Forme di comunità. L'abitare condiviso a Ibiza, Skopje, Hiroshima

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Forme di comunità  Antonio di Campli

Ricerca di stili di vita comunitari, condivisione di spazi, tempi e cose, ridefinizione delle forme dell’abitare alla scala di prossimità sono questioni oggi sempre più presenti entro i discorsi e progetti per la città contemporanea. A partire dal riconoscimento della nuova rilevanza acquisita da questi temi, il volume propone una rilettura critica di alcune esperienze di forme comunitarie dell’abitare prodotte tra gli anni Sessanta e Settanta con l’obiettivo di identificare strategie insediative, dispositivi spaziali, caratteri del paesaggio innovativi, adeguati alla domanda di prossimità che oggi si pone nella città europea. I tre casi descritti, Ibiza, Skopje e Hiroshima, mostrano altrettante forme comunitarie dell’abitare che si svolgono in contesti tra loro molto diversi, sia sul piano geografico sia su quello culturale. Un doppio filo rosso tuttavia unisce queste storie. Il primo è costituito dalla condivisione di un atteggiamento antagonista rispetto a modelli modernisti e a forme prestabilite dell’abitare. Il secondo è definito dal legame che ognuna di queste vicende ha con processi di dissoluzione di precedenti ordini fisici e sociali.

Forme di comunità L’abitare condiviso a Ibiza, Skopje, Hiroshima Antonio di Campli

isbn 978-88-430-6992-7

€ 13,00

Grafica:Jumblies[Lussu|Trucco|Turchi]

Antonio di Campli è docente a contratto presso la Scuola di Architettura e Design “E. Vittoria” dell’Università di Camerino. Ha insegnato presso i Politecnici di Torino e Losanna e nelle Università di Pescara, Bogotá e Tirana. I suoi interessi di ricerca sono rivolti all’urbanistica del liberismo e alla ricostruzione di genealogie della svolta postmoderna nelle pratiche del progetto urbanistico. Tra i suoi scritti: La ricostruzione del Crystal Palace. Per un ripensamento del progetto urbano (Quodlibet 2010) e Adriatico. La città dopo la crisi (List 2010).

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Antonio di Campli

Forme di comunità L’abitare condiviso a Ibiza, Skopje, Hiroshima

Carocci editore


1a edizione, settembre 2013 Š copyright 2013 by Carocci editore S.p.A., Roma Realizzazione editoriale: Ingarao, Roma Finito di stampare nel settembre 2013 da Grafiche VD srl, Città di Castello (PG) isbn

978-88-430-6992-7

Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. 171 della legge 22 aprile 1941, n. 633) Senza regolare autorizzazione, è vietato riprodurre questo volume anche parzialmente e con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche per uso interno o didattico.


Indice

1.

Ringraziamenti

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Introduzione

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Ibiza. La comunità individualista di Antonio di Campli

1.1. Estate 1969 1.2. La costruzione del mito rurale. Walter Benjamin vs Josep Lluís Sert 1.3. Paesaggi di resistenza. Il progetto comunitario hippie ibicense 1.4. Hippie Urbanism 1.5. La dimensione ludica del lavoro. Il ritorno dell’artigianato 1.6. Dal sogno autarchico all’animazione ritualizzata 2.

Skopje. La comunità in movimento di Daniela Ruggieri

2.1. 2.2. 2.3. 2.4.

Scritture e cancellazioni Una giustapposizione di frammenti Condivisione tra simili La giusta distanza


indice

3.

Hiroshima. La comunitĂ distruttiva di Antonio di Campli

3.1. 3.2. 3.3. 3.4.

City Demolition Industry, Inc. Hiroshima e la vicenda metabolista La distruzione come paradigma di concezione spaziale Tecnologie di conservazione Bibliografia Indice dei nomi Indice dei luoghi

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Introduzione

Questo libro ha come obiettivo la definizione di tre possibili direzioni per un progetto urbanistico adeguato alle nuove domande di prossimità, di densità spaziale e relazionale, e di forme dell’abitare di carattere comunitario, che oggi si pongono nella città europea. Il riferimento è alla ricerca di modi più coesi e solidali di abitare e al diffuso desiderio di partecipazione alla gestione di beni comuni o spazi urbani che oggi si manifestano. Questi fenomeni possono essere considerati espressione di un generale tentativo di ridefinizione delle forme dell’abitare alla scala di prossimità, intendendo con questo ultimo termine la dimensione del vicinato, così come affrontata dal progetto urbanistico nella prima metà del Novecento in una varietà di esperienze e declinazioni, che vanno dalle sperimentazioni dei disurbanisti sovietici sui “condensatori sociali”, alle riflessioni di Clarence Perry sul senso e sul funzionamento della neighbourhood unit nella città americana, alle logiche di accostamento tra le superquadras a Brasilia definite da Lucio Costa, per citarne alcune tra le più rilevanti. . Nella modernità il tema del progetto di prossimità è stato trattato in particolare nel contesto del controllo della crescita e definizione di layout per le espansioni urbane attraverso l’invenzione di particolari metriche del disegno urbano, come, ad esempio, quella dell’unità di vicinato. Oggi questo tema ritorna nell’ambito del progetto di modificazione della città esistente. . A partire dagli anni Settanta, il discorso urbanistico ha avviato, su più fronti, una critica al concetto di vicinato. I primi anni Ottanta hanno costituito un momento di passaggio segnato dalla fascinazione per forme e processi capaci di assecondare gli assetti della deregolazione, che ha portato ad una “fuga” nei temi e nelle questioni poste dalla dispersione insediativa. In particolare, alcuni modelli di progetto urbano, prodotti a partire dalla metà degli anni Ottanta in luoghi come Barcellona e Londra – esempi di «città allucinate del neocapitalismo», secondo l’espressione di Mike Davis e Daniel Monk – sono stati considerati riferimenti utili alla definizione di progetti di modificazione urbana, basati sul predominio del consumo e della saturazione culturale dello spazio. Processi che in molti casi hanno tentato di ridurre il progetto ad una questione di attrazione di ri-


forme di comunità

Oggi la domanda di prossimità si pone innanzitutto come ricerca e invenzione di nuovi caratteri, prestazioni, usi e comfort dello spazio “oltre la porta di casa”. Non si tratta solo della ricerca di una maggiore presenza di servizi o attrezzature urbane tradizionali. L’apparire in varie forme di fenomeni di condivisione – come ad esempio quelli che si sono manifestati in Europa in seguito agli effetti della crisi economica che, a partire dagli ultimi anni 2000, ha colpito profondamente le economie dei paesi mediterranei – mostra come, alla scala di vicinato, lo spazio urbano debba essere certamente ben attrezzato dal punto di vista funzionale, ma soprattutto come questo sia oggi considerato il luogo verso il quale esportare una serie di pratiche, quali lavorare, studiare, riposare, un tempo considerate attinenti specificamente alla sfera domestica della casa. Quest’ultima, come emerge da ricerche recenti che si sono occupate della modificazione delle forme dell’abitare nella città sorse, rinnovando le economie urbane attraverso la sostituzione della produzione di beni e oggetti con quella dell’intrattenimento culturale e del tempo libero e hanno considerato la città come luogo abitato in buona parte da una classe media creativa. Cfr. M. Davis, D. Monk (eds.), Evil Paradises: Dreamworlds of Neoliberalism, The New Press, New York 2007; R. Florida, The Rise of the Creative Class. And How It’s Transforming Work, Leisure, Community, and Everyday Life, Basic Books, New York 2004. Oggi, di fronte all’esaurimento del ciclo liberista del progetto urbanistico, il discorso di architetti e urbanisti sta provando a ricostruire percorsi di ricerca e temi di progetto capaci di oltrepassare la fascinazione per concetti sfocati come sostenibilità, mixité urbana e sociale, sviluppo locale, marketing territoriale, concorrenza tra città e costruzione di spazi urbani a mezzo di eventi. Cfr. su questo tema: A. di Campli, La ricostruzione del Crystal Palace. Per un ripensamento del progetto urbano, Quodlibet, Macerata 2010. . Un fenomeno è evidente soprattutto nei contesti di dispersione insediativa dove, sostiene Thomas Sieverts discutendo del caso svizzero e in particolare della Zwischenstadt, è negato agli abitanti il diritto alla prossimità, in quanto lo spazio esterno alla porta di casa mostra spesso un carattere ostile o pensato per la sola funzionalità degli spostamenti e non permette di accedere facilmente a luoghi e funzioni significative di un abitare inteso in senso allargato. Cfr. T. Sieverts, Cities without Cities: An Interpretation of the Zwischenstadt, Spon Press, London 2003. . Alcuni esempi sono i processi di appropriazione di spazi e riconversione di spazi urbani a mezzo di costruzione di nuovi spazi collettivi, giardini comunitari o orti, come il progetto avviatosi nel 2008 a Madrid Esta es una plaza o il programma spagnolo Esto no es un solar, che mira alla trasformazione di spazi urbani abbandonati in spazi produttivi gestiti collettivamente. . È utile precisare che la tradizione del progetto urbano degli ultimi venti anni ha considerato lo spazio pubblico come uno degli elementi centrali nelle strategie di rigenerazione urbana, ma tuttavia, molto spesso, in tali esperienze questo è stato trattato come una superficie a due dimensioni, come spazio da riqualificare soprattutto dal punto di vista estetico, come immagine, come luogo di consumo. Sul tema rimando al mio testo: di Campli, La ricostruzione del Crystal Palace, cit.

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introduzione

contemporanea, si è configurata sempre più frequentemente come uno spazio residenziale non strutturato ma allestito, un esterno in cui l’abitante tende a ricavarsi nicchie. Questa nuova domanda di prossimità, che vede la città come un arcipelago, corrisponde ad un tentativo di operare, da parte degli abitanti, un uso allargato dello spazio urbano. Ciò che si persegue è un’estensione della dimensione domestica dell’abitare. La domanda di prossimità così ridefinita riguarda i modi in cui si stabiliscono nuovi rapporti di relazione, scambio o conflitto tra soggetti e gruppi di abitanti che interagiscono in determinati luoghi o situazioni, ponendo la questione della definizione di nuove forme comunitarie dell’abitare. Il progetto comunitario è un tema che oggi, dopo una pausa di circa quarant’anni, ritrova una nuova rilevanza, legittimato soprattutto da discorsi di natura ecologica o ambientalista o identitaria. Le sempre più diffuse realizzazioni di ecoquartieri, dove la dimensione comunitaria è definita dalla condivisione di forme ecologicamente sostenibili dell’abitare, o i numerosi fenomeni di ricolonizzazione di piccoli centri medievali sparsi nei territori rurali sudeuropei ne sono un esempio. L’espressione «uscita borghigiana», utilizzata da Giuseppe De Rita nel saggio Composizione sociale e borghesia: un’evoluzione non parallela, descrive bene il desiderio comunitario di un segmento importante del ceto medio italiano. È una locuzione che De Rita accosta ad una seconda espressione ripresa da Mario Luzi, «la lunga rientranza nel crisma», che evidenzia una reazione di stanchezza verso gli aspetti più estremi della modernità, come l’iperconcorrenzialità e l’individualismo esasperato, a favore di un ritorno di valori come la coesione sociale, la consonanza tra soggetti con cui condividere spazi, tempi. Che si pongano al centro discorsi di natura ambientale, argomenti di natura patrimoniale o identititaria, è possibile cogliere in questi fenomeni l’imporsi di una particolare visione ecosistemica del rapporto tra società e spazio, che tende ad innescare, in maniera più o meno esplicita, fenomeni di selezione e introversione, in cui quasi sempre entrano in gioco questioni come posizione sociale, ceto, reddito, etnia o desiderio di distinzione. . Tra i tanti studi su questo tema si segnala: Multiplicity.Lab (a cura di), Milano. Cronache dell’abitare, Bruno Mondadori, Milano 2007. . Su questo tema cfr. C. Reed (ed.), Not at Home: The Suppression of Domesticity in Modern Art and Architecture, Thames and Hudson, New York 1996. . In A. Bonomi, M. Cacciari, G. De Rita, Che fine ha fatto la borghesia?, Einaudi, Torino 2004. Cfr. inoltre: E. Granata, Propensione al borgo e socializzazione comunitaria come lunga rientranza nel crisma. Intervista a G. De Rita, in “Territorio”, n. 34, 2005, pp. 67-9.

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forme di comunità

Il progetto urbanistico, quando assume questa visione ecologica in cui abitanti e spazi interagiscono in maniera circolare, cambia referente: la comunità sostituisce la società. In questo scambio sparisce l’individuo, vale a dire il soggetto moderno che non accetta di permanere in una condizione statica, ma che si definisce come oggetto di un’elaborazione complessa, capace, entro certi margini, di operare scelte rispetto a stili d’insediamento e pratiche dell’abitare. La comunità così intesa è qualcosa a cui si appartiene e che si impone sul soggetto. Essa è fondata su una convivenza durevole, intima ed esclusiva, un fatto che precede l’esistenza dell’abitante e non l’abbandona. La comunità è esigente, sa chi sono i suoi membri e impone loro una serie di condizioni, cosa devono fare e come comportarsi. Per questi la facoltà di scelta è limitata. La comunità osserva i suoi aderenti e se questi si allontanano dal sentiero li può punire, considerare traditori. Qui l’idea della posizione sostituisce quella del movimento e dell’espansione. Questa è la comunità. Qualcosa che tende ad avere il monopolio, ad esprimere la prima e l’ultima parola su tutto, spingendo i suoi membri verso un ideale di uniformità. Al tempo stesso il fatto che la comunità sia presente fa sentire sicuri, la comunità non abbandona, è un conforto. La società rappresenta la situazione opposta in cui l’individuo è il centro, il fulcro attorno al quale è strutturato il sistema di relazioni. La vita societaria è razionale, passeggera, apparente, pubblica. Il soggetto può scegliere, è libero. Manca però la sicurezza che la comunità può offrire. Nella dimensione reticolare che ogni soggetto definisce nell’ambito della società molto è immaginario, è una sorta di illusione che aiuta a combattere la paura di essere esclusi. L’esclusione dalla posizione nella società, dal lavoro, dai rapporti interpersonali è una delle principali paure di chi vive al di fuori della dimensione comunitaria. In alcune esperienze di progetto urbanistico comunitario, come ad esempio in quelle prodotte nell’ambito del movimento del New Urbanism, si afferma che la vita nelle città può essere migliorata, resa più autentica e consapevole dei luoghi in cui si abita attraverso l’evocazione di simboli e immagini di contesti urbani del passato, considerati espressione di un’urbanità maggiore di quelli del presente. Il lato oscuro di questa forma di comunitarismo consiste nel fatto che ciò che si persegue è più che altro la costruzione di un’immagine della comunità, un insieme di forme di controllo e sorveglianza sociale a mezzo di posizionamenti di segnali di stare “alla larga”. . Su questo tema cfr. P. Calthorpe, The Next American Metropolis, Princeton Architectural Press, New York 1993; P. Katz, The New Urbanism: Toward an Architecture of Community, McGraw & Hill, New York 1994.

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introduzione

Alla luce di questi recenti fenomeni ed esperienze progettuali, come affrontare le questioni poste dal nuovo desiderio di comunità e prossimità che oggi si danno, nella città europea, al di fuori di ogni riferimento a comunitarismi esclusivi e strategie volti alla costruzione di dispositivi di chiusura ed esclusione sociale? I recenti processi di appropriazione di beni immobili e spazi pubblici residuali, pur generati da un desiderio di modificazione delle forme dell’abitare alla scala di vicinato, non riescono ad indicare nuove strategie di ridefinizione delle spazialità urbane, perché questi spesso si traducono nella riconfigurazione di pochi materiali urbani, quali orti o giardini, gestiti collettivamente. La questione che si pone è come identificare strategie insediative, dispositivi spaziali, caratteri del paesaggio innovativi, adeguati all’attuale domanda di prossimità nella consapevolezza di operare in una società divisa. I tre casi di seguito descritti corrispondono a storie che si svolgono in contesti tra loro molto diversi, sia sul piano geografico sia su quello culturale. Luoghi che mostrano forme condivise dell’abitare diverse che, definitesi all’incirca tra i primi anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, sono segnate da un comune atteggiamento critico verso le logiche e i modelli razionali dell’abitare e i cui riflessi sono ancora visibili oggi. Questi luoghi rimandano a tre diverse forme di progetto. Costruire una critica al progetto comunitario a partire dall’osservazione di fenomeni progettuali così diversi è un’operazione difficile, ma in questo caso legittimata dall’obiettivo della ricerca che non è mettere a confronto le vicende al fine di individuarne elementi comuni o discontinuità, quanto, attraverso l’adozione di un atteggiamento propriamente progettuale, cogliere in quelle forme di progetto indicazioni circa misure, logiche spaziali e dispositivi d’interazione sociale utili ad ampliare un immaginario progettuale, capace di proporre strategie di ridefinizione delle forme dell’abitare alla scala di prossimità nella città contemporanea. L’atteggiamento è quello del learning from. . La riflessione su Ibiza è risultato di una ricerca condotta dall’autore attraverso indagini, studi ed interviste sul campo, nel periodo compreso tra il maggio 2012 e l’aprile 2013. Lo studio su Skopje è parte di una ricerca di dottorato svolto da Daniela Ruggieri presso l’Università iuav di Venezia e restituita nella tesi intitolata: Occuparsi di parole: Open City. Una riflessione a partire dal caso Skopje (discussa nel marzo 2012). La ricerca su Hiroshima è stata sviluppata dall’autore, tra il settembre 2010 e il giugno 2012, nell’ambito dei suoi corsi di progettazione urbanistica, tenuti presso il Politecnico di Torino, ii facoltà di Architettura.




forme di comunità

Il primo luogo, Ibiza, è un esempio di come un particolare paesaggio rurale mediterraneo, connotato da particolari caratteri di densità e compattezza spaziale, sia stato riletto, verso la fine degli anni Sessanta, da un insieme di gruppi hippies, di provenienza nordamericana, come elemento di identificazione per una forma insediativa comunitaria, segnata da una prossimità dilatata e da un’inversione tra interno ed esterno nelle pratiche dell’abitare. Ibiza è un esempio di “comunità individualista” dove ciò che tiene insieme gli abitanti è un particolare paesaggio rurale. La vicenda di Ibiza può essere descritta come un particolare progetto di ridefinizione di un paesaggio e di un luogo dell’abitare costruito dal basso. Il secondo luogo, Skopje, studiato da Daniela Ruggieri, mostra come, a partire dai processi di ricostruzione della città avviatisi a seguito del terremoto del 1963, la coesistenza entro il tessuto urbano di un insieme di gruppi differenti dal punto di vista etnico, culturale ed economico, si sia definita attraverso l’identificazione di particolari luoghi di interazione, corrispondenti ad un sistema di spazi aperti dal carattere ibrido, capaci di funzionare come membrane di interfaccia tra spazi dell’abitare diversi appropriati da popolazioni differenti. Il caso di Skopje mostra come stiano tornando logiche di funzionamento dello spazio urbano proprie della città ottomana, entro le quali diverse “comunità in movimento” trovano nel tempo, all’interno della città, diversi spazi di vita, relazionandosi, di volta in volta, alla scala di prossimità, con altre popolazioni, grazie alla presenza di particolari dispositivi spaziali di interfaccia. Skopje mostra le forme di reazione che gli abitanti hanno manifestato rispetto a differenti progetti di ricostruzione urbana. L’ultimo caso, Hiroshima, evidenzia come, un particolare “luogo” del progetto urbanistico, riconfiguratosi in seguito ad eventi bellici catastrofici, abbia prodotto, nell’ambito del movimento dei Metabolisti, nell’arco di circa un decennio, tra il 1960 e il 1970, linee di ricerca e sperimentazioni nelle quali la dimensione comunitaria dell’abitare è stata perseguita attraverso l’assunzione di un particolare atteggiamento progettuale che, utilizzando un concetto benjaminiano può essere definito come “distruttivo”, rispetto sia alle condizioni della città giapponese esistente, sia nei modi in cui particolari soluzioni residenziali si relazionano ad una serie di infrastrutture che funzionano, dal punto di vista sociale, come spazi collettivi. Hiroshima è un esempio di “comunità di. Cfr. W. Benjamin, Il carattere distruttivo, in M. T. Costa, Il carattere distruttivo. Walter Benjamin e il pensiero della soglia, Quodlibet, Macerata 2008 (ed. or. Der

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introduzione

struttiva” dove ciò che definisce le forme dell’abitare alla scala di prossimità è l’infrastruttura. Quest’ultimo caso studio è costruito a partire da una rilettura critica del testo scritto da Arata Isozaki nel 1962 intitolato City Demolition Industry, Inc.. L’esperienza di Hiroshima rimanda a logiche e forme di progetto attraversate da un forte carattere utopico. Un filo rosso unisce queste storie. Tutte possono essere descritte come progetti contro, come reazioni a modelli e forme prestabilite dell’abitare, proprie del modernismo tradizionale. Soprattutto tutte sono legate a processi di distruzione e dissoluzione di precedenti ordini fisici e sociali. Nelle storie di Skopje ed Hiroshima c’è la presenza di un protagonista comune, l’architetto metabolista Kenzo Tange. La vicenda di Ibiza, in cui entrano in gioco figure come Walter Benjamin, Josep Lluís Sert, Richard Buckminster Fuller e Jack Kerouac, presenta anch’essa ramificazioni in Oriente, ma soprattutto nella California della controcultura, annodando vicende mediterranee ed europee con movimenti sociali e culturali che si sono sviluppati lungo le coste del Pacifico.

Destruktive Charakter, in R. Tiedemann, H. Schweppenhäuser, hrsg., Walter Benjamin, Gesammelte Schriften, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 1972). . A. Isozaki, City Demolition Industry, Inc., in “South Atlantic Quarterly”, 106, 4, autunno 2007, pp. 853-8 (ristampa di A. Isozaki, Hankenshicuchi (Unbuilt), toto Shuppan, 2001, pp. 17-26; ed. or. Toshi hakaigyo kk, in “Japan Architect”, Shinkenchicu-sha, settembre 1962). La traduzione dall’inglese di questo testo è stata curata da Maurizio Di Cintio.

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