naturali), Moore afferma che la proprietà la partecipazione della quale ad uno stato di cose fa di esso un fatto morale, cioè la proprietà della bontà, non è identica ad una proprietà naturale, né riducibile ad una o più proprietà naturali attraverso una definizione analitica: questa è la tesi dell’indefinibilità del bene su cui ora ci soffermeremo. Come è chiaro, comunque, l’impianto teorico di Moore non esclude ogni tipo di rapporto, in particolare la sopravvenienza, tra la bontà e le proprietà naturali o alcune proprietà naturali di ciò che è buono20. Ciò che l’impianto di Moore esclude è la possibilità di risolvere l’etica in un Cfr. Baldwin, Editor’s Introduction; cit. pp. xii-xvi. Lo sfondo di distinzioni concettuali che opera nei chiarimenti offerti in queste righe, oltre che una difesa del nesso tra essere un truth maker e essere conoscibile (nel modo definito), li ho articolati nel volume: R. Fanciullacci, La misura del vero. Verità, pretesa di verità e ragioni in un confronto con l’epistemologia analitica, Pavia University Press, Pavia 2011. 20 In realtà, è Moore stesso ad essersi attribuito la tesi per cui tra la bontà e le proprietà non morali vi sarebbe una forma di sopravvenienza: «Non posso aver mai pensato di suggerire che la bontà sia ‘non naturale’, a meno di non aver supposto che sia ‘derivativa’ nel senso che, ogniqualvolta una cosa è buona (nel senso in questione) la sua bontà (con le parole di Mr. Broad) “dipende dalla presenza di certe caratteristiche non-etiche” possedute dalla cosa in questione: io ho sempre pensato che tale ‘dipendenza’ sussista, nel senso che, se una cosa è buona (nel mio senso), allora il fatto che lo sia segue dal fatto che essa possiede certe proprietà naturali intrinseche, tali 18 19
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altro tipo di sapere quale ad esempio il sapere delle scienze naturali – ma, come vedremo, lui intende far valere la stessa conclusione anche per la metafisica. L’oggetto dell’etica, cioè la bontà e i modi in cui è presente nelle cose in cui è presente, le garantisce un’autonomia, il riconoscimento della quale non esclude il riconoscimento degli eventuali rapporti di dipendenza, ma non di riducibilità, tra la bontà e proprietà non assiologiche o morali. A proposito, invece, della modalità conoscitiva delle verità morali, la tesi di Moore poi ripresa, chiarita e approfondita da Ross, ruota intorno al concetto di intuizione. Su di essa torneremo tra poco, ma possiamo anticipare che è proprio questa la tesi su cui si innesta quella parte del lavoro filosofico di Iris Murdoch che qui sarà valorizzata: Murdoch, infatti, accetta da Moore e dall’intuizionismo, e contro l’espressivismo di Stevenson o il prescrittivismo di Hare, il peso che ha la visione e la metafora del vedere nell’elaborazione dell’esperienza morale, ma si chiede chi sia il soggetto di quel vedere, o meglio, si chiede a quali condizioni noi possiamo divenire i soggetti di quel vedere. Al fine di arrivare al punto appena indicato, però, occorre precisare meglio il senso delle tesi di Moore sull’indefinibilità del bene e sulla specifica fallacia in cui può incorrere chi non la riconosce e, soprattutto, chiarire il tipo di argomento attraverso cui Moore giunge a queste tesi. Passeremo poi ad esaminare il modo in cui l’argomentazione di Moore è stata ripresa da Ross e da lui applicata originalmente: questo non solo porterà nuova luce sul senso dell’irriducibilità dell’etica, ma consentirà anche di porre alcune questioni sul rapporto tra il bene e il giusto. 1.2. Come abbiamo visto, la distinzione della domanda sul significato di “bene” dalla domanda sulle cose buone va intesa come funzionale al corretto trattamento della seconda questione. La prima questione chiede che cosa sia ciò che viene attribuito alle cose buone quando appunto esse sono giudicate buone: non vengono indagate le cose buone, cioè i beni, né il bene inteso come la totalità di tutto ciò che è buono, piuttosto viene indagato il significato del predicato “esser bene/esser buono”. Più esattamente ancora, a Moore non interessa determinare il significato dei sintagmi “esser bene/esser buono” in quanto ricorrenti in enunciati della forma “x è bene/buono”; a differenza di quanto lascia intendere Iris Murdoch nelle righe sopra citate, a Moore, anche quando si pone semplicemente la seconda domanda, non interessa meramente il “significato della parola ‘buono’”. A Moore interessa la definizione reale di ciò che attraverso quei predicati è espresso, cioè la definizione della proprietà di cui si afferma l’inerenza ad x in affermazioni come “x è bene/buono”. Tale proprietà, per evitare equivoci, la chiamerò, come ho già iniziato a fare, “bontà” (goodness): Moore dunque distingue tra la domanda “quali cose sono buone?” e la domanda “che cos’è la bontà?” e intende la seconda domanda così: “qual è la definizione reale della bontà?”. A questa domanda risponde che la bontà è una proprietà (o qualità) non passibile di definizione21. Come è stato rivelato da molti22, Moore non è sempre preciso a livello terminologico per cui talvolta sembra affermare che il punto sia definire il significato della parola “bene”23, ma in realtà le sue affermazioni più esplicite non lasciano dubbi: la domanda chiede una definizione reale, non una mera definizione lessicale o nominale. Il punto delicato, però, è che per che dal fatto che quella cosa sia buona non segue per converso che essa abbia quelle proprietà»; G.E. Moore, A Reply to my Critics, in P.A. Schilpp (Ed.), The Philosophy of G.E. Moore, Open Court, La Salle-Chicago 1942, pp. 535-677; cit. p. 588. Tale posizione è classificata come forma di sopravvenienza (il che rende Moore uno dei primi o forse il primo teorizzatore di questo tipo di dipendenza) da: J. Kim, Supervenience as a Philosophical Concept, «Metaphilosophy», 21 (1990), pp. 1-27; cit. p. 6; J.C. Klagge, Supervenience: Ontological and Ascriptive, «Australasian Journal of Philosophy», 66 (1988), pp. 461-470; cit. p. 461; R. Shafer-Landau, Moral Realism. A defence, Oxford University Press, Oxford 2003, p. 85. Un accurato resoconto dello stato dell’arte sulla questione dell’uso del concetto di sopravvenienza in metaetica è offerto da G. Pellegrino, Teorie e storia della sopravvenienza: da Hare alla svolta degli anni Novanta, «Etica & Politica / Ethics & Politics», 7 (2005), 1, pp. 1-36 (http://www32.units.it/etica/2005_2001/pellegrino.pdf ). 21 Cfr. §§ 6 e 10 di Moore, Principia Ethica, pp. 58-59, 61-62. 22 Cfr. ad esempio: F. Feldman, The Open Question Argument: what it isn’t; what it is, «Philosophical Issues», 15 (2005), pp. 22-43; cit. pp. 24-26. 23 Cfr., ad esempio: Moore, Principia Ethica, pp. 59, 62.
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Moore (come per Russell, d’altronde24) non c’è altra definizione reale che la definizione analitica: la definizione reale di una proprietà è data dalla definizione analitica del concetto che esprime quella proprietà. La definizione analitica, inoltre, non è per Moore semplicemente quella che, nel definiens-analysans, fornisce le condizioni individualmente necessarie e congiuntamente sufficienti all’applicazione corretta del concetto da definire (il definiendum-analysandum), ma possiede un’ulteriore caratteristica: definiens e definiendum stanno tra loro in una relazione di sinonimia25. Ora, qui la sinonimia non può essere intesa semplicemente come la sostituibilità salva veritate, secondo il modello leibniziano, giacché tale sostituibilità è già garantita dal fatto che il definiendum coincide con l’elenco delle condizioni necessarie e sufficienti per l’applicazione corretta del definiens: la richiesta di sinonimia è dunque qui una richiesta di qualcosa di più della sostituibilità. (D’altronde, che si richieda qualcosa di più è molto appropriato, infatti, il nostro concetto di sinonimia è più ricco di quello di sostituibilità salva veritate)26. Vedremo che questo di più ha a che fare con il sapere incluso nella competenza linguistica di un parlante competente27. Ora, che significa sostenere che il concetto di bene (e dunque poi anche la proprietà “bontà”) è indefinibile? Innanzitutto e minimamente, significa sostenere che è tra quei concetti che entrano nei definiens di altri concetti, ma che non possono a loro volta avere dei definiens: è uno dei concetti elementari o primitivi. Un concetto elementare esprime una proprietà semplice, giacché se esprimesse una proprietà complessa, esprimerebbe una proprietà analizzabile nei suoi componenti e dunque tale da poter essere definita. La bontà è dunque per Moore una qualità semplice28. Un’altra qualità semplice è quella espressa dal predicato “esser giallo” (la giallezza). Tra i concetti più importanti che Moore pretende di definire impiegando nel definiens il concetto di bene, vi è il concetto di giusto: giusto sarebbe appunto ciò che “produce il maggior bene possibile nelle circostanze date”29. Si noti che l’impossibilità di una definizione analitica di un concetto semplice non esclude affatto la possibilità di perifrasi utili a portare a parola la familiarità citata. Si potrebbe ad esempio dire che, affermando che un’esperienza è buona (ha bontà), si intende affermare che è degna di essere vissuta per se stessa30: questa non sarebbe una definizione di “è buona”, neppure di “è buona” quando riferito ad esperienze, giacché nel presunto definiens ricorrono predicati come “è degna” nel cui effettivo definiens ricorre il predicato “è buono”. Tale circolarità esclude che si stia realizzando un definire, ma non esclude affatto che si stia realizzando un’articolazione del significato di “è buono” capace di affinare o fluidificare o anche solo riattualizzare in chi la compie o la ascolta la sua comprensione del concetto di bene31. Cfr. la lunga e dettagliata voce Analysis, philosophical elaborata da Morris Weitz per P. Edwards (ed.), The Encyclopedia of Philosophy, 8 voll., Macmillan Publishing Co., Inc. & The Free Press, New York 1967, pp. 97-105. 25 Cfr. Moore, A Reply to my Critics; cit. p. 663. 26 Cfr. B. Mates, Synonymity (1950), in L. Linsky, Semantics and the Philosophy of Language, University of Illinois Press, 1952, pp. 111-138. 27 Questa anticipazione è sufficiente per intravedere in che modo, in Moore, la ricerca della definizione reale si risolva in un’indagine semantica. 28 Cfr. § 7 di Moore, Principia Ethica, pp. 59-60. 29 Cfr. § 89 di ibi, pp. 196-198. 30 È Moore stesso che afferma, nel saggio del 1932 Is Goodness a quality?: «nei Principia (…) credo che talvolta, sebbene forse non sempre, io abbia usato l’aggettivo [scil. buona] come sinonimo di “degna di essere vissuta per se stessa”»; G.E. Moore, La bontà è una qualità? (1932), in Id., Saggi filosofici (1959), tr. it. di M.A. Bonfantini, Lampugnani Nigri, Milano 1970, pp. 87-100; cit. p. 97. 31 Betrand Russell parla delle perifrasi o «caratterizzazioni» come aventi la funzione di richiamare alla mente il significato di ciò di cui sono perifrasi o caratterizzazioni; cfr. B. Russell, Gli elementi dell’etica (1910), in Id., Matrimonio, sesso e morale (1987), tr. it. di G. Meineri, Newton Compton, Roma 1993; cit. pp. 26-27. Nel 1921, Moore aveva progettato una seconda edizione, rivista, dei Principia Ethica: questa seconda edizione non è mai stata portata a termine, ma per essa Moore aveva iniziato a scrivere una nuova prefazione che è stata pubblicata per la prima volta nel 1993 (einclusa nella Revised edition dei Principia, curata da Thomas Baldwin, da cui cito): in tale prefazione, molto critica nei confronti delle formulazioni delle tesi metaetiche che stanno all’inizio dell’opera del 1903, Moore sostiene di non aver distinto con sufficiente chiarezza tra ciò che qui sto chiamando 24
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La conoscenza di una qualità semplice e dunque la comprensione del concetto che la esprime non si realizzano, come è ovvio, nel coglimento della definizione, giacché appunto tale definizione non è possibile, ma hanno la forma di una familiarità (acquaintance) che si fonda o sulla percezione dell’inerenza della qualità, quando la qualità è sensibile e dunque percepibile coi sensi (come è il caso dell’esser giallo), oppure, sull’esperienza intellettuale dell’inerenza della qualità, se essa non è sensibile. Tale esperienza intellettuale, che, ripeto, non ha per oggetto la bontà in se stessa, ma il suo inerire o esser presente in cose (ad esempio, in azioni, progetti pratici, disposizioni ecc.) e che rende possibile il divenir familiari alla bontà stessa, è chiamata “intuizione”. Per lo meno a partire da Kant, il concetto di intuizione intellettuale non gode di grande fortuna, tuttavia, molto spesso è rigettato o disconosciuto sulla base di un’immagine che non gli corrisponde affatto. È difficile immaginare un’illustrazione più chiara di quella offerta da Ross della differenza tra ciò che lui, e prima Moore, chiamano “intuizione” e quella facoltà misteriosa o magica, grazie a cui chiunque e in qualunque momento saprebbe cogliere istantaneamente (o addirittura infallibilmente) una verità, che i detrattori dell’intuizionismo etico (e dell’immediatezza in genere) chiamano appunto “intuizione”. L’intuizione intellettuale è un accesso ad uno stato di cose (all’inerenza di una proprietà a qualcosa o alla relazione tra cose) non inferienziale o im-mediato (l’inferenza o mediazione infatti presuppone un definiens che faccia da medio) di natura non percettiva (giacché la proprietà coinvolta è per ipotesi non sensibile) che si realizza in seguito a ed attraverso una riflessione e considerazione articolata di ciò che è incontrato. Non a caso, dunque, ne Il giusto e il bene, la marca che introduce un’intuizione, o meglio che introduce la descrizione del contenuto di un’intuizione è: “attraverso la riflessione, appare che / risulta chiaro che”. È ovvio, dunque (ma comunque anche sottolineato da Ross), che la capacità riflessiva e dunque la capacità di attestare ciò che si offre all’esperienza, sebbene non attraverso la percezione empirica, è una capacità che può e deve essere coltivata e affinarsi col tempo e l’esercizio32. Una qualità semplice non è una qualità “isolata”: essa può ben inerire a cose ed essere esemplificata nel mondo e tali sue esemplificazioni, come anche i rapporti in cui è coinvolta con altre qualità semplici o con qualità complesse, sono ovviamente esplorabili da pare degli esseri umani. Le cose gialle sono le cose che esemplificano la proprietà dell’esser giallo, i rapporti tra il giallo e gli altri colori o con le categorie di chiaro e scuro sono alcuni dei rapporti indagabili da chi è interessato al giallo. Le cose buone sono le cose in cui è esemplificata (secondo le varie gradazioni e modulazioni) la bontà, i rapporti con qualità semplici come il piacere o qualità complesse come l’esser giusto sono materia dell’etica. Moore chiama “il bene” il sistema delle cose che esemplificano la bontà, potremmo dire: l’ordine o il regno delle cose buone33. Si potrebbe però anche voler riservare l’espressione “il bene” o “il Bene” a ciò che, se esiste, esemplifica la bontà in ogni suo lato, sotto ogni rispetto e al grado massimo concepibile e che magari è anche il fondamento per cui le altre cose partecipano della bontà (la qual cosa, ad esempio, sarebbe vera se fosse vero che le cose partecipano della bontà in quanto sono con questo Bene in una qualche relazione, come quella di dipenderne ontologicamente). Io non userò la locuzione “il Bene”, mentre farò riferimento all’ordine del bene inteso come il complesso delle cose buone in quanto è ordinato in qualche modo34. caratterizzazioni e le definizioni analitiche, sostiene addirittura di aver dimenticato questa distinzione; aggiunge però, che riconoscerla non è fatale per nessuna delle tesi importanti dei Principia e aggiunge: «non è neppure vero che in inglese noi mai usiamo altre parole o frasi come sinonime di “bene”, in questo senso [cioè nel senso di un’espressione sinonima, ma che non si pone come analisi]. È ovvio, per esempio, che la parola “desiderabile” è talvolta usata così; e lo stesso per la frase “avente valore intrinseco”, che anche io uso così, dopo»; Moore, Principia Ethica, p. 9. 32 Si leggano ad esempio le seguenti righe: «la natura di ciò che è autoevidente non è di essere evidente a qualsiasi mente, anche poco evoluta, ma di essere colto direttamente da menti che abbiano raggiunto il necessario grado di maturità» – cfr. Ross, Il Giusto e il Bene, p. 19. Cfr. anche ibi, pp. 38 e 42. 33 Cfr. § 9 di Moore, Principia Ethica, pp. 60-61. 34 Per conformarmi alla terminologia successiva, ad esempio quella di David Ross e di Iris Murdoch, talvolta parlerò del “concetto di bene” per indicare quello che preferirei chiamare “il concetto di bontà” (cioè il concetto che è applicato attraverso il predicato “è bene/è buono”) e talvolta chiamerò “bene” la “bontà”, ma lo farò solo dove non dovrebbero sorgere equivoci.
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Dichiarando indefinibile il concetto di bontà, Moore giudica vittime di una fallacia tutte quelle dottrine etiche che fondano principi sostantivi a partire da presunte definizioni della bontà: tale è il caso dell’edonismo che giunge ad affermare che il comportamento morale è quello ordinato al piacere sulla base dell’identificazione, spacciata per definizione, della bontà con la piacevolezza. Come è noto, Moore chiama tale fallacia “fallacia naturalistica”, con una scelta lessicale infelice giacché per Moore stesso e non solo per i fondamenti del suo discorso, di esser cadute in tale fallacia sono accusabili anche posizioni etiche non naturalistiche, ma metafisiche o teologiche35. 1.3. Se ci chiediamo sulla base di quale argomentazione Moore difenda la sua tesi intorno all’indefinibilità del concetto di bontà, ci troviamo rinviati al cosiddetto “Open Question Argument” (d’ora in poi: OQA) – in vero, l’espressione non è di Moore (anche se si è imposta piuttosto presto), ma, secondo l’uso, anch’io la impiegherò. La disputa antica ed importante sulla validità di tale argomento è stata in anni recenti giustamente posposta alla disputa su quale sia la corretta ricostruzione dell’argomento presentato da Moore giacché esistono diverse sedicenti confutazioni dell’OQA, i cui bersagli critici, però, non coincidono tra loro e, a quanto sembra leggendo attentamente il testo di Moore, non coincidono neppure con quanto è plausibile attribuire ai Principia Ethica. La discussione attenta ed elaborata offerta di recente da Fred Feldman (e anche da altri) ci esime dall’entrare nei dettagli e ci permette di andare direttamente alla struttura dell’OQA di Moore36. L’argomentazione di Moore si articola in due fasi: nella prima egli confuta i tentativi di elaborare un costrutto concettuale complesso che dichiarandosi “definiens-anlysans” del concetto di bontà sia sinonimo di quest’ultimo. Esito di questa fase è che il concetto di bontà sia non analiticamente definibile e dunque che la bontà non sia una proprietà complessa, ma semplice. La seconda fase confuta la tesi che esistano concetti aventi tutte e tre queste caratteristiche: (a) essere semplici; (b) esprimere proprietà naturali (come il concetto di piacere, che esprime la proprietà semplice della piacevolezza); (c) essere sinonimi del concetto di bontà. Esito di questa fase è che quella proprietà semplice che è la bontà è una proprietà non naturale. (È dunque ammessa la possibilità, se non la realtà effettiva, di sinonimi semplici di “è bene”, come “è dotato di intrinseco valore”, che, però, appunto non esprimono una proprietà naturale)37. In entrambe le fasi opera una sola macchina argomentativa: a) dapprima viene considerato un candidato esemplare al ruolo di predicato sinonimo del predicato “è bene”, ad esempio “è piacevole” o “è tale che si desidera desiderarlo”; b) in secondo luogo vengono considerate alcune coppie di enunciati la cui caratteri35 Cfr. §§ 10-11 di Moore, Principia Ethica, pp. 61-64. Sull’ambiguità della nozione di “fallacia naturalistica” e sull’inopportunità di tale nome per indicare la cosa che esso indica, cfr. W.K. Frankena, The Naturalistic Fallacy, «Mind», (1939), pp. 464-477; E. Lecaldano, Introduzione a Moore, Laterza, Roma-Bari 1972, pp. 38-39. Già Moore, comunque, aveva rilevato delle confusioni nel suo modi di parlare della fallacia naturalistica, negli appunti per la Prefazione alla seconda edizione dei Principia (cfr. supra, nota 31): Moore, Principia Ethica, pp. 16-22. 36 Cfr. Feldman, The Open Question Argument: what it isn’t; what it is. Si veda pure: S. Soames, Philosophical Analysis in the Twentieth Century. Vol. I: The Dawn of Analysis, Princeton University Press, Princeton 2003, pp. 34-70. 37 In realtà, non è così pacifico quale sia l’obiettivo della seconda fase dell’argomentazione. Qui certamente Moore confuta presunte sinonimie come Bontà = Piacevolezza e senz’altro considera già guadagnata la indefinibilità-semplicità, tuttavia, a livello della dichiarazione di intenti dice che intende mostrare che il concetto di bene (il predicato “esser bene”) non è vuoto. Perché, però,se fosse mai vero che “è bene” è sinonimo di “è piacevole”, ciò equivarrebbe ad un rivelarsi vuoto o privo di significato del predicato “è buono”, non è affatto chiaro; Feldman stesso lo sottolinea: Feldman, The Open Question Argument: what it isn’t; what it is; cit. pp. 24, 35. Probabilmente il punto è questo: se “è buono” fosse sinonimo di un concetto sia semplice, sia tale da esser parte dei concetti che possono ricorrere in una teoria di una delle scienze della natura, allora il concetto di bontà inteso come oggetto specifico di quel sapere autonomo che è l’etica non esisterebbe: “buono” non avrebbe un significato indipendente e in fondo potrebbe essere eliminato a favore di quel suo sinonimo che avrebbe la caratteristica vantaggiosa di mostrare chiaramente che la proprietà in questione è una proprietà naturale.
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stica saliente è di essere identici tranne che l’uno, in un certo posto della sua struttura, accoglie il predicato “è bene”, l’altro, in quello stesso posto, accoglie il presunto sinonimo, ad esempio, due enunciati interrogativi come: “questa cosa che si desidera desiderare è buona?” e “questa cosa che si desidera desiderare è tale che si desidera desiderarla?”, oppure come “questo è bene?” e “questo è piacevole?”, oppure come “la piacevolezza è buona?” “la piacevolezza è piacevole?”; c) in terzo luogo si attesta che i due enunciati della coppia non appaiono avere lo stesso significato; d) infine, valendosi implicitamente di un principio di composizionalità del significato, si conclude che se due enunciati in tutto identici tranne che nel fatto che in uno ricorre un certo concetto là dove nell’altro ne ricorre un altro, hanno diverso significato, allora quei due concetti che li distinguono hanno un diverso significato38. Un commento mi pare lo meriti il terzo passaggio: qui interviene la competenza semantica dei parlanti giacché è solo sulla base di tale competenza che si può riconoscere la differenza di significato tra gli enunciati di ciascuna coppia. Detto altrimenti, è un parlante competente che sa riconoscere che gli enunciati “questo è il fratello di mia moglie” e “questo è mio cognato” hanno lo stesso significato, pur nella differenza di stile, mentre “questo è buono” e “questo è piacevole” no. Ora, far riferimento alla competenza linguistica è inevitabile in molti più casi di quanto si potrebbe credere o di quanto non sia disposto ad accettare un razionalista39. Riconoscere questa inevitabilità, per altro, non significa sostenere qualcosa come: “non esiste validità in quanto le presunte validità sarebbero condizionate dal fatto empirico di padroneggiare una lingua da Giustamente Feldman fa notare, contro l’interpretazione di Darwall, Gibbard e Railton che l’OQA non opera nel modo seguente: se fosse vero che “è bene” è sinonimo di “è piacevole”, allora, poiché ha senso chiedere se la piacevolezza è buona, dovrebbe aver senso chiedere se la piacevolezza è piacevole e poiché questa seconda questione è priva di senso, allora la posizione iniziale della sinonimia è erronea. Se questo fosse l’argomento di Moore, Darwall, Gibbard e Railton avrebbero ragione a rigettarlo, infatti, non è necessariamente priva di senso l’attribuzione di una proprietà a se stessa, infatti, ad esempio, è chiaro che la proprietà di essere una proprietà astratta appartiene anche a questa stessa proprietà (detto altrimenti: la classe delle proprietà astratte è una classe che include anche se stessa, diversamente, ad esempio, dalla classe degli oggetti materiali giacché tale classe non è a sua volta un oggetto materiale); cfr. S. Darwall - A. Gibbard - P. Railton, Toward Fin de siecle Ethics: Some Trends, «The Philosophical Review», 101 (1992), pp. 115-189; cit. p. 116 ss. 39 Consideriamo il celebre esempio kantiano di giudizio analitico: «il corpo è esteso»; in tale giudizio il predicato attribuito al soggetto era già implicito nel concetto del soggetto, così, affermare che il corpo è esteso è come affermare che quell’ente che è caratterizzato dall’estensione è esteso e la verità di quest’ultima affermazione è ovviamente protetta dal principio di non contraddizione (infatti negare che l’ente caratterizzato dall’estensione sia esteso è un esempio di autocontraddizione). Il punto che ora ci interessa è: in base a cosa si passa da “il corpo è esteso” a “l’ente esteso è esteso”? La risposta sarà: grazie alla comprensione del significato di “corpo”. La competenza semantica, comunque, interviene pure nell’esecuzione di quello specifico tipo di argomentazione che è l’elenchos: l’elenchos è l’esibizione dell’innegabilità di un principio, che si realizza come esperienza intellettuale dell’autodisfarsi della tentata negazione di quel principio; tale esperienza, cioè l’attestazione dell’autodisfarsi, del non riuscire a costituirsi in un pensiero determinato, della tentata negazione del principio, non è una mediazione, infatti non interviene alcuna regola inferenziale (neppure, ovviamente, il Principio di non contraddizione, visto che è un caso di elenchos l’argomentazione che difende questo principio e lo rivela come tale), e tuttavia è una prestazione che richiede la messa ala lavoro della competenza semantica: è ovvio infatti che bisogna comprendere i significati delle parole per poter capire che una presunta frase non dà luogo ad un pensiero determinato. Si noti: è proprio per questo che l’elenchos non è una procedura finitistica (un algoritmo) o uno schema d’argomento trattabile dalla logica formale (o logica minor), ma una struttura che va trattata da parte della logica trascendentale o logica maior (o filosofia del pensiero in quanto tale). (Con alcune importanti complicazioni, lo stesso potrebbe essere detto della dimostrazione per assurdo o apagogia, dove si esperisce l’autocontraddirsi della tentata negazione di una tesi e, mediante il Principio di non contraddizione, si inferisce l’impossibilità di quella negazione). La caratterizzazione dell’elenchos qui richiamata è stata sviluppata da P. Pagani, Contraddizione performativa e ontologia, Franco Angeli, Milano 1999. Anche l’idea di “esperienza della necessità” è valorizzata da Paolo Pagani, il quale la ricava a sua volta dal lavoro sul principio di non contraddizione del neotomista Vincenzo Buzzetti: cfr. P. Pagani, Sentieri riaperti. Riprendendo il cammino della “neoscolastica” milanese, Jaca Book, Milano 1990, pp. 130, 142. 38
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parte del soggetto che dichiara di attestarle”. È vero, però, che riconoscere il ruolo della competenza linguistica obbliga a pensare più a fondo i rapporti tra la dimensione delle validità e l’empirico: questo è in fondo uno dei principali o forse il principale portato della cosiddetta svolta linguistica al pensiero speculativo. Più specificatamente e in rapporto al nostro caso: se si chiama in causa il “parlante competente”, da una parte si può definirlo in modo tale che gli appartenga essenzialmente la capacità di riconoscere le effettive differenze di significato e le effettive sinonimie, ma a questo punto si apre il problema se ciascuno di noi, che riattraversa e riattualizza in sé l’argomentazione, sia effettivamente un esempio di quel parlante competente; se d’altro canto, si tenta di far riferimento al parlante ordinario, cioè ad una qualità che possa, molto ragionevolmente, essere attribuita a ciascuno di noi, allora si apre il problema se davvero ciò sia sufficiente per riconoscere ogni sinonimia e ogni effettiva differenza di significato. La questione è fondamentale: in essa ritroviamo il problema, accennato sopra ed esaminato alla fine di questo scritto, dell’identità del soggetto che vede o, per dir meglio, delle condizioni grazie a cui ciascuno di noi può arrivare a trasformare il suo sguardo nello sguardo dell’istanza teorica che è evocata quando si parla dell’essere in vista di una verità o della possibilità di cogliere un nesso eidetico. In ordine a una messa a fuoco delle sue implicazioni in etica, approfondiamo la questione a partire dal modo in cui si presenta all’interno di un esame dell’OQA40. 1.4. Diversi filosofi hanno attribuito a Moore, sotto il nome di “OQA” un argomento che non si trova affatto nei Principia Ethica né altrove nell’opera di Moore; tale argomento procede così: se fosse vero che “è bene” significa ad esempio “è piacevole”, allora la domanda “ciò che è piacevole è bene?” non sarebbe una domanda aperta, ma sarebbe chiusa, come è chiusa la domanda “ciò che è piacevole è piacevole?”, invece la prima è una domanda aperta e dunque la presunta sinonimia iniziale non esiste. L’assunto cardine di questo argomento è che, se è aperta la domanda: “ciò che ha la qualità P, ha la qualità F?”, allora è negativa la risposta alla domanda: “ ‘esser P’ è sinonimo di ‘esser F’?”. Per valutare questo “principio cardine” occorre definire la nozione di domanda aperta e tale definizione ripresenta il problema richiamato poc’anzi del rapporto con la dimensione empirica. Considerate le domande ad alternativa perfetta, cioè della forma “p o non-p?”, “p è vero o non è vero?”, “F appartiene o non appartiene ad a?”, formalmente si potrebbe dire “aperta” qualunque domanda le cui presunte due possibili risposte sono effettivamente entrambe concepibili come la risposta corretta. È ovvio che c’è una sola risposta corretta, ma il punto è che l’altra né si autodisfa immediatamente, come invece accade ai tentativi di negare principi innegabili, né è un’immediata autocontraddizione (o una contradictio in adiecto). In questa accezione, dunque, non sono aperte solo le domande la cui risposta corretta è resa vera da un fatto contingente (ad esempio: “piove o non piove?”, “Diogene di Cizio era o non era calvo quando è morto?”), ma anche quelle la cui risposta scorretta è mediatamente autocontraddittoria (ad esempio, per tutti i metafisici che non accettano l’argomento ontologico, la domanda “Dio esiste?” è aperta, anche se, ovviamente, la sua risposta corretta non dipende da un fatto contingente: per costoro, infatti, l’ipotesi che Dio non esista non è immediatamente autocontraddittoria, ma rende autocontraddittorio il resoconto di ciò che si offre nell’esperienza)41. L’approfondimento che occuperà il prossimo sottoparagrafo potrebbe essere utilmente sviluppato attraverso un esame di un’altra delle questione che avevano impegnato Moore, cioè il cosiddetto “paradosso dell’analisi”: un’analisi identifica un analysandum con un analysans; se l’identificazione è valida, allora i due esprimono lo stesso concetto, ma, d’altronde, se l’identificazione si distingue da una mera tautologia non informativa, i due devono pure differire in quanto espressioni linguistiche; ancora una volta il problema fa rotta verso il nesso tra la competenza semantica e i rapporti eidetici tra i concetti. Il paradosso dell’analisi è stato definito da Moore nella sua risposta a Langford: C.H. Langford, Moore’s Notion of Analysis, in P.A. Schilpp (Ed.) The philosophy of G.E. Moore, Open Court, La Salle-Chicago 1942, pp. 321-342; Moore, A Reply to my Critics; cit. pp. 660-667. Ulteriori discussioni della posizione di Moore sono ad esempio: M. Black, The “Paradox of Analysis”, «Mind», 53 (1944), pp. 263-267; R.A. Fumerton, The Paradox of Analysis, «Philosophy and Phenomenological Research», 43 (1983), pp. 477-497. 41 Ad esempio, secondo Tommaso d’Aquinino, quella specifica negazione dell’esistenza di Dio che è la negazione di un motore immobile rende autocontraddittorio il resoconto dei movimenti che l’esperienza attesta. 40
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Data questa definizione di “domanda aperta”, per stabilire se una domanda è aperta occorre esaminare se le due sue presunte possibili risposte sono effettivamente entrambe possibili-concepibili. Niente di più facile e insieme niente di più difficile: è facile perché l’obiettivo del test è ben definito, si tratta di stabilire, per ciascuna delle due possibili risposte, se essa è o no immediatamente auto contraddittoria (o tale da autodisfarsi immediatamente); è difficile perché per stabilire se una proposizione è o no immediatamente autocontraddittoria, là dove non è possibile semplicemente controllare se si tratta di una verità logica nel senso chiarito da Quine42, occorre esaminare i significati dei concetti che ricorrono in essa e individuare i rapporti tra loro… ma allora è ovvio che non si può usare questo test per saggiare un’ipotesi di definizione di un significato o di determinazione di un rapporto di sinonimia. Ad esempio, per stabilire se è aperta la questione “tutto ciò che è piacevole è buono?” occorre stabilire se l’affermazione “ciò che è piacevole non è buono” sia o no immediatamente autocontraddittoria, ma poiché essa non è certo autocontraddittoria per la sua stessa forma (forma che è: “per ogni x, se Px, allora Fx”), allora occorre esaminare se la sua eventuale autocontraddittorietà non si fondi sui significati dei concetti che ricorrono in essa, cioè se appartenga al significato di “esser piacevole” (o addirittura coincida con tale significato) il significato di “esser buono”. Non è dunque possibile usare il test della domanda aperta per valutare un’ipotesi a proposito del rapporto tra il significato di “è piacevole” e il significato di “è buono”: quel test presuppone che su quei significati si sia in chiaro. Insomma, se è inteso nel modo appena indicato, il test della domanda aperta gira a vuoto e non trova attrito. Dove può stare l’attrito? Nella competenza semantica dei parlanti. Attenzione: la posta in gioco resta l’oggettività di un nesso semantico di sinonimia, la posta in gioco cioè resta lo stabilire se il concetto di piacevolezza ha lo stesso contenuto del concetto di bontà, solo che l’attrito su cui testare le ipotesi è la competenza linguistica come ciò grazie a cui si realizza l’esperienza dei rapporti semantici tra i concetti. Detto altrimenti: l’obiettivo non è indagare se un parlante direbbe che la piacevolezza è la bontà, ma è stabilire se la piacevolezza è la bontà, solo che per stabilirlo occorre guardare a come i parlanti usano questi due concetti, pre-assumendo che in tali usi, o meglio, in tali usi in quanto filtrati criticamente, si manifestino i rapporti eidetici tra le proprietà espresse dai concetti. In un’altra formulazione ancora: tesi intorno ai contenuti dei concetti sono avanzate sulla base di un’esplorazione dell’afferramento di quei concetti che informa gli usi linguistici; il concetto P è elaborato sulla base dell’esplorazione delle concezioni della proprietà P che informano e ordinano il parlare a proposito di quella proprietà. Ovviamente il principio ponte che giustifica la procedura afferma che quelle concezioni, quegli usi, quella competenza semantica sono un luogo di manifestazione di quei concetti, per quanto ovviamente tale manifestazione possa dover essere rielaborata, filtrata, riordinata e dunque anche corretta attraverso l’emendazione di inconsistenze interne ecc43.
Per Quine sono verità logiche quegli enunciati le cui parole che hanno occorrenza essenziale sono solo parole logiche come i connettivi (“e”, “o”, “se…allora”, “non” ecc.) e i quantificatori (“tutti”, “ciascuno”, “alcuni” ecc.). Cfr. W.V.O. Quine, Carnap e la verità logica, in Id., I modi del paradosso e altri saggi, tr. it. di M. Santambrogio, Il Saggiatore, Milano 1975, pp. 171-196; cit. p. 174. 43 Quanto più il filtraggio e la coerentizzazione vagliano anche considerazioni che non riguardano strettamente gli usi linguistici, ma, ad esempio, anche le conseguenze delle migliori teorie scientifiche, tanto meno l’esplorazione eidetica si risolve, a livello procedurale, in una pura analisi semantica. Quand’anche, comunque, l’esplorazione eidetica fosse svolta come un’analisi semantica, si risolverebbe in questa solo da un punto di vista procedurale, essendo appunto che la posta in gioco di un’indagine eidetica è data dalla definizione reale delle proprietà espresse dai concetti e dall’evidenziazione degli effettivi nessi che le coinvolgono. L’alternativa è un’esplorazione semantica che non pretenda di stare con ciò esplorando la struttura della realtà, ma qualcosa come la rete di concetti o lo schema concettuale che si è storicamente costituito e che è generalmente determinato come distinto dalla realtà inintellegibile che gli starebbe dietro e la cui presenza si farebbe sentire negli stimoli e negli urti che fanno da “materiale” all’interno del fenomeno della percezione. Questa “posizione alternativa” non è quella di Moore per cui ora non la discuterò. 42
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È entrata dunque in scena la nozione di “competenza semantica del parlante”: è su tale competenza che è saggiata un’ipotesi di definizione analitica e se tale saggiare è svolto attraverso il test della domanda aperta, allora è su tale competenza che si controlla se una domanda è aperta o no. Il criterio dell’essere aperta non potrà più coincidere con la definizione formale di domanda aperta (la definizione per cui: “è aperta la domanda che ha come presunte possibili risposte due risposte effettivamente concepibili come vere”), ma dovrà essere qualcosa come: “se una domanda è aperta, allora può accadere che un parlante competente della lingua in cui quella domanda è formulata sia in dubbio sulla risposta corretta da dare”44. Ed ecco dunque aprirsi quel tipo di problemi già annunciati, problemi che, lo ribadisco, lungi dall’essere “questioni di dettaglio” o “questioni tecnico-marginali” rivelano un’insufficiente tematizzazione speculativa del rapporto tra sfera dell’empirico e sfera delle validità: che cosa conta come un essere in dubbio? Occorre che vi sia un’effettiva incapacità di rispondere anche dopo un’attenta riflessione (ma quanto attenta?), oppure è sufficiente che vi sia un momento di esitazione prima di rispondere? E ancora: quanto competente deve essere il parlante? Diremo forse che padroneggia con competenza un concetto solo chi ne conosce e riconosce tutti i sinonimi? Basta davvero non sapere che Partenopeo = Napoletano per non sapere che cosa significa “Napoletano”? E lo stesso si dica per “bollito” in rapporto alla sinonimia tra “bollito” e “lesso”. Oppure, e questo è molto più plausibile, la competenza semantica richiede solo che, se una persona conosce un concetto e conosce un altro concetto che ha lo stesso significato, allora quella persona deve saper riconoscere la sinonimia tra essi o tra due enunciati la cui unica differenza sia che in uno ricorre il primo concetto proprio là dove nell’altro ricorre il secondo? Quanto più esigente è la nozione di competenza linguistica richiesta, tanto più la procedura è affidabile, tanto meno però è sicuro stabilire se il soggetto concreto che esegue tale procedura possieda effettivamente quella competenza; d’altronde, quanto meno è esigente la nozione di competenza, tanto più è facile che tutti la possiedano, ma inaffidabile la procedura. In entrambi i casi, ogni concreta esecuzione della procedura, per una ragione o per l’altra, ha un forte carattere peirastico o tentativo. Il punto può essere chiarito anche con un esempio: “uomo non sposato” è una buona definizione di “scapolo” (i casi che essa non chiarisce, come il fatto che non diciamo di un prete che è uno scapolo, possiamo accantonarli45), tra le due espressioni vi è sinonimia; ciò comporta che la domanda “quest’uomo non sposato è uno scapolo?” non è aperta secondo la definizione formale di “domanda aperta”; tuttavia, dal punto di vista del criterio empirico non potremmo forse immaginare delle situazioni in cui un parlante mediamente competente si trovi di fronte ad essa in una condizione non così facilmente distinguibile da una qualche forma debole di dubbio? Ritengo di sì, basta immaginare una persona un poco insicura la cui attenzione sia catturata dalla domanda “perché mi si chiede se un uomo non sposato è uno scapolo, forse c’è un tranello, forse la risposta non è così scontata come mi verrebbe da pensare…”. Ebbene, quanta rilevanza deve avere questo caso nella nostra riflessione sul rapporto tra i predicati “essere scapolo” e “essere un uomo non sposato”? E se fossimo noi stessi quella persona insicura? Se fossimo noi a cominciare a dire a noi stessi cose come: “a molte presunte definizioni di concetti ben più importanti e formulate da grandi pensatori sono stati trovati svariati controesempi, sono davvero sicuro di aver trovato io una definizione valida, oltretutto di un concetto su cui non si riflette da sempre?”. Il problema dell’OQA sta qui. Feldman difende Moore da un noto attacco formulato da vari pensatori, tra cui William Lycan e Nicholas Sturgeon, secondo cui Moore ragionerebbe così: poiché posso trovarmi in dubbio se la piacevolezza coincida con la bontà, allora non è vero Questo nodo è affrontato, con una notevole superficialità speculativa, da: C. Strandberg, In Defence of Open Question argument, «The Journal of Ethics», (2004), pp. 179-196. 45 Tali casi marginali sono discussi ad esempio di Michael Dummett; oltre all’esempio del prete, egli cita anche il caso di un uomo che sta divorziando, ma che si è già materialmente separato dalla moglie: qui, probabilmente, applicheremmo il termine “scapolo” anche se, legalmente, l’uomo non è ancora “non sposato”; cfr. M. Dummett, La base logica della metafisica (1991), tr. it. di E. Picardi, Il Mulino, Bologna 1996. 44
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che la piacevolezza coincide con la bontà. Effettivamente, un tale ragionamento non è efficace: consideriamo i due casi. Primo: se “trovarsi in dubbio su una questione” è inteso in un modo per cui significa che tale questione è aperta nel senso formale, allora riconoscersi in dubbio giustifica l’affermazione che la domanda è aperta e da questa affermazione si può certamente passare ad affermare la non coincidenza tra le due proprietà, sennonché, per dichiarare significativo il dubbio e dunque aperta la domanda occorre una qualche comprensione delle due proprietà in questione. Insomma, la constatazione del proprio essere in dubbio, nel senso di essere innanzi ad una domanda aperta (nel senso tecnico), non ha affatto priorità nell’ordo cognoscendi. Secondo caso: se, invece, “trovarsi in dubbio su una questione” significa semplicemente che si vive il dubbio (anche se non necessariamente in modo drammatico o a lungo), allora, il “passare” all’affermazione della non coincidenza delle due proprietà non è lecito affatto giacché è ben possibile dover indagare a lungo prima di poter essere soggettivamente sicuri di un’ipotesi di definizione (per cui, insomma, il fatto empirico di vivere un dubbio innanzi ad un’alternativa non prova che essa sia davvero aperta, nel senso formale prima chiarito). Feldman ritiene che Moore non avrebbe negato quest’ultima possibilità e ricostruisce il test di Moore della domanda aperta diversamente: poiché posso trovarmi a chiedere seriamente se ciò che è piacevole è buono, mentre non posso trovarmi a chiedere seriamente se ciò che è piacevole è piacevole, allora devo riconoscere che vi è differenza di significato tra queste due domande, ma se vi è differenza e l’unica cosa che le distingue è che in una ricorre “piacevole” dove nell’altra ricorre “buono”, allora devo concludere che i due predicati non hanno lo stesso significato. A questo punto, però, si può però ripresentare il problema e Feldman-Moore devono assicurare che questo test, applicato alle domande “gli uomini non sposati sono scapoli?” e “gli uomini non sposati sono uomini non sposati?” dia il giusto risultato e non porti a negare la sinonimia anche tra i due predicati qui coinvolti. Ancora una volta, dunque, va riconosciuto che non si tratta di un test puramente sintattico, ma richiede una competenza semantica: essa ci guida nel dire che queste ultime due domande sono entrambe chiuse, mentre le prime due sono una chiusa e l’altra aperta e dunque non sono equivalenti nel significato. Anche l’OQA, come molti altri argomenti che svolgono ruoli importanti nella costruzione speculativa del discorso filosofico, richiede la messa al lavoro della propria competenza semantica. Ebbene, come giustificare un minimale affidamento a tale competenza? Ritengo che la macchina che opera all’interno di tale giustificazione sia, in fine, qualcosa di questo tipo: (a) la nostra competenza semantica non è qualcosa da cui possiamo saltare fuori o qualcosa che possiamo decidere di usare o non usare come fosse uno strumento; (b) da ciò non consegue che non si possa porre il problema della verità delle tesi cui ci conduce (dove il predicato “è vero”, anche in quanto attribuito a questo tipo di tesi, come quando è attribuito ad ogni altro tipo, non coincide con “coerenza” o “coerenza positiva” o simili)46; (c) da quanto detto al punto “a”, però, consegue che il problema della verità, nel senso chiarito al punto “b”, è trattabile solo dall’interno della competenza semantica o, più esattamente, dall’interno del proprio sguardo sul mondo che, per lo meno nella condizione storica, è articolato linguisticamente e, dunque, in virtù della nostra competenza linguistica; (d) ora, se è inevitabile affidarsi alla propria competenza semantica (anche se non è definito il modo in cui farlo, ed è ben possibile tanto essere cauti, quanto credere che le risposte agli esperimenti mentali o ai controfattuali più bizzarri siano altrettanto affidabili di alcune intuizioni semantiche ordinarie), allora non è possibile non attribuire ad essa una minimale affidabilità – un’affidabilità che è compatibile con le più svariate correzioni del caso, correzioni che, invece, senza quella presupposizione di affidabilità, sarebbero tutte destinate d’un colpo all’insensatezza, come è insensato tentare di bere un Che “verità” non abbia qui un altro significato consegue dall’introduzione critico-trascendentale del concetto di verità, che è l’introduzione di un concetto che non è sinonimo di “coerenza” o “coerenza positiva”, ma di “manifestazione delle cose quali sono”; di questa introduzione mi sono occupato, considerando anche alcune sue versioni classiche, nei capitoli III e VI del volume: Fanciullacci, La misura del vero. Verità, pretesa di verità e ragioni in un confronto con l’epistemologia analitica. 46
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consommée con la forchetta. Come è chiaro, tale sequenza a-d non mostra che la competenza semantica è infallibile o anche solo che per lo più non si sbaglia ad affidarsi ad essa: mostra che la competenza semantica come forma di accesso ai nessi tra i significati definisce uno spazio in cui può accadere un accesso al vero (a quel vero che riguarda i nessi semantici); mostra, insomma, che tra gli svariati modi di accedere alle svariate forme del vero, c’è anche la riflessione sulla propria competenza semantica, sebbene, anche a questo, come a ogni altro tipo di accesso al vero, possa accadere di venir realizzato in modo da non dar luogo al coglimento di una concreta verità, ma solo allo scivolamento in un errore. Conclusa questa difesa dell’OQA, possiamo tornare a chiederci se esso sia sufficiente a legittimare la tesi che Moore appoggia ad esso. Per cogliere il punto, assumiamo per amor dell’argomento, non già una minimale affidabilità della nostra competenza semantica, bensì addirittura che la nostra effettiva competenza semantica sia molto affidabile. In particolare assumiamo queste due tesi: (1) testando la presunta identità tra piacevolezza e bontà attraverso l’OQA, la nostra competenza semantica ci indirizza verso la risposta corretta; (2) la risposta corretta è che tra quelle due proprietà non vi è identità. Ebbene, il punto è che anche tale meravigliosa combinazione tra la super-competenza e il potere sollecitante del test comunque non consentono ancora di generalizzare i risultati come vorrebbe Moore (al tempo dei Principia Ethica): quella combinazione rende affidabili le negazioni della sinonimia tra “è bene” e tutti i vari predicati sottoposti al test (e, ovviamente, non risultati sinonimi), ma non consente, da sola, di affermare che “è bene” è indefinibile (cioè impossibile da definire) o tale da non avere alcun sinonimo interessante come lo sarebbe un sinonimo che fosse (o potesse essere) un concetto delle scienze naturali. Allo stesso punto si giunge chiedendosi se un numero limitato e comunque determinato di esecuzioni del test consenta davvero di fondare la tesi che per qualunque predicato P, complesso o semplice-ed-interessante, è sempre vero che, mentre una domanda come: “a ciò cui appartiene P, appartiene P?” è chiusa, la domanda: “ciò a cui appartiene P è buono?” è aperta. Poiché l’essere aperta della seconda domanda, quando è aperta, non si fonda sulla forma logica delle due domande, giacché ciò equivarrebbe a negare qualunque possibile sinonimo di qualunque possibile predicato, allora ritengo che dobbiamo rispondere negativamente a quanto ci siamo appena chiesti: l’OQA non può escludere definitivamente la possibilità di trovare o una definizione analitica di bontà o un sinonimo semplice ed interessante. Moore stesso, seppure con una frase piuttosto oscura nel suo carattere iperbolico, lo riconobbe nel 1932 e anche Feldman lo concede sebbene anteponendo un “forse”47. Quanto appena osservato, naturalmente non esclude la seguente condivisibile difesa della tesi forte di Moore: poiché nessuno dei predicati candidati a valere come definizione o come sinonimo semplice ed interessante di “è bene”, che sono stati presentati lungo la storia dell’etica, ha passato il test dell’OQA, è ragionevole inferire induttivamente che nessun predicato passerà questo test – sebbene, è ovvio, un ragionamento induttivo non abbia la forza fondativa di una dimostrazione. Questa comprensione del punto è affermata esplicitamente ad esempio da David Ross in riferimento alla sua riappropriazione dell’OQA e alla sua applicazione dello stesso in rapporto alla nozione di giusto48. 1.5. Digressione sulla critica di Putnam all’OQA. Ho appena esposto una critica alla pretesa di fondare sull’OQA la tesi per cui la bontà sarebbe una proprietà indefinibile; tale critica non coincide con quella mossa, alla stessa tesi da Hilary Putnam49; anche quest’ultima critica merita alcune osservazioni. Cfr. Feldman, The Open Question Argument: what it isn’t; what it is; cit. p. 38; Moore, La bontà è una qualità? ; cit. p. 97. La frase di Moore è questa: «Nei Principia asserivo, e mi proponevo di dimostrare, che “buono” (…) fosse indefinibile. Ma tutte le mie supposte prove erano fallaci, in quanto trascuravo interamente di dimostrare che la caratteristica denotata da “tale che vale la pena di viverla per se stessa”, o “degna di essere vissuta per se stessa”, sia indefinibile». 48 Cfr. Ross, Il Giusto e il Bene, pp. 111-113. 49 Cfr. H. Putnam, Ragione, verità e storia (1980), tr. it. di A.N. Radicati Di Brozolo, Il Saggiatore, Milano 1994, pp. 221-227. Queste pagine appartengono al capitolo IX: Valori, fatti e conoscenza. 47
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Putnam concede che l’OQA sia uno strumento efficace per attaccare le definizioni analitiche della bontà, ma aggiunge che non è ancora stato escluso che la bontà non possa essere definita attraverso qualche procedura diversa. Di fronte a questa affermazione non ci si può limitare a dire, come fa Feldman, che l’intenzione di Moore era unicamente attaccare le definizioni analitiche e che dunque non gli può essere imputato il non essere riuscito ad escludere quel che non si proponeva di escludere50. In realtà, come ho già sottolineato, Moore intendeva negare che la bontà sia passibile di definizione reale e però riteneva che non vi fosse altra definizione reale che la definizione analitica: Putnam, come prima ancora già aveva fatto Gilbert Harman51, mostra che Moore non è riuscito a dimostrare che la bontà non è passibile di definizione reale perché ha mancato di mostrare che non è passibile di una definizione reale non analitica, come ad esempio quelle che le scienze forniscono dei generi naturali, come l’acqua o l’oro. Il predicato “essere H2O” (o meglio: “essere una sostanza la cui struttura molecolare può essere espressa dalla formula ‘H2O’”) non è proposto dalla chimica dell’acqua come sinonimo di “esser acqua” eppure è presentato come definizione reale dell’acqua, come la teoria vera su che cos’è l’acqua; tale definizione non è pretesa essere una che un soggetto avente una competenza linguistica anche molto estesa potrebbe riconoscere come sinonima del predicato (che pure egli sa usare) “esser acqua”: la competenza linguistica, anche ideale, non è qui ciò che, pretendendo di dar voce alla realtà, fa da tribunale su cui testare l’identificazione scientifica tra l’acqua e la sostanza la cui struttura è H2O; ciò che, pretendendo di dar voce alla realtà, fa qui da tribunale sono le stesse procedure scientifiche che hanno portato gli scienziati a sviluppare la teoria sull’acqua che ne esprime la struttura molecolare con la formula “H2O”. Naturalmente, esiste un rapporto importante tra i parlanti, che usano comunemente la parola acqua e dunque impiegano il predicato “esser acqua”, e questa teoria scientifica: tale teoria individua e definisce rigorosamente ciò a cui ogni parlante intende riferirsi quando parla dell’acqua, per cui fa parte della competenza linguistica operare un deferimento agli esperti per stabilire quali siano gli esatti confini della sostanza a cui ci si intende riferire usando comunemente la parola “acqua”. Proprio questo deferimento consente di affermare che tra la definizione reale scientifica e la comprensione ordinaria del concetto di acqua esiste un rapporto per cui si può applicare il principio del beneficio del dubbio: i parlanti, condotti attraverso la procedura che ha portato gli scienziati a formulare la nota definizione dell’acqua, riconoscerebbero in essa la definizione che, pur non essendo affatto sinonima con la comprensione ordinaria che possiedono (lo stereotipo), realizza davvero ciò che tale comprensione ordinaria avrebbe voluto essere, cioè appunto una definizione che individua correttamente e rigorosamente il referente52. Ora, la bontà potrebbe essere qualcosa come un genere naturale? In realtà non occorre concentrare la discussione sull’essere o meno la bontà qualcosa la cui definizione reale debba spettare alle scienze naturali, come ad esse spetta fornire la definizione reale di acqua o di oro o di elefante o di AIDS, il punto è se la bontà sia una proprietà tale per cui la formulazione della definizione reale di ciò a cui intendiamo riferirci con la parola, cioè del referente (la bontà stessa), possa non essere sinonima della parola “acqua” ma stare in un rapporto con la compren Cfr. Feldman, The Open Question Argument: what it isn’t; what it is; cit. pp. 38-40. Cfr. G. Harman, The Nature of Morality, Oxford University Press, Ney York 1977, pp. 19-20. 52 Cfr. H. Putnam, Mente, linguaggio e realtà (1975), tr. it. di R. Cordeschi, Adelphi, Milano 1993, pp. 239-317. Tali pagine corrispondono ai saggi Il significato di “significato” e Linguaggio e realtà. È chiaro invece che la teoria scientifica sull’acqua non dice tutto ciò che di vero ed interessante c’è da dire sull’acqua, ad esempio non si occupa delle connotazioni simboliche che quasi ogni cultura ha attribuito all’acqua e che conviene conoscere se si intende mettere a fuoco adeguatamente il rapporto tra l’uomo e l’acqua. In questo senso, ma solo in questo (che ritengo coincida con quello che effettivamente gli stava a cuore), è recuperabile la tesi di Ivan Illich secondo cui l’acqua, che tradizionalmente era la sostanza connessa ad esempio all’oblio, non coincida con l’H2O: il punto di Illich è guardare al predicato “essere H2O” in rapporto alle pratiche tecniche e di sfruttamento che lo impiegano esplicitamente nel loro aver a che fare con l’acqua. Quelle pratiche non sono le uniche in cui si può avere a che fare con l’acqua, né quelle in cui si realizza il rapporto “migliore” (in una qualche accezione eticamente impegnata del termine) con l’acqua, sebbene, l’acqua con cui si può avere tutti questi differenti rapporti sia pur sempre quella sostanza lì, quella la cui struttura è H2O; cfr. I. Illich, H20 e le acque dell’oblio. Un’inchiesta sul mutamento delle nostre percezioni dello spazio urbano e delle acque che lo ripuliscono, Macro, Umbertide (PG) 1988. 50 51
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sione ordinaria (quella tale che si esprime nelle già evocate perifrasi e caratterizzazioni), tale da legittimare l’applicazione del principio del beneficio del dubbio. Se le cose stessero così e se, ad esempio, fosse proposta come definizione reale, sulla base di quel tipo di procedure ritenute adeguate a scoprire che cos’è la bontà (e che, ripeto, possono ben non essere quelle delle scienze naturali, anche se occorre una ragione indipendente per escludere che possono essere queste), se fosse proposta, dicevo, la definizione: “la bontà è il piacere”, allora, l’insoddisfazione dei parlanti ben evidenziata dall’applicazione a una tale definizione dell’OQA, non sarebbe risolutiva: non si tratterebbe infatti di capire se questa presunta definizione è sinonima di “è bene”, cosa per cui la competenza linguistica sarebbe il giusto tribunale, ma se la riluttanza dei parlanti ad accettare la definizione custodisca qualche buona ragione che l’elaborazione della definizione non ha saputo tener presente o se invece quella riluttanza non debba essere spiegata solo sulla base dell’attuale differenza tra lo stereotipo familiare e la definizione non familiare; nel primo caso, non si potrebbe effettivamente applicare il principio del beneficio del dubbio (non si può dire: “se i parlanti sapessero tutto ciò che è emerso nell’indagine, allora concorderebbero”, giacché appunto essi non concordano, non per ignoranza, bensì per quella ragione ipotizzata), nel secondo invece sì (infatti, il loro non accettare in atto la definizione può essere ben spiegato sulla base del fatto che non sono effettivamente a conoscenza di tutto ciò che è emerso nell’indagine sulla bontà). La possibilità prospettata nel capoverso precedente (e che non è una possibilità effettivamente prospettata da Putnam, ma una prospettabile avendo accettato la sua teoria semantica), cioè la possibilità che la ricerca della definizione reale della bontà non sia una che, da un punto di vista procedurale, è identica ad un’indagine semantica (senza che ciò comporti necessariamente che si tratti di un’indagine scientifico-naturale), è un’opzione non considerata da Moore, ma che sarebbe importante considerare per capire quale sia la forma di un’indagine sulle cose buone e dunque prima di tutto sulla bontà: Moore, ripeto, non la considera e lo stesso faremo noi, ma sullo sfondo della teoria esposta nei Principia Ethica, quell’altra opzione si staglia con particolare chiarezza53.
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Sui rapporti tra l’ordine del bene e l’ordine del giusto. L’impostazione di D.W. Ross
2.1. Come abbiamo visto (cfr. supra, § 1.1), sono numerose le tesi e i principi dell’impianto etico e soprattutto della metaetica di Moore, che Ross fa suoi ne Il giusto e il bene – e per cui si dichiara debitore nei confronti di Moore54. Al di là delle differenze, anche molto significative, a livello dell’etica vera e propria, comunque, sul piano della metaetica si colloca anche la più significativa divergenza della proposta teorica di Ross rispetto alla prospettiva che Moore sviluppa nei Principia Ethica. Si tratta del fatto che per Ross la bontà non è l’unica proprietà etica elementare e semplice, giacché l’esser giusto è altrettanto semplice ed irriducibile. Da questa differenza, naturalmente, ne seguono molte altre, tra cui ad esempio il fatto che, mentre per Moore le affermazioni riguardanti ciò che si deve fare (=ciò che è giusto fare) non possono essere autoevidenti e dunque giustificate attraverso il richiamo all’intuizione,55 per Ross, anche La possibilità che ho descritto è simile ad una avanzata (e criticata) da Ernesto Napoli: si tratta della possibilità che il termine “buono” designi rigidamente la bontà, da intendere come una proprietà stabile e dunque tale che la sua natura sia indipendente da ciò che gli esseri umani e le società credono di essa (cioè, tale che essa è misurante il valore di verità di tali credenze e non misurata da esse). Napoli avanza anche alcune obiezioni piuttosto marginali (più esattamente: chiamanti in causa presunte considerazioni ragionevoli sull’instabilità di ciò che è giusto) a questa possibilità; cfr. E. Napoli, Riferimento diretto, in M. Santambrogio, Introduzione alla filosofia analitica del linguaggio, Laterza, Roma-Bari 1992, pp. 385-429; cit. p. 400 n. Riformulo i tratti dell’ipotesi che ho suggerito attraverso il precedente, breve, confronto con Putnam: che il termine “buono” designi rigidamente la bontà; che la bontà sia una proprietà stabile; che la bontà sia indagabile attraverso un metodo irriducibile a una semplice riflessione critica sulla competenza semantica – e un esempio di tale riflessione è la procedura che fa uso dell’OQA) 54 Cfr. Ross, Il Giusto e il Bene, p. 4. 55 Cfr. il § 90 di: Moore, Principia Ethica, p. 198. 53
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l’inerenza o la presenza in qualcosa della giustizia è materia dell’intuizione e non può essere deduttivamente inferita dal riconoscimento che quel qualcosa esemplifica la proprietà con cui è stata definita la giustizia. La tesi dell’indefinibilità del predicato “è giusto” era già stata affermata nel 1912 da un altro intuizionista, Harold Artur Prichard (1871-1947), verso cui naturalmente Ross si dichiara apertamente debitore56 e invero, prima ancora (nel 1874) era stata affermata anche da Henry Sidgwick (1838-1900)57: ciò che però rende interessante per noi la formulazione di Ross è il fatto che egli difende questa tesi riapplicando anche al concetto di giusto la struttura dell’OQA. Ross parte proprio dalla presunta definizione di giusto offerta da Moore nei Principia secondo cui, come già ricordato, “è giusto” significa “è tale da produrre il maggior bene possibile nelle circostanze date”58 e afferma che, riflettendo, possiamo facilmente giungere a capire che quando diciamo di un certo tipo di azione che è giusta non intendiamo affatto dire alcunché sulle sue conseguenze59. Questa annotazione critica potrebbe essere riformulata così: riflettendo su come usiamo il predicato “è giusto” e come usiamo o useremmo il predicato proposto da Moore come definiens, ci accorgiamo che essi non sono sinonimi e dunque che, se qualcuno si trova di fatto in dubbio davanti alla domanda “questo tipo di azione che, in circostanze come le presenti, è capace di produrre il maggior bene possibile è un’azione giusta?”, ciò non è dovuto a una defaiance della sua competenza semantica, che non gli fa riconoscere quella che in realtà e formalmente è una domanda chiusa, ma è dovuto al fatto che quella domanda è in realtà e formalmente aperta. Il concetto di giusto è un concetto elementare per cui la sua inerenza a qualcosa, ad esempio a un tipo di azione oppure a una norma o a una massima, non può che essere attestato grazie ad una “reflective intuition”. Per Ross dunque la proprietà dell’esser giusto è altrettanto elementare e primitiva della proprietà dell’esser buono e dunque, come esiste un ordine di cose che esemplificano, in vari modi la bontà, così vi è un ordine di cose che esemplificano, in vario modo, la giustizia, l’esser giuste. Nel paragrafo precedente, non ci siamo soffermati sui tratti generali dell’ordine del bene: è tempo di farli emergere in controluce, esaminando i tratti generali che, secondo Ross, possiede l’ordine del giusto; in un certo senso, che complicheremo più avanti, l’ordine del bene e l’ordine del giusto sono infatti speculari nell’essere i due reami di cose che, variamente, partecipano delle due qualità etiche fondamentali, la bontà e la giustizia. 2.2. Per Ross, il modo in cui la giustizia si diffonde sulle varie cose giuste non sembra seguire un unico principio o criterio (come ad esempio: “sono giuste tutte e sole le massime che possono essere universalizzate senza contraddizione”) o, perlomeno, un siffatto principio, applicando il quale si riuscirebbe a mostrare l’unità di tutte le cose che sono auto-evidentemente giuste (cioè il cui esser giuste emerge in una riflessione appropriata e non avente un carattere inferenziale), non è ancora stato scoperto. Ciò nonostante, la totalità delle cose giuste è pur sempre unificata da questo rapporto col giusto e questa singolare unità garantisce la possibilità di esplorare quella totalità, di seguirne le interne ramificazioni; quell’unità è la condizione di possibilità del tentare di capire i rapporti gerarchici tra le cose giuste e i principi sulla base dei quali l’esser giusto si diffonde a cascata prima sui principi fondamentali, poi sulle norme, fino a raggiungere i tipi di azione. Conviene soffermarsi su questa sequenza di stazioni attraversate dal giusto (cioè dalla proprietà: giustizia) nel suo diffondersi e farsi presente nelle cose, anche al fine di comprendere come si ridisegni la riflessione morale all’interno dell’impostazione, avente un chiaro sapore platonico, elaborata da Ross. L’esposizione che offrirò non segue passo dopo passo il dettato di Ross, ma muove da alcune sue mosse decisive e, ritengo, ritrova in fine lo spirito di quel dettato. Cfr. Ross, Il Giusto e il Bene, p. 3. Cfr. H. Sidgwick, I metodi dell’etica (1874), tr. it. di M. Mori, Il Saggiatore, Milano 1995, p. 71. Questa pagina è citata pure in Ross, Il Giusto e il Bene, p. 13. 58 Cfr. il § 89 di: Moore, Principia Ethica, pp. 196-198. 59 Cfr. Ross, Il Giusto e il Bene, pp. 15-17. 56 57
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Si consideri un’azione concreta: essa si è verificata in un dato momento spazio-temporale ed è stata compiuta da una certa persona. Ora si prescinda unicamente dalla sua esistenza, si compia cioè quella che la tradizione scolastica chiama “abstractio totalis”: si è così passati dall’azione concreta al tipo di azione di cui quella concreta è un’occorrenza; il tipo di azione lo chiamerò anche l’eidos di cui l’azione concreta è esemplificazione. Dell’eidos di un’azione esiste sia una concezione formale e una concreta; la concezione formale è quella appena introdotta, il cui contenuto è così esprimibile: “la totalità delle caratteristiche e determinazioni di questa azione, che potrebbero essere esemplificate anche da un’altra azione (che, dunque, differirebbe solo numericamente dalla prima)”; la concezione concreta è quella il cui contenuto è dato dall’elenco delle caratteristiche e determinazioni menzionate nella concezione astratta60. È chiaro che tra le caratteristiche che appartengono all’identità eidetica di un’azione, cioè tra le caratteristiche eidetiche (o universali) di un’azione vi sono le caratteristiche eidetiche delle circostanze a cui quell’azione risponde e in cui dunque si colloca. (Si noti altresì che l’eidos di un’azione non coincide solo con la forma universale di un’azione compiuta: il progetto di un’azione da compiere ha per contenuto o tutto o una parte dell’eidos di un’azione, che sarà dunque l’eidos di un’azione possibile). Un’azione concreta si rapporta alla giustizia, ad esempio essendo giusta, in quanto, nello stesso modo si rapporta alla giustizia il suo eidos. Detto altrimenti, un’azione concreta può essere giusta, ma solo in quanto è esemplificazione di un tipo di azione giusta: non nella sua identità numerica, ma nella sua identità eidetica, quell’azione partecipa (in quel modo) della giustizia. Detto ancora altrimenti: se quest’azione qui è giusta, lo è in quanto è l’occorrenza di un tipo di azione così e così – dove il “così e così” sta per una descrizione universale o dell’identità eidetica. (Da ciò consegue che due azioni dello stesso tipo, cioè che esemplificano lo stesso eidos, non possono essere una giusta e l’altra ingiusta, neppure se la prima sono io a compierla e l’altra tu – a meno che tu ed io non ci troviamo in condizioni diverse, ma questo è escluso dall’ipotesi che le azioni esemplifichino lo stesso eidos). Ho affermato che due azioni dello stesso tipo hanno lo stesso rapporto con il giusto. Essere dello stesso tipo, però, non è una condizione necessaria per avere lo stesso rapporto con il giusto: è sufficiente che l’eidos della prima e l’eidos della seconda condividano tutte le proprietà La differenza tra due concreti (ad esempio due azioni concrete) che esemplificano lo stesso eidos pertiene all’identità numerica dei due, cioè al fatto che questo non è quello. Il fatto che questo non sia quello comporta che vi siano alcune cose che possono essere dette con verità del primo, ma non del secondo: queste cose dicibili con verità non sono predicati universali, infatti per ipotesi, questo e quello condividono lo stesso eidos, cioè le stesse caratteristiche universali (esprimbibili con predicati universali); queste cose dicibili con verità non si riduco al dire di questo che è questo e non quello e di quello che è quello e non questo: ad esempio il predicato “sta qui” potrebbe essere attribuibile con verità a questo, ma non a quello; lo stesso forse vale per il predicato “è stato fatto in Italia” o per il predicato “me lo ha regalato Luigi Delfino”; che caratteristica comune abbiano tali predicati (in cui ricorrono deittici e nomi propri), non lo approfondirò, mi limito ad osservare che sarebbe scorretto dire che tali predicati, che non sono universali, non lo sono perché possono essere attribuiti solo a un certo concreto individuale, infatti, possono esservi due cose anche molto diverse che hanno in comune il fatto di essermi state regalate da Luigi Delfino. Questa affascinante serie di questioni, connesse al problema del principium individuationis saranno qui lasciate da parte, nonostante che una loro risoluzione sia importante anche solo allo scopo di elaborare una soddisfacente metaetica: con Ross (ma anche con Hare) sostengo che la valutazione in termini di giusto/sbagliato (dovuto/vietato/permesso) di un concreto si basa sulle sue caratteristiche eidetiche (esprimibili con predicati universali), tuttavia una posizione particolarista potrebbe voler sostenere che anche tra quei “predicati non universali” che ho evocato in questa nota possono esservi tratti moralmente rilevanti di un concreto, cioè tali che la loro presenza o assenza può far variare il giudizio morale su quel concreto; cfr. Hare, Il linguaggio della morale, p. 160; R.M. Hare, Saggi di teoria etica (1989), tr. it. di R. Rini, Il Saggiatore, Milano 1992, pp. 53-70. (In realtà, il particolarismo sorge, per lo più, su una posizione nominalista e dunque nega fin dall’inizio la distinzione tra predicati universali e predicati non universali; cfr. infra, nota 67). Al di là del particolarismo, comunque, potrebbe essere vero che la valutazione in termini di buono (o degno) / cattivo (o indegno), in ciò che ha di irriducibile a quella in termini di giusto/sbagliato, arriva al concreto non solo sulla base del fatto che questo esemplifica un certo eidos, ma anche per le sue caratteristiche irriducibili: su questa ipotesi, tornerò brevemente nella parte finale del presente scritto. 60
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o caratteristiche moralmente rilevanti. Quest’affermazione la si consideri un’asserzione formale: essa non dice quali siano le proprietà moralmente rilevanti, ma introduce lo spazio logico di tali proprietà; afferma, cioè, che due azioni non eideticamente identiche, possono essere identiche nelle proprietà eidetiche che determinano il loro rapporto con la proprietà della giustizia. Per stabilire (attraverso la riflessione che dà luogo all’intuizione intellettuale) se la giustizia inerisce ad un certo tipo di azione non occorre pretendere di avere innanzi la totalità delle caratteristiche eidetiche di quell’azione, ma è sufficiente pretendere di avere innanzi tutte le proprietà moralmente rilevanti. Ora, in un senso molto importante, il discorso speculativo sull’ordine del giusto è qui già finito: è finito prima dell’entrata in scena dei principi, delle regole, delle massime. In effetti, c’è un senso, ed è quello cui sto alludendo in questo capoverso, in cui ciò che conta è che siano giuste le azioni concretamente compiute, non i principi o le regole a cui talvolta si guarda per compierle: la posta in gioco ultima nella valutazione in termini di giusto/sbagliato sono le azioni concrete, le quali sono così valutabili in quanto esemplificano eidos di azioni. La valutazione dei tipi (o eidos) di azioni è dunque la valutazione la cui possibilità e la cui meccanica una teoria etica deve esporre e il discorso fatto fino a qui espone questa meccanica: si tratta di riflettere su, al fine di intuire, il rapporto alla giustizia di un tipo di azione (o meglio, di quella parte di un tipo di azione che è data dalle proprietà moralmente rilevanti di quell’azione). Eppure, noi valutiamo come giusti anche dei principi e delle regole: il modello di Ross riesce a fare posto a questa forma di valutazione e a riconoscerle un senso? La risposta è affermativa, ma la sua esposizione è piuttosto complicata e richiede di procedere gradualmente. Come abbiamo visto, giusto, in senso forte, è solo un tipo di azione, o meglio una congiunzione di proprietà moralmente rilevanti, caratterizzata dal fatto di poter essere la totalità delle proprietà moralmente rilevanti di un’azione concreta. Ross, però, osserva come anche una di queste proprietà moralmente rilevanti possa essere detta giusta: ad esempio, la proprietà di “essere il mantenimento di una promessa fatta ad un amico” è una proprietà in cui è (cioè: appare essere) presente la giustizia. Non solo, esplorando l’ordine del giusto, si può vedere che tale proprietà partecipa della giustizia in quanto prima vi partecipa la proprietà più generale: “essere il mantenimento di una promessa”. Quest’ultima proprietà, invece, secondo Ross, non partecipa della giustizia in quanto coperta da una proprietà ancora più generale a sua volta partecipante della giustizia. Così, conclude Ross, che si mantengano le promesse è un principio fondamentale di giustizia, cioè un principio che la riflessione (la quale, però, potrebbe essere stata manchevole) non ha saputo ricondurre ad un principio giusto più generale. (Che si mantengano le promesse fatte ad un amico, è invece una regola che è giusta in quanto coperta dal principio fondamentale). Ebbene, che cosa significa, in rapporto alla valutazione di tipi di azione o di progetti d’azione, che è ciò che conta, asserire che il mantenere le promesse è un principio giusto? Significa forse che, se emerge il fatto che un tipo di azione include la proprietà di essere il mantenimento di una promessa, allora si può concludere che quell’azione è giusta senza dover esplorare il suo intero eidos (o meglio: quell’intera parte del suo eidos data dalle proprietà moralmente rilevanti di quell’azione – e che, d’ora in poi, chiamerò l’eidos morale di un’azione)? Quest’ultima ipotesi, potremmo anche formularla così: se si scopre che l’eidos di un’azione include la proprietà di essere il mantenimento di una promessa, allora si è scoperto che è quella l’unica sua proprietà moralmente rilevante, cioè tale da determinare il suo rapporto con la giustizia? A questa domanda e alla precedente, che ne è solo un’altra formulazione, Ross risponde negativamente. Il modello di Ross implica questa tesi: se la descrizione di un progetto d’azione, che elencasse ordinatamente tutte le caratteristiche moralmente rilevanti che avrebbe tale azione una volta compiuta, fosse una descrizione che dice solo che questa azione sarebbe un mantenere una promessa, allora, il progetto di quell’azione sarebbe il progetto di un’azione giusta. Sennonché, aggiunge Ross, scoprire che il progetto di un’azione è il progetto di un’azione che è un mantenere una promessa, non garantisce che quella sia l’unica proprietà moralmente rilevante
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dell’azione progettata. Nella vita concreta è piuttosto raro trovarsi innanzi a progetti di azioni che, se realizzate, sarebbero, da un punto di vista morale, puramente un mantenere una promessa: può capitare ad esempio che l’azione che è un mantenere la promessa sia anche un venir meno al principio che chiede di promuovere il bene proprio e altrui, un principio che, preso per sé, risulta, secondo Ross, altrettanto esemplificante il giusto di quanto lo sia il principio che chiede di mantenere le promesse. In un caso come questo (e si noti che non possiamo sapere a priori di nessun caso che esso non possa complicarsi come il caso dell’esempio), il riferimento ai principi non basta e occorre seguire attentamente i modi complessi e intricati secondo cui la giustizia si fa presente nei vari tipi di azione. Detto altrimenti: se si considera la proprietà “essere un’azione che realizza un mantenere una promessa”, cioè “essere un mantenere una promessa”, allora si può giungere a scoprire, dopo un’attenta riflessione, che tale proprietà esemplifica la metaproprietà dell’esser giusta (cioè che partecipa della giustizia); ebbene, ora si tratta di compiere una nuova riflessione mirante a vedere se partecipa del giusto anche la proprietà più complessa: “azione che realizza un mantenere una promessa e insieme realizza pure l’impedire un’azione che promuove il bene”. Non si tratta dunque, grossolanamente ed esteriormente, di “fare un bilancio” o “trovare un compromesso” tra il principio che impone di mantenere le promesse e il principio che impone di promuovere il bene, ma occorre scoprire secondo quali linee e scanalature la cascata del giusto si diffonde e arriva ad inerire a proprietà sempre più complesse – le più complesse essendo gli eidos morali delle azioni. Non si tratta di capire quale dei due sia il principio più importante, ma si tratta di capire se partecipa del bene l’eidos: “azione che realizza un mantenere una promessa e insieme realizza pure l’impedire un’azione che promuove il bene”, oppure l’eidos: “azione che realizza una promozione del bene, ma insieme impedisce un mantenere una promessa”61. Si badi che quello appena presentato è solo un esempio molto semplificato, giacché nei casi di conflitto gli eidos sono ben più complicati giacché sono molte le caratteristiche eidetiche ad essere moralmente rilevanti (cioè, tali che il considerarle o meno può dare luogo ad una revisione del giudizio che pretende di portare in luce il nesso tra l’eidos in questione e il giusto)62. Ross illustra quanto ho appena spiegato introducendo la celebre distinzione tra “giusto prima facie” e “giusto sans phrase”, tuttavia, ritengo che tale distinzione, che dapprima suona illuminante, poi di fatto possa non far cogliere il punto dello stesso Ross e che è il punto che ho appena esposto63. Qualunque proprietà di cui sia riconosciuto (attraverso la riflessione-intuizione) che davvero partecipa della giustizia è giusta assolutamente, non è che sia giusta solo prima facie; tuttavia, perché un’azione concreta sia giusta, cioè giusta assolutamente, non è sufficiente Secondo un’altra formulazione ancora, si tratta di capire come i due principi si limitano reciprocamente: poiché tale limitarsi non va pensato come esteriore al loro contenuto, allora è un ulteriore determinarsi e articolarsi del loro contenuto. Si noti, poi, che nella concreta esecuzione dell’esplorazione di tale contenuto determinato e articolato (esplorazione che è il modo corretto di concepire quel che spesso è indicato come “determinazione dei principi etici generali” – un’espressione, quest’ultima che induce a pensare che la determinazione vada decisa e non scoperta), avranno per noi un ruolo importante (se non quello di criteri, perlomeno quello di parametri d’orientamento) cose come l’idea di equilibrio riflessivo tra i giudizi morali sugli eidos di azioni e la descrizione dei principi supremi dell’ordine del giusto, oppure l’idea di coerenza positiva tra le cose che partecipano del giusto, oppure, ancora, l’idea di un’integrità comprensiva dell’ordine del giusto (cioè l’idea che, sebbene la giustizia non si diffonda secondo una sequenza algoritmica, si faccia partecipare secondo una gerarchia). Sull’uso dell’equilibrio riflessivo e della coerenza positiva (che chiede più che la consistenza) come criterio, ho fatto alcune osservazioni nel già citato articolo: Fanciullacci, La sovranità dell’Idea del Bene: Iris Murdoch con Platone; cit. pp. 430-431. 62 Ad esempio, può essere molto significativo se il bene che si potrebbe promuovere sia molto grande (ad esempio: scoprire la cura di una malattia mortale diffusa) e la promessa da mantenere una piuttosto irrilevante (ad esempio: la promessa di comprarsi, entro il giorno dopo, un nuovo spazzolino da denti). 63 Sul ruolo del concetto di doveri prima facie nella metaetica e nell’etica di Ross, uno studio accurato è quello di F. Allegri, Le ragioni del pluralismo morale. William David Ross e le teorie dei doveri “prima facie”, Carocci, Roma 2005 61
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che abbia tra le sue caratteristiche una proprietà che partecipa del giusto, è necessario che partecipi allo stesso modo del giusto la totalità delle sue caratteristiche moralmente rilevanti64. Ad esempio, mantenere le promesse è giusto assolutamente e questa azione concreta è un esempio di mantenimento di una promessa: da queste due verità, una colta intuitivamente, l’altra colta attraverso l’elaborazione concettuale dell’esperienza percettiva, non consegue che questa azione sia giusta, giacché occorrerebbe sapere se, da un punto di vista morale, non vi sia altro da dire su di essa al di là del fatto che esemplifica il mantenere una promessa; se non vi è altro da dire, allora quell’azione è giusta, assolutamente giusta, se invece vi è dell’altro da dire, allora, occorre esaminare il rapporto tra il suo eidos morale completo e l’esser giusto. Che cos’è allora che è “giusta prima facie”? Lo è quell’azione nella misura in cui (a) si sa che esemplifica il mantenere una promessa, ma (b) è ancora in dubbio se essa non abbia anche altre caratteristiche moralmente rilevanti tali da escludere che il suo eidos morale sia uno che partecipa del giusto. Si noti che non è per principio escluso, ma anzi è per principio richiesto, che l’intuizione intellettuale possa rivolgersi anche al rapporto con il giusto in cui sta un eidos morale complesso a piacere, anche se, ovviamente, vedere che rapporto vi sia tra il giusto e un siffatto eidos tanto complesso può richiedere una riflessione enormemente complicata e lunga e per questo di fatto meno affidabile (più esposta al rischio di errori). Analogamente, è ben determinata anche la via d’accesso alle caratteristiche di un’azione concreta, cioè alle caratteristiche che entrano nel suo eidos: tale via d’accesso non è l’intuizione intellettuale, ma l’esplorazione empirica delle circostanze a cui tale azione risponderebbe e l’esplorazione ipotetica degli effetti che plausibilmente avrebbe, infatti, sia le circostanze, sia gli effetti immaginabili entrano a caratterizzare un’azione. Compiuta la riflessione intellettuale e l’esplorazione empirico-ipotetica, però, resta ancora qualcosa di essenziale da sapere e cioè se l’esplorazione empirico-ipotetica ha saputo raccogliere tutte le caratteristiche moralmente rilevanti. Conviene riesporre il punto fondamentale appena accennato: (a) si può pretendere di attestare intellettualmente che un’azione avente, come uniche caratteristiche moralmente rilevanti, le caratteristiche x ed y sarebbe giusta e (b) si può pretendere di attestare empiricamente che compiere una certa azione nelle presenti circostanze sarebbe un compiere un’azione avente le caratteristiche x ed y; (c) non si può però pretendere di attestare che x e y sarebbero tutte le caratteristiche moralmente rilevanti di quell’azione, una volta compiuta, questo si può solo ipotizzarlo in maniera più o meno ragionevole – dove la ragionevolezza è funzione dell’attenzione riposta nell’esplorazione empirica e della familiarità con l’ordine del giusto (e dunque con le proprietà che possono essere moralmente rilevanti) ricevuta nella formazione e poi coltivata attraverso l’esercizio della riflessione. Si possono commettere errori sia nell’esplorazione eidetica, sia nell’esplorazione empirica e dunque gli esiti di entrambe sono a rischio, tuttavia si tratta di un rischio qualitativamente differente dal rischio che occorre assumersi quando si afferma: “sì, quelle che ho considerato sono tutte le caratteristiche moralmente rilevanti”. Il fondamento di tale differenza qualitativa è quello appena esposto, nell’ultimo caso non si può pretendere di stare attestando un’evidenza, quindi non si può pretendere di sapere65. Non si può pretendere di sapere se una certa azione concreta (non: un tipo di azione, ossia non: l’eidos di un’azione) è giusta: il giudizio sulla giustizia dell’eidos morale di un’azione può essere giustificato chiamando in causa l’intuizione intellettuale (prodottasi attraverso una riflessione che può essere stata molto lunga e complessa), Cfr. Ross, Il Giusto e il Bene, p. 43 n. La tesi per cui si può pretendere di sapere che p, solo se si può pretendere che la verità di p sia evidente e dunque attestabile (e non inferibile dall’evidenza di altro), l’ho difesa nel capitolo VI del volume citato sopra nella nota 19. Si noti, comunque, che anche Ross definisce il sapere come una forma di coglimento immediato di una verità, cioè come l’attestare un’evidenza – Ross, Il Giusto e il Bene, p. 171. (Io avanzo una tesi più debole di quella di Ross: non che il sapere in quanto tale sia attestazione dell’evidenza, ma che il sapere che si può pretendere di stare esemplificando in atto è attestazione dell’evidenza; in questo modo, mi preparo ad accogliere la possibilità di forme di sapere tacito o basato sull’affidabilità dei processi che lo producono, ascrivibile in terza persona). 64 65
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ma il giudizio su un’azione concreta non può essere giustificato così, infatti non è un contenuto evidente il fatto che quell’eidos morale riconosciuto esemplificante la giustizia sia l’eidos morale di questa concreta azione e non solo una parte di esso66. Questa mia esposizione, che non si adatta ad ogni affermazione di Ross su questa questione, si adatta alle più importanti delle sue affermazioni e ritengo che, almeno dal punto di vista interessato alle implicazione speculative del discorso, lo faccia meglio di qualunque altra esposizione io abbia letto (comprese quelle altre di Ross, se prese alla lettera). Questa esposizione, tra l’altro, rivela come l’impianto di Ross riesca ad essere fedele alla complessità delle situazioni pratiche e al fatto che, però, non è altro che lì che il giudizio morale (in particolare quello che guida la propria deliberazione) ha da intervenire, riesca ad esser fedele a tutto questo, dicevo, senza impegnarsi in un’ontologia nominalista come il cosiddetto particolarismo etico67. Detto altrimenti, da un lato, Ross non si limita a riconoscere astrattamente la complessità delle situazioni pratiche, per poi attestarsi sulla fondazione dell’attribuzione di giustizia a principi molto generali: è consapevole e riconosce che ciò che conta che sia giusto è, da ultimo, il tipo di azione e dunque l’azione concreta. Dall’altro lato, però, quando afferma la necessità di declinare fino al concreto i principi di giustizia e che questo non lo si può fare appoggiandosi ad una qualche procedura lineare o formalizzabile con un algoritmo, non lo afferma sulla base del fatto che ogni situazione pratica o ogni azione è irriducibile alle altre: far leva sull’identità numerica delle azioni per concludere che il trattamento adatto all’una è irriducibile al trattamento adatto all’altra, comporta disconoscere la struttura eidetica delle cose e dunque anche delle azioni (cioè il fatto che un’azione concreta esemplifica un eidos che può essere ulteriormente esemplificato); Ross, invece, mostra, in maniera più raffinata, che, sebbene qualunque azione esemplifichi un qualche eidos (il suo) e sebbene, dato un eidos, sia possibile tentare di vedere il suo rapporto con la giustizia (cioè il suo posto nell’ordine del giusto), questo ancora non basta per assicurare il giudizio morale su un’azione concreta, data la finitezza del nostro sguardo68. 2.3. Ciò che ho ricostruito come il discorso di Ross sull’ordine del giusto vale, mutatis mutandis, per il discorso di Ross sull’ordine del bene, discorso, quest’ultimo, che, dal punto di vista metaetico e speculativo che abbiamo adottato qui, è molto simile al discorso di Moore sull’ordine del bene. (Si tratta di una sorta di tradizione platonica nell’etica e nella metaetica Per poter pretendere di sapere che le caratteristiche raccolte sono tutte quelle moralmente rilevanti, essendo impossibile aggirare il problema considerando la totalità completa delle caratteristiche dell’azione (questa totalità infatti è inaccessibile ad un intelletto finito giacché comprende la totalità delle relazioni dell’azione con l’altro da sé e dunque richiede l’accesso all’intero delle cose, alla totalità concreta dell’essere), si dovrebbe disporre di un filo conduttore, di un criterio, cioè, applicando il quale si individuino tutte le caratteristiche moralmente rilevanti. Tale criterio non potrebbe ovviamente essere un test atto a discriminare se una data caratteristica è o no moralmente rilevante, giacché per ottenere la lista completa con un test simile occorrerebbe passare in rassegna la totalità delle caratteristiche e questo, come ho appena mostrato, è impossibile per un intelletto finito. È possibile elaborare il filo conduttore adatto? Credo di no, non sono neppure sicuro che qualcosa come ciò a cui vagamente allude la precedente domanda sia davvero in assoluto concepibile, tuttavia, non sono in grado di mostrare tale inconcepibilità e dunque devo, almeno formalmente, lasciare aperto il dubbio. Non ho dunque davvero fondato la tesi che non è possibile pretendere di sapere che una certa azione concreta è giusta, però, ho per lo meno mostrato esattamente che cosa dovrebbe provare chi volesse invece sostenere che è possibile pretendere di sapere che una certa azione concreta è giusta (dovrebbe provare che è teoricamente possibile attestare che la lista di caratteristiche che sono attestabili come appartenenti all’azione include tutte quelle moralmente rilevanti). 67 Del particolarismo etico, di cui Jonathan Dancy è il più celebre rappresentante, lo stesso Dancy ha offerto un efficace ritratto nell’ampia voce: J. Dancy, Moral Particularism, in E.N. Zalta (Ed.), The Stanford Encyclopedia of Philosophy (Spring 2009 Edition), URL = <http://plato.stanford.edu/archives/spr2009/entries/moral-particularism/>, 2009. Cfr. anche, supra, nota 60. 68 Non solo, con la sua impostazione, Ross riesce a tener fermo un certo scetticismo sulle regole generali (come “non mentire”), che è giustificato dalla complessità delle situazioni della vita, ma anche la difesa del fatto che la giustizia può essere attribuita ad azioni concrete solo in quanto è presente e si fa partecipare da strutture eidetiche, cioè da strutture universali. 66
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inglesi: una tradizione che prosegue in maniera significativa nell’opera di Iris Murdoch)69. Mentre però il Moore dei Principia Ethica (e, a suo modo, lo stesso fa anche la Murdoch) attribuisce una priorità al concetto di bene, sostenendo che l’esser buono è il predicato semplice che ricorre nelle definizioni degli altri concetti dell’etica e che dunque ha priorità su di essi, Ross afferma una co-originarietà dei concetti di bene e di giusto: essi sono entrambi primitivi. Questo non significa che non esistano rapporti eidetici tra di loro: tali rapporti esistono e fa parte dei compiti dell’etica esplorarli. Uno di questi rapporti è esplicitamente tematizzato da Ross: come ho già accennato, uno dei principi giusti fondamentali, insieme a quello che chiede il mantenimento delle promesse o a quello che chiede di riparare ai danni o ai torti arrecati, è quello che chiede di promuovere il bene. Ciò che è buono, dunque, deve essere promosso – questo dice il principio evocato. Che cosa significa esattamente? Tra le cose intrinsecamente buone per Ross vi sono, ad esempio, l’agire virtuoso e il sapere: che cosa significa che è giusto/si deve promuovere questi beni? Non certo che è giusto/si deve agire virtuosamente, infatti, non è possibile comandare l’agire virtuoso: un agire è virtuoso se è motivato dalle motivazioni appropriate, ma, dice opportunamente Ross, una motivazione non si può comandare e, nel momento dell’azione, o la si ha o non la si ha. Quello che invece si può comandare è di coltivare il proprio carattere in modo che, al momento dell’azione, ci si trovi motivati nel modo appropriato. Promuovere il bene, insomma, significa, ad esempio, tentare di migliorare il proprio carattere morale ed educare gli altri alla virtù. Per le stesse ragioni è giusto/si deve cercare la verità, cioè cercare di arrivare a trovarsi nella condizione del sapere ed è giusto insegnare agli altri in modo da portarli nella condizione del sapere. Il bene è dunque qualcosa che si può dover realizzare, anche se non è l’unica cosa che si deve/è giusto realizzare: si devono anche mantenere le promesse e si deve anche riparare ai torti arrecati ecc. Si potrebbe a questo punto chiedere se fare queste cose giuste non sia anche fare qualcosa di buono, cioè, più in generale, se le cose giuste siano una parte delle cose che partecipano del bene. Ross risponde però negativamente: la proprietà etica delle azioni giuste è l’esser giuste, non l’esser buone, anche se può accadere che vi siano azioni sia giuste sia buone, ad esempio le azioni virtuose riuscite. Soffermiamoci su questo caso. Un’azione è virtuosa, ad esempio, quando è compiuta con l’intenzione di fare ciò che è giusto, cioè quando la motivazione che la guida è fare ciò che è giusto perché è giusto; un’azione guidata da questa motivazione, però, potrebbe non riuscire (e restare una bella intenzione); se essa anche riesce ad essere giusta, allora abbiamo un’azione che è giusta in quanto conforme alla legge giusta e buona in quanto compiuta per una buona intenzione, cioè con un’appropriata motivazione. Invece, secondo Ross, un’azione che fosse giusta, ma non guidata da una buona intenzione, non avrebbe valore intrinseco, non sarebbe e non è un esempio di cosa intrinsecamente buona: un’azione che, di fatto, è un riparare ad un danno arrecato, ma che in interiore cordis è compiuta con odio e risentimento oppure per un secondo fine di puro tornaconto egoistico, è per Ross un’azione giusta, ma non certo qualcosa che ha valore in sé, qualcosa di buono70. Ross, come detto, nega che ciò che è giusto, considerato in quanto tale, sia parte di ciò che è buono, ma afferma che le norme giuste non sono solo giuste, ma sono anche una possibile motivazione dell’agire (potremmo dire: sono una possibile ragione per agire) che, se è effettiva Anche come contesa sul senso del discorso platonico sull’Idea del Bene ho letto la riappropriazione che Iris Murdoch tenta della tesi di Moore sull’indefinibilità del bene, nel saggio già citato sopra nella nota 8. 70 Come è chiaro, Ross usa qui una nozione di giusto molto diversa da quella di Kant: qui, che un’azione sia o no giusta non dipende dall’intenzione che la guida; ciò che Ross chiama “giusto” assomiglia molto a ciò che Kant chiama “legale”, purché però la legge con cui è trovato in accordo ciò che è detto “legale” non sia semplicemente una legge positiva, ma sia una legge giusta, una legge che partecipa del giusto. (Sviluppando questo “purché”, comunque, si arriva a riconoscere che in realtà le differenze tra la nozione rossiana di giusto e quella kantiana di legale sono profonde e connesse a due filosofie davvero differenti: in nuce, il punto è che per Kant non è possibile giudicare un’azione “conforme alla legge morale” dal punto di vista della terza persona, ma solo – e solo tentativamente – da quello della coscienza stessa dell’agente). 69
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mente la motivazione operante in un certo agire (cioè, se è effettivamente la ragione per cui si fa quel che si sta facendo) è tale da rendere questo agire un agire virtuoso e dunque qualcosa di buono. Se dunque il nesso che dall’ordine del Giusto porta all’ordine del Bene si radica sul dovere di promuovere il bene, il nesso che dall’ordine del Bene porta all’ordine del Giusto si radica sul fatto che le richieste aventi giustizia offrono ragioni per agire che, se sono attive, ciascuna come la ragione per cui effettivamente si agisce, rendono quell’agire una delle cose buone. Quelli appena indicati sono due nessi che, nell’impianto di Ross, legano la bontà e il suo ordine alla giustizia e al suo ordine. Si tratta ora di far uso dell’impianto di Ross per esaminare, perlomeno allo scopo di chiarirli, altri tentativi di connettere i due ordini. 2.4. Come abbiamo visto, per Ross, un soggetto S può essere motivato a compiere una certa azione dal riconoscere che essa è giusta/dovuta e quando ciò accade l’azione è buona (virtuosa). Ciò comporta, ad esempio, che se se un altro soggetto S” chiede ad S perché fa ciò che fa, la risposta appropriata di S sarà che lo fa perché deve o perché è giusto; la risposta non sarà che lo fa perché è qualcosa di buono, infatti, stando alla teoria di Ross, buono non è rispettare il dovere, ma farlo per senso del dovere, e farlo per senso del dovere significa appunto farlo perché si deve/è giusto. D’altro canto, è interessante notare che chi si domanda “che cosa devo fare?”, dando al dovere un senso forte, un senso che non separi il dovuto dal giusto, è qualcuno che si rivolge all’ordine del giusto, ma lo fa in quanto ha un carattere morale buono, uno che lo porta a cercare le motivazioni del suo agire proprio nel luogo dove si hanno le motivazioni supreme, il luogo del giusto. Ross ammette dunque che si possa agire per senso del dovere, che si possa agire “perché si deve”. Martin Ronheimer cerca di sbarazzarsi di un impianto etico che affermi l’irriducibilità del giusto al bene affermando che «si “deve” fare ciò che è “buono” e perché è buono. (…) non può essere diversamente: poiché il dovere ha bisogno di un fondamento»71. Ora, Ronheimer individua un punto importante e cioè che il richiamarsi al dovere non è per sé tale da rendere insensata un’ulteriore richiesta di fondamento. (La ragione per cui una tale ulteriore richiesta non è insensata è che noi abbiamo esperienza di doveri che non sono giusti o il cui esser giusti non è scontato: in effetti, non tutte le azioni che sono richieste da un qualche dovere o da una qualche legge positiva sono azioni che si devono compiere, si devono compiere solo le azioni che è giusto compiere, le azioni richieste da norme che sono giuste). Diversamente da quel che afferma Ronheimer, però, il giusto è un fondamento più che sufficiente al dovere e molta della plausibilità della prima delle farsi citate di Ronheimer deriva semplicemente dal fatto che è lasciata nell’ombra la differenza tra giusto e bene: in effetti, se siamo senz’altro ben disposti a dare l’assenso alla frase: “si ‘deve’ fare ciò che è ‘buono’ e perché è buono” in quanto contrapposta alla frase: “si deve fare ciò che si deve fare e perché lo si deve”, lo siamo molto meno se alla prima contrapponiamo quest’altra: “si deve fare ciò che è giusto e perché è giusto”; quantomeno, siamo disposti ad assentire ad entrambe queste due ultime frasi. Se si afferma che una certa azione è giusta per motivare o render ragione del fatto di starla compiendo si risolve immediatamente il problema della motivazione: l’esser giusta dell’azione può essere la ragione per cui la si compie e, garantito questo, è ovvio che può essere la ragione ultima, infatti chiedere perché fare ciò che è riconosciuto giusto significa non padroneggiare i tratti formali del concetto di giusto. Se io ti chiedo perché fai X e tu mi rispondi che lo fai perché te lo richiede una certa norma N, io posso chiederti perché intendi rispettare N, ma se a questo punto tu mi rispondi che intendi rispettarla perché è giusta (e con ciò ti impegni sul suo esser giusta), allora poi, se io torno a chiederti perché fai ciò che è giusto o produco un’apparente domanda che in realtà è qualcosa di privo di senso oppure, confusamente, non sto più chiedendoti la motivazione del tuo agire, ma ti sto chiedendo di mostrarmi perché ritieni che N sia effettivamente giusta. Detto altrimenti: non ha senso chiedere “perché fai ciò che ritieni M. Rhonheimer, La prospettiva della morale: fondamenti dell’etica filosofica, tr. it. di A. Jappe, Armando, Roma 1994, p. 23. 71
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giusto?”, mentre, ovviamente, ha senso chiedere “perché ritieni che questa norma sia giusta?”, ma questa domanda non ha più a che fare con le motivazioni per cui si agisce, ma con le ragioni evidenziali che si possono portare a favore di una certa affermazione, l’affermazione che la norma N appartiene all’ordine del giusto. Un primo tentativo di ricondurre l’ordine del giusto all’ordine del bene, passando per il tema della motivazione, non pare persuasivo. Altri tentativi, più importanti, si soffermano proprio sulla domanda che abbiamo appena distinto da quella motivazionale: forse che la priorità del bene sul giusto ha a che fare col fatto che può essere detto, con verità, giusto solo ciò che ha un qualche specifico rapporto con la bontà? 2.5. Secondo le etiche teleologiche alla domanda che chiede come giustificare l’attribuzione del predicato “è giusta” ad una norma N (o ad un tipo di azione T), non si può offrire la corretta risposta se non mostrando che rispettare la norma N (o compiere un’azione di quel tipo T) realizza oppure è ordinato alla realizzazione o di una qualche cosa buona, oppure, più spesso, di una certa specifica cosa buona, ad esempio, la realizzazione delle potenzialità dell’essere umano o la soddisfazione del suo desiderio ben informato o addirittura l’unica, vera e piena soddisfazione del suo desiderio, quella a cui non seguono delusioni, ma che appaga in maniera completa e definitiva. Ora, si chieda perché mai dovrebbe essere giusta una norma che richiede la realizzazione di un’azione che o coincide o è ordinata all’ottenimento di un siffatto fine buono. A questo livello del discorso, ovviamente, la risposta non potrà che implicare una definizione del giusto come “ciò che è ordinato al bene” o come “la proprietà che appartiene alle norme che richiedono azioni che sono ordinate al bene”. E qui il bene non va inteso in quel modo, che pure è testimoniato nel linguaggio, che rende sinonimi giusto e bene, quel senso per cui l’agire buono è quello che si deve compiere, ma va inteso in quel senso per cui il bene è ciò che vale e valendo attrae il desiderio (o il desiderio che lo riconosce per quello che è). Fondare il giusto sul bene, che è la pretesa dell’etica teleologica, non può che significare “fondare il giusto sul bene-inteso-in-quel-modo-per-esporre-il-quale-non-occorre-già-impiegare-il-concetto-di-giusto”; detto altrimenti, la scommessa dell’etica teleologica deve poter essere descritta così: “fondare il giusto su ciò che ha valore di per sé”, oppure “su ciò che appaga interamente il desiderio” o “sulla felicità perfetta” o “sulla fioritura di sé in quanto essere umano e in quanto questo singolare essere umano” ecc. Contro la definizione di giusto messa al lavoro dalle etiche teleologiche si può applicare, sulla scorta di Ross, l’OQA e osservare “con gli occhi della mente” che essa non lo passa: quella proposta dall’etica teleologica non è una definizione analitica né, comunque, un predicato sinonimo di “è giusto”. Ovviamente, l’etica teleologica può arrivare a riconoscere questa verità e tentare poi di fondare l’asserto sintetico e non presunto analitico “ciò che è giusto è ciò che è ordinato al bene”. Fondare questo asserto sintetico potrebbe ammontare ad un certo “fondare il giusto sul bene”: non si tratterebbe di definire il giusto attraverso il bene, ma si tratterebbe di mostrare che quel che è giusto gode di questa qualità (l’esser giusto) solo in quanto gode della proprietà che ora, per brevità, sto chiamando “essere ordinato al bene”. Comunque sia, se è vero che la definizione analitica di “è giusto” tentata dall’etica teleologica si è rivelata erronea alla luce del test dell’OQA, allora, resta che l’etica teleologica, almeno all’inizio, cioè a livello di ciò che è dato immediatamente, deve riconoscere una pluralità di concetti etici originari e dunque che l’eventuale impresa di mostrare mediatamente il fondarsi di uno (l’esser giusto) sull’altro (l’esser bene) è subordinata all’accettazione del fatto che tra i giudizi che danno voce all’intuizione intellettuale e dunque all’evidenza morale, ve ne sono sia alcuni riguardanti ciò che esemplifica la giustizia, sia alcuni riguardanti ciò che esemplifica la bontà. Detto altrimenti: per porre l’affermazione sintetica che tutto ciò che è giusto ha tale proprietà in quanto ne ha una cert’altra che è il fondamento della prima (anche se non è sinonima della prima e dunque non consente l’eliminazione della prima), occorre accettare che esiste un accesso non mediato (o comunque non mediato da questo medio) alle verità che ri-
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guardano l’essere o il non essere giusta di una certa cosa. Tale accesso immediato è l’intuizione, ma i suoi dettami possono anche essere chiamati “espressioni della coscienza morale”, purché con ciò non si neghi che essi avanzano una pretesa di verità, sebbene a proposito di ciò che è giusto, né si affermi che tale coscienza morale non possa richiedere quella riflessione ponderata descritta da Moore e Ross.
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L’opacità del soggetto pratico e il lavoro dell’attenzione. Passaggio a Iris Murdoch
3.1. Dopo aver chiarito l’affermazione di Ross della cooriginarietà dei concetti di bene e di giusto, ho esaminato qualche tentativo di sostenere la precedenza dell’ordine del bene sull’ordine del giusto o comunque l’inclusione di questo in quello e ho mostrato alcune delle difficoltà a cui vanno incontro. Oltre a quelle considerate, però, esiste un’altra strategia per mostrare come l’ordine del giusto sia inglobato nell’ordine del bene: in effetti, si tratta della via più semplice, quella che si apre non appena viene compiuta la mossa teorica decisiva consistente nel porre al centro il punto di vista della prima persona o del soggetto pratico, dell’agente – il punto di vista in cui, innanzitutto, ciascuno di noi si trova. Quando ci chiediamo che cosa fare nelle circostanze in cui siamo, interroghiamo l’ordine del bene, infatti cerchiamo che cosa meriti di essere fatto e sia buono (anche per noi) in quelle circostanze; per trovare la risposta tentiamo, anche se inconsapevolmente, di seguire le nervature dell’ordine del bene e, così facendo, possiamo arrivare a scoprire che di assoluto valore è fare ciò che è giusto perché è giusto. Se poi, a questo punto, cerchiamo di fare ciò che è giusto perché è giusto, cioè per senso del dovere, ci troviamo rimandati all’ordine del giusto: la nostra domanda è infatti divenuta “che cosa dunque è giusto che io faccia?”, “che cosa mi chiedono le norme giuste?”. Insomma, chi si chiede che cosa è bene che faccia, si trova a esplorare l’ordine del bene e, da qui, è rimandato alla domanda su che cosa è giusto che faccia. D’altro canto, se prima ancora di chiederci che cosa sia bene fare, cioè sia meritevole di esser fatto, ci chiediamo che cosa dobbiamo fare, allora ci troviamo innanzi, nel posto dell’interrogato, l’ordine del giusto: chiedersi che cosa si debba fare, infatti, significa chiedersi che cosa è giusto fare, qui e ora, nelle circostanze date. È vero, però, che chi cerca che cosa debba fare, e si appresta a farlo perché appunto deve, è qualcuno che, con ciò, sta già realizzando un bene, cioè l’agire o il progettare d’agire, per senso del dovere. Non solo: chi si chiede che cosa debba fare si trova rimandato ben presto all’ordine del bene, infatti, non è che qualunque situazione sia tale che in essa è richiesta dal Giusto una certa risposta determinata (un tipo di risposta per ogni tipo di situazione), talvolta, e anzi per lo più, le situazioni sono tali che alcune risposte ad esse sono moralmente vietate, ma una gran molteplicità di altre sono legittime e tra esse non si può che scegliere considerando il loro valore e dunque guardando all’ordine del bene. (E qui si può notare come non vi sia ragione per negare che possano entrare nella ponderazione, magari subordinatamente alle considerazioni su ciò che oggettivamente è buono, anche considerazioni che riguardano i propri talenti – infatti, tra due progetti di vita di pari valore, cioè alla stessa altezza nella gerarchia dell’ordine del bene, può essere opportuno scegliere considerando i propri talenti e dunque le proprie capacità di realizzare ciascuno di quei progetti – e infine anche le proprie preferenze personali e singolari). Insomma, chi si chiede che cosa è giusto che faccia e per rispondere esplora l’ordine del giusto, scopre come quest’ordine lasci spazi per orientarsi nei quali non ci si può che rivolgere all’ordine di ciò che è bene (anche per lui o lei)72. Ora, questa centralità della prospettiva della prima persona per una corretta calibratura dell’indagine etica sembra qualcosa di fondamentalmente misconosciuto nella ricerca etica di In questo senso, l’ordine del bene è davvero l’ordine più comprensivo; l’ho mostrato, con più dettaglio in due luoghi, cui qui rimando con decisione, del saggio: Fanciullacci, La sovranità dell’Idea del Bene: Iris Murdoch con Platone; cit. pp. 413-415, 424-425. 72
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Moore e di Ross, mentre è rimarcato e anzi sta al cuore del percorso teorico di Iris Murdoch. Contro quest’apparenza, però, è vero che l’esplorazione murdochiana delle conseguenze che l’assumere la prospettiva della prima persona ha sull’impostazione dell’etica può essere inteso come un approfondimento della concezione intuizionista dell’etica come esplorazione eidetica dell’ordine del bene e dell’ordine del giusto. Insomma, non è necessario rigettare l’impianto teorico elaborato da Moore e Ross, se si ritiene corretta la concezione dell’etica sviluppata dalla Murdoch, giacché quest’ultima può essere intesa come una concezione più profonda che accoglie in sé come suo momento la concezione precedente. D’altro canto, il punto di vista della prima persona non è davvero così misconosciuto nella costruzione architettonica di Ross come si potrebbe credere: soffermarsi un poco su questo punto mi pare il modo migliore per favorire il passaggio a Iris Murdoch, per promuovere la torsione di sguardo che l’ascolto della sua opera richiede. 3.2. L’opera Il giusto e il bene non è senz’altro costruita come un itinerario dell’anima all’interno dell’intrico eidetico dell’ordine del giusto e dell’ordine del bene, né è una riflessione teoretica sul punto di vista della prima persona; tuttavia, il punto di vista della prima persona ha un ruolo importante. Innanzitutto, come abbiamo visto, esso entra là dove Ross approfondisce la questione della motivazione: se la giustizia di un’azione può essere, almeno per principio, colta anche da chi non è coinvolto direttamente in quell’azione (come agente o come paziente), la bontà di un’azione ha a che fare con la motivazione per cui l’agente la compie. Esiste, però, anche un secondo e meno appariscente, ma non meno decisivo luogo in cui entra il punto di vista della prima persona o il punto di vista del soggetto in carne ed ossa: si tratta del punto di vista del filosofo. Classicamente, o almeno secondo un’immagine diffusa di ciò che è “classico” in filosofia, il punto di vista del filosofo è il punto di vista della verità, il punto di vista che si limita a guardare, attestare, lasciar apparire le cose stesse. Il filosofo è quel soggetto concreto che riesce ad essere filosofo in quanto si risolve in quel punto inesteso che è semplicemente lo sguardo puro sulla realtà. Naturalmente, la filosofia ha sempre saputo bene che talvolta l’essere umano che tenta di filosofare non riesce a stare all’altezza del suo progetto e invece di limitarsi a testimoniare il vero, senza avvedersene lo deforma, impoverendolo o gravandolo con preconcetti e pregiudizi: tutto questo la filosofia lo ha sempre saputo e lo ha sempre riconosciuto, anche proprio nel momento in cui ribadiva che la pretesa del filosofo è di farsi identico al puro vedere-attestare. Quel che mi pare molto interessante qui non è né rimarcare che la pretesa sia di attestare il vero, né rimarcare che, essendo l’uomo un essere situato, quella pretesa è insoddisfabile (quest’ultima tesi, per altro, sviluppa ed elabora in modo scorretto ed aporetico quella verità sull’essere umano che dice della sua situatezza): interessante è invece sostare sulla tensione ed approfondirla speculativamente. Innanzitutto occorre che il Soggetto che vede, cioè quell’istanza che ciascuno, filosofando, tenta di realizzare in sé, giunga a riconoscere la sua non identità col soggetto concreto, e il suo essere, rispetto a questo, ciò che questo pretende di stare realizzando quando filosofa. Questo riconoscimento è il compimento dell’autoriflessione filosofica: è il luogo in cui il Soggetto trascendentale riconosce di non essere né un altro soggetto accanto ai soggetti concreti, né identico ai soggetti concreti, ma ciò che essi sempre pretendono di esemplificare (perlomeno quando si dedicano al pensiero pensante) e che dunque possono stare effettivamente esemplificando. Questo riconoscimento, questa cosa che ho qui chiamato “riconoscimento” non è altro che l’introduzione critica della categoria di soggetto concreto all’interno dell’esposizione delle categorie atte a cogliere le strutture della realtà: introdurre tale categoria, infatti, significa mostrare che rapporto essa ha con il punto di vista vero che la introduce. Detto altrimenti: pretendendo di stare dicendo il vero, arrivo a riconoscere, progressivamente, (a) che sono pur sempre io che dico il vero, (b) che tale circostanza espone quel dire al rischio di non essere ciò che pretende, (c) che il rischio appena evocato non basta da solo a rendere inevitabile che quel dire non sia ciò che pretende (questo è, invece, quanto credono coloro per cui affermare la concretezza del soggetto dell’enunciazione comporta abbandonare la possibilità di un discorso vero sulla struttura della realtà).
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Se tutto quanto ho appena richiamato è fondamentale, è vero altresì che il lavoro non può finire nel dirlo: una volta che tutto ciò è stato detto e compreso, possiamo finalmente guardare ai movimenti e alle mosse che il soggetto concreto fa quando filosofa, mettendoli in rapporto con la sua pretesa di stare filosofando; non solo, possiamo fare tutto questo senza cadere nella posizione autocontraddittoria in cui cadono coloro che guardano a tali mosse credendo di vedere in ciò quel che rende impossibile la soddisfazione della pretesa filosofica. Ad esempio, possiamo vedere la costruzione retorica di un testo filosofico, senza con ciò essere costretti a dire che allora non è realizzato in esso un argomentare filosofico e valido; d’altro canto, possiamo guardare a tale costruzione retorica senza smettere di fare filosofia, ma anzi intendendo tale guardare come un portare a fondo l’auto-riflessione filosofica. Ebbene, proprio questo sviluppo dell’autoriflessione consente di notare qualcosa di interessante ne Il giusto e il bene. Quest’opera non si presenta come la pura attestazione di ciò che vede lo Sguardo che vede, ma talvolta fa emergere di essere il prodotto di qualcuno che tenta di realizzare in sé (e presso i suoi lettori-interlocutori) lo sguardo che vede. Si noti che questa strategia comunicativa è profondamente classica: non vale solo, come è ovvio, per Platone e il carattere protrettico e psicagogico dei suoi scritti, ma persino per Aristotele, come si può vedere, non già in qualche luogo ameno della sua opera, ma addirittura nel libro quarto della Metafisica, il libro dedicato all’esibizione e all’attestazione del “principio più saldo di tutti”73. All’interno dell’esecuzione ed esposizione dell’argomentazione confutativa atta a mostrare il valore del principio di non contraddizione, Aristotele si trova a voler provare che il negatore di tale principio è qualcuno per cui tutte le cose si ridurrebbero ad una sola: è chiaro infatti che se una cosa, ad esempio l’esser uomo, non è tenuta distinta dalla sua negazione, il non esser uomo, allora non è tenuta distinta da nessuna altra cosa, cioè, nell’esempio, da nessuna delle cose che cadono sotto l’estensione di “non uomo”, come, dice Aristotele, la trireme. Ora, ciò che a noi interessa è che, nell’esporre questa sequenza, Aristotele prende in considerazione il caso in cui colui che dichiara di negare il principio di non contraddizione e dunque di ritenere che l’uomo è e non è uomo, non voglia concedere di essere impegnato nell’affermazione che l’uomo è trireme: Aristotele considera questo caso e complica il discorso per farvi fronte; osserva, così, che chi non volesse affermare che l’uomo è trireme, essendo però uno che afferma che l’uomo è non uomo, dovrebbe perlomeno affermare che l’uomo è non trireme, infatti se è non uomo, a maggior ragione sarà non trireme; una volta però che il negatore del principio abbia concesso che l’uomo è non trireme, deve ammettere che, per lui, è anche trireme, essendo che per lui, di ogni affermazione è sempre vera anche la negazione (cioè: qualunque affermazione che sia vera non è vera nel suo tenersi distinta dalla sua negazione)74. Ebbene, nel suo commento a queste righe del quarto libro della Metafisica, Emanuele Severino annota: «L’argomentazione aristotelica è, come si vede, abbastanza faticosa. Presenta inoltre delle complicazioni evitabili, e probabilmente, con le complicazioni, alcune scorrettezze logiche. Osserviamo soltanto che sembra fuori luogo concedere all’avversario del p.d.n.c di non accettare l’affermazione che x è y [cioè che l’uomo è trireme] (…), e quindi di dimostrare che, anche se tale affermazione non è accettata, si arriva egualmente alla conclusione che tutte le cose diventano una sola. È fuori luogo, diciamo, perché se l’avversario del p.d.n.c. non accettasse, se cioè negasse che x è y, e cioè tenesse fermo che x non è y, egli non negherebbe più, bensì riconoscerebbe il valore del p.d.n.c.»75. Da un punto di vista strettamente logico-argomentativo, l’osservazione di Severino L’esame del principio di non contraddizione è introdotto da Aristotele con un’argomentazione che mostra come, essendo quello «il più sicuro di tutti i principi», la sua trattazione spetti al filosofo (in quanto costui non indaga solo una regione o genere dell’essere): Aristetele, Metaphysica, Γ 3, 1005 b 5-18. 74 Cfr. ibi, Γ 4, 1007 b 18 1008 a 2. 75 E. Severino, Aristotele, “Il principio di non contraddizione” (1959), in Id., Fondamento della contraddizione, Adelphi, Milano 2005, pp. 237-290; cit. p. 273n. Sulla base di questo ragionamento, Severino aggiunge che l’idea stessa che l’essere non trireme spetti all’uomo “a maggior ragione” dell’essere non uomo, idea fatta valere da Aristotele nella costruzione della sua sequenza, è un’idea che non sarebbe accettata da un negatore del p.d.n.c. 73
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è puntuale e corretta, tuttavia il “giro più lungo” compiuto da Aristotele porta in sé qualcosa che non si lascia catturare solo parlando di “giro faticoso” o “troppo lungo”: custodisce una verità più interessante, una verità non meno importante del Principio di non contraddizione, per la vita degli uomini. Il discorso di Aristotele mostra qui di non essere la pura autoesibizione del Principio innanzi al Soggetto che vede e che è solo il puro vedere, ma è un dire concreto di qualcuno a qualcuno, in cui quell’autoesibizione è testimoniata. È un dire che si pone esattamente come un puro testimoniare il vero, ma che nel fare ciò e senza contraddirsi affatto, può ben arrivare a riconoscere di essere anche il dire di qualcuno a qualcuno, in questo caso, a qualcuno che potrebbe non avere la forza di riconoscere tutte le implicazioni della sua tentata negazione del principio e a cui dunque tali implicazioni possono dover essere mostrate seguendo i complicati avvolgimenti del suo intelletto. Questa dimensione etica dell’esecuzione aristotelica dell’elenchos76 – si noti: non dell’elenchos in quanto tale, ma dell’elenchos in quanto fatto valere e formulato da un essere umano all’interno di una pratica di pensiero e parola qual è la filosofia – era riconosciuta da Alessandro di Afrodisia (III sec a. C.) che glossa così la celebre affermazione aristotelica per cui la prova elenctica richiede che l’altro dica qualcosa e non si riduca ad una pianta77: «se non rispondesse e non dicesse alcunché sarebbe ridicolo discutere con un tale individuo e cercare di mostrare qualcosa mediante la parola [δια λογου] a chi non ha la parola e, mediante la parola, tentare di conversare insieme [ποιεσϑαι συνουσιαν] con chi ne è privo»78. Non si sta dunque solo argomentando, ma anche comunicando e non solo comunicando, ma addirittura conversando insieme – dove “sunousìa” copre un’area semantica che arriva allo stare insieme, alla compagnia e all’amicizia79. Insomma, è Aristotele di Stagira che qui pretende di dar parola al soggetto del puro vedere e al punto di vista della verità ed è ciascuno di noi che, riattraversando il teso di Aristotele, rivive e riattualizza quel vedere o quella pretesa di stare vedendo. La stessa cosa ritroviamo in Ross, e non a caso! Ross infatti, afferma che al fondo del sapere non vi è un dimostrare e dedurre, ma un vedere o intuire: ora, mostrare che q risulta, consegue dalle premesse p’ e p” significa mostrare le operazioni formali (come l’eliminazione della disgiunzione e le altre operazioni logiche) da compiere progressivamente (cioè ad ogni passaggio) sulle premesse poste per giungere alla posizione della conclusione. Chi tenta di realizzare un tale mostrare può ben rivolgersi a quel tutti e nessuno che è il Soggetto che vede, cioè il Soggetto razionale. Diverso è il caso quando si tratta di mostrare che p è auto-evidente. L’autoevidenza si attesta, ma come la si comunica in un libro o in una lezione? Come si esibisce ciò che si mostra da sé? Se ci rivolgessimo al puro Soggetto che vede, non avremmo da far altro che affermare p come autoevidente, ma in una comunicazione concreta, una tale strategia sarebbe fallimentare e non potrebbe distinguersi dall’affermazione dogmatica. Dunque? Si noti che vi sono evidenze che possono essere esibite attraverso l’elenchos e altre che possono essere esibite attraverso l’apagogìa, cioè la reductio ad absurdum della negazione che le prende ad oggetto80, tuttavia, ve ne sono anche altre non così difendibili: ebbene, in questi casi come ci si deve comportare? Si noti: colui che pretende di attestare un’evidenza è qualcuno che pretende di non stare affermando un dogma e nella sua esperienza (percettiva o intellettuale) La dimensione etica dell’argomentare e del ricercare aristotelici, in particolare del cosiddetto metodo diaporematico, l’ho esplorata e delucidata nel primo capitolo di un volume sulla filosofia pratica e l’esperienza di imminente pubblicazione presso Orthotes (Napoli). 77 Cfr. Aristetele, Metaphysica, Γ 4, 1006 a 13-15. 78 Alessandro di Afrodisia, Commentario alla Metafisica di Aristotele, a cura di G. Movia, Bompiani, Milano 2007, p. 645. (Questa citazione corrisponde, nell’impaginazione classica a: 272, 35 – 273, 1; la traduzione di M. Casu è stata qui modificata). 79 Il passo di Alessandro di Afrodisia è valorizzato in questo senso anche da Martha Nussbaum, sebbene nel contesto di una lettura della trattazione aristotelica del Principio di non contraddizione che non ne sa cogliere la forza (e la dirompenza, nel senso dell’originarietà, rispetto alle dispute sul fatto che, se tale principio è della non contra-dizione, allora non pretende di valere per le cose in se stesse, «al di là o oltre il nostro pensiero e linguaggio»): cfr. M.C. Nussbaum, La fragilità del bene. Fortuna ed etica nella tragedia e nella filosofia greca (1986), tr. it. di G. Zanetti, Il Mulino, Bologna 1996, p. 474. 80 Cfr. supra, nota 39. 76
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trova la fonte per differenziarsi dal dogmatico; egli non è in dubbio quanto al suo essere un mero dogmatico, giacché ritiene di stare vedendo la verità che afferma; tuttavia, nel momento in cui costui si rivolge ad altri e testimonia loro la verità che ritiene di vedere, allora, si trova davanti il problema di distinguersi dal dogmatico: come potrà mostrare al suo interlocutore di non essere un dogmatico? In alcuni casi (gli unici a cui ora mi dedicherò), egli potrà tentare di portare anche il suo interlocutore a vedere quella verità81. Ed eccoci al punto: tentare di far vedere l’autoevidenza non è la stessa cosa di attestare l’autoevidenza; il soggetto che tenta di far vedere l’autoevidenza è un soggetto concreto che riconosce di avere innanzi soggetti concreti. (Si noti: talvolta l’interlocutore è il soggetto stesso: egli tenta di far vedere a se stesso l’autoevidenza, cioè mostra a se stesso di non essere un mero dogmatico, ma piuttosto di stare realizzando un vedere). Il risultare di q da p’ e p” lo si mostra nel modo indicato prima, ma l’immediato apparire di p’ non lo si può mostrare attraverso una mediazione. Non c’è da mostrare nulla, giacché p’ appunto si mostra da sé. Eppure, il libro in cui è mostrata l’autoevidenza di p’ non si risolve nell’affermazione di p’: perché? Perché il libro non si colloca all’altezza del Soggetto che vede, ma di quei soggetti che tentano di esemplificare il vedere quando guardano. A questi soggetti può essere necessario far vedere ciò che in realtà, cioè al Soggetto che vede, si mostra da sé. Anzi, come vedremo seguendo Iris Murdoch (e con lei tornando a Platone), i soggetti concreti hanno bisogno di un lungo lavoro per arrivare a vedere ciò che si autoesibisce innanzi a chi ha occhi per vedere. Gli occhi per vedere non sono qualcosa che gli esseri umani sanno usare spontaneamente – cioè: l’essere il Soggetto che vede è qualcosa che sempre pretendiamo, ma che possiamo arrivare a realizzare solo dopo una lunga formazione. Ross non si limita ad affermare p’, ma, ad esempio, lo distingue da ciò che solo gli assomiglia o che potrebbe essere confuso con p’. Ma attenzione: non è il Soggetto che vede quello che può confondersi tra p’ e qualcosa che, comunque, non è p’: le somiglianze e le confusioni sono cose che possono annebbiare solo il soggetto concreto non il Soggetto che vede, il quale per definizione è il Soggetto dallo sguardo non annebbiato. Ross sta dunque mostrando l’evidenza di p ad un soggetto che non è il Soggetto che vede, ma uno che, se non è un interlocutore concreto, è comunque un’astrazione da alcuni soggetti concreti (ad esempio: le persone che Ross immaginava avrebbero letto il suo libro). Insomma, anche se il testo si presenta come un trattato, qui ho spiegato la ragione profonda per cui esso talvolta ha e deve avere un andamento quasi dialogico, come provano ad esempio queste righe: «sarebbe noioso cercare di confutare tutte queste teorie [cioè quelle che pretendono di definire il significato di “giusto” e che sono diverse dall’utilitarismo ideale che Ross ha appena considerato in dettaglio]. A proposito di molte di esse sarebbe sufficiente chiedere ai lettori se non risulti loro chiaro, attraverso la riflessione, che la definizione proposta di “giusto” non ha di fatto alcuna somiglianza con ciò che essi intendono con “giusto”»82. 3.3. L’inglobamento della ricerca del giusto nella ricerca del bene, che consegue al partire da sé, dalla propria posizione di soggetto praticamente impegnato nelle situazioni della vita, non solo consente di ricollocare in un orizzonte più comprensivo le elaborazioni di Ross e Moore, ma consente pure un certo ritorno a Platone. Partire dalla domanda sul bene che si pone il soggetto pratico, cioè partire dalla domanda pratica sul bene che gli esseri umani si pongono nella vita non preclude l’intendere la ricerca volta a rispondere a tale domanda come una ricerca che dovrebbe esplorare il reticolo eidetico che comprende tutto ciò che si rapporta (nei modi più vari) alla bontà. La prospettiva di Platone è, anzi, esattamente una che unisce questi due lati, cioè (a) il fatto che la domanda sul bene non sia una domanda puramente filosofica, una domanda che interessa solo i filosofi, ma una Gli altri casi sono quelli in cui il soggetto che ha visto non può far altro che testimoniare quanto ha visto e dare la sua parola, ma non portare il suo interlocutore a vedere. Sulla centralità epistemologica ed etica della testimonianza, che qui si può intuire, spero di poter dedicare, in futuro, uno studio. 82 Ross, Il Giusto e il Bene, p. 17. 81
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domanda che viene posta dagli esseri umani in quanto vivono ed agiscono nel mondo e (b) il fatto che pretendere di rispondere a questa domanda sia pretendere di cogliere qualcosa dell’ordine eidetico del bene, per cui, un’intelligente ed accurata ricerca della risposta vera debba essere pronta ad esplorare quell’ordine. Per Platone la ricerca del bene è una ricerca radicata nella vita, è una caccia che risponde ad una domanda che si apre nella vita e non ad un puzzle che si impone all’interno di un programma di ricerca scientifico o dipartimentale83. D’altro canto, tale ricerca che sorge da un problema pratico deve ben presto, condotta dalla cosa stessa, cioè dall’obiettivo di trovare la verità sul buon modo di rispondere alla propria esperienza, lasciare le cornici teoriche all’interno di cui il senso comune o l’ideologia dominante vorrebbero costringere chi voglia trovare la risposta: chi cerca seriamente, deve essere pronto a seguire il logos anche molto al di là di quella che sembrava l’ovvia scacchiera su cui lavorare, deve essere pronto ad intraprendere un’indagine dialettica che può diventare e diventa enormemente complicata84. Il filosofo non è altro che colui che accetta questa sfida e mostra agli altri che essa non è a loro estranea, giacché anzi loro semplicemente la danno per scontata o ne danno per scontati gli esiti nelle loro scelte e nel loro modo di praticare la vita. Il cuore dell’argomento è semplice: nella vita di chiunque si esprimono prese di posizione intorno a ciò che è bene e giusto, prese di posizione che pretendono di cogliere il vero (o qualcosa di vero) dell’ordine del bene e del giusto, tuttavia, coloro che non hanno indagato quest’ordine non possono essere altro che persone che danno per scontata la loro capacità di cogliere il bene e il giusto. Questo nesso tra la domanda pratica e il suo possibile sviluppo che giunge ad essere realizzazione della teoresi più elevata ha anche un’ulteriore lato tanto importante sia per Platone, sia per Iris Murdoch: quella teoresi elevata è un’attività che non va astrattamente intesa come isolata dalla rigenerazione dell’esperienza vitale di chi la compie. Più esattamente, (a) non solo chi scopre che cosa è giusto si trova motivato ad agire diversamente da come avrebbe agito prima di scoprirlo, per cui, se non è soggetto a fenomeni come l’akrasìa, realizzerà di fatto un agire diverso da quello che avrebbe realizzato prima e spontaneamente – questo potremmo chiamarlo “l’effetto pratico delle verità teoriche scoperte nell’indagine” o meglio “l’effetto pratico dell’aver scoperto proprio quelle verità teoriche sul giusto o il bene che sono stato scoperte” – ma, (b) persino lo stesso esercizio della riflessione teorica è un’attività che ha effetti sull’anima e dunque anche sull’agire e la condotta. Questo secondo lato, che, come tratto caratterizzante il filosofare degli antichi in generale e non solo di Platone, è il tema delle ricerche di Pierre Hadot e quel che lui tenta di afferrare attraverso la categoaria di “esercizio spirituale”, sta particolarmente a cuore anche alla Murdoch85: l’indagine dialettico-eidetica infatti esercita al riconoscimento del L’espressione «andare a caccia del bene» ricorre nel Gorgia platonico (500 d 10), in una riga che ne segue di poco un’altra in cui il personaggio di Socrate ha affermato: «vedi infatti che i nostri ragionamenti riguardano una questione a paragone della quale nessun’altra dovrebbe essere presa più seriamente, anche da parte di un uomo di poca intelligenza. Si tratta della questione del modo in cui si debba vivere» (500 c 1-4. Corsivi miei). 84 Si pensi alla struttura della Repubblica, che comincia da una domanda pratica sul giusto e arriva a toccare questioni di epistemologia, filosofia della mente, ontologia ecc. 85 Il raffronto, qui solo accennato, con l’indagine di Pierre Hadot meriterebbe di essere approfondito: particolarmente importante mi pare il fatto che se da un lato la tesi su cui il percorso della Murdoch è più simile al (successivo) percorso di Hadot sia quella che ho indicato con la lettera “b”, dall’altro non va dimenticato come la Murdoch non isoli mai tale tesi b dalla tesi che ho indicato con la lettera “a” e che è una tesi che pone l’accento sui contenuti determinati che sono colti indagando che cos’è la bontà e quali cose ne partecipano e come (cioè, secondo quale gerarchia non lineare). Hadot, valorizzando l’esercizio spirituale e la dimensione terapeutica del ricercare filosofico, rischia sempre di perdere la possibilità di riconoscere il ruolo essenziale (perlomeno per Platone, se non anche per Marco Aurelio) dei contenuti trovati e delle pretesa di verità che investono tali contenuti. È vero che la ricerca teorica non è solo una faccenda dell’intelletto: ciò è vero anche solo per il semplice fatto che colui che ricerca, l’essere umano, non è solo un intelletto. D’altro canto, il ricercare dell’uomo, che è un ricercare che richiede una certa postura fisico-emotiva e dunque una coordinazione della vita, atta a consentire che vi sia spazio anche per tale postura, ebbene, quel ricercare, proprio in quanto è un ricercare, è un ricercare delle verità e anticipa il suo fine intendendolo come un attestare delle verità. Come tenere insieme questi due lati? Come 83
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l’autorità del vero e dunque ad una pratica della propria libertà come qualcosa che non misura, ma è misurato dalla realtà, cioè poi dal vero e dal bene – e anche dal bello. La grande attenzione che Iris Murdoch attribuisce alla fruizione di quella che chiama la “grande arte” e più in generale alla fruizione del bello si connette alla sua riflessione etica proprio in questo punto: l’esperienza del bello rompe il nostro ritornare sempre sull’io, le sue preferenze, le sue preoccupazioni, i suoi fantasmi, esponendoci a ciò che è altro da tutto questo, al mondo, ora colto nel (e attraverso il) fenomeno bello incontrato. Ebbene, ciò che si produce nell’esperienza del bello, si produce anche nell’esperienza del vero: nell’attenzione a cogliere il vero nella sua complessità, ad esempio nell’impegno investito nell’apprendimento di una disciplina complessa come la matematica o nell’apprendimento di una lingua straniera come il russo86, gli esseri umani interrompono la loro coazione a ripetere (smettono di insistere sul loro sintomo) e, quantomeno per alcuni momenti, si aprono alla realtà, quell’essere che li precede e li circonda87. La ricerca del bene ha dunque anche tratti che stanno tra loro in un circolo virtuoso: ricercare il bene è anche ricercare verità importanti per la vita, ma, in quanto ricercare il bene è un certo ricercare il vero e dunque è un prestare attenzione a quel che è dato e non ai propri fantasmi, allora è anche già un certo realizzare il bene, un realizzare qualcosa di buono, questo qualcosa di buono realizzato è appunto un esercizio di attenzione e dunque di distacco dalle illusioni e fantasie in cui l’io, lasciato a se stesso si avvolge88. Inoltre, quanto più sono realizzati siffatti esempi di attenzione, tanto più si diviene capaci di ripeterli e anche in situazioni differenti (per cui l’autodisciplina nell’attenzione che si apprende studiando la matematica può rendere più capaci di fare attenzione alle sfumature di una situazione pratica, anche se certo è ben lungi dall’essere una condizione sufficiente al coglimento della vera natura morale di una situazione).
non dimenticare che il pensare richiede aver compiuto esercizi spirituali e che è esso stesso anche un esercizio spirituale-terapeutico? E come, però, ricordare questo, senza arrivare a negare che quel pensare è un’elaborazione teorica i cui contenuti non sono mere “occasioni” per l’esercizio spirituale come le esercitazioni di matematica alla lavagna che si fanno a scuola sono occasioni per apprendere la matematica e non parte di una ricerca di matematica? Forse la soluzione sta nell’andare alle cose stesse, cioè, qui, nel guardare che cosa concretamente si sta facendo quando si indaga il bene a partire da una situazione pratica di difficoltà o di dubbio pratico-vissuto: si guardi a che cosa si fa e a come lo si dovrebbe fare per raggiungere il fine perseguito, fine che è appunto trovare quella vera risposta e con ciò trasformare la vita (cioè risolvere il problema pratico). Per la posizione di Hadot, cfr. P. Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica (1991), tr. it. di A.M. Marietti, Einaudi, Torino 2005. 86 Entrambi gli esempi si trovano in Murdoch, Esistenzialisti e mistici. Scritti di filosofia e letteratura, pp. 369 (sul russo), 501 (sulla matematica). 87 Ecco come Marck Mclean riassume ottimamente questo punto: «è una delle principali convinzioni della Murdoch, sia in questo saggio [cioè, Metaphysic as a Guide to Morals] sia ovunque nelle sue opere, che tanto l’apprezzamento quanto la creazione della buona arte siano tutta una questione di attenzione al reale, all’altro realmente esistente, e di negazione di sé, la qual cosa è anche l’ultima mira dell’etica. La vera visione nell’arte e la vera visione in morale richiedono entrambe la stessa determinata attenzione alla realtà fuori di sé; e il fine di entrambe è lo stesso: una chiara e giusta consapevolezza della verità, il che è il Bene» – M. McLean, Discussion on muffling Murdoch, «Ratio (new series)», XIII (2000), pp. 191-198; cit. p. 195. Stando a queste righe varrebbe per Iris Murdoc una identità tra il vedere con attenzione la realtà e il cogliere il bene; ho discusso altrove questo punto, ma qui mi attesto sulle due seguenti tesi meno impegnative: la visione attenta del reale è, per Iris Murdoch, una componente essenziale della visione del bene e dell’agire buono; questa tesi è innegabile se si ammette che l’ordine del bene è un ordine che il soggetto umano non crea, ma attesta e riconosce; quanto alla citata discussione della tesi più impegnativa, si veda: Fanciullacci, La sovranità dell’Idea del Bene: Iris Murdoch con Platone; cit. pp. 410-411. 88 Ecco come David Tracy illustra questo punto: «le matematiche e la dialettica dirigono la nostra attenzione fuori di noi stessi richiedendoci di riconoscere, attraverso l’esplorazione intellettuale, un mondo di pure intellegibilità» – D. Tracy, Iris Murdoch and the Many Faces of Platonism, in M. Antonaccio - W. Schweiker (Eds.), Iris Murdoch and the Search for Human Goodness, The University of Chicago Press, Chicago 1996, pp. 54-75; cit. p. 70.
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3.4. Nell’esporre alcune delle conseguenze sulla concezione dell’etica che vengono dal riconoscere il radicamento pratico della ricerca eidetica del bene, abbiamo incontrato una categoria centrale del pensiero di Iris Murdoch, quella di attenzione. L’attenzione, che è attenzione a ciò che è altro, dunque al mondo e agli altri esseri umani, è innanzitutto oltrepassamento delle illusioni che l’io si crea e da cui poi è dominato, quelle illusioni che Iris Murdoch chiama spesso “fantasie” o prodotti della “fantasia” (da distinguere dalla “immaginazione” che è invece la capacità di ipotizzare, figurarsi o concepire variazioni allo stato di cose presente, a partire dalle quali considerarlo nella sua limitatezza e contingenza e dunque vederlo in ciò che effettivamente è)89. Si tratta di una categoria che la Murdoch ricava dalla sua lettura di Simone Weil90 e che le consente, tra l’altro, di raggiungere una concezione dell’etica più profonda di quella di Moore e Ross anche da un punto di vista ulteriore rispetto a quelli evidenziati fino ad ora (e cioè il fatto che la domanda sul bene sia una domanda che si apre nella vita e il fatto che la ricerca etica abbia, in quanto tali, per lo meno due tipi di effetto sulla vita e la sfera pratica): Iris Murdoch, infatti, è pronta a riconoscere, e riconosce di fatto in vari luoghi (tra cui i suoi romanzi), il carattere opaco ed ambiguo dell’essere umano. Se la ricerca del bene ha come suo momento un’esplorazione eidetica, ciò non significa che gli uomini e le donne siano esseri per natura pronti ad una tale esplorazione: «siamo creature in gran parte meccaniche, siamo schiavi di forze egoistiche e implacabili di cui non comprendiamo la natura»91; «il bene è il fulcro dell’attenzione quando l’intento di essere virtuosi coesista (come forse avviene quasi sempre) con una certa oscurità di visione»92. La lezione di Freud e della psicoanalisi, insomma, non è rimossa da Iris Murdoch93. Non solo, ancora una volta, questo approfondimento teorico, compiuto grazie al recupero di Freud e di Simone Weil, si costituisce nell’opera della Murdoch non come distanziamento da Plato «Il nemico principale della perfezione in campo morale (ma anche in quello dell’arte) è la fantasia personale: quel tessuto di autoaffermazioni, desideri e sogni consolatori che ci impedisce di vedere ciò che è altro da noi»; Murdoch, Esistenzialisti e mistici. Scritti di filosofia e letteratura, p. 346. Sono diversi i luoghi in cui Iris Murdoch illustra che cosa intende per “fantasia” e come questa si differenzi da ciò che lei chiama “immaginazione”: cfr. ad esempio, ibi, pp. 44, 209, 262, 296, 340, 350. La nozione murdochiana di “fantasia” è strettamente legata e dipendente da quella weiliana di “immaginazione”, mentre della distinzione “fantasia /immaginazione” sarebbe interessante indagare i rapporti con la distinzione operata da Samuel Taylor Coleridge tra fancy e imagination; cfr. S.T. Coleridge, Biographia literaria, ovvero Schizzi biografici della mia vita e opinioni letterarie, tr. it. di P. Colaiacomo, Editori Riuniti, Roma 1991. 90 Per un confronto tra le concezioni dell’attenzione di Simone Weil e Iris Murdoch (e anche Martha Nussbaum): P. Bowden, Ethical Attention: Accumulating Understandins, «European Journal of Philosophy», 6 (1998), pp. 59-77. L’importanza della lettura dei Quaderni di Simone Weil per il percorso filosofico di Iris Murdoch, ma anche per quello di romanziera, è affermata dalla stessa Murdoch che, ad esempio scrive: «Ora intendo più semplicemente illustrare perché, secondo me, la concezione popolare e più comunemente accettata di etica sia poco realistica. Nel farlo, diventerà evidente il mio debito nei confronti di Simone Weil»; Murdoch, Esistenzialisti e mistici. Scritti di filosofia e letteratura, pp. 339 (cfr. pure pp. 173-176, 380). Il legame con la Weil è sottolineato con forza anche da L. Muraro, Introduzione, in I. Murdoch, Esistenzialisti e mistici. Scritti di filosofia e letteratura, Il Saggiatore, Milano 2006, pp. 9-25; cit. p. 18. 91 Murdoch, Esistenzialisti e mistici. Scritti di filosofia e letteratura, p. 377. Cfr. anche ibi, p. 340 e, soprattutto, p. 361: «che gli esseri umani siano naturalmente egoisti sembra una verità di per sé evidente, in qualsiasi momento ed in qualsiasi luogo ci troviamo ad osservarli, nonostante un esiguo numero di indubbie eccezioni. La psicologia moderna ha qualcosa da dirci sulla qualità di questo egoismo. La psiche è un’entità storicamente determinata che si prende instancabilmente cura di sé. In un certo senso assomiglia ad una macchina; per funzionare ha bisogno di una fonte di energia ed è predisposta per alcuni tipi di attività. La sfera della sua decantata libertà di scelta di solito non è molto ampia. Uno dei suoi passatempi principali è sognare ad occhi aperti. È riluttante ad affrontare le realtà spiacevoli. La sua coscienza non è normalmente un vetro trasparente attraverso cui si può guardare il mondo, bensì un’appannata rêverie, più o meno fantastica, atta a proteggerla dalla sofferenza. La psiche cerca costantemente consolazione, sia attraverso un’immaginaria dilatazione di sé, sia attraverso finzioni di natura teologica». 92 Ibi, p. 354. 93 Si veda, ad esempio, il confronto tra la concezione dell’eros di Platone e quella di Freud nel saggio Il fuoco ed il sole. Perché Platone mise al bando gli artisti: cfr. Murdoch, Esistenzialisti e mistici. Scritti di filosofia e letteratura, pp. 410-415. Cfr. pure, ibi, pp. 340-341. 89
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ne, ma come una riappropriazione, più attenta di quella di molto platonismo antico e contemporaneo, del messaggio di Platone: che uno sguardo puro ed attento sul bene non sia affatto un movimento spontaneo per gli esseri umani è un tema costante di Platone e un motore per la sua ricerca della appropriata terapia dell’anima. Scrive Iris Murdoch: Resta la concezione platonica (certamente corretta) secondo cui l’uomo malvagio (o mediocre) vive in uno stato di illusione, il cui nome più generale è egoismo (…). L’ossessione, il pregiudizio, l’invidia, l’angoscia, l’avidità, l’ignoranza, la nevrosi e così via, velano la realtà. La vittoria sull’illusione richiede uno sforzo morale. La mente istruita e moralmente pura vede la realtà con chiarezza e ce ne restituisce il concetto. L’originaria funzione delle Idee non era quella di condurci in qualche più confortevole altrove, ma quella di mostrarci il mondo reale. È il sognatore della caverna che è smarrito ed altrove94.
Sulla scorta di Freud, Simone Weil e, prima di tutti, Platone, Iris Murdoch non ha una concezione ingenua della capacità umana di scoprire che cosa è bene e giusto: le tentazioni di trovare facili sintesi o consolazioni ideologiche (tra cui per la Murdoch c’è un certo modo di praticare la fede religiosa) sono sempre in agguato, cedere ad esse significa anteporre la ricerca di una sicurezza che in realtà è falsa ed instabile, alla faticosa attenzione alla verità, a quella realtà dura (denominata dalla Murdoch, sulla scorta del discorso platonico sulla chora, anche: «la necessità, l’anànche del mondo»95) che è capace di infrangere le nostre illusioni, ma che è anche il luogo in cui effettivamente stanno gli altri e dunque l’eventuale agire buono96. La libertà, che è il giusto traguardo dell’uomo, è la libertà dalla fantasia (…). Ciò che ho definito fantasia, la proliferazione di immagini e scopi abbaglianti ed egocentrici, è in se stessa un potente sistema di energia e la maggior parte di ciò che viene chiamato “volontà” o “spontaneità” appartiene a questo sistema. (…) La libertà non consiste semplicemente nell’esercizio della volontà, ma è piuttosto l’esperienza di una visione precisa che, quando è il caso, provoca l’azione. Veramente importante è quello che sta dietro e tra le azioni, e che ci spinge ad agire, ed è questa la sfera che deve essere purificata. Quando arriva il momento della scelta, la qualità dell’attenzione ha probabilmente già determinato la natura dell’atto97.
Ma in che cosa consiste, più esattamente, questa attenzione, realizzare la quale non è affatto spontaneo, ma neppure, semplicemente, il portato di un’educazione (è vero infatti che sono richieste delle condizioni esterne affinché l’essere umano sia capace di quell’attenzione che porta alla “visione precisa”, ma è vero altresì che il lavoro dell’attenzione è come un circuito che si autoalimenta e che può produrre, fuori di sé, condizioni inaspettate)? Ancora una volta, la risposta di Iris Murdoch non sorprende i lettori di Platone e Simone Weil: A opporsi al sistema in questione è l’attenzione alla realtà, ispirata dall’amore e fatta di amore98. Saper liberare l’anima dalla fantasia significa possedere la capacità di amare, cioè di vedere99. Ibi, p. 417. In connessione con la liberazione dalle ossessioni dell’io, che sono il principale ostacocolo alla vistione vera e dunque giusta della realtà, Iris Murdoch, sulla scorta di Simene Weil (e, mediatamente, di Malebranche), illustra anche il significato della preghiera (cfr. ibi, pp. 342, 365) e si domanda quale altro tipo di esercizio potrebbe occuparne il posto in un mondo non religioso come il nostro: una delle sue risposte più frequenti è lo stesso rivolgere lo sguardo verso il bene (ibi, pp.343, 357). 95 Ibi, p. 441. 96 «È compito dei mortali (come artisti e come uomini) comprendere il necessario per amore dell’intellegibile, vedere in una pura e chiara luce la durezza delle proprietà naturali del mondo, gli effetti delle cause erranti, la ragione per cui i buoni propositi vengono ostacolati, e il luogo del fortuito va accettato. Non è facile rendera giustizia a questa durezza e a questa cusalità senza stemperarle nella fantasia o esagerarle nella (cinica) assurdità» – ibi, p. 444. Questo tratto del discorso della Murdoch è ben commentato da Tracy, Iris Murdoch and the Many Faces of Platonism; cit. pp. 59-69. Si legga inoltre Murdoch, Esistenzialisti e mistici. Scritti di filosofia e letteratura, pp. 340-341, 352. 97 Ibi, pp. 351-352. 98 Ibi, p. 351. 99 Ibi, p. 350 (il corsivo, naturalmente, è di I. Murdoch). 94