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Di Marco Meneguzzo
La presenza di Dio si rivela nel “sussurro di una brezza leggera”, è scritto nel Primo Libro dei Re (I Re 19, 12) .
La brezza che fa tintinnare il sartiame delle barche ormeggiate in rada, o che fa appena increspare l'acqua nella baia, dipinte da Alex Katz, è certamente più terrena, ma l'immagine di Dio è sempre una metafora terrena, non può essere altrimenti. La pittura è lo strumento di questa metafora, ed è una metafora essa stessa, anche quando sembra la semplice registrazione di un momento, magari neppure troppo significativo della vita.
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Katz si muove sempre tra questi due registri: la mondanità – intesa in senso filosofico – dei suoi ritratti, delle sue conversation piece, e l’orizzonte fisico e metaforico della pittura, che costruisce intorno ai suoi soggetti, ai suoi temi, una specie di domestica monumentalità.
L’orizzonte è quel piano concettuale entro cui l’artista fa muovere i suoi personaggi, e ne è anche la “scena”: in altre parole, non è soltanto l’astrazione di una linea che ricorda la nostra ortogonalità di umani sulla terra, ma è anche il palcoscenico dove accadono gli episodi della commedia sofisticata che l’artista rappresenta in ogni suo dipinto, da quando dipinge.
Anche quell’orizzonte, letteralmente quel background, protagonista dell’opera, esattamente come la scena vuota a teatro è spesso protagonista nell’istante in cui si alza il sipario, prima che entrino i personaggi, o nell’istante in cui cala, quando sono tutti appena andati via.
È una situazione momentanea che, fissata in un quadro, vive di quel momento eppure ne esce, lo rende non proprio eterno (perché questo equivarrebbe a cercare l’assoluto), ma continuamente ripetuto, sguardo dopo sguardo: è “fermare l’attimo”, senza scattare un’istantanea.
Si tratta allora della registrazione di uno stato d’animo? L’autunno, la bruma, una notte cittadina piovosa, significano, come un tempo, la malinconia o una condizione contemplativa?
È difficile parlare di malinconia, per Katz, non tanto perché questo sentimento non possa esistere nei suoi quadri, quanto piuttosto perché esso sarebbe troppo scoperto, troppo forte: riserbo e pudore sono gli atteggiamenti che l’artista e i suoi personaggi mantengono nelle relazioni reciproche, tra il debito e il fuori del quadro, tra artista e ritratto, tra figura e figura.
L’eleganza dei personaggi è nelle loro movenze, nella discrezione dei movimenti che suggerisce anche una diserzione delle parole, e dei sentimenti: nulla di troppo evidente, il dramma e il drammatico vanno controllati, se esistono, entro quel codice di gesti e di toni che tutti i personaggi di Katz conoscono e rispettano.
Da buon europeo, vengono in mete le commedie di Marivaux, quella gioia di vivere che può aver conosciuto solo chi ha vissuto “prima della rivoluzione”, ma probabilmente potrebbe andar bene anche il nome di Neil Simon, e tuttavia non voglio cadere nel gioco dei nomi, in cui sembrano essere caduti molti che hanno parlato di Katz, enumerando una serie di amici, tutti appartenenti a quella ristretta cerchia, all’élite intellettuale che si muove e vive nel cerchio brillante tra New York e il Maine: è la dolcezza conviviale, ma non è ancora la pittura di Katz. Infatti, la moglie Ada, gli amici, il bosco o il mare sono, nonostante tutto, la felice occasione per cercare di dipingere il quadro perfetto: alla fine di ogni racconto, al di là del tempo della vita, sulla tela non rimane che la pittura, l’unica cosa per cui quegli attimi possono trascendere la loro contingenza e diventare paradigmi della rappresentazione dell’esistenza.
In questo senso, e soltanto in questo, a monte di ogni pennellata di Katz si può riconoscere un atteggiamento contemplativo: non è il distacco dell’osservatore, ma lo sguardo struggente e partecipato per una società di pochi che, tra l’altro, sceglie o costruisce i propri paesaggi, eppure contemplata con quella capacità di astrazione che è al contempo il risultato e il motore della pittura.
Un gesto, un refolo di vento devono diventare il pre-testo (vale a dire il movente del testo, ciò che viene appena prima di esso) che la pittura fa diventare testo. Questo non esiste senza quelli, ma quelli non sono nulla senza questo.
“Mi piace realizzare immagini – ha detto nel 1985 – che siano tanto semplici da non poterle evitare e tanto complesse da non riuscire ad afferrarle”: è la quintessenza della sua pittura e, probabilmente, uno dei principi della grande pittura tout court. È ciò che lo allontana dalla Pop, come dalla cronaca di un momento. Tutto è semplificato, nei suoi quadri, ma non è semplice: è essenziale.
È il grande dono della pittura, che può eliminare tutto ciò che non conta, tutto ciò che non serve alla comprensione del proprio mondo.
Quel mondo dalle geometrie perfette, che è il solo che interessa l’artista americano (non a caso, quando incontra dei padri ideali, cita Piero della Francesca e Jacques Louis David…), e che per questo motivo deve allontanare da sé ogni alterazione troppo drammatica, sia essa un sentimento non codificabile in quella forma rispettata di rapporti tra le persone, così come una tempesta sul mare, o un inverno troppo piovoso: il gioco delle parti, in una commedia, per essere circolare e compiuto, cioè perfetto, non prevede la presenza di eroi, né sotto forma di persone, né come elementi della natura.
Disturberebbero la costruzione, distraendone lo sguardo con le loro grida, con il loro ego.
Per questo, il mare di Katz finisce sempre in una spiaggia, il bosco non è fitto, la notte è illuminata, e l’orizzonte spinge lo sguardo lontano, ma non all’infinito: si ferma sull’isola in fondo alla rada, o sulla fila di barche ormeggiate, o sul bordo superiore della tela dipinta.