A 'IOVANNI ,INO 3EGATTO ALLA MIA FAMIGLIA
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indice 1. BENVENUTI A TERRA un allegato d’acqua 7 9 13
Ms3 - 100 giorni di relazione con la città intervista a Padre Mario Cisotto Ms3_Allegato d’acqua
ripercussioni 15 20 24 29
i globalizzati del mare siamo tutti stranieri territori immaginari intervista a Emilio cap. Gamba
una struttura per i marittimi 39 47
perché un Seamen’s club a Marghera? documenti
2. SERVE UN PASSAGGIO 61
intervista a Beppe dott. Caccia
architetture relazionali 67 70 73
low-tech versus high-tech Stella Maris’ friends - onlus “Welcome in Venice” project
proposte di nuovi interventi (elaborati progettuali di tesi) 76 82 88
fari segnalatori di accesso ai gates una festa per i marittimi il caravanserraglio
3. UNA CASA LONTANO DA CASA 95
intervista ad Andrea dott. Razzini
una risorsa collettiva
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verso un’architettura…per i marittimi globale versus locale: due esempi un progetto per Porto Marghera
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conclusioni materiali di riferimento
una premessa Questo elaborato di tesi non costituisce un prodotto a sè stante, ovvero non è soltanto il momento conclusivo di un percorso di apprendimento progettuale e disciplinare maturato in sette anni di frequentazione dello IUAV, ma si unisce a un processo che parte da esperienze e riflessioni più recenti sulla crescita culturale del territorio veneziano in prossimità dei suoi porti, naturalmente sviluppandosi da queste. Esso si colloca infatti come strumento di approfondimento in ideale linea di continuità con degli interventi nello spazio urbano, in particolar modo di Mestre e Porto Marghera, che hanno avuto luogo a partire dall’estate del 2001 con il progetto artistico Ms3 - 100 giorni di relazioni con la città, poi evolutosi e proseguito con la fondazione dell’associazione StellaMaris’ friends onlus e il crescente dialogo con l’Autorità Portuale e l’Assessorato alle Politiche Sociali. Questa premessa mi sembra indispensabile dal momento che, coerentemente alle dinamiche che hanno permesso di sviluppare i sopracitati progetti, anche la mia tesi si presenta come risultato di un processo creativo/progettuale collettivo che si fonda sulla partecipazione e la partnership, sebbene poi alcune delle soluzioni qui trattate siano state rese visibili attraverso elaborazioni personali. Ma a tal proposito ci tengo a dire che si trattano, proprio per questo, di suggestioni, di spunti, di rimandi a possibilità prossime da sviluppare concretamente solo dopo averle rimesse in discussione o, meglio, in gioco. È importante sottolineare questo pensiero dal momento che gli interventi presentati in questa sede sono finalizzati a una concreta realizzazione che sarà resa possibile solo grazie a quel “territorio comune di dialogo” instauratosi così efficacemente e che per nostra speranza dovrebbe continuare ancora a lungo. La prof. Marina Montuori, nel suo impegno di relatore, mi ha dato l’opportunità di lavorare e approfondire gli argomenti in una situazione ideale per diverse ragioni, tra cui la sua vasta conoscenza della realtà del porto, la profonda esperienza progettuale e una grande disponibilità. Low-tech vs high-tech, tema portante del suo Laboratorio di Sintesi Finale, ha offerto occasioni per nuove riflessioni, permettendomi di portare il livello della digressione in tal senso da un piano esclusivamente materiale al piano delle relazioni che sottendono all’espressione low-tech.
In uno dei miei primi colloqui con Padre Mario, per anni unica forza motrice dell’assistenza ai marittimi, ho appreso come vi siano dei momenti precisi, quasi codificati, nell’accoglienza al porto: il benvenuto a bordo da parte di un comitato di accoglienza, il trasporto gratuito e infine il Seamen’s club. Proprio perché i tre passaggi riassumono in sostanza i punti salienti della realtà del marittimo al momento dell’attracco, ho ritenuto opportuno articolare la struttura della tesi nei tre capitoli benvenuti a terra, serve un passaggio e una casa lontano da casa aderendo a questa semplificazione.
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1. BENVENUTI A TERRA
«Non possiamo sfuggire a quella civiltà globale che è stata creata da generazioni di viaggiatori, esploratori, signore e signori dalla curiosità elegante, mercanti e migratori. Nasce dal viaggiare, da generazioni di viaggi, quella cultura globale che ora è saldata da sistemi internazionali di trasporti, produzione, distribuzione, comunicazione, distruzione. E questo mondo per ora non possiamo lasciarlo.» Eric J. Leed, in “La mente del viaggiatore. Dall’Odissea al turismo globale”
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Ms3 - 100 giorni di relazione con la città community-based public art project by artway of thinking, ZonAnomala e Alessandro Petti (in collaborazione con FaTA trust)
Ms3 prende forma nel contesto della mostra 100 giorni in TerraFerma (8 giugno/16 settembre 2001), a cura di Riccardo Caldura, tenutasi in occasione dell’apertura del Centro Culturale Candiani a Mestre. Il progetto curatoriale della mostra prevedeva un’indagine sulla terraferma, nell’accezione veneziana: se le principali pratiche artistiche moderne e contemporanee mostrano e difendono la propria neutralità ed autonomia dal contesto sociale, i tre gruppi artistici hanno operato invece con l’intento di creare un’effettiva relazione e interazione con la città. Ms3 ha indagato il carattere contemporaneo e il potenziale inespresso di Mestre attraverso 100 giorni di relazioni con la città e tre azioni artistiche principali negoziate con le parti sociali. Ms3, progetto in divenire, ha agito innescando meccanismi, occupando mediazioni sociali possibili, offrendo un immaginario, creando relazioni per il tempo del suo processo, altre volte al di là del tempo dell’evento, generando uno spazio possibile. Al Candiani Centro Culturale, Ms3 è stato collegamento tra centro e territorio, laboratorio e luogo di documentazione e di incontri. Il primo intervento di Ms3 si è svolto attraverso l’azione artistica Ms3h24_esplorazione urbana, dove per 24 ore ininterrotte, dalle ore 06.00 di venerdì 09 alle ore 06.00 di sabato 10 marzo 2001 - 13 artisti ed architetti hanno intervistato gli opinion leader di Mestre (giornalisti, urbanisti, sociologi, politici, storici, economisti, industriali, commercianti) dialogato con la cittadinanza, esplorato luoghi centrali e marginali facendo emergere i luoghi comuni e l’immaginario su Mestre. Se Mestre fosse una persona che carattere avrebbe? È stata la domanda rivolta ai mestrini: invitare a pensare Mestre come una persona, con un proprio carattere, è stato lo spostamento che ha permesso una riflessione libera da pregiudizi e stereotipi. Ms3h24 è servita a tracciare le linee guida del progetto: lo scenario che ne è emerso ha intravisto un fortissimo richiamo del cittadino verso l’ambiente acqueo, attualmente invivibile. Inoltre, l’azione è stata funzionale alla costruzione di una collettività più allargata rispetto agli “autori” del progetto: Interviste all’ufficio postale una rete informale di soggetti, nella quale non sono stati definiti obiettivi e mezzi a priori, ma si è lasciato che questi fossero continuamente riformulati durante il processo di creazione e attuazione del progetto. Lo scenario è lo sfondo di coerenza, la cornice di senso, in un orizzonte dinamico di possibilità dei comportamenti: in una società dominata dall’incertezza e dal pluralismo, la produzione di scenari permette di guidare un processo complesso, in cui sono coinvolti diversi attori con ruoli non definiti. Spesso molti progetti attuati dall’alto naufragano per un’autistica razionalità finalizzata al raggiungimento di obiettivi predefiniti, che annientano qualsiasi forma creativa di interazione con il progetto. Una strategica apertura d’intenti, unita ad una solida visione ha permesso di attuare un processo fluido e inclusivo.
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Da questa azione sono emersi i due ambiti principali d’intervento: il verde e gli spazi aperti (O2), e Mestre come città d’acqua (H2O). Il tema del sociale è stato trattato in modo trasversale: quali spazi verdi e quali spazi d’acqua vive il sociale? In che modo? Ms3 si è di conseguenza sviluppato in tre fasi differenti: 1. Esplorazione urbana: Qual è il carattere contemporaneo di Mestre? 2. Lo sviluppo di uno scenario: Mestre è una città d’acqua, dove l’acqua è vivibile. 3. Le azioni partecipate in città: Allegato d’acqua (il porto e la sua comunità, una realtà cittadina non conosciuta) e Vivere anfibio (la riscoperta dello spazio acqueo pubblico di Mestre). Dallo scenario Mestre è una città d’acqua, invivibile emerso dall’azione Ms3h24 si sono delineate le due azioni urbane sul tema dell’acqua. Di seguito si racconta l’azione Ms3H2O_Allegato d’acqua: il porto e la sua Campionamenti fotografici al Parco della Bissuola comunità, una realtà cittadina non conosciuta. L’indagine è continuata attraverso contatti con singoli soggetti e parti sociali operanti intorno al tema dell’acqua. Fondamentale è stato l’incontro con Padre Mario Cisotto, cappellano del porto, che con un gruppo di volontari si occupava dell’assistenza ai marittimi. Padre Mario è la porta verso una realtà fatta di 180.000 marittimi (3 volte la popolazione di Venezia) che ogni anno passano nel porto di Marghera e Venezia: un’intera città galleggiante multiculturale, che sosta per una media di 4/5 ore o per pochi giorni ai bordi della città; quando arriva nei porti incontra barriere e mancanza di servizi, essenziali a raggiungere il centro cittadino, anche soltanto per soddisfare bisogni minimi come fare compere, telefonare a casa, passeggiare nel centro, ecc.. Mestre sembra non accorgersi di questa popolazione: non ci sono infrastrutture, pochi servizi e mal segnalati, nessuna struttura di accoglienza L’azione Ms3H2O_Vivere Anfibio se non l’impegno dei volontari. Eppure questa comunità dimenticata permette il trasporto dei 3/4 della merce nel mondo, facendo in modo che le aziende “modello triveneto” possano usufruire appieno della rete commerciale mondiale: una popolazione completamente integrata nel commercio globale ma completamente esclusa da ogni rapporto con la vita della città. Come rendere visibile questa condizione? Come innescare fenomeni di relazione con la città? http://www.ms3-terraferma.net/
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intervista a Padre Mario Cisotto Il giorno 07.06.01 Padre Mario risponde alle domande rivolte dagli artisti di Ms3, in collaborazione con Stalker (Laboratorio d’arte urbana, Roma)
Alessandro Petti: Partiamo dall’inizio, chi sono i Marittimi? Padre Mario Cisotto: Sono i lavoratori a bordo delle navi. Una proiezione minima per non essere smentiti, sono 100.000 marittimi all’anno nel porto di Venezia: sono più della popolazione di Venezia, e provengono dal mondo intero, una minima parte sono italiani. Fa notizia se una nave è bloccata, se è sotto sequestro perché magari i marittimi hanno lavorato tre mesi senza salario. Fa notizia se i marittimi cominciano a fare lo sciopero della fame. Ma a chi importa dei 100.000 che non hanno volto, che non hanno voce, magari non hanno diritto ad un minimo di diritti sociali quando arrivano che stanno otto, nove, dieci mesi all’anno a bordo, lontani da casa, dalla famiglia e arrivano in posti completamenti sconosciuti? A Venezia c’è un indotto di 18.000 persone, con un fatturato di 2.000 miliardi l’anno. Una commissione internazionale, dopo due anni di lavoro, nei maggiori porti internazionali del mondo, ha chiamato il rapporto seguito all’indagine con tre parole chiave: ships, slaves and competition, (navi, schiavi e competizione). Risulta da questo rapporto che tra il 10% e il 15% della flotta mondiale esistono condizioni di vita e di lavoro a livello di schiavitù. Su 88.000 navi attualmente in giro per il mondo che contribuiscono al trasporto dell’80% delle merci nel mondo , 16.000 marittimi vivono e lavorano in condizioni di schiavitù. Ma la realtà è che non è che sono confinati in Indonesia, che ne so io… da qualche parte questa realtà o in India o in Africa…., possono essere nelle nostre coste, sono attraccate nei nostri Molo B, porto industriale di Venezia porti, ad esempio (indicando una nave) questo è un armatore napoletano, la bandiera è panamense. Panama offre le bandiere di convenienza a un sacco di paesi. A.P.: Cosa sono le “bandiere ombra”? P.M.C.: Cinquant’anni fa hanno incominciato questa storia delle “bandiere ombra”, bandiere di convenienza. Ad esempio: un armatore italiano se dovesse mettere la sua nave sotto il registro italiano dovrebbe avere a bordo un regime italiano, non solo di lavoratori, dovrebbe assicurare le pensioni, dovrebbe avere certi controlli igienici. Non ce la fa, che fa allora? Mette la sua nave sotto un altro stato: varranno a bordo le leggi di quello stato. A.P.: Quindi capita che durante il tragitto la nave possa cambiare più volte nazionalità, cambiando leggi e regolamenti a seconda della bandiera. P.M.C.: Si, sono i “trucchi del mestiere”, tutte le scappatoie, sono state sperimentate da 50 anni a questa parte in maniera scientifica sul mare con i marittimi. In venti minuti via internet si può spostare la nave da una bandiera a un’altra: la nave parte con una bandiera, ed entra in un altro porto con un’altra bandiera. Molto delle dinamiche che vediamo a terra oggi sono state sperimentate per benino sul mare, lontano da occhi indiscreti. Ti sfido oggi a trovare un giornalista televisivo o di giornali che riesca a fare un’indagine seria sui lavoratori del mare
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quando sono in mare, già qui al porto quando le navi sono ferme devi avere un permesso per entrare al porto, devi avere un permesso della capitaneria per salire a bordo, e poi deve essere il comandante che ti accetta o meno. Noi oggi possiamo andare a fotografare Marte ma sarà difficilissimo fotografare cosa succede e come si vive a bordo di una nave. E’ il posto più sicuro per sperimentare tutto, infatti oggi se una nave ha un problema serio, è difficile scoprire chi è il responsabile. Scatole cinesi: oggi il marittimo è un lavoratore che non sa più che faccia ha il suo datore di lavoro. Non sa dove sta, ha una casella postale. Se c’è un problema si scopre che la casella postale è in un paese esotico o che magari non esiste neanche più. Allora, ritornando al dunque, è più facile per una città sensibilizzarsi o commuoversi di fronte a casi diciamo estremi, perché allora di fronte all’emergenza, una nave viene abbandonata anche dall’armatore, i marittimi sono a bordo, finiscono il gasolio, la nave non ha più il motore, quindi non ha più luce, se non ha più gasolio non può più cucinare, non può più scaldarsi d’inverno, d’estate diventa un forno perché la nave è fatta di ferro, e di inverno diventa una ghiacciaia, e se c’è qualcuno che lo fa sapere alla città, c’è una reazione. A.P.: Quindi dietro i casi estremi che fanno notizia, si scopre una condizione di vita di presunta “normalità” che non fa notizia, ma che di “normale” sembra avere ben poco. P.M.C.: Sono senza infrastrutture, senza servizi minimi, senza diritti. Anche loro hanno diritto ad un po’ di cultura, hanno diritto ad avere notizie del loro paese, hanno diritto di chiamare casa, ecc. A.P.: Qual’è il tuo sogno? P.M.C.: E’ creare questo minimo di infrastrutture che rimangono in maniera stabile, che diventino punti di “interfaccia” tra un mondo e cultura particolare quello della gente di mare e la gente di terra. Strutture che siano in grado di fornire un luogo di possibile incontro. E comunque la cultura della gente di mare ha delle caratteristiche trasversalmente comuni a prescindere da qualsiasi nazionalità a cui un marittimo appartenga, proprio per il fatto che lavora su uno stesso ambiente che è quello del mare, e su una nave. Quindi tu puoi trovare delle cose in comune tra un cinese e un africano, un asiatico e un europeo, se sono marittimi. E’ una parte di mondo interessantissima perché è la fotografia del domani a terra. Sarà questione di 10, 20 anni, e anche a terra sarà così. Quindi anche culturalmente sarebbe molto interessante creare questi spazi, queste intercapedini. Non vedo altre soluzioni che queste infrastrutture che di solito i marittimi riconoscono. Perché i marittimi, bisogna aggiungere, sono organizzati in maniera molto gerarchica a bordo: il Dio a bordo è il capitano perché è chiaro che una nave è un microcosmo e uno non può remare in senso contrario, cioè li se uno sbaglia pagano tutti. Già a bordo ci sono problemi di comunicazione perché su 20 persone si possono trovare anche 7 o 8 nazionalità diverse, quindi 7 o 8 lingue, 7 o 8 magari religioni, 7 o 8 culture, 7 o 8 cucine diverse e il cuoco è uno solo…. Puoi immaginarti cosa significa a livello di stress. Vivi dove lavori. Fai tempo libero dove lavori, non fai mai “off” nella testa, neanche quando dormi. Gli europei di solito rimangono imbarcati per sei mesi, per gli extraeuropei anche dieci dodici, ho trovato persone anche con due anni a bordo. A bordo il capitano è l’intermediario tra l’armatore e l’equipaggio. L’armatore a sua volta non è l’unico padrone, perché magari alle spalle c’è chi gli ha affittato la nave per quel giro o il padrone del carico, la bandiera, lo stato di bandiera… .Quindi quando tu fai una domanda al marittimo, o gli chiedi un intervista o devi fare una foto a bordo o vuoi fare un documentario, è più difficile che andare a fotografare la luna o marte. Tra l’altro il marittimo è di per se, in maniera non palpabile, sotto una serie di ricatti. Ci sono dei marittimi per esempio che hanno paura anche di fronte a situazioni molto pesanti di sfruttamento, di ore in più di lavoro, di ritardi nel pagamento dei salari, o di non pagamento dei salari, di cibo a volte non conforme, di igiene a bordo, ecc…Di fronte a tutto questo per esempio ci sono delle nazionalità di marittimi che hanno paura di rivolgersi al sindacato, perché esistono dei sindacati internazionali molto potenti a livello marittimo, uno dei quali
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ha sede a Londra e si chiama ITF. Lorenzo Romito: Cosa sono le black list? P.M.C.: E’ un fenomeno di molti paesi, quello più conosciuto è quello nelle Filippine. Se un filippino si rivolge al sindacato o a bordo si lamento perché forse 14, 15 ore al giorno sono troppe… sette giorni su sette… per nove mesi all’anno, basta che il comandante faccia un cenno all’agenzia o all’armatore, e il suo nome compare in una lista nera che si passano tra agenzie e lui non troverà mai più lavoro. Questa è una forma di ricatto, e l’altra forma che si può leggere in questi rapporti è di persone che spariscono… casi strani, ma succede anche questo… per non dire di quando uno sta male in mezzo al mare….un sacco di cose di cui noi non abbiamo idea. L’armatore adesso ha a disposizione un mercato mondiale della manodopera, dei nuovi schiavi. Il cuoco delle Filippine, i meccanici dalla Romania, gli ufficiali di bordo russi; quelli che mi costano di meno. Diverse nazionalità a bordo vanno anche bene perché oltre a costare di meno, (perché posso prendere sul mercato internazionale quelli che costano di meno) più sono divisi e più è facile comandarli, perché è difficile che facciano corpo tra di loro. Anche a scapito della sicurezza della nave, infatti in casi di momenti gravi di pericolo anche tre secondi di ritardo nella comprensione di un ordine può significare andare a fondo. I filippini sono 1/3 dei marittimi mondiali, in breve tempo saranno sostituiti dai cinesi, che non sono cristiani e quindi hanno meno senso della comunità e creano meno problemi a bordo. I cinesi sono tanti, non sanno che cosa è il sindacato. Inoltre se una nave cinese viene fermata da un ispettore in un porto, per qualche motivo grave, e vengono a sapere chi è dei cinesi a bordo che ha dato la spifferata, gli danno Gru del molo B, sezione container dai 5 ai 20 anni di carcere per attentato al bene pubblico, perché una nave che si ferma perde milioni, e siccome la nave in Cina è un bene dello stato, la perdita è ai danni dello stato. Adesso ci sono degli armatori che stanno stipendiando delle scuole nautiche di specializzazione in Cina in vista di avere fra qualche anno del personale qualificato cinese che sostituisca i filippini, per certe mansioni. A.P.: Prima parlavi di infrastrutture che potessero funzionare da “spazi tra” il mondo dei marittimi e il mondo a terra, intercapedini tra il porto e la città, residenti e persone che occupano temporaneamente uno spazio. Esistono degli esperimenti compiuti in questa direzione? P.M.C.: Ci sono dei club che sono conosciuti dai marittimi: sono luoghi dove il marittimo può spendere due ore alla sera. Li chiamano “una casa lontano da casa”. Solo luoghi dove sanno che c’è della gente che conosce la vita del marittimo e che ha messo in piedi quel minimo
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di iniziative di cui lui ha bisogno quando arriva in un posto: cambiare i soldi, telefonare a casa, scrivere le e-mail, spedire delle lettere, comprarsi un ricordo, fare qualche cosa, bersi una birra in pace, leggere un giornale del suo paese. Fare che cosa: fare un “break”, poi eventualmente girare in città, mettere i piedi per terra. Noi a Venezia non abbiamo questo, ancora. Secondo me è il club può diventare questa cerniera. Perché quando un marittimo entra nel club si sente in uno spazio “sicuro”. Se c’è qualcuno dei volontari o delle persone che sono nel club, che interagiscono col marittimo, che fanno un servizio, che gli chiedono qualche cosa, gli parlano ecc.. Noi lo stiamo facendo con l’Assessorato alla Politica Sociale, del Comune, con l’Assessorato Provinciale del Lavoro, e con l’autorità portuale che hanno sponsorizzato una ricerca. C’è un gruppo di ricercatori di Padova, sociologi, che ha fatto un paio di anni fa una ricerca alla Fincantieri, gli stessi stanno facendo una ricerca sui marittimi. Gli abbiamo chiesto di scoprire chi sono quelli che arrivano a Venezia, quanti sono, da dove vengono, che vita fanno a bordo e che cosa vorrebbero trovare quando arrivano in un porto, che cosa trovano a Venezia e che cosa non trovano. Lo scopo è di avere un documento finale da discutere insieme, e forse li voi potreste dare delle idee o collaborare per creare degli eventi intorno a questo momento in cui si pubblicizza il lavoro finale della ricerca. La ricerca se tutto va bene dovrebbe finire per ottobre e per i primi di novembre. La prospettiva è quella di creare a Marghera un seamen’s club all’altezza della situazione, bisogna cercare il posto dove farlo, vi farò vedere quale potrebbe essere il posto ideale Questo posto però è attualmente ancora in funzione dai rimorchiatori i quali dovranno andare via entro un anno perché devono costruire il ponte sul canale che poi vi farò vedere. Però ci saranno 800 giorni di cantiere e quindi quel ponte servirà per le imprese. Quindi quel posto sarà realisticamente agibile fra quattro anni. (l’edificio lungo ad un piano individuato da Padre Mario è su un ponte tra il porto e la città…) Nel frattempo bisognerebbe cercare qualcosa di provvisorio. perché poi tutto il resto dei soldi si sa dove trovarli: a Londra c’è un fondo di un potente sindacato che per legge è a disposizione dei seamen’s club, però ci deve essere il contributo locale, e il contributo locale di solito gli basta che sia o un immobile da ristrutturare o un pezzo di terra, qualcuno del posto che dice noi mettiamo questo a disposizione, e loro fanno il resto. E poi portare avanti questo progetto in maniera trasparente in modo che non diventi l’iniziativa di qualcuno o di un’associazione… sì, l’associazione ci sia ma con alle spalle una sinergia di istituzioni e di partner. E’ chiaro che bisogna partire non solo dal bla-bla di un prete ma da un documento “scientifico” come una ricerca sociologica… A.P.: Ci sono parti sociali che hai già coinvolto o che pensi di coinvolgere? P.M.C.: Allora, l’idea potrebbe essere quella suggerita dalla convenzione internazionale e che in un porto come quello di Barcellona in Spagna si è già sviluppata: un comitato sociale del porto. Il porto ha un comitato portuale con delle leggi in vigore ecc. in cui sono rappresentati tutti. In questo comitato portuale c’è l’autorità portuale, la capitaneria di porto,l’associazione degli spedizionieri, degli agenti marittimi, c’è il rappresentante degli industriali, della provincia, della regione. Ci vorrebbe un comitato sociale del porto per tutto quello che è l’aspetto della vita, non solo però dei portuali, dei propri cittadini che lavorano in un porto e che alla sera tornano a casa ma anche dell’elemento umano presente sulle navi, che si ferma da qualche ora a qualche giorno in un porto. E di questo comitato sociale facciano parte un po’ tutti. Potrebbe essere l’istanza che studia il da farsi, che valuta la situazione,che sceglie e che delega e che sia rappresentativa, dove nessuno si senta escluso o possa essere escluso. Questa potrebbe essere un’idea.
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Ms3H2O_Allegato d’acqua L’azione Allegato d’acqua inizia con un primo dialogo sul tema del confine, dei margini della città e della società: l’incontro ha coinvolto artisti, scrittori, architetti, operatori sociali, curatori d’arte, sociologi, economisti e si è tenuto il 12 luglio al Chiostro dei Tolentini (IUAV). Importante elemento d’ispirazione è stato la ricerca "Lavoratori marittimi: profili sociali e nuove domande di servizi", commissionata dall’Autorità Portuale, dal Comune e dalla Provincia di Venezia, allora in corso di realizzazione da parte di un gruppo di ricercatori del Dipartimento di Sociologia di Padova. Per rendere visibile la condizione dei marittimi, innescando fenomeni di relazione con la città, gli artisti continuano il dialogo con le parti sociali e negoziano una simulazione: giovedì 13 settembre 2001, dalle ore 09.00 alle ore 13.00, 21 studenti del Liceo Scientifico G. Bruno di Mestre (IV C) per 4 ore diventano marittimi. Ms3H2O_allegato d’acqua - realizzata in collaborazione con Stella Maris/Apostolatus Maris, l’Autorità Portuale di Venezia e il liceo G. Bruno - è la terza azione urbana di Ms3.
Incontro preliminare
Lunghe camminate per raggiungere i servizi
Si tenta di comunicare per richiedere informazioni
Al punto di incontro, presso la Compagnia dei Lavoratori Portuali in Via del Commercio, sono stati consegnati agli studenti dei PORTpass di identificazione che riportano nome e nazionalità di un marittimo. Ogni studente/marittimo aveva una missione da compiere (comperare un giornale russo, pregare in un edificio sacro, mangiare cibo etnico, spedire dei soldi a casa, ecc.) nel tempo massimo di tre ore, tempo medio di permanenza di un marittimo. Divisi in gruppi e accompagnati dagli artisti e dai docenti Laura di Lucia Coletti e Odino Franceschini, gli studenti sono partiti dai 7 gate di Porto Marghera, parlando in inglese e con solo monete straniere (dollari americani): muovendosi tra il porto e la città hanno incontrando barriere fisiche, burocratiche e sociali. Lunghe camminate in mezzo a un deserto fatto di asfalto: la loro esperienza (raccolta nel sito http://www.ms3terraferma.net/) conferma la difficoltà di raggiungere i servizi, di comunicare. Gli studenti erano invitati ad annotare le situazioni incontrate (quanto tempo impiegato per raggiungere il luogo/servizio, con quale mezzo, ecc.) su un diario fornito in partenza. L’esperienza si è conclusa con un meeting alla Compagnia dei Lavoratori Portuali, dove sono state raccolte e confrontate le impressioni di viaggio. Alle ore 15.00, gli studenti sono saliti a bordo della nave AIUD ormeggiata al Tronchetto, abbandonata con il suo equipaggio dall’armatore. L’osservazione del fenomeno in relazione alla terraferma veneziana e l’interazione con esso è la pratica che ha guidato i gruppi di artisti (artway of thinking, Alessandro Petti e ZonAnomala) di Ms3 nell’azione H2O_allegato d’acqua con l’intenzione di innescare dinamiche d’intervento e riflessione, creando punti di interfaccia tra il mondo particolare della gente di mare e quello della gente di terra. Il dialogo con le parti e l’esperienza della simulazione ha
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L’esperienza si conclude con la visita a bordo della nave AIUD
portato inoltre a realizzare la mappa PortPass (finanziata dall’Autorità Portuale di Venezia) consegnata a Padre Mario Cisotto (Stella Maris), domenica 16 settembre, in occasione dell’evento Rassegna di 100 giorni di Ms3, al Candiani.: una mappa di servizi che si offre come una sorta di Seamen’s Club diffuso in città, di strumento di orientamento per il marittimo, che dai gates di Porto Marghera voglia raggiungere i servizi sparsi sul territorio (telefoni, internet, bar, banche, ristoranti, luoghi di culto, ecc.). PortPass è stata stampata in 20.000 copie che saranno distribuite ai marittimi attraverso gli operatori portuali e inserita come allegato alla ricerca sociologica, commissionata dall’Autorità Portuale, dal Comune e dalla Provincia di Venezia e realizzata da un gruppo di ricercatori (Dipartimento di Sociologia di Padova), presentata al pubblico il 26 giugno 2002 al Centro Culturale Candiani (per ottenerne una copia è sufficiente farne richiesta all’Assessorato per le Politiche Sociali di Mestre).
Gli studenti visitano il ponte di comando
Padre Mario (a sinistra) con un marittimo della AIUD
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i globalizzati del mare I profondi mutamenti politico-sociali che stanno attraversando il il pianeta mostrano la faccia di quel fenomeno che possiamo comunemente definire con il termine “mondializzazione”, fenomeno che sta progressivamente mettendo in discussione concetti base e ampiamente storicizzati del nostro vivere quotidiano quali comunità, territorio, cultura locale e proiettando invece alla ribalta gli scenari della cosiddetta globalizzazione e del nomadismo. Per quanti tuttavia si siano seriamente posti all’osservazione di questi fenomeni, sulla bocca di tutti e ormai argomento di tendenza, sarà parso evidente che la globalizzazione in realtà non esiste nell’accezione superficialmente accettata della parola, ovvero nel suo carattere di universalismo di valori e risorse. Come correttamente asserisce Shafique Keshavjee «la globalizzazione riguarda solo una parte del pianeta, mentre numerosi paesi non hanno accesso neppure a risorse essenziali per la sopravvivenza. Questo sistema, in primo luogo tecnologico ed economico, mediatico e culturale, tende a trasformare il mondo in un campo unico di relazioni e di competizioni, di razionalizzazione e di appropriazione, di incontri e di esclusioni» comportando «una vittoria del consumatore e dell’azionista che ciascuno di noi può essere, o personalmente o attraverso i fondi pensione. Viceversa, gli avversari della globalizzazione evidenziano come questo sistema rappresenti la sconfitta dei piccoli produttori e di quanti hanno situazioni lavorative precarie, perché oggi il mercato esercita una forte pressione affinché i consumi siano sempre più alti e redditizi. La globalizzazione comporta dunque l’esclusione dei produttori più piccoli e di tutta una categoria di persone che non hanno accesso al medesimo grado di produzione e di benefici»1.
Le marinerie asiatiche costituiscono la maggiorparte della popolazione marittima
Una condizione che in linea generale possiamo condividere su scala planetaria oggigiorno è la sempre maggiore difficoltà a garantire certezze e stabilità, così come quasi ognuno di noi può dire di appartenere a una nuova generazione di individui che vive episodi di migrazione, oltre che (e non necessariamente) territoriale, anche professionale e culturale, più simili poi a movimenti nomadi nella loro ciclicità e ritorno a un luogo di partenza. Globalizzazione ante litteram «We are already globalized, our ship is owned by a Greek company whose owner lives in Malta and we are registered under the flag of Panama. We are insured by a British company based in London. We have a multi-racial crew of Filipinos, Chinese, and Indonesians with Turkish officers. We go to Vancouver to pick up a cargo of Canadian wheat to bring to the Philippines».2 Se dobbiamo rendere conto alla globalizzazione come insieme di eventi concatenati in modo trasversale nel mondo (considerando ciò che la parola "mondo" può aver significato nei secoli), allora la condizione delle marinerie costituisce di fatto una realtà globale da
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tempi remoti, dai tempi a cui possiamo far risalire l’imbarcazione come veicolo principe del viaggio oltre e attraverso i bordi della conoscenza, viaggio extra-territoriale immerso in una situazione di costante allarme, incertezza, curiosità, scoperta e avventura. Ma anche scambio, trasporto, fuga attraverso l’elemento acqua che tutto unisce e confonde senza confini (la comparsa del confine nazionale acqueo è piuttosto recente), attraverso le rotte tracciate da esploratori, viaggiatori, esuli e contrabbandieri. La composizione marittima oggi è uno scenario piuttosto complesso e variegato da dipingere. Per comprendere appieno quella che è la cultura del mare si dovrebbe considerare la componente commerciale come quella turistica, militare e dell’industria ittica. Tuttavia ci concentreremo su quella commerciale dal momento che è la parte interessata alla costruzione del Seamen’s club nel porto industriale di Marghera. Rimandando quindi alla fondamentale lettura della ricerca sociologica I lavoratori marittimi. Profili sociali e nuove domande si servizi per la trattazione completa del panorama, riporto tuttavia qui di seguito alcuni passaggi riguardanti la realtà globale dello shipping. «Il settore marittimo è il primo esempio su scala mondiale di un mercato del lavoro relativamente aperto, in cui cioè vengono impiegati lavoratori stranieri senza particolari limitazioni su quei pezzi di stato nazionale galleggiante che sono le navi»3. In questo le navi dimostrano di essere autentici laboratori di sperimentazione del mix etnico ed una realtà particolarmente chiarificante sui rapidi spostamenti dell’economia mondiale. «“Poi la nazionalità con cui si viaggia dipende anche da altri aspetti, ad esempio adesso il mercato del lavoro sta cambiando perché i filippini stanno chiedendo salari più elevati e quindi si cercano gli ucraini e i cinesi perché vengono pagati meno, anche se con i cinesi ci sono diversi problemi con il linguaggio. Gli ucraini invece sono istruiti e hanno una buona tradizione anche di mare, per loro il cambiamento tra compagnia statale e compagnie private è stato importante e molto negativo.” Analogamente un marittimo croato afferma: “Io e il mio equipaggio croato abbiamo rimpiazzato un intero equipaggio di filippini. La compagnia sta risparmiando il 34% dei salari degli ufficiali e circa il 52% dei salari dei marinai assumendo croati. Noi abbiamo causato la perdita del lavoro per 26 filippini ed essi hanno famiglia proprio come noi...”» La multinazionalità degli equipaggi non è certo una novità, tuttavia «il periodo tra l’ultimo quarto del XIX e la prima metà del XX secolo segna una crescente nazionalizzazione degli equipaggi, anche se tale nazionalizzazione va tarata alla luce della partecipazione della forza lavoro coloniale delle varie potenze metropolitane. Tuttavia, i lavoratori marittimi si caratterizzano sempre per un internazionalismo pratico, iscritto nella loro stessa quotidianità. Fino a tempi recenti, in cui le soste nei porti si riducono spesso a poche ore, i marittimi sono stati i principali connettori del sistema mondo dal basso»4. Attualmente si osserva invece «una politica di reclutamento particolarmente oculata. Gli armatori che operano su grande scala considerano i marittimi di ogni angolo del mondo come potenziali dipendenti e raccolgono informazioni sui vari gruppi nazionali, “sperimentando” diverse composizioni di equipaggio al fine di ottenere un mix ‘lavorativo’ ottimale», dove «la preferenza per determinate nazionalità sembra essere legata alla loro “abilità a mescolarsi” e a convivere in spazi ristretti per un lungo periodo»5. A complicare il quadro sociale e professionale del mondo marittimo ci pensano ancora gli armatori e le compagnie di navigazione (supportate dai rispettivi governi) con l’espediente delle “bandiere ombra” o in inglese altrimenti definite “flags of convenience”, bandiere di convenienza. Va fatto notare che la pratica di porre le proprie navi sotto un’altra bandiera
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non è nuova, anzi è tanto antica quanto l’esistenza delle bandiere nazionali, «ad esempio, gli armatori olandesi nel corso del XVII-XVIII erano maestri nell’utilizzare bandiere neutrali sui propri mercantili durante periodi di guerra. Il fatto nuovo è che a partire dagli anni ‘20, le bandiere di convenienza sono utilizzate in tempi di pace»6. A sistematizzare le bandiere ombra negli anni Trenta furono gli Stati Uniti d’America a causa della crescente sindacalizzazione dei porti e sulle navi statunitensi, che portarono «i salari dei marittimi statunitensi al primo posto mondiale. A questo processo gli armatori - inizialmente statunitensi - faranno fronte anche ricorrendo alla creazione di bandiere ombra. La prima bandiera di convenienza fu istituita nel 1922, anno in cui negli Usa vigeva la legislazione proibizionista. […] Se nel corso degli anni Venti e Trenta gli armatori si erano avvalsi dei registri di convenienza di Danzica e dell’Honduras, oltre che di quello di Panama - è nel 1948 che i giuristi della Standard Oil del New Jersey (oggi Exxon) inventarono l’espediente legale della immatricolazione delle navi sotto la bandiera della Liberia. Condizione comune agli Stati prestatori di bandiera era il fatto di essere sotto il controllo amministrativo e militare statunitense (Panama, Honduras, Liberia), oppure di godere di uno statuto internazionale dotato di una certa autonomia rispetto allo Stato nazionale di appartenenza, meglio se quest’ultimo era affamato di denaro (Danzica)». Questo sistema pemette quindi agli armatori di ridurre i costi di trasporto e del lavoro umano, permettendo «di evitare l’applicazione di norme previste in Registri navali, che ponevano alcune restrizioni agli imprenditori del settore. Un Registro navale è l’albo pubblico presso il quale gli armatori devono immatricolare il naviglio e dal quale dipendono lo stato giuridico, la fiscalità, le norme di sicurezza e la gestione sociale del personale imbarcato. Fino agli anni ‘50 vi era una larga corrispondenza tra la bandiera delle navi mercantili e la nazionalità dell’armatore e degli ufficiali dell’equipaggio. In seguito si è assistito, soprattutto da parte dell’armamento statunitense e greco, all’utilizzazione massiccia delle ‘bandiere ombra’, meno sicure nelle aree a rischio politico-militare ma meno costose per la possibilità di aggirare gli obblighi di legge imposti dai Registri navali»7. Per fornire un dato oggettivo, «nella flotta mondiale nel corso del decennio 1989-1999 si è registrato un costante incremento del tonnellaggio battente bandiere di comodo. Nel 1989, le navi registrate su bandiere di comodo o su secondi registri rappresentavano il 44,5% del tonnellaggio mondiale complessivo (182.533.014 tonnellate su 410.480.693 tonnellate complessive). Nel 1999, la percentuale del tonnellaggio navale registrato sotto bandiere di convenienza è salito al 64% (347.822.402 tonnellate su un tonnellaggio mondiale complessivo di 543.609.561 tonnellate). Nel 1998 il 18% della flotta mondiale era sotto il controllo della bandiera di Panama, mentre la Liberia ne registrava il 13% e Cipro, Bahamas e Malta il 5% ciascuno. Il 61% delle oltre 7 mila petroliere si trova sotto bandiera di convenienza: l’età media di quelle immatricolate a Antigua raggiunge i 17 anni, 21 anni a Saint Vincent et le Grenadines, 22 anni alle isole Turks e Caicos. Sempre nel 1998, il 46% delle navi e il 65% del tonnellaggio dei 35 più importanti stati marini del mondo erano sotto bandiere di convenienza. Nell’Europa occidentale, che controlla complessivamente il 48,7% della flotta mondiale (33,5% per i soli paesi Ue), contro il 41% per l’Asia, è il caso del 63% delle navi»8. 1 Shafique Keshavjee, Duellanti per un’etica planetaria, in Fondamenta - Globo conteso 2 Jack Walsh , AOS Asia meets to combat effects of globalisation, vedi http://www.ufs.ph/tinig/novdec01/11120119.html 3-4-5-6-7-8 V. Longo, G. Merotto, D. Sacchetto, V. Zanin, I lavoratori marittimi. Profili sociali e nuove domande di servizi
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Le bandiere ombra attualmente in circolazione
Antigua and Barbuda
Cambodia
German International Register
Aruba
Canary Islands
Gibraltar
Bahamas
Cayman Islands
Honduras
Barbados
Cook Islands
Lebanon
Belize
Cyprus
Liberia
Bermuda
Equatorial Guinea
Luxembourg
Malta
Mauritius
Panama
Marshall Islands
Netherlands Antilles
St. Vincent
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São Tomé & Príncipe
Tuvalu
Sri Lanka
Vanuatu
…e le bandiere e i numeri della popolazione marittima (censo ILO del 2000) Filippine 230.000
Usa 46.078
Indonesia 83.500
Ucraina 37.000
Italia 23.500
Altro 435.476 Totale 1.227.956
Cina 82.017
Grecia 32.500
Turchia 62.447
Giappone 31.013
Russia 55.680
Myanmar 29.000
India 54.700
Gran Bretagna 24.145
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siamo tutti stranieri “La popolazione nomade dei marittimi”: così viene definito familiarmente quell’insieme di lavoratori delle navi che ogni anno attraccano nei porti di tutto il mondo. Perché nomadi? La parola nomadismo trae le sue origini dallo «stile di vita di popolazioni non sedentarie, caratterizzato da spostamenti periodici o ciclici. Esso è legato alle economie fondate sulla pastorizia, sulla caccia e sul raccolto. Tutti i gruppi umani furono nomadi fino al neolitico, quando, con lo sviluppo delle tecniche agricole, iniziò un diffuso processo di sedentarizzazione. Il termine “nomade” (dal greco nomas, “chi si sposta per cambiare pascolo”) viene riferito a realtà molto diverse sul piano storico, geografico, economico e culturale»1. Dire che per tutti i marittimi il nomadismo è uno “stile di vita” oggi può costituire una forzatura o, peggio, un’ingiusta semplificazione, quindi mi limiterò a dire che si tratta di una “condizione di vita”. Infatti il marinaio, nell’immaginario collettivo, veste il ruolo di individuo svincolato dai legami famigliari, con “una donna in ogni porto”, sempre pronto a salpare verso nuove terre con il privilegio di viaggiare, conoscere, vivere esperienze impossibili, regolarmente narrate in leggendari storie da “lupo di mare”. Lavorare da marinai, da circa mezzo secolo, conserva sì questo aspetto del viaggio nomadico intercontinentale, in cui il veicolo navale attraversa lo spazio-mare attraccando in mete prestabilite senza insediarvisi (altrimenti costituirebbe un’emigrazione o un esodo), tornando ciclicamente al luogo di partenza e nelle medesime tappe, ma diversamente la motivazione per cui si accetta un simile lavoro è la necessità stessa di trovare un’occupazione (spesso addirittura sborsando denaro per imbarcarsi), comportando più sacrifici che privilegi. Frequentemente questa condizione anti-stanziale si prolunga anche a terra, nei porti: vaste distese industriali o comunità locali impreparate e indifferenti, mancanti dei minimi servizi di accoglienza, esasperano una vita a bordo fatta di massacranti ritmi di lavoro e di un vagare continuo che vincola il marittimo dai 3 ai 9 mesi consecutivi lontano da casa (tanto durano i contratti di imbarco, salvo per qualcuno arrivare persino a un anno) e costringono queste persone a continuare a vagare anche a terra alla ricerca di un modo per soddisfare necessità anche basilari, come cercare un telefono per chiamare a casa, spedire il denaro alla famiglia, bersi un caffè, chiaccherare con qualcuno che non sia dell’equipaggio, un equipaggio di soli uomini con cui condividere gli stretti spazi della nave per più di 8 ore al giorno. Il fatto che a Marghera quasi nessuno conosca tale realtà (e davvero per anni nessuno se ne è occupato eccetto Padre Mario e i volontari) indica uno stato di totale estraneità al problema che definisce anche l’estranietà del marittimo stesso e la sua segregazione al ruolo di straniero: Filippini, Indiani, Turchi, chiaramente stranieri perché di altre nazionalità, ma per i marittimi italiani, al di là dei vantaggi della lingua e le facilitazioni del passaporto, la questione accoglienza non cambia ed è pensabile che la stessa sorte tocchi ai marittimi di altre nazionalità nei rispettivi paesi. Questo sembra indicare l’esistenza di una nazione a parte, una nazione dei marittimi che è a tutti gli effetti uno “stato delle cose”, una condizione di vita sospesa di cui rimando la trattazione nel paragrafo “territori immaginari”. È anche vero che si vengono poi a delineare in ogni porto situazioni differenziate a seconda della nazionalità del navigante, ad esempio un marinaio siriano non potrebbe nemmeno scendere a Venezia se lo volesse, dal momento che tra Italia e Siria intercorrono problemi di carattere diplomatico per incomprensioni e conflittualità ancora irrisolte a causa del pericolo terrorismo. Come potete immaginare la tragedia dell’11 settembre non facilita la soluzione di tale questione. Nella ricerca sociologica si riporta che «la differenza tra i porti è anche interna agli stessi paesi, così ad esempio, alcuni marittimi russi notano una certa differenza tra i porti del nord e del sud della Russia perché nel sud sono tutti “baskir, turchi, trafficanti che vogliono sempre qualcosa in cambio per ogni cosa gli venga chiesta…sono porti pericolosi a causa delle guerre e dell’instabilità che ci sono lì nei paesi del Caucaso”. Per quanto riguarda l’Italia la situazione sembra alquanto eterogena, tanto che un ufficiale turco ritiene che si
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tratti di un paese federale, tante sono le differenze tra porto e porto nel trattamento riservato ai marittimi stranieri. Genova, ad esempio, è considerato un buon porto, dove non viene fatto il contropelo a una nave solo perché è turca, come spesso succede a Marghera, tanto più che neppure qui lo stesso trattamento verrebbe riservato se la nave battesse bandiera statunitense o di qualche altra nazionalità»2. La medesima ricerca, riguardo al vivere l’estraneità nel proprio territorio, contiene passaggi rilevanti sul problema sociale affrontato dai marittimi al loro ritorno a casa: «la lunghezza del contratto di lavoro per i marinai è spesso un’arma a doppio taglio: garantisce un lungo periodo di reddito ma obbliga alla permanenza lontano da casa. In particolare tra i più giovani si fa strada l’idea di contratti brevi, in modo da poter rinsaldare con più frequenza le proprie amicizie, ma solitamente i capitani e gli ufficiali sono i soli a poter operare qualche scelta sulla lunghezza del contratto di lavoro. Per altri marittimi, invece, il contratto di lavoro può significare anche il periodo di un’esistenza meno difficile, rispetto a quanto li aspetta nella terraferma. “Noi giovani vorremmo navigare due mesi, poi stare altri due mesi a casa. Adesso lavoriamo quattro mesi, i vecchi lavorerebbero anche di più.... Quando sono a casa in due mesi non riesco a stabilire relazioni significative perché devo subito ripartire.” “Non riesci ad avere una vita sociale; quando vado al paese ho paura ad andare in piazza. Chi non ha un carattere forte ha un esaurimento nervoso, com’è accaduto ad un mio amico che era in mare e adesso è a casa, non lavora ed è stato lasciato dalla ragazza”»3. Come se non bastasse anche sotto il profilo professionale fare il marinaio può diventare un’esperienza nomade: una volta terminato il contratto d’imbarco può accadere che l’individuo si trovi nella situazione di un disoccupato che deve ricominciare tutto daccapo, trovare un altro contratto di lavoro come un free-lance, un cane sciolto dopo una sorta di licenziamento o quanto meno un contratto a tempo determinato. Alla luce di tutto questo, chi può dire oggi di non vivere esperienze simili, benché su scala differente? Lo sradicamento culturale che possiamo esperire a vari livelli è una realtà che appartiene oggi un po’ a tutti: flessibilità dei posti di lavoro, flessibilità nelle relazioni personali, l’incertezza del futuro e le connessioni mediatiche di cui disponiamo contribuiscono a farci percepire il progressivo scollamento da basi personali, sociali, familiari e territoriali. A tal proposito Abdallah Laroui scrive che «oggi ognuno di noi sa bene che ogni qualvolta usa i moderni mezzi di comunicazione, va al cinema, ascolta la radio, guarda la televisione, naviga in internet, con questa semplice azione apparentemente libera ma in realtà sottilmente diretta, sferra un colpo alla propria lingua, alla propria cultura»4. I nuovi strumenti della comunicazione globale impongono inoltre un salto percettivo e concettuale che ci proietta in una realtà iper-testuale che va ben oltre la possibilità di leggere un testo digitale in modo non lineare: esso ci propone un modello di convivenza di identità multiple, di alterità, di molteplicità sovrapposte a più livelli, un nuovo tipo di nomadismo che può anche essere vissuto senza muoversi dalla sedia della propria postazione di cybernauta. Eppure nell’era del virtuale nulla sembra essere così reale, l’idea dell’immaterialità rivela le sue incongruenze e mistificazioni. Così si viene alimentando un crescente distacco tra chi vive al centro dei flussi economici e d’informazione e chi ne rimane escluso, estraneo, straniero migrante o nomade che va alla ricerca di nuove forme di sostentamento possibile seguendo il desiderio o il sogno di una propria dignità sociale, economica, culturale - proprio in quei giardini d’occidente illusoriamente difesi dagli autoctoni dietro le barriere di confini reali e mentali, di presupposte identità in pericolo e di privilegi acquisiti. 1 Ruggero Caso, Il nomadismo: dagli aborigeni al cyberspazio, http://www.baskerville.it/Geografia/Rece/nomadismo.htm 2-3 V. Longo, G. Merotto, D. Sacchetto, V. Zanin, I lavoratori marittimi. Profili sociali e nuove domande di servizi 4 Abdallah Laroui, Vivere qui e altrove, in Fondamenta - Globo conteso
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Lo straniero ostile L’abitare si presenta in genere come un’abitudine che l’uomo apprende con il tempo e la pratica, attraverso la consuetudine dei rapporti con il mondo circostante. Lo straniero, l’estraneo, è invece colui che modifica questa familiarità spaziale, la trasforma, la disturba con elementi anomali, “esotici”. È ciò che provoca un “mucchio di grattacapi”, di fastidiose seccature, a coloro che hanno sempre abitato quello spazio, costringendoli a uno sforzo per riorganizzarlo al fine di comprendere al suo interno (a volte accade, a volte no) il nuovo elemento. Riorganizzare il proprio spazio significa allora misurarlo, ridefinirne i limiti, o meglio le soglie, le adiacenze. Questo perché l’essere, come Simmel aveva compreso a inizio secolo, “significa che il soggetto lontano è vicino”; quindi che la differenza è lì, magari per la prima volta a portata di mano, ben visibile davanti a noi, sottolineata dal fatto di sapere che in comune si hanno solo poche cose generali. E lo straniero aspira a rimanere, occupando e vivendo quello stesso spazio di cui l’autoctono fino a poco prima si sentiva essere l’unico possessore. Perché estraneo non è tanto il viandante che oggi viene e domani va, bensì «colui che oggi viene e domani rimane - per così dire il viandante potenziale che, pur non avendo continuato a spostarsi, non ha superato del tutto l’assenza di legami dell’andare e del venire». Ed è in questa continua incertezza spaziale, carica di nostalgia fino a diventare talvolta malattia (Heimweh), che si costituiscono molti dei malintesi tra noi e gli altri. Lo straniero è in fatti qualcuno fuori luogo, qualcuno che non si sa né come né dove collocare, incompreso sia nel luogo di arrivo sia in quello d’origine. Ecco perché la volontà di scavalcare la presenza di un confine (senza la necessità di annullarlo), di oltrepassare la fase di transizione, richiede uno sforzo particolare di traduzione, nel suo significato letterale di “condurre al di là di qualcosa”. Questa traduzione, questo adeguamento reciproco delle proprie conoscenze rispetto all’altro, ha comportato a volte la costruzione e l’uso di spazi particolari […]. La presenza di un confine (spaziale, mentale, culturale, ideologico) è la condizione che trasforma qualcuno in straniero. È solo nel momento in cui il mondo romano si limita che l’ospite (hostis indicava in origine colui a cui si era legati da uno scambio di doni reciproco, quindi una sorta di “equivalenza”) diviene lo straniero ostile, il nemico. Solo quando alle «relazioni di scambio tra clan e clan sono succedute le relazioni di esclusione da civitas a civitas», lo straniero perde il carattere il carattere favorevole avuto fino a quel momento. L’opposto di quanto accade per i greci, dove la nozione di xénos specifica solamente la natura “non-nazionale” dello straniero. Piero Zanini, in Significati del confine (pag. 60) Un intervento artistico «L’erranza e la deriva sono la fame verso il mondo, sono ciò che ci spinge a tracciare percorsi attraverso il mondo. La deriva è anche la capacità del soggetto di essere disponibile a tutti i tipi di migrazioni possibili. La “drive” è una parola che viene da deriva e che è diventata una parola creola. La “drive” è la fatale, insopprimibile tendenza al movimento e insieme, l’incapacità a imporre, a decidere d’imperio. E l’erranza è ciò che spinge il soggetto ad abbandonare i pensieri del sistema e a sostituirli con pensieri di indagine del reale, pensieri di spostamento, che sono anche pensieri di ambiguità e di incertezza che ci preservano dai pensieri di sistema dalla loro intolleranza e dal loro settarismo.» Eduard Glissant, Introduction à une poetique du divers Stalker invita pubblicamente chiunque, a dichiarare le proprie origini, risalendo ove è possibile alla quarta generazione. 130 anni fa ad esempio Roma contava circa centomila abitanti, a fronte dei tre milioni di oggi: immigrati, almeno in origine, lo siamo tutti o quasi. Le testimonianze raccolte costituiranno una mappa sulle origini e le migrazioni di italiani e non. Siamo tutti stranieri. Stalker, Laboratorio d’arte urbana (Roma) http://www.stalkerlab.it/tarkowsky/stranieri/intro.html
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Estraniamenti Nel tentativo di indagare l’estraneità e la condizione del marittimo “costantemente straniero” e la metafora dell’estraniamento contemporaneo, ho trovato particolarmente interessante l’operazione iniziata nell’agosto 2002 da Roberto Conz, artista fotografo, stimolato dai nostri intensi scambi di e-mail sul tema del “tra” come condizione di passaggio, di attraversamento, di attenzioni rivolte ai processi in divenire piuttosto che all’oggettualità della forma. Conz ha cominciato a estrarre alcune parole tematiche dallo Zingarelli “correggendole”, ovvero facendo loro compiere alcuni slittamenti concettuali e semantici: lo scopo di questo intervento non è costruire un altro sistema ma un vocabolario in divenire che vada oltre la parola, onde «usare le figure della tautologia per farla slittare oltre sé stessa, nei luoghi della relazione». Nasce così la figura del “traduttore ipocrita", «colui che porta attraverso e com-prende entrambe [dal lat. inter ambos “con l’uno e con l’altro”] le logiche. A chi importa di entrambi e perciò non può scegliere. Ma non potendo scegliere non può tra-durre. Oppure? Scriverà un libro di scarti (ciò che è stato escluso nelle scelte)». Il concetto di ipocrisia, nel suo corrispettivo slittamento, diventa il momento in cui la povera, bassa (ipo) capacità di scelta e selezione (crisis) definisce la possibilità di ospitare il molteplice, il plurale, ossia gli “altri” oltre il “se stesso”. Parlando quindi “strutture di accoglienza per estranei” come lo può essere il seamen’s club, va fatto notare come nel termine stesso di “struttura” sia implicita una selezione fornita dal sistema; Foucault a proposito dichiara: «si nominerà, non già prendendo come punto di partenza ciò che si vede, ma gli elementi che la struttura ha già fatto passare all’interno del discorso. […] Ogni differenza che non verterà su uno di tali elementi verrà ritenuta indifferente. […] Analogamente ogni identità che non sia quella di uno di tali elementi non avrà valore per la definizione. […] Il sistema è arbitrario, dal momento che trascura, volutamente, ogni differenza e ogni identità non riferibili alla struttura privilegiata». In modo curioso ciò porta a galla l’apparente ossimoro esistente tra i termini “struttura” e “accoglienza”. Le parole che seguono sono, nell’ordine, la spiegazione dello Zingarelli e lo slittamento elaborato sul significato.
Estraneo [vc. dotta, lat. extràneu(m) “di fuori”, da extra “estra”] agg. 1 Che appartiene a Stato, società, ambiente o famiglia, diversi da quelli cui appartiene chi parla. 2 est. Che è al di fuori di un luogo. 3 Che ha natura, struttura, significato diversi da quelli dell’oggetto o dell’elemento considerato. Estraneo [vc. dotta, lat comp. di est “è”, trans- “attraverso”, di origine indeur. e “neo” dal gr. néos “nuovo”] agg.1 Colui che è appena giunto, “nuovo”, tra gli abitanti di un luogo.
(Questo materiale è stato utilizzato per gentile concessione di Roberto Conz, ne è vietato l’utilizzo senza il permesso dell’autore).
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territori immaginari «Within the present context, one of the experiences of contemporary geography is the crucial metamorphosis that cities are undergoing: they are areas of transition, where the old and the new intertwine and get blurred. Vast migratory flows are changing the world’s urban dimension, transforming both the places of departure and the destinations. At the same time, new types of “nomadic” communities are experimenting with different forms of temporary settlements, either in dialogue or in contrast with traditional urban settings. We are witnessing the emergence of a multi-layered map where these flows, micro-communities and subcultures come together, reshaping the cityscape.» Documenta11_Education Project Con questa topica si è aperta, il 17 luglio 2002, una public chat a Documenta11 (Kassel, Germania) il cui tema di discussione, intitolato “Cityscapes and Imaginary Territories”, evidenziava ancora una volta la necessità di munirsi di nuovi strumenti di analisi e nuove forme di interazione per chi opera nel campo della ricerca culturale, artistica e sociale nello scenario attuale. Su invito del Documenta11_Education Project, organizzatore della discussione, ZonAnomala ha portato in tale contesto l’esperienza della ricerca artisticosociale sulla realtà dei marittimi condivisa con il gruppo artway of thinking e il prossimo progetto Relation:Ships che li vedrà coinvolti a Panama da febbraio a marzo 2003 assieme a Roberto Conz (artista fotografo), Valter Zanin (sociologo) e Piero Zanini (architetto). Il lavoro che i gruppi artistici hanno cominciato nel 2001 era principalmente mirato alla conoscenza, all’informazione e alla sensibilizzazione riguardo tale realtà partendo dalla situazione veneziana. Una realtà globale ante-litteram, come si è detto, ma che allo stesso tempo si trova in uno stato di esclusione, sospensione dalla vita sociale, o piuttosto in una ridefinizione e ricomposizione temporanea: una condizione di lavoro e di vita estrema a bordo delle navi che tuttavia genera condizioni e necessità comuni, che vanno oltre le differenze individuali e di nazionalità. La domanda che va ora posta è se con peculiarità altrettanto trasversali è anche vero che questa condizione di coabitazione “forzata” possa dar vita a un’identità nuova in cui riconoscersi, certo vissuta in un margine labile (temporaneo e dal carattere eterogeneo), ma comunque caratterizzata dalla condivisione di situazioni codificabili. Queste a loro volta disegnano un quadro che dimostra l’esistenza di una territorialità vera e propria che è altra rispetto a quella di gran parte della terraferma: instabile, temporanea, nomade, multietnica, globale. Forse dovremmo anzi parlare di “extra-territorialità”: la composizione degli equipaggi è multi-etnica, la moneta di scambio non è sempre il dollaro o la valuta nazionale, come non è comune il linguaggio per comunicare e incerto è anche il profilo normativo. Un vero e prorio “territorio immaginario”: «“…chiamiamo terrestri quelli che non navigano, perché noi ci sentiamo extraterrestri”»1. Con il termine territorialità è inteso il senso di appartenenza e appropriazione di uno spazio o di un ambito, di norme (anche non scritte) e di cultura in senso più vasto. Esiste quindi la cultura dei marittimi? Se sì questo può essere verificato dai valori che tale cultura mette in gioco, valori per cui le navi - intese oltre il loro significato strutturale, bensì come spazio collettivo in cui si innescano relazioni e dinamiche, situazioni e processi - diventano vettori di circolazione, trasferimento, diffusione. In sostanza, qual è il nomos, l’oggetto di condivisione che identifica questa cultura apparentemente marginale? L’attenzione verso i valori umani è indispensabile, dal momento
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che è proprio la simile o differente composizione di valori che determina più o meno riusciti “incastri” tra differenti etnie e costumi. Un valore sembra essere l’elemento primo dell’autoaffermazione della dignità umana, qualcosa di vitalmente connesso a questioni di necessità prime, la sopravvivenza, ma anche di interessi razionali, oppure nel superamento del significato darwiniano di evoluzione e nella tensione verso la ricerca di un mondo migliore, come ha scritto il filosofo Karl Popper. I valori in sé sono in larga parte comuni a tutti gli uomini, ma si collocano in modo più o meno eterogeneo nella graduatoria personale, disegnando ogni volta una composizione differente (=società e comunità differenti): sono il DNA della società, ne sono le componenti proteiche, la cui variazione dispositiva genera organismi sociali differenti e il cui spostamento partorisce mutazioni culturali. In tal senso gli armatori delle navi, talent-scout su scala globale, compiono esperimenti di “ingegneria della genetica sociale” andando a reclutare le etnie disponibili sul mercato meglio adatte a coabitare in spazi ristretti e a sopportare la lontananza da casa per lunghi periodi di tempo. Questo fa delle navi autentici laboratori multi-etnici e multi-culturali che anticipano, forzano e mettono in crisi processi che stiamo vivendo anche noi, gente di terraferma, in contesti differenti e allargati. È ciò che ci permette di capire anche se la nave è solo uno spazio atopico (un non-luogo) o se invece nella sua accezione di “luogo di relazione forzata” può presentare caratteri di territorialità, seppur immaginaria, e quindi più propriamente di “luogo” oltre il suo significato spaziale. Nell’impossibilità pertanto di tracciare una mappatura fisica di questo territorio instabile e mobile, praticamente un paradigma del principio di indeterminatezza di Heisenberg (padre della teoria quantistica), un’operazione possibile è tentare di individuare le stelle polari per orientarci in un mare magnum altrimenti difficilmente comprensibile: questi punti di riferimento sono i valori e le relazioni sottese, materiale invisibile di architetture sociali. Capire quest’aspetto è vitale anche per chi si occupa di architettura costruita, poiché è il conoscere una determinata scala di valori che può dare valore all’architettura e definire, forse, un’architettura di valore. Nel seguente tentativo di rintracciare i valori della comunità nomade dei marittimi va detto che spesso gli stessi sembrano scaturire per contrasto alle condizioni estreme di vita a bordo; la complessità delle situazioni porta per alcuni di essi a definire dei “sottovalori” che dimostrano contraddizioni e comunque difficoltà nel riportarli sotto un’unica precisa categoria, essendo a volte trasversali. 1 V. Longo, G. Merotto, D. Sacchetto, V. Zanin, I lavoratori marittimi. Profili sociali e nuove domande di servizi
1. Il lavoro Sembra tramontata l’idea che ci si imbarchi alla ricerca di una vita avventurosa. Per lo più il motivo stesso che porta migliaia di individui ad affrontare un mestiere faticoso come quello del marittimo è la necessità di trovare un impiego con disponibilità immediata, magari anche senza eccessivi requisiti professionali: il lavoro è così generalmente vissuto come faticoso accesso alle risorse per la sopravvivenza. Un lavoro che è un’unica cosa con il tempo libero (che quasi non esiste) diventa uno status sociale, un valore soprattutto nel momento in cui si esige un riconoscimento umano, sindacale, normativo che è il valore stesso della dignità e della lotta per mantenerla. 1.1 Ordinamento gerarchico, disciplina “Captain’s word is law”. Il rispetto delle gerarchie nella nave assume un carattere molto simile a quello militare. Il marittimo rispetta i comandi dei superiori senza che vi sia necessariamente il bisogno di particolari spiegazioni. Il rispetto ferreo di queste impostazioni dove il comandante è, nel bene e nel male, la figura che può decidere le sorti dell’equipaggio, è essenziale per il corretto funzionamento dell’imbarcazione e delle attività che al suo interno si svolgono.
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1.2 Benessere sociale È un mestiere che segue le migrazioni della ricchezza su scala globale. Negli anni ‘60 erano in gran parte italiani i marittimi imbarcati sulle navi, qualunque fosse la bandiera battente. Ora il panorama vede le marinerie asiatiche giocare un ruolo da protagoniste in tal senso. Fatta eccezioni per gli ufficiali (in futuro prevalentemente filippini) non è cosa consueta che un individuo si dedichi a tale mestiere per molti anni. Alcuni guadagnano molto bene a discapito della durezza della vita e recepire tali guadagni significa poter garantire a sé stessi e alla propria familgia un’esistenza dignitosa. 2. La famiglia (la casa) Spesso la scelta di questo lavoro, anche se può sembrare contraddittorio, è finalizzato alla sopravvivenza della propria famiglia. È noto infatti che la maggior parte delle persone che scelgono tale mestiere vive in paesi appena affacciatisi sul mercato globale o in piena crisi economica. La lontananza da casa, che dura per mesi ininterrottamente, amplifica questo valore, dettando tra le necessità più sentite per un marittimo che sbarca per qualche ora in un porto quella di comunicare con la propria famiglia, sia essa costituita dal nucleo tradizionale moglie-figli come pure la fidanzata, i genitori, gli amici. La frequente richiesta di spedire denaro a casa testimonia l’importanza di questo legame che costituisce poi l’ultimo baluardo dell’identità personale, all’interno della propria cabina, in un mondo di soli uomini e con rapporti interpersonali di scarsa qualità. Succede poi anche che questa lontana presenza venga temporaneamente dimenticata al momento di scendere nei porti di scalo. La famiglia è infatti anche fonte di conflitto interiore nel momento del ritorno e della permanenza a terra, forse rappresentando la perdita dell’indipendenza e della libertà, ma soprattutto perché la lontananza può alimentare aspettative di vita che possono anche non corrispondere alla realtà. 3. La sicurezza , la salute, l’amore per la vita In un ambiente pericoloso, continuamente soggetto ad allarmi ed emergenze, sovente senza un medico a bordo, spesso sbarcando in porti pericolosi, la salute diventa il bene primario da conservare. È la salute anche mentale in un ambiente estremamente gerarchizzato e fordista, di soli uomini. 3.1 L’habitat e la qualità della vita Chi vive esperienze simili conosce bene qual è il valore del benessere oltre che monetario anche fisico e psicologico. Questo può essere raggiunto solo in un luogo accogliente spesso simboleggiato dall’ambiente domestico o il seamen’s club che ne è l’avanposto. 4. La fede religiosa Il credo religioso è qualcosa che accompagna dagli albori chi affronta il mare per sopravvivere, mischiandosi con superstizioni e credenze. Il mare è un entità dinamica, misteriosa, generosa ma anche spietata e l’assistenza di forze trascendentali che possano aiutare il marinaio a proteggersi da tale immanenza diventa fondamentale, trovandosi immerso in un ambiente che scandisce la sua vita e che può deciderne le sorti. La fede però diventa anche il sostentamento spirituale alle difficili condizioni di vita: il lavoro duro e la lontananza da casa conducono le preghiere alla famiglia distante e in condizioni sconosciute. Non è secondario poi il fatto che siano proprio gli operatori religiosi (Stella Maris, Sea Mission) le prime e a volte le uniche persone ad occuparsi dei loro requisiti. 5. La terra “Scendere a terra è per noi sentire che contiamo ancora qualcosa nella società” sono le parole di un marittimo. In mare la terra diventa un sogno, perché è il valore della meta da raggiungere, della sicurezza, della stabilità e della possibilità non secondaria di scambiare due parole con qualcuno che non appartenga all’equipaggio. È sicuramente diverso dal senso della terra che ha il contadino (valore primario della natura che fornisce la fonte
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di sopravvivenza). La terra del marittimo è il luogo dove poter “staccare” dall’ambiente lavorativo, dove poter comunicare con casa, dove poter soddisfare le più svariate esigenze tra le quali trovare momenti di svago e allargare gli spazi della propria privacy. 6. Le relazioni interpersonali In un luogo di relazione forzata come la nave dove spesso mancano le relazioni interpersonali di qualità (a volte persino disumane), un contatto umano più profondo diventa risorsa di equilibrio e armonia. Si consideri poi cosa possa significare vivere in un mondo di soli uomini: il solo fatto di vedere una donna può anche essere semplicemente fonte di gioia interiore e non necessariamente solo l’idea della soddisfazione di un istinto sessuale. 6.1 L’equipaggio (comunità) Non è necessariamente detto che lavorare per mesi spalla a spalla implichi la ricerca di qualche legame d’amicizia o il desiderio di conoscere l’altro; al contrario la temporaneità della composizione dell’equipaggio può spingere a non ricercare per niente questo tipo di approfondimenti. Però è anche vero che lo spirito della comunità si fa tanto più sentire tra connazionali (a volte l’unica possibilità di comunicare, in un ambiente senza “lingua ufficiale”) e che lo spirito di comunità è risvegliato dalla condivisione delle avversità e nel fare fronte comune tanto nei casi di emergenze a bordo (una mano lava l’altra) tanto nei casi di riconoscimento della lotta sindacale. 6.2 Privacy e individualismo Per contro il fatto di vivere costretti assieme in un luogo angusto per molto tempo e sottoposti a ritmi di lavoro a dir poco impegnativi, conduce frequentemente a scavarsi un proprio spazio personale off-limits che comincia nella cabina, la quale custodisce i ricordi e i segreti del marittimo, per proseguire in un atteggiamento di autodifesa e chiusura interiore, magari anche di egoismo. 7. La vita di mare, la scoperta di nuove situazioni Volente o nolente, nonostante non costituisca frequentemente lo stimolo principale nella scelta di un lavoro d’imbarco, questo elemento affascinante, sterminato e misterioso che è il mare entra prepotentemente nelle vite dei marittimi. È la parte romantica del vivere e lavorare per mare, che al di là delle logoranti difficoltà permette di intraprendere nuove situazioni in una condizione di viaggio ormai irripetibile per i più, abituati a vedere le cose in televisione per poi raggiungerle con poche ore d’aereo. Il mare è anche l’elemento naturale che rappresenta l’immersione nella natura, oltre che l’isolamento e il rischio costante a cui si è sottoposti durante la navigazione. Il mare è come il deserto, ma a differenza di questo è vivo, in continuo mutamento e carico di sorprese. Bisogna tuttavia evidenziare il fatto che pochi oggi sembrano potersi permettere tale concezione del vivere la realtà da marittimo: la nave commerciale è forse l’ultimo luogo dove si consuma ufficialmente un esasperato fordismo: l’automazione in nave ha ridotto drasticamente gli equipaggi a 15, 20 persone al massimo aumentandone i ritmi di lavoro, mentre l’automazione nei porti ha ridotto i tempi di carico e scarico delle merci con la conseguente diminuzione dei tempi di permanenza nei porti. Non va dimenticato neppure che il settore marittimo è stato l’ultimo tra i settori industriali ad abolire le pene corporali per i lavoratori.
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Sui valori (una e-mail) «Ognuno auspica una globalizzazione a sua misura e rispettosa delle sue condizioni. Il Nord vuole scambiare denaro, servizi, progetti, insomma tutto ciò che è immateriale, mentre il Sud vuole scambiare merci e uomini; l’uno e l’altro sono invece restii a scambi che implichino fede e valori» Abdallah Laroui Formulare una situazione dove sia possibile ragionare sulle possibilità offerte dalla conoscenza (intanto) dei valori, poi lo scambio e forse l’integrazione. A Panama per a/estrarre una metafora del passaggio, “cartine tornasole” e “ganglio nervoso molto nervoso” come diceva Roberto, o piuttosto come “fluido di contrasto iniettato nei tessuti corporei”, come mi è solito dire. Scoprire se è possibile tornare a parlarsi, scambiare valori, convivere in definitiva senza dover perpetrare l’assolutismo del “sacrificio identitario”, quanto piuttosto di un passaggio mentale attraverso la crepa nel muro (del ghetto volontario) dell’autodifesa, per colmare la crepa che c’è TRA di noi, scalando lo SCARTO che divide i nostri livelli. Giocare quindi con i valori come particelle essenziali, atomi, e comporre nuovi vocaboli, un alfabeto intercambiabile ma pur sempre fondato su lettere comuni e inscindibili. Vedo i valori come stelle e le culture come costellazioni. Le stelle sono distribuite nello spazio tridimensionale e non su un piano. Noi vediamo orse maggiori, divinità, raffigurazioni zoo/antropomorfe perché le proiettiamo su un piano XY, il nostro piano, ma se ci spostiamo dal nostro pensiero cartesiano, viaggiando nello spazio TRA, possiamo ammirarne la composizione tridimensionale, la composizione cristallina che rimanda infinite immagini a seconda da dove le guardiamo: cambia il punto di vista. Ma rimane il comune denominatore delle componenti. I n/vostri valori ri-disegnano il territorio dell’azzeramento da cui ri-partire. From: “Diego” <segatto@zonanomala.org> To: “artwayofthinking” <artway@tin.it>, “Fabrizio Berger” <faberger@zonanomala.org>, “Roberto Conz” <roberto.conz@tiscali.it> Subject: spots varie Date: Sun, 18 Aug 2002 15:32:14
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intervista a Emilio cap. Gamba Ex-marittimo e attuale presidente degli agenti marittimi del porto di Venezia (27.04.2002)
Diego Segatto: Le domande che le rivolgo sono indirizzate a ripercorrere le sue esperienze di marittimo, mi interessa sapere di più sulla cultura di chi percorre il mondo per mare,…e per lei che ha navigato tanti anni, cosa ha significato vivere e lavorare per mesi, anni in nave dal punto di vista umano, psicologico e sociale? E naturalmente cosa ha visto anche negli altri… Emilio Gamba: Devi pensare che io ho cominciato a navigare in un periodo particolarmente difficoltoso, nel senso che per noi marittimi italiani (parlo dei primi anni ‘60…anche prima andavo a navigare da bambino con mio padre, poi ho cominciato a fare l’allievo ufficiale dal 1961), quegli anni erano particolarmente difficoltosi, non era facile trovare posto di lavoro…a quell’epoca i contratti erano di 18 mesi, quindi… D.S.: …era difficile trovare posto di lavoro in nave o in generale? E.G.: …in nave, in nave ma forse anche in generale, però diciamo che a bordo delle navi avevamo una flotta relativamente grossa, nel senso che non c’era stata ancora una ricostruzione perché in guerra abbiamo perso quasi tutta la flotta…allora noi altri italiani avevamo una preparazione anche molto buona (e costavamo poco), eravamo non dico corteggiati però eravamo invitati ad andare su navi cosidette di “bandiera ombra”, e quando si parla di “bandiere ombra” normalmente si pensa sempre alle carrette…ma praticamente ci trovavamo a quell’epoca con, effettivamente, delle scuole nautiche validissime che sfornavano parecchi allievi ufficiali e non c’erano possibilità di sbocco su navi italiane, percui molti di noi sono andati a navigare con queste bandiere ombra…che poi bandiere ombra come dicevo non si deve pensare a navi substandard cioè navi obsolete, anzi! A quell’epoca erano le più belle navi che venivano costruite, perché praticamente sono stati gli americani con la bandiera liberiana che con costi molto ridotti mettevano in atto flotte grossissime con navi modernissime dove impiegavano di regola quasi tutti equipaggi italiani, equipaggi italiani che sapevano il loro fatto…io ho cominciato così, anzi avevo cominciato come allievo ufficiale sulle navi dell’Adriatica, però come tutti quanti gli allievi ufficiali se poi vogliono fare carriera a lungo corso devono andare a navigare fuori degli stretti, per cui ho dovuto lasciare l’Adriatica e imbarcarmi su queste navi per poter fare la navigazione fuori degli stretti e gli esami necessari. La mia esperienza di marittimo imbarcato su navi di “bandiera ombra” sotto certi aspetti è stata un’esperienza molto positiva, la vita a bordo, la disponibilità…e si guadagnava bene, si viveva bene…quello che si sentiva era la lontananza da casa, dalla famiglia…ricordo anche il disagio molto grosso quando non conoscevamo la destinazione del porto dove dovevamo andare, ci veniva comunicata durante la navigazione, il che metteva in crisi la comunicazione con le famiglie, perché l’unico metodo per comunicare erano le lettere; il telefono è stata una conquista che è arrivata dopo, perché (e lo faccio ancora come esempio adesso, quando sento e vedo quello che si fa con i telefonini) devi pensare che quando navigavo ancora con l’Adriatica ed ero allievo ufficiale spendevo tutto quanto il periodo di franchigia, che erano quattro ore in cui stavo a terra, solo per poter telefonare a casa, mi ci volevano quattro ore, che a volte non mi bastavano, per ottenere la linea per poter comunicare con casa…quindi fondamentalmente il principale mezzo di comunicazione per mettersi in contatto erano le lettere, che poi se lo raffrontiamo con quello che c’è oggi è anche ottimo, perché in qualsiasi posto del mondo ricevevo le lettere in quattro giorni, che poi rimanevano magari un altro mese ad aspettare la nave, però il tempo che impiegavano ad arrivare era quello, io mi ricordo anche a Tumaco in Colombia che era un porticciolo sperduto sulla costa del Pacifico mi arrivava in quattro giorni. Però la lontananza era un problema grandissimo, la nostalgia della famiglia. Ecco quando io oggi sento dei marittimi
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che non hanno una tradizione marinara, che però si stanno affacciando e stanno marciando in una maniera impressionante, tipo i filippini, mi ricordo che quando ero ancora primo ufficiale avevo un comandante che era sbarcato ed era andato nelle Filippine a fare il professore in un istituto nautico di un accademia per poter preparare i primi allievi ufficiali…e se guardiamo adesso abbiamo navi comandate da filippini in tutto il mondo…praticamente noi italiani abbiamo insegnato il lavoro a quelli che poi c’è lo hanno portato via, cioè c’è l’hanno portato via perché noi non abbiamo più voluto fare quel mestiere…anche perché essendo un mestiere di grandissimo sacrificio e non c’è un compenso adeguato, penso che questa sia la ragione per cui la maggior parte di chi entra nell’istituto nautico poi va nelle università e poi si dimenticano il mare, anzi più che dimenticarsi non provano nemmeno quell’esperienza perché provarla significherebbe fare grandi sacrifici…sì, le tecnologie sulle navi son cambiate da matti, però la vita a bordo in fondo rimane sempre quella, sempre più dura e io penso che sotto certi aspetti sia diventata ancora più dura, perché mentre quando navigavo io c’era la necessità di navigare su una nave di medie dimensioni, diciamo una nave da trentamila tonnellate, c’erano trentasei persone di equipaggio; una nave oggi dello stesso tonnellaggio naviga con meno di venti persone…se poi è una nave moderna, dove ha gli automatismi all’esasperazione addirittura si naviga con meno, con dieci persone…lo sviluppo tecnologico ha reso possibile questo ma la vita di bordo è diventata alienante, più di quello che era una volta. Già trentasei persone è una comunità, e stare mesi e mesi in mare diventava un problema, immagina adesso che sono in pochi e addirittura possono svolgere solo le funzioni di guardia e forse neanche si vedono. Della vita di mare ho un ricordo piacevole e spiacevole allo stesso tempo…i ricordi piacevoli sono legati al lato romantico della navigazione, vedere posti che magari avevi sentito solo nominare…per esempio mi ricorderò sempre delle emozioni nel vedere cose nuove…o persino l’odore della Malacca o la prima volta che sono stato in Giappone, per arrivare in Giappone dal Golfo Persico ci mettevamo quindici giorni: la meta era agognata! Non come adesso con l’aereo che in un attimo sei lì, che non ti sembra nemmeno di esserti spostato. Finalmente si arrivava…non so se rendo l’idea, quindi era quasi una conquista il porto d’arrivo, era quasi una scoperta, qualcosa che oggi molto probabilmente si è perso. Quello era il lato positivo, poi il lato negativo (e batto di nuovo sul discorso) è la lontananza dalla famiglia: ecco, qualsiasi cosa che si possa pensare di fare per i marittimi nell’ambito del porto è rendergli facilitata ogni possibilità per contattare la famiglia (e oggi ci sono i mezzi) e, una volta contatta la familglia che è la prima necessità che ha questa persona per combattere la nostalgia e la lontananza che è terribile, che per combatterla per me l’unica cosa è avere qualche struttura che li possa un pochettino distrarre, non solo con giochi (cose che tuttosommato si possono produrre a bordo), ma soprattutto con il lato umano. Ricordo che si entrava in fibrillazione ad esempio quando arrivavamo in un porto russo e venivano a bordo a prelevarci per portarci nei Seamen’s club…erano organizzatissimi anche perché facevano propaganda ma noi ce ne fregavamo della propaganda! Sapevamo che arrivavamo e là c’erano delle belle ragazze che ci venivano a prendere, ci portavano al Seamen’s club e là era un posto dove si conversava, si parlava…comunque c’era una presenza femminile molto sentita: a quell’epoca le donne non navigavano, non c’erano a bordo delle navi mercantili, solo sulle navi passeggieri. Poi ho avuto l’occasione di lavorare a terra una volta diventato comandante, la paga era un terzo di quella a bordo ma ci ho guadagnato nel tipo di vita, il tempo per la famiglia…e ho avuto il coraggio di rinunciare a determinate cose e partire per un’avventura nuova. Mi è andata bene… D.S.: Una volta mi aveva parlato anche di alcune “discrepanze” tra i privilegi giuridici del capitano a bordo e la sua effettiva partecipazione alla vita sociale del paese…cioè come l’impossibilità di votare a bordo… E.G.: Ah bè! Sono state due le cose che mi hanno fatto decidere all’età di trentacinque anni di mettermi a terra…per il fatto di non poter votare era una ribellione, nel senso che io come comandante in una nave avevo dei poteri, avevo delle prerogative che nessun altra figura può ricoprire nella società civile, perché non esiste nessuna figura che ha i compiti che ha un
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comandante, addirittura quelli di medico! Perché devi pensare che anche la responsabilità della salute della gente a bordo, trentasei persone, trentasei capi famiglia che sono nelle mani di una persona che non è un medico che deve curarsi della salute di quella gente per mesi e mesi, cioè la possibilità di intervento è una delle responsabilità. Poi, specialmente quando navigavi con bandiera italiana (cioè un pezzo d’Italia che navigava) con la bandiera di poppa, non solo: in cassaforte avevi le istruzioni in caso di belligeranza di cosa dovevi fare, avevi delle responsabilità enormi, e nel momento che c’era da votare? Tu non potevi votare! Allora non avevi più quella carica che rivestiva tutto, non potevi dire “facciamo un seggio a bordo”…no, non si poteva, e ancora oggi che siamo nel 2002 i marittimi non votano, eccetto quando sbarcano in un porto italiano, salvo lungaggini burocratiche…praticamente i marittimi sono tagliati fuori dal mondo. Oggi sono pochi quelli rimasti in Italia, però a quel tempo eravamo abbastanza…e non votavamo. Poi c’è un’altra cosa, che è venuta fuori anche oggi perché si parla tanto dell’articolo 18, se è stata una conquista per i lavoratori (siccome non è stata fatta alcuna distinzione fra il lavoratore in mare e il lavoratore a terra), porti lo statuto dei lavoratori a bordo ma le condizioni di lavoro sono totalmente diverse perché non puoi paragonare il lavoro che si fa su una nave con quello che si fa a terra perché le situazioni d’emergenza in nave sono praticamente quotidiane…là ti trovavi a scontrarti con il marittimo che ti diceva “non voglio farlo…non me la sento”, metti che si bruciava una lampadina, non potevi obbligare un marinaio di andare a cambiare la lampadina di navigazione, in cima all’albero maestro, se lui ti diceva che non se la sentiva, o mandavi un altro marittimo o dovevi andare te. Poi dimmi in che condizioni devi decidere di continuare a navigare: allora, tieni conto che io ho fatto servizio sulle petroliere…ho avuto colleghi che lavorando, scaricando senza nessuna responsabilità hanno fatto inquinamento perché si è rotta la manichetta perché è venuto un colpo di vento, si sono trovati arrestati, portati in galera…ma non una galera in Italia! In un paese africano! E allora dico, devo rischiare la galera perché devo portare il petrolio in giro e lo devo scaricare, nel momento che lo scarico mi può succedere che si rompa una manichetta, se faccio inquinamento intanto mi portano in galera (quando arriverà la cauzione da parte dell’armatore mi molleranno)…quindi rischi del genere. Dopo, diritti civili pochi, marinai che si rifiutano di fare il proprio perché dicono che non se la sentono (ma allora che cosa sei venuto a fare il marinaio se non puoi andare in cima all’albero, vai a fare il panettiere!)…ecco, tutte queste cose messe insieme facevano sì che una persona come vedeva la prima opportunità si metteva a terra, e una volta a terra era difficile ritornare al mare perché erano sacrifici enormi. Beh, io penso che oggi i marittimi che hanno rimpiazzato noi abbiano ancora le stesse condizioni a bordo delle navi e sotto certi aspetti ancora peggiori. D.S.: Anche perché sembra che oggi ci sia meno personale specializzato, o meno di quanto ce ne fosse un tempo… E.G.: Purtroppo a bordo delle navi, stando alle attuali regole internazionali stabilite dall’IMO [International Maritime Organization, nds] e quindi se uno va a leggersi tutte le regole…che dicono come dev’essere fatta una nave, che requisiti deve avere…beh, e poi andiamo vedere le regole ultime sulle certificazioni del personale, sulla carta sono tutti dei super esperti! Perché tutti devono avere una pila così di specializzazioni, però è tutta roba sulla carta… percui ci si trova con del personale assolutamente substandard come sono substandard le navi. Ti puoi immaginare? Personale substandard, navi substandard, che cosa può succedere? Abbiamo delle navi oggi che navigano che sono peggio di quando andavamo in mare quarant’anni fa! Nonostante tutte le regole abbiamo ancora navi (non tutte eh!) che sono veramente pericolose. Ti voglio fare un esempio per dirti di quanto sia scaduta la sicurezza a bordo delle navi: una nave anche piccola (di 1500 tonnellate) una volta aveva l’obbligo di avere il radiotelegrafista a bordo, a bordo della nave c’era una stazione radio, una persona che non aveva altro incarico e solamente che fare ascolto e tenere i contatti con le stazioni costiere, con le altre navi, questa persona era praticamente quella che a bordo delle navi (specialmente quando eravamo in oceano, al di fuori da tutto) magari perdeva una notte intera per riuscire a fare una comunicazione, per riuscire a mandare
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un telegramma, per riuscire ad avere qualche informazione. Ebbene, sempre per la solita questione di risparmiare, di ridurre gli equipaggi i radiotelegrafisti sono stati tutti sostituiti, non rimpiazzati! Ma si è fatto fare ai comandanti o agli ufficiali di coperta una esame non di radiotelegrafista ma di telefonista, ma un esame per modo di dire! Molto approssimativo…e si è installati a bordo una specie di telefoni che magari non sanno usare, perché poi cambiano anche da nave a nave. Cioè gli si è dati a bordo degli apparecchi radio dove non si comunica più con l’alfabeto morse (che era anche una cosa particolare)…e in teoria andrebbe bene se a bordo ci fossero delle apparecchiature di facile operatività con una persona in grado di usarle come fosse una persona che prende il telefono e comunica, ma non è così. Se io oggi voglio comunicare con una nave diciamo da tre o quattromila tonnellate che si trova in questo momento in adriatico, io non posso comunicare: può comunicare in caso di emergenza, si usa solo in caso di emergenza! Se avevo voglia di telefonare a casa venti o trent’anni fa andavo dal telegrafista che si metteva là, faceva due o tre ore (quello che era) per provare a fare un “ponte” e riuscivo delle volte a parlare anche dalla nave. Oggi con le navi se sono sotto costa comunichi perché hanno dato magari a bordo al comandante il telefonino GSM, altrimenti te lo dimentichi. Invece di fare i passi avanti hanno fatto i passi indietro. Io questo lo sto dicendo dappertutto. Personalmente io come lavoro di agente marittimo ho necessità di contattare la nave. Allora, ci sono navi attrezzatissime che hanno di tutto, hanno telex, addirittura la mail, hanno tutto perché hanno un impianto, che però non è obbligatorio. Per certe navi quello che è obbligatorio è questo apparecchietto che serve solo praticamente per le emergenze, non sei in grado di comunicare, non sei in grado di dire al comandante “dove sei, cosa fai?”, “mi puoi dire esattamente quando arrivi?”, è lui che ti deve comunicare e delle volte non ci riescono. Abbiamo fatto passi indietro su questo, anche se adesso c’è una tendenza, con i controlli che si stanno facendo, a rendere le navi più sicure. Però da una parte c’è questa tendenza a renderle più sicure con visite più frequenti…non so se hai mai sentito parlare del Memorandum di Parigi, che è praticamente una convenzione firmata dai paesi più importanti del mondo, dove tutti i paesi si impegnano a fare dei controlli accurati a bordo delle navi per verificare se queste sono tenute sotto tutti i profili (e questo è molto importante) non solo della navigabilità ma anche della vivibilità, cioè se la nave ha tutte quante quelle prerogative indispensabili perché a bordo si viva una vita sicura e una vita anche decente: che per gli equipaggi ci sia pulizia, che non manchino determinate provviste, che non manchino un minimo di comfort…ecco, hanno firmato questa convenzione, stanno facendo i controlli e le navi che non entrano dentro quei parametri stabiliti vengono bloccate. E questo è secondo me l’unico sistema per potere gradatamente aumentare la sicurezza e anche la vivibilità delle navi, cioè rendere le navi non solo una prigione come lo sono per certi. Perché se si sale a bordo di certe navi albanesi che stanno in certe condizioni! Ci sono navi che appena arrivano al porto staccano tutto e rimangono con il lumino fuori! Queste cose un poco alla volta spariranno ma ci sono ancora. Ci sono navi addirittura che non hanno nemmeno il sapone per poter lavare la roba, non hanno nemmeno il frigorifero, non dico non hanno neanche l’aria condizionata, non hanno neanche i ventilatori! Immagina una nave di ferro sotto il sole d’estate: diventa una bara! È da spararsi, d’estate su una nave che non c’è un minimo di ventilazione…è da morire eh! Non si può neanche entrare…te lo dico perché ho esperienza diretta su queste cose. Comunque queste navi che vengono arrestate possono partire solamente se fanno i lavori di conformazione. Non solo. Poi vengono seguite, cioè quelle navi entrate in questo “libro nero” diciamo, che poi è circolarizzato in Internet, come arrivano in un altro porto gli vanno a fare di nuovo un’ispezione. D.S.: È come una black-list al contrario! E.G.: È proprio una black-list, esatto…è una black-list vera e propria, e questo secondo me è l’unico modo per potere rendere la vita dei marittimi oltre a essere più sicura anche confortevole, perché non serve essere solo sicuri, la gente deve avere un minimo di comfort…sul fatto del minimo c’è da discutere e allo stesso modo non si deve cadere nelle esagerazioni come sono venute fuori che un equipaggio si rifiutava di lavorare perché non
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c’era l’acqua minerale a bordo…ecco rendere la vita a bordo più accettabile è già un passo avanti. D.S.: Ecco, io le avrei rivolto una domanda come: “di che tipo di cultura sono portatrici le vite, le esperienze dei marittimi”…ma credo che lei abbia già toccato talmente tanti argomenti… E.G.: …penso di sì insomma…ma si potrebbe sviluppare ancora tanto, ti dicevo prima dell’emozione che provavo quando andavo su un posto nuovo per me geograficamente, e ti dicevo dell’odore che sentivo come quando entravo in Malacca o in Giappone o in India, però quella era la prima sensazione cioè quella della scoperta di un posto nuovo. Però quella che era la scoperta più, se si può usare la parola “traumatica” ma non è neanche la parola giusta…che proprio ti arricchiva di più era il contatto con un mondo completamente nuovo. Oggi in un mondo globalizzato nel senso che nessuno si volta più indietro se vede un nero per strada, ma devi pensare che quando io ero un ragazzo e ho cominciato a navigare, se si vedeva un nero per strada la gente si girava…o un giapponese a Venezia non si era mai visto! Cioè, una persona di una razza diversa era impensabile e quindi chi le trovava…il primo contatto era del marittimo, quando andava in Giappone entrava in un altro mondo. Io mi ricordo quando sono andato per la prima volta in Giappone, quando sono sceso a terra…che la gente, tutte le donne mi guardavano e ridevano! Io per loro ero come una cosa strana…visto poi che son peloso! No? Mi vedevano e ridevano: heheheheheh! [il Capitano si copre il viso con le mani e imita la risata delle giapponesi…provocando molte risate! nds]. Ecco, avevi l’impressione di andare in un posto come il Giappone di quell’epoca e scoprire una vita completamente diversa. Oggi secondo me la stessa cosa succede a quel marittimo del Bangladesh che si imbarca su una nave di quelle che arrivano a Venezia e arriva per la prima volta in Europa o negli Stati Uniti e si trova davanti un mondo che è completamente diverso da quello che è il suo. Esperienze del genere penso che siano la parte romantica del navigare, cioè questo “scoprire”…questo perché come marittimo ho avuto la fortuna di andare in paesi che a quel tempo non si pensava neanche lontanamente di vedere, di andare in Giappone, di andare in Russia, era impensabile di andare con altri mezzi…andare in Albania! Io negli anni ‘60 andavo in Albania dove nessuno poteva andare, neppure non dico i giornalisti ma neanche i ministri! Solo qualche ministro plenipotenziario e qualche ambasciatore, basta. Quindi vedere cose che erano precluse a tutti quanti. Eccolo il lato così…chiamiamolo bello, romantico del navigante. Forse oggi è un po’ ridotto, nel senso che oggi c’è la televisione, le immagini che vedi andando in un posto le hai già viste dieci volte magari per televisione, a quell’epoca là no…poi per certi aspetti e per certa gente penso sia una novità quando vengono qua e si incontrano con una cultura diversa. D.S.: Magari credo che scendere a Porto Marghera sia un po’ traumatico… E.G.: Oh! Qui hai toccato un punto…Porto Marghera, e te lo posso dire io con conoscenza di causa, penso che sia uno dei posti più difficoltosi per un marittimo. Perché? Tutti i porti normalmente, tranne qualche d’uno che entri e sono in contatto con la città, ma tutti sono un po’ al di fuori della città…anche se i porti antichi erano tutti dentro la città, basta andare a Genova, sbarcavi e vedevi subito la città, o Trieste. Marghera invece è un porto staccato dalla città però non è l’unico, se vai in nord Europa tu trovi lo stesso i porti staccati dalla città, ma mentre gli altri hanno fatto sì che i marittimi che arrivavano avessero dei servizi adeguati, a Marghera non c’è niente. Lo hai visto…se non ci fosse il pulmino di Padre Mario non ci sarebbe niente: grandi camminate di chilometri e uno si frega la franchigia solamente per portarsi nel bar più vicino…quindi là bisogna lavorarci sopra. La grande difficoltà di Marghera è questa, che ha un’estensione enorme. Poi non c’è solo questo: ci sono banchine che sono dentro gli stabilimenti e dentro gli stabilimenti c’è la questione sicurezza percui non ci si può muovere tranquillamente, anzi bisogna seguire determinate regole…e non è facile. Marghera è uno dei posti più brutti per un marittimo per approdare. Una volta passava davanti a Venezia e vedeva questa bellissima città…poi arrivava a Marghera e quando voleva andare a Venezia per visitarla facendo due conti non gli conveniva perché praticamente si perdeva
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tutta la franchigia solo per arrivare al pullman. Questa è la realtà. Ecco perché potendo risolvere questo problema gli si da un grandissimo aiuto al marittimo. La mobilità è un problema, perché non si può neanche pretendere che si faccia un servizio pubblico per quattro persone che passi ogni mezz’ora…perché quanto ti viene a costare? Bisogna trovare un altro sistema. D.S.: Dovendo pensare al Seamen’s club, dovendo progettare questo spazio io mi sto facendo delle domande su quali requisiti andrebbero soddisfatti. Ma partendo dalle sensazioni recepite in una nave con i sensi vorrei capire quali sono le percezioni: con l’udito, la vista, l’olfatto…il tatto. Mi spiego…crediamo tutti che il Seamen’s club debba essere un posto dove si debba stare bene, mentre la nave, da quel che ho visto e udito è un sistema ambientale estremamente opaco, spietatamente funzionale, questo vorrei capire… E.G.: Hai ragione. Oggi, specialmente a bordo delle navi, avendo ridotto il personale al minimo, uno fa una vita che è una vita da recluso, non solo in quanto non può muoversi al di fuori della nave che poi in navigazione la nave diventa praticamente la “tuga” [la parte abitabile della nave, la "torretta", nds] e non tutta la nave, non tutta…dove la vita del marinaio, normalmente è fatta di guardia…si fa le sue quattro ore di guardia e poi dovrebbe fare otto ore di riposo, però nelle otto ore deve fare anche tutte quelle cose per manutenzionare la nave, per buttare avanti la comunità…ecco, fa quattro ore di guardia e poi otto ore in cui ci sono i pranzi, deve mettere a posto, deve riposarsi (perché deve anche riposarsi no? Perché fa quattro e otto, quattro e otto…), deve fare tutte quelle mansioni che sono necessarie alla nave non dal punto di vista della navigazione ma tu capisci che in una comunità le persone possono aver bisogno di assistenza, anche medica, cioè non hai il medico a bordo ma tu gli devi dare una mano alla persona che sta male quindi in quel momento ti devi trasformare in medico…lo devi visitare, devi sentire cosa ha, cosa non ha, devi somministrargli le medicine, gli devi fare le iniezioni, queste sono le cose…Poi c’è il discorso anche fiscale, nel senso ufficiale che oggi il marittimo non viene più pagato a bordo…in qualche nave sì, su quelle navi che vengono qui a Venezia, su tante navi con marittimi extra-comunitari, là c’è ancora il soldo, cioè la paga viene data loro direttamente, materialmente, non gli viene fatto il bonifico in banca. Quindi c’è chi si occupa del lato propriamente amministrativo, e quindi anche questo si deve fare durante le ore di riposo, cioè le ore che non sono di guardia. Poi le manutenzioni degli equipaggiamenti della nave, dei motori, vengono fatte nelle ore che dovrebbero essere di riposo, che di riposo non sono. Le manovre vengono fatte in qualsiasi momento, sia di notte che di giorno, quindi è una vita veramente dura, da reclusi. Cosa si deve fare, per poter rompere, secondo me, questa monotonia? Perché, diventa una cosa così meccanica, così allucinante…devi pensare, prendiamo ad esempio la vita di un primo ufficiale: imbarca e, diciamo per sei mesi, indipendentemente dalle feste o no, lui monta di guardia alle 3.45 di mattina, smonta alle 8 (va bene?), rimonta di guardia alle 4 del pomeriggio e smonta alle 8 di sera…questo come guardia. E tutto il resto…è come un orologio, sempre le stesse cose. I diversivi cosa sono? Sono i vari problemi che possono sorgere…diventano dei diversivi, altrimenti c’è una monotonia! Tu immagina di farti una navigazione di trenta giorni…la vita viene scandita con quei ritmi…che sono secondo me gli stessi ritmi che c’hanno quelli che sono in galera. Poi ti rifugi dentro in quella che è il tuo sancta sanctorum che è la tua cabina…la tua cabina, diventa il tuo mondo…un mondo che ti estranea dalla nave…perché in cabina tu hai i tuoi ricordi…la cabina, quando hai la porta chiusa diventa praticamente il posto dove tu puoi essere te stesso, indipendentemente dal grado, indipendentemente dalle responsabilità… quindi, puoi abbandonarti allo sconforto, puoi abbandonarti, diciamo, a tutto quello che può capitare per la testa, perché son momenti che…uno dà quasi i numeri, ecco…uno può trovarsi anche a piangere qualche volta, che non crediamo eh…o perché la nostalgia è troppo forte, le preoccupazioni sono forti, o perché non si hanno notizie da troppo tempo… ecco, la cabina diciamo diventa un posto quasi off-limits per tutti, perché è il tuo regno: c’è la fotografia dei tuoi, hai i tuoi segreti, le tue cose…per tanti magari hai anche nel cassetto i libri pornografici…cioè, è una sfera privata in cui la dentro tu vivi…perché tutto il resto è
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lavoro, là è vita. Quindi, in quei quattro metri quadri…cosa può esserci di vita? Solamente i ricordi. Allora, se noi dobbiamo fare qualche cosa per questi dobbiamo fare in modo che quelle poche ore che vivono a terra siano di assoluta distrazione, e non solo…dargli qualche elemento in più da vivere per quando saranno poi in quelle condizioni, nel chiuso della loro cabina, oppure quando guardano di prua durante la guardia e rivivono tutte le cose belle della loro vita. Riuscire a fare vedere qualche cosa di bello anche nel periodo che sono a bordo, beh, sarebbe l’ideale. Come si fa? Non è facile. Perché la vita di bordo non ti permette di organizzare qualche cosa di ripetitivo…gli dai quasi come una goccia…tu lo prendi e lo porti in un Seamen’s club come ti dicevo, quando vedavamo le russe…però, passate quelle tre ore dovevi correre di nuovo a bordo ed era finito tutto. È come quello là che è morto di sete e gli dai un po’ da bere, va bene? Dopo ci rimarrà male, ma intanto…ha bevuto! Ecco. Mi sono lasciato andare qui [infatti assicuro che l’atmosfera era indescrivibile, nds]…ma ti pregherei di focalizzare e pensare molto su quello che ti ho detto sul discorso della privacy della cabina…bisognerebbe far sì che questa cabina diventasse un pochettino più larga…è difficile… D.S.: …è importante questo discorso perché…essendo così difficile in poco tempo dare qualcosa …certo l’edificio Seamen’s club è già qualcosa, ma diventa importante quello che si fa effettivamente, quello che si può lasciare, è quello che si può portar via che diventa vitale… E.G.: Comunque quello che sta facendo Padre Mario oggi…lui ha capito quelle che sono le esigenze primarie … quelle sono le necessità, quella è la goccia d’acqua che viene data. Una goccia, perché non si può risolvere il problema ma gli viene dato qualche cosa di indispensabile, di vitale per poter proseguire. Bisognerebbe avere l’idea di entrare…come in una casa, in una famiglia. E secondo me…la presenza femminile…però femminile non intesa come presenza di prostitute! Perché i marittimi quelle, se le vogliono, se le trovano! Ma la presenza, diciamo così, nel Seamen’s club, che dietro al banco invece di esserci solo un uomo ci fossero anche una o due ragazze…il fatto stesso di vedere una ragazza, di vedere un ambiente…più umano, dà delle energie enormi! Io questo lo posso dire proprio per averlo vissuto…cioè, ti sembra quasi che il mondo sia più luminoso…sembra una puttanata, ma può fare anche questo…in-un-mondo-di-soli-uomini! È questo il discorso: un mondo di soli uomini! Perché son pochissime le donne…perché non parliamo delle navi passeggeri, quella è un’altra realtà…complessa anche quella perché poi per il marinaio non è la stessa cosa degli ufficiali, la vita è diversa, è anche un sacrificio…ma parliamo delle navi mercantili [che sono poi quelle che attraccano a Porto Marghera, nds]. Quindi…bisognerebbe rendere questo Seamen’s club un posto di ritrovo quasi…famigliare…ed è bellissimo il discorso che i marittimi possano incontrare i non-marittimi, possano incontrare la città…ma la città intesa come persone, non come posti, come luoghi, quello può essere un secondo , ma il primo dev’essere un contatto umano! Un contatto fra la gente normale e il marittimo…che non è normale. Ci sono i vivi e i morti. E i marittimi. I vivi, i morti…e i marittimi…dopo vengono i marittimi. Sì perché è una condizione che è come di un limbo. Sto pensando ad esempio a tutti i filippini che arrivano, creare degli incontri con le comunità di quel paese qui residenti…ecco, sarebbe interessantissimo parlare con gente residente, allora potrebbe esserci un pochettino di scambio…anche perché come si possono amalgamare se non c’è un catalizzatore? Il catalizzatore potrebbe essere proprio la famiglia residente o le persone che vivono in Italia da tanto tempo. D.S.: Tutte queste situazioni uniscono praticamente i marittimi di tutto il mondo…dicevamo la sofferenza estrema, la fatica…ma ce ne sono anche altre condivise che sono più puramente sensoriali…fatte di colori, di odori…che odori? La nave ha l’elemento del ferro… E.G.: Ah bè…qui è un’altra cosa…prima ti ho accennato agli odori…forse il senso più forte anche della vista è l’odore, certi odori non te li dimentichi. Le navi hanno quasi un odore di fondo, che è quello della nafta…odori anche un poco sgradevoli delle volte, troppo forti… quando sei fuori dalla nave te ne accorgi dall’odore…ad esempio New York, mi ricordo…
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quando esci dalla nave vedi la città ma immediatamente dopo: bam! L’odore è difficile dimenticarselo. Poi i rumori…tieni conto che quando la nave va in bacino…la nave è una cosa rumorosa, che pulsa, che vive, perché vive di una vita propria la nave. La nave non è come una città…qui adesso senti solo il cinguettio degli uccelli, qualche auto che passa…ma non nella nave, dove c’è il motore che ti dà l’energia, che ti dà tutto: nel momento che lo spegni…la nave è morta… [silenzio…, nds]. Quando navighi per giorni, con questo rumore incessante del motore che dà la vita alla nave…poi arrivi in bacino e spegni tutto…io mi ricordo che le prime volte non riuscivo a dormire! Perché il silenzio…è un rumore terrificante! E questo non l’ho vissuto solo io, anche altri mi raccontavano la stessa cosa…non so se ti puoi immaginare, se ti ho reso l’idea… D.S.: …immaginare forse no, ma ha reso l’idea, mi ha dato delle impressioni fortissime… E.G.: Per i colori, mi dicevi che ti interessava vedere i miei quadri…te li mostro adesso… guarda, guarda …qui c’è l’impressione che ho avuto io quando sono arrivato a Marghera a bordo di una petroliera [atmosfera dominata da neri, grigi, qualche geometria di “mostri” (edifici) industriali e poche pennellate di rosso carminio e giallo, nds]…queste sono le ciminiere, il fumo, le fiammelle…ecco questa sensazione che provavi a Marghera la provavi in tante altre parti del mondo…è l’ambiente portuale, dove il porto, specialmente i porti moderni, si lega alla città industriale, all’industria…niente di romantico eh, però è venuto fuori quello, nel 1961. Poi c’è questo qui [un paesaggio dalle tonalità calde e soffuse, nds] che è totalmente diverso…i colori sono più luminosi, più caldi, non so se ti può suggerire qualcosa… D.S.: …mi suggerisce quello che ricerca al di fuori dell’ambiente navale… E.G.: Esatto! Quando uno è a bordo…sogna la terra. Non c’è niente da fare. [Segue poi la visione di altri dipinti dove i temi marinari si materializzano sia in forti immagini dai toni scuri, squarciate da qualche tocco di cromie accese, sia con oniriche visioni calde e soffuse come la morbidezza di un acquerello…ma tutti i lavori sono per lo più realizzati in modo immediato, forte, a spatola, nds] D.S.: Quali sono le sue prospettive, come ex-marittimo, sui processi innescati prima dal cappellano del porto e i volontari (ma di quelli abbiamo già parlato) e poi dal progetto artistico Ms3, con la produzione delle mappe e la simulazione con gli studenti? E.G.: Mah, io penso che abbiate ricevuto un encommio anche da parte dell’Autorità Portuale per quel lavoro, io mi accodo a questo anche perché penso che sia effettivamente un primo strumento informativo per il marittimo, che diventa una cosa preziosa che non mi ricordo di aver visto da nessun altra parte. La simulazione che voi avete fatto, diciamo così, è solamente una prima prova, un primo approcio…voi non avete simulato la vita del marittimo perché non si può… simularla, nel senso che prima bisognerebbe avere prima delle esperienze che, come avevo detto già in un altro intervento, il marittimo ha anche dei sensi che il terraiolo non ha, cioè mentre uno di terra proiettato là non si sa muovere, il marittimo per le sue facoltà acquisite in giro per il mondo si sa muovere. Quindi anche se non ha uno strumento immediato, come può essere quella cartina, come può essere qualsiasi informazione che li agevola…altrimenti se le ritrova le cose, perché usufruisce prima di tutto di quella che è la cosiddetta “radio-poppa”, cioè il tam-tam di bordo. Quando si arriva in un porto c’è sempre qualched’uno a bordo che c’è stato…se non c’è stato lui c’è stato un altro che gliel’ha detto, cioè con le voci…e loro sanno già dove andare normalmente perché c’è questa, diciamo così, “ragnatela informativa” . Percui, il ragazzo che viene portato là per simulare la vita di un marittimo può simulare solo magari la vita di un mozzo che imbarcato il giorno prima si trova là, ma non di uno che ha vissuto a bordo della nave, perché a bordo della nave c’è proprio una “scuola”, una scuola di vita, una scuola di esperienze per cui bene o male è come un cane da tartufo che trova tutto…il marittimo ha questa prerogativa, guai se
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no! In qualsiasi porto del mondo in cui lo metti lui va in giro e trova quello che deve trovare. D.S.: Sì, però la nostra intenzione era mandare un messaggio al maggior numero di persone possibile, alla città, su quali fossero le condizioni di accoglienza della loro città nei confronti di queste persone… E.G.: Beh secondo me come primo impatto (io ho visto anche il servizio per televisione che avevano fatto) siete riusciti…se era rivolta alla città l’obbiettivo è raggiunto. Per lo meno avete dato il primo scossone. Perché coinvolgendo i cittadini, che fanno parte della città che sono gli studenti, praticamente si rende più facilitato il messaggio, la trasmissione del messaggio. Se fosse stato rivolto al marittimo non avrebbe avuto la stessa efficacia, non avrebbe avuto lo stesso significato: al marittimo va la cosa concreta che è la mappa, perché la mappa da tutte quelle informazioni che vanno a integrarsi con le informazioni che loro hanno, che però non sono informazioni dettagliate ma sono come quelle che ho detto io di “radio-poppa” cioè cose che si tramandano, si dicono, si ripetono che però non hanno la scientificità di una mappa dove vengono messi e indicati i posti…quindi da quel punto di vista secondo me avete fatto una cosa lodevolissima. Non solo lodevole perché a parte lo sforzo che è stato fatto ma di sicuro potrà essere utilizzata, divulgata capillarmente a bordo delle navi attraverso gli agenti, che se hanno la possibilità di dare a bordo delle navi queste, che per il marittimo è avere già la condizione di avere una conoscenza più cogente, un’immediata visione che va a completare quella che loro già hanno come istinto. Lo dico perché avendo fatto io il marittimo ho visto tantissimi porti dove non eravamo mai stati non ci siamo mai persi e abbiamo trovato tutto, nonostante i problemi della lingua, eccetera. D.S.: Che contributo può dare, secondo lei, una tesi di laurea? In questo caso in architettura. E.G.: È difficile dirlo perché… D.S.: …lo scopriremo… E.G.: …lo scopriremo perché penso che il contributo principale lo dia alla persona che lo ha fatto…che ne trae un’esperienza di vita che secondo me è unica, perché non è facilmente ripetibile, soprattutto per un architetto. Dopo il discorso di come può essere utilizzata…io intanto la tua tesi la inserirei nel discorso grande di quello studio che è stato fatto [la ricerca sociologica, nds], cioè in un contesto grande che è quello delle indagini del porto… l’economia del porto è centrale perché ha stupito tutti dal momento che nessuno pensava che l’economia del Porto fosse al primo posto assoluto sull’economia della città. Il Porto è in espansione in questo momento e si sta anche facendo vedere all’esterno…sta facendo molti investimenti, anche per farsi conoscere, tipo l’Open Day (ci sei andato? Sì? Hai fatto bene…) o la pubblicità…quando abbiamo sganciato i miliardi per fare la pubblicità c’era chi diceva che era uno spreco, io ero tra quelli…e invece non lo è stato. Vedi il porto fa parte della città, ed è spesso la parte più interessante (e complessa, a livello politico). Pubblicizzandolo penso ci sia un ritorno e i problemi del porto diventano i problemi della città, se la città conosce il porto…e il modo per far conoscere il porto era pubblicizzarlo, con quella campagna che è costosa: perché hai i pullman, Open Day, motoscafi messi a disposizione, scolaresche, visite per i piccoli, per i giovani, per i grandi. La tua iniziativa, questa cosa, si colloca secondo me proprio in quel filone, per far conoscere il porto alla città. D.S.: Ha un sogno personale per il Seamens’ club? E.G.: Quello di vedere un vero club…perché quando sentiamo parlare di club intendiamo sempre qualcosa di elitario…il Rotary club, tipo…ma invece l’ideale sarebbe che diventasse qualche cosa che unisse lo straniero, il marittimo alla città…e rimarrà un sogno, perché non sarà possibile. Intesa città in quanto…la città normale, non fatta da gente come voi che avete preso a cuore il problema e quindi voi che vi interfacciate volentieri, ma diciamo l’altra
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parte della città, quella che se ne frega. Ecco, il sogno sarebbe che potesse diventare un momento di scambio culturale…e uno scambio culturale in una nazione che sta diventando multietnica per immigrazioni che non hanno niente a che vedere con il mondo del marittimo, questa la vedo di più quasi come un occasione persa, attraverso i marittimi, attraverso i naviganti imparare le culture… D.S.: …perché ci sono già altre interfacce… E.G.: …esatto, ci sono già. Però ecco, potrebbe essere un completamento. Per esempio far incontrare degli individui che vengono da fuori con una stessa comunità già insediata (di quelle etnie che si sono allontanate) potrebbe essere secondo me un punto fattibile. Perché tutto quello da cui si può ricavare qualcosa di concreto ha possibilità di risultato positivo, se no rimane a livello di utopico…pensare di intrecciare culture attraverso volontà che esulino dall’interesse personale, rimane molto difficile. Mentre mettere in contatto gente residente della stessa etnia con gente che arriva dal mare di quell’etnia fa sì che ci sia un interesse reciproco, di sviluppare l’incontro e le conoscenze. Perché quello che è venuto di qua ha già assorbito parte della cultura italiana e magari chi arriva porta qualcosa che questi hanno un pochettino ormai perso. Come ricordo quando andavo a New York e mi incontravo con gli emigrati italiani, con i figli degli emigrati…e allora venivano fuori le contraddizioni più grandi. Mi ricordo la meraviglia di questi che si stupivano che io, italiano, possedessi già a quell’epoca una casa, avessi già l’automobile, avessi già la televisione, avessi il frigorifero, che avessi tutte quelle cose che loro non avevano…allora per loro diventava quasi impossibile credere che un italiano avesse le stesse cose che avevano loro… D.S.: …che erano emigrati proprio per ottenerle. E.G.: Proprio per quella ragione…o quando mi mettevo a parlare in inglese! Magari loro avevano fatto una fatica boia o erano arrivati in America con i loro genitori che non sapevano una parola di inglese. Allora io mi immagino che la stessa cosa possa succedere qui per questi due mondi che si sono separati e che si reincontrano. D.S.: Il Seamen’s club lo immagina fisicamente collocato in un posto preciso o in un’area? E.G.: Dove verrà costruito il nuovo ponte strallato…vicino alla futura edificazione del porto in testa alla darsena dei rimorchiatori, è un posto ideale. Lì me lo vedo.
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perché un Seamen’s club a Marghera? Le convenzioni e le raccomandazioni ILO Com’è a questo punto comprensibile, lo scenario normativo del mondo navale è alquanto complesso, frastagliato e disomogeneo. Esso porta a galla i conflitti che intercorrono tra interessi per il controllo economico (potere) e per i diritti umani, argomenti che coinvolgono il pianeta sotto molti aspetti, si pensi ad esempio ai difficili negoziati tra le nazioni per trovare accordi sullo sviluppo sostenibile, oppure alle benché saltuarie pressioni internazionali ad alcuni paesi islamici riguardo al trattamento delle donne, o ancora al rifiuto degli Stati Uniti di sottomettersi a una Corte Internazionale per i crimini di guerra. È realmente difficile, forse utopica l’idea di poter riunire tutte le nazioni del mondo sotto comuni regole di Diritto Internazionale, questione che coinvolge il nostro interesse quando veramente vorremmo intendere la globalizzazione come un modo di considerare il valore della vita umana al di là di particolarismi culturali e di ragioni di leadership politiche e monetarie. Tuttavia tornando ai marittimi, abitanti di un territorio immaginario anche in termini legislativi, a Ginevra, il 24 settembre 1987, l’Internation Labour Organization (ILO), alla sua settantaquattresima sessione di lavoro dà vita a un nuovo e fondamentale strumento: «recalling the provisions of the Seamen’s Welfare in Ports Recommendation, 1936, and the Seafarers’ Welfare Recommendation, 1970, and having decided upon the adoption of certain proposals with regard to seafarers’ welfare at sea and in port which is the second item on the agenda of the session, and having determined that these proposals shall take the form of an international Convention, adopts […] the following Convention which may be cited as the Seafarers’ Welfare Convention, 1987». Operare una scelta di questo tipo a Marghera significa rispondere a tali raccomandazioni e convenzioni a carattere di Diritto Internazionale. Il fatto che il governo italiano non le abbia ancora ratificate può significare che una spinta verso questo traguardo vada ora fornita dal basso, dall’auto-organizzazione e dall’impegno concreto di chi opera sul campo in sintonia con le autorità locali. La figura istituzionale preposta a sottoscrivere quest’atto è il Ministro degli Esteri. Riporto qui di seguito la parte degli articoli (per ora da me tradotta, dal momento che non ne ho trovata altra versione) della Raccomandazione ILO R173 che interessa in particolare le attrezzature e i servizi collegabili al Seamen’s club: 1. Per i propositi di questa Raccomandazione: (a) il termine “marittimo” indica qualsiasi persona assunta con qualsiasi mansione a bordo di una imbarcazione per mare, sia essa di pubblica o privata proprietà, che non sia ad uso militare; (b) con i termini strutture per l’assistenza e servizi si intendono agevolazioni e servizi che favoriscano benessere, iniziative culturali, ricreative e informative. 5. Strutture, servizi e agevolazioni fornite in conformità a questa Raccomandazione dovrebbero essere rese disponibili a tutti i marittimi, a prescindere dalla nazionalità, razza, colore, sesso, religione, opinioni politiche e origini sociali e a prescindere dallo Stato sotto cui l’imbarcazione sul quale prestano servizio è registrata. 6. I membri dovrebbero cooperare nella promozione del benessere dei marittimi per mare e nei porti. Tali cooperazioni dovrebbero includere le seguenti: (c) organizzare competizioni sportive internazionali e incoraggiare la partecipazione dei marittimi nelle attività sportive; 9.(3) Conformemente, i consoli degli stati marittimi e i rappresentanti locali di organizzazioni umanitarie straniere dovrebbero essere associati alle attività del porto, ai comitati umanitari
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regionali e nazionali in accordo con le leggi e le regolamentazioni nazionali. 12.(1) Servizi di base e strutture ricreative dovrebbero essere fondate o sviluppate nei club. Queste dovrebbero includere: (a) luoghi d’incontro e svago; (b) strutture per lo sport e per attività all’aperto, incluse le competizioni; (c) strutture per l’educazione; (d) appropriatamente, strutture per le funzioni religiose e la consulenza ad personam. (2) Queste strutture potrebbero essere fornite rendendo disponibili ai marittimi strutture rispondenti alle loro necessità progettate per funzioni più generali. 23.(1) Strutture per il benessere e lo svago dovrebbero essere fornite a bordo della nave a beneficio dei marittimi. Dove praticabili, tali strutture dovrebbero includere: (a) postazione televisiva e ricezione di trasmissioni radio; (b) proiezione di film o videocassette, il cui stoccaggio dovrebbe essere adeguato alla durata del viaggio e, quando necessario, rinnovato a intervalli regolari; (c) equipaggiamenti sportivi inclusi attrezzi per gli esercizi, tavoli da gioco, attività ludiche da esercitare sul ponte della nave; (d) dove possibile, strutture per il nuoto; (e) una libreria che contenga testi professionali e non, il cui stoccaggio dovrebbe essere adeguato alla durata del viaggio e, quando necessario, rinnovato a intervalli regolari; (f) agevolazioni per attività ricreative di tipo artigianale. (2) Dove possibile e appropriato, dovrebbe essere considerata la presenza di un bar a bordo, a meno che non vada contro i costumi nazionali, religiosi o sociali. 24. Le attività di apprendimento e perfezionamento professionale per I marittimi dobrebbero, dove appropriato, includere informazioni su questioni riguardanti il loro benessere, compresi i rischi per la salute. Fino ad oggi hanno ratificato la C163: Brasile (04.03.1997)
Ungheria (14.03.1989)
Spagna (03.10.1989)
Repubblica Ceca (01.01.1993)
Messico (05.10.1990)
Svezia (21.02.1990)
Danimarca (16.09.1993)
Norvegia (26.11.1993)
Svizzera (15.11.1989)
Finlandia (30.06.1992)
Slovacchia (01.01.1993)
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Sembra che anche Francia e Germania si appresteranno entro breve a compiere questo passo, ma come si può facilmente verificare da un confronto con le principali nazioni marittime, nessuna bandiera coincide con questa “white-list”, fatta eccezione per la Norvegia che, nonostante fornisca all'industria marittima un discreto quantitativo di forza lavoro, compare in graduatoria nell’anonimato della voce "altri paesi". Un obbligo civile “L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro…” recita il primo articolo della costituzione. Prendere dei provvedimenti, farsi carico del benessere di quei 23.000 lavoratori marittimi italiani significa pertanto rispettare questo cardine della cultura italiana alle radici. Protrarre quest’impegno anche per tutti i marittimi del mondo che arrivano nei nostri porti indica un segno di ospitalità e apertura verso l’altro che fa onore a una nazione che ha fatto della navigazione, dell’esplorazione una solida base culturale e che a sua volta ha vissuto in passato quello che altre popolazioni stanno vivendo ora tentando di affacciarsi sul mercato globale. Essere lavoratore sulla nave è una dimensione profondamente differente da quella del lavoratore a terra, anche se le affinità tra nave mercantile e fabbrica sono notevoli in termini ambientali: quello che cambia sono le possibilità di movimento e il rapporto con la privacy. «Una prima caratteristica che differenzia il lavoratore del mare da quello di terra è l’essere immerso ventiquattro ore al giorno, per intere settimane o mesi, in una rete di relazioni che supportano una socialità molto scarsa, poco diversificata e stimolante, pervasa dall’ordine dei ruoli lavorativi. Una rete sociale in cui la soggettività dell’uomo moderno, del citoyen, l’esibizione del gioco delle individualità attraverso La cabina rappresenta la dimensione della privacy caratterizzazioni oramai tradizionali come marito o padre, o singolo o amico, trovano poco spazio. Viene a rompersi la dualità fondamentale del moderno in cui il borghese può trovare, chiusa la bottega, lasciato il lavoro, riposo e distrazione nella serenità familiare, nel rapporto affettivo e sessuale, nelle relazioni amicali o nelle varie pratiche mondane collettive. Basti pensare al fatto che a bordo anche il corso della moneta, la sua funzione principale, l’essere cioè valore per lo scambio è ben poca cosa. Una specie di extraterritorialità e extratemporalità in cui le relazioni commerciali sono estremamente rarefatte e la moneta conserva unicamente funzioni di tesaurizzazione»1. Rispondere alle esigenze dei marinai di Porto Marghera è anche un atto di riconoscenza verso persone che spesso percepiscono salari ai limiti della decenza. Per cosa? Andiamo a vedere: 1) 28.000.000 di tonnellate complessivamente movimentate nel 2000. 2) 3/4 del commercio mondiale è trasportato via mare. 3) In Italia via mare si effettua il 70% delle importazioni e il 55% delle esportazioni. 4) In Italia il trasporto marittimo rappresenta 3 volte i quantitativi che affluiscono o defluisco via terra. Questo significa che gran parte delle materie necessarie ai nostri cicli di produzione e consumo viaggiano via mare e che senza l’apporto delle rotte navali la nostra economia incontrerebbe difficoltà enormi, a fronte invece dell’attuale stato di privilegio che gode il mercato italiano e in particolare del miracolo piccolo-industriale del triveneto. Eppure la componente umana viene regolarmente dimenticata e le navi continuano a essere pensate e progettate “a misura di merce” piuttosto che “a misura di lavoratore” ed entrambe le cose. Intanto ci si accorge di “loro” solamente in occasioni drammatiche come l’affondamento di petroliere, con conseguente danno ambientale, la collisione tra imbarcazioni, la scoperta di
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traffici illegali di stupefacenti o armi contenute in qualche container. Neppure fa più tanta notizia l’abbandono delle navi con il rispettivo equipaggio ai moli dei porti di ogni dove da parte di spregiudicati armatori: cattive condizioni di vita a bordo con conseguenti rivendicazioni sindacali, oppure fallimenti commerciali "giustificano" i proprietari delle navi a consegnare al proprio destino imbarcazione e marittimi che ovviamente non percepiscono più lo stipendio e sono costretti a rimanere a bordo se vogliono mantenere qualche speranza di vedere prima o poi riconosciute le loro ragioni, dimenticati anche dagli abitanti delle città, confinati ai bordi dell’insediamento urbano. Venezia attualmente di questi casi ne conta ben 7 negli ultimi 5 anni. Costruire un Seamen’s club a Venezia e Porto Marghera significa pertanto dare dignità anche all’attività delle uniche persone che operano sul campo per dare sostentamento fisico, morale e spirituale ai marittimi di ogni condizione, nazionalità, sesso, cultura, religione, ovvero i volontari e gli “attivisti” dell’associazione StellaMaris’ friends. 1 V. Longo, G. Merotto, D. Sacchetto, V. Zanin, I lavoratori marittimi. Profili sociali e nuove domande di servizi
Non è difficile incontrare pessime condizioni igeniche a bordo di alcune navi mercantili battenti bandiera ombra
Il recupero del waterfront: “Io Porto investimenti” Venezia è uno dei maggiori porti d’Italia, in via d’espansione e la ristrutturazione in atto con interventi architettonici di primo piano, resasi necessaria con l’obsolescenza delle strutture e con il suo rilancio, necessita di quest’evento (il Seamen’s club) all’interno del suo programma, se il porto non vuole trovarsi arretrato sotto il frangente del problema umano e culturale di chi vi lavora, vive e vuole conoscerlo. Da quando è stata istituita l’Autorità Portuale nel 1996, direttamente dipendente dal Ministero degli Interni, come organismo preposto alla gestione delle attività portuali (in precedenza governate da una sorta di consorzio con partecipazioni pubbliche e private), l’apparato veneziano ha visto un’impennata dei profitti e di conseguenza del proprio ruolo nell’economia cittadina, occupandone il primo posto (per approfondimenti si consulti l’annuale bollettino statistico). Il Presidente Claudio Boniccioli e il Segretario generale Andrea Razzini, in carica dal ‘96 e poi riconfermati, sono tra gli artefici di questa gestione “boom”, avendo brillantemente interpretato la trasformazione istituzionale in un’imperdibile occasione per il porto come componente inscindibile di una grande città. Nel suo complesso la zona del porto costituisce uno scenario in grande fermento dal punto di vista del recupero urbano che vede società private, università e l’autorità pubblica movimentarsi per sottrarre edifici obsoleti al proprio destino di ruderi ma anche edificando nuove costruzioni. Si è venuta così a profilare una delle più interessanti situazioni in ambito di riqualificazione urbana in prossimità del porto, coinvolgendo molteplici soggetti con investimenti molto importanti. Autorità Portuale di Venezia - Nuovo terminal crociere (Venezia) - Ponte strallato sul canale industriale ovest (Porto Marghera) - Opere di banchinamento (Porto Marghera) - Potenziamento parco e rete ferroviaria (Porto Marghera) - Nuova accessibilità (Porto Marghera) - Sistemazione al molo di Ponente (Porto Marghera) - Recupero magazzini 16 e 17 (Venezia) - Centro direzionale e gate doganale (Porto Marghera) - Piano regolatore portuale per la sezione di Porto Marghera Venezia Terminal Passeggeri S.p.a. - Nuovo terminal traghetti (Venezia)
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Comune di Venezia - Azienda servizi mobilità S.p.a. - Nuova funicolare terrestre (Venezia-Mestre) Istituto Universitario di Architettura di Venezia - Nuova sede IUAV a San Basilio (Venezia) Università Ca’ Foscari di Venezia - Nuova biblioteca area umanistica e lingue orientali (Venezia) Naturalmente questo non può che giovare alla cultura, all’immagine e all’economia veneziana. Ma se è vero che il porto crea per la città l’indotto economico principale e che la città si deve occupare del porto, allora non può trascurare la componente umana delle sue attività, che va dai 18.000 lavoratori degli stabilimenti ai 180.000 marittimi che ogni anno vi approdano, senza dimenticare i normali cittadini che sentono (o vorrebbero sentire) il porto come una parte della città e che vogliono conoscerlo. L’assenza totale di servizi a Porto Marghera di fatto non coinvolge solamente i marittimi, bensì tutte queste figure, proiettando un’area più grande di Venezia nel limbo delle terre di nessuno, desolata e abbandonata all’immaginario dei non-luoghi. Porto Marghera in cerca d’autore “If there is magic on this planet, it is contained in water”, scrive Loren Eiseley in The Immense Journey. Difficile darle torto, il richiamo delle civiltà verso l’acqua è un richiamo irresistibile verso le origini della vita e la fonte primaria di sopravvivenza, verso l’elemento fluido vitale che ha costituito l’habitat di tutti gli organismi del pianeta e che ci ha accompagnati nel nostro sviluppo fetale, nel grembo materno. Come offrire l’opportunità a Mestre e a Marghera di riaffacciarsi sull’acqua, di riappropriarsi di un habitat violato, brutalmente edificato attraverso un groviglio di industrie, tubi, oleodotti, gasdotti, muri e distese desolate, degni set cinematografici di film come Blade runner o Tetsuo, bloccandone l’accesso alla laguna? Bisognerebbe andare alle origini di questo maestoso intervento urbanistico per capirne appieno limiti e potenzialità. A tutti gli effetti Porto Marghera è un’enorme “plug-in” innestata in un contesto naturalistico invidiabile, è la risultante di spinte e investimenti «esterni alla
Lo scenario desolante delle aree di scarto
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città: l’amministrazione napoleonica, con la sua capacità organizzativa, all’inizio dell’800, gli industriali centro europei nella seconda metà dell’800, la Banca Commerciale nei primi anni del ‘900, che attraverso la SADE di Giovanni Volpi» diede «l’avvio alla grande operazione della zona industriale di Porto Marghera»1. Componente genetica del tessuto urbano della terraferma in prossimità della laguna, ma contemporaneamente elemento alieno alla città: il porto industriale e commerciale vive una dimensione ambivalente che ha visto produrre ingenti danni all’ambiente (aumento del livello acqueo, inquinamenti dell’acqua e dell’aria) e che nella sua evoluzione non ha mancato di alimentare conflitti sociali piuttosto accesi, dovuti alla migrazione di parte delle attività produttive, con le grandi rivendicazioni sindacali della classe operaia a partire dal 1968. Oggi ci consegna una situazione di complessa gestione, ma che probabilmente necessita di una rilettura al di fuori degli schemi della rendita fondiaria, della riconversione a una qualche specifica attività. Serve probabilmente un nuovo territorio di dialogo da cui ripartire per immaginare nuove possibilità (già inscritte nel suo potenziale ma ancora inespresse) coinvolgendo tutti i soggetti interessati e principalmente i cittadini. Porto Marghera presenta ancora notevoli quantitativi di aree destinate a verde pubblico che le operazioni di bonifica stanno lentamente ampliando e un abaco di architetture Il fabbricato della SAVA, uno dei luoghi più suggestivi industriali recuperabili, per i costi che la loro demolizione comporterebbe, ma anche per il valore che tali edifici racchiudono in termini di sincerità costruttiva e di flessibilità d’uso. Della fascia industriale «i cittadini conoscono solo il suo aspetto generale, i suoi contorni. Non entrano mai davvero al suo interno e, se lo fanno, è semplicemente per attraversarla. La vita continua attorno all’industria che scompare»2 scrive Marcel Smets. Essendo praticamente improponibile portare l’acqua ai cittadini è necessario portare i cittadini al fronte acqueo attraverso dei catalizzatori. Una scelta politica per la qualità dell’habitat va senz’altro pensata e attuata attraverso processi di partecipazione, ma non va sottovalutato il ruolo della comunicazione come veicolo di valori, comunicazione che trova nell’architettura e nell’arte dei mezzi possibili per tradurre e interpretare le istanze del sociale, architettura intesa alla pari dell’arte come evento mediatico, epifania di processi in divenire, di situazioni costruibili. Il Seamen’s club potrebbe giocare un ruolo importante in tale contesto per creare un humus fertile, utile alla rivitalizzazione di un territorio abbandonato ma ricco di opportunità, per tornare a vivere una condizione di luogo di condivisione e di un attraversamento arricchito di significati collettivi: «public areas along waterfronts - and some private area as well - offer an unusual opportunity to educate people of all ages and about the social, maritime, cultural and environmental heritage of an area. Urban waterfronts usually have historic connections, very often including the founding place of a city or its reason for being. This means that urban waterfront sites inevitabily possess an opportunity to interpret, potray and personify an area’s history, both to itself and to the visiting public. Urban waterfronts can thus create a sense of civil pride»3. Comunicare che il territorio è già altro (basta vederlo!) rivelando punti sensibili diffusi, costruire un terzo spazio, un luogo soglia dove la gente del mare e della terra possano avere l’opportunità di incontrarsi, conoscersi, scambiare e, forse, integrare. 1 Giuseppe Longhi, Venezia e i piani urbanistici, in Urbanistica Off_line 1.5 2 Marcel Smets, Una tassonomia della deindustrializzazione, in Rassegna n.42 (1990) 3 Ann Breen, Dick Rigby, Waterfronts - Cities reclaim their edge
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Porto Marghera come luogo dell’immaginario Dear members of the list, I think the term “Imaginary” is quite evocative since it oblige us to “dream” and reflect upon a landscape that is much wider than the urban settlement is or what we traditionally are used to mean with it. More, “Imaginary” actually stands for me a way (almost a manifesto) to recall an experience that’s not imaginary at all, but is enough to displace our vision from the “dreams” (or nightmares) of the planners and making me deeply think about what we can still mean with words such as territory, community and culture. Actually we are facing strong mutations in social phenomenas: the increased speed of life, our way to have relations and so, generally, our way to live, complicated by migrational movements continuously redefining our concept, through more or less complex processes, of being at this world, of ourself as an amount of space engaged: how much? Is less than my expectatives or too restrictive for the others? Is my space invaded or am I intrusive? How do I use space to get in touch with other persons? The issue of “space” is central to me because, far from conceptual thoughts of academic (or anti-) derivation (“utopic”, “distopic”, “in-between”, “empty”, “full”, “interstitial” or what else.), is definitely our hidden/displayed way of living. All is made of space and motion. The contemporary city started since it abandoned the safe walls expanding itself in the land, with more or less strong plans and then more and more designed and structured in the centuries, till the industrial revolution proved to be a hard field for experiencing what is like to live in a urbanscape in the first real mass migratory movement in the first real demographic increasing of the contemporary era. Nowaday cityspaces seem similary saturated and migrational movements (some of them uncontrolled or clandestine) reached (and still reach) the already settled territories installing and creating new cities in the city, overlaying and bringing new energies (cultures, manners, conflicts, goods.) often inside the only places they can occupy, or rather in those left uncontrolled by the rational design of the urban plan, blurring the boundaries of zones of undetermined property, establishing new forms of living (maybe new for themselves, too), appropriating by self-construcion practices. I find that such a dynamic is parallel to the mechanism of capitalistic production (of goods, thoughts, culture): the rational design of the urban context defines ways of mainstream reproducing themselves, leaving apart many interzones of discard (which are the peculiar discards of the rational thought). We discard something that is no more deserving, something bad, many times something out of our sight or of our vision which we cannot understand. That discard is in general the lapse between what is established and what is not and where there is a lapse a measurement is always possible: where there is a measurement there is a space. I think we have to pay attention to such a space: I am no more speaking about the cityscape in particular, but about that irregular scape that stands/no-stands aside of the frontal path. A space that has not to be filled nor planned, but surely is worth to be explored and investigated, because there it is decided if we and the others will be living in indifferent co-habitation or in integrated co-existence. To understand this, in my opinion, is a good possible way to catch the crucial node of social conflicts, the actual lack in communication among the pluralities which is not an impassable wall, but just a lapse or gap (“mind the gap!”). Some days ago I was talking with a friend about relationships and communication between persons and he told me something
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really interesting, also for the strenght of the image: “when there is a crack in the wall the exchange from side to side is possible, but when there is a crack between two persons that crack becomes the non-place of incomunicability and conflict: to recover a possible communication a change of level is needed from both side. They both have to leave vertically their position to reach a new common level of communication outside the crack”. We need to move, to displace ourselves as well to feed our vision and to understand who is emigrant or nomad, what is co-habitation and co-existence, what is the real meaning of these words, as well as “territory”, “community” and “culture”: nomads and emigrants both bring with them, even if in slightly different ways, the meaning of a “movable territory” (maybe for them is the land to move and them to stand still?). So have to do practitioners involved in art, architecture and culture production whose task is to understand the change in social values and the radical mutations of the territories. And maybe to offer new possibilities and instruments to communicate each other. Waiting for feedback. Warmly, Diego From: “Diego Segatto” <segatto@zonanomala.org> To: <discussion-d11@sarai.net> Subject: about 2nd. Slot Date: Sun, 28 Jul 2002 09:47:19
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documenti
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Study reveals the advantages of seafarer mix A research project in which social scientists undertook extended voyages aboard merchant ships has resulted in an unusual study of multinational seafaring which has concluded that there are many advantages from this type of crewing arrangement. Undertaken by the Seafarers International Research Centre at Cardiff University, the threeyear project which was completed last year permitted researchers to board vessels and to live alongside multinational crews while observing and interviewing them. Voyages were made aboard fourteen ships and 242 seafarers were interviewed on tape. The study* also incorporated findings from interviews with crewing managers in ten companies, 141 seafarers in communities in North Germany and the Netherlands along with 131 interviews with seafarers’ families in India and the Philippines. The report discovered that that some 65% of the world merchant fleet has adopted multinational crewing policies, and something over 10% of the fleet is staffed with crews composed of five or more different nationalities. The main research findings are that multinational crews are not only viable but can operate “extremely successfully”. While many companies adopted these strategies because of cost and competitiveness, there was evidence of a number of unanticipated benefits from the multinational flavour. The survey noted that social integration aboard ship increased with the number of nationalities in the crew, although teambuilding and personnel management depended very much on the skills and personality of those aboard. It was recommended that more training should be given in these areas so as to more widely encourage ‘best practice’. Language was seen as the catalyst to better relations aboard, and it was recommended that owners and managers encourage a high level of fluency in the working language of the ship, and to encourage policies which promote stable crewing, and social activities aboad ship. The issue of language came to the fore notably with the seafarers’ use of humour, which became difficult without common languages. The research confirmed the importance of company policies and practices on contract lengths, wages, communication facilities, demands on leave time and partners sailing with the crew member. Positive policies in respect of these issues could encourage seafarers to sail with a company. Negative attitudes could make for a far less contented crew and a less happy ship. The study of the transnational seafaring communities in Hamburg and Rotterdam showed that these are in decline, mostly because of social security and immigration laws. Recommendations from the research included the need to ensure higher levels of language fluency, more training in personnel management for senior officers, the adoption of antidiscrimination policies and the promotion of social activities aboard ship. *Transnational Seafarer Communities, by Erol Kahveci, Tony Lane and Helen Sampson, SIRC, Cardiff University.
Michael Grey, April 09 2002 http://www.lloydslist.com/
OECD in crackdown on substandard shipping Marine insurers should refuse to pay the fines of shipowners found guilty of safety or pollutionrelated offences, a group of leading industrial countries is recommending as part of a new crackdown on substandard shipping. The Organisation for Economic Cooperation and Development is also urging flag states to reject ships that do not comply with international standards, and calling on its own members to back a licensing system for classification societies. Other moves designed to eradicate substandard ships would include stiffer sanctions by port states on operators and users of unseaworthy tonnage, including detentions and penalties severe enough to actively discourage the deployment of high risk ships. The proposals are contained in a policy statement on substandard ships prepared by the OECD’s Maritime Transport Committee. While non-binding, the statement sets out how governments could complement the work of the International Maritime Organisation to promote safer and more environmentally sound
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shipping. The Maritime Transport Committee stresses that, if substandard ships are to be eliminated, “industry itself must play a major role”. The aim is to ensure that those who behave irresponsibly should be held accountable and face strong disincentives, while responsible operators should be encouraged through incentives. Insurers could play an important role in this effort, the OECD believes, by identifying and targeting providers and users of substandard ships and refraining from providing cover unless the deficiencies are remedied. The committee plans to undertake a study of the marine insurance system to ascertain whether it is feasible to remove cover from unsafe ships without jeopardising the rest of the maritime industry. The OECD lends its support to IMO efforts to examine the track record of flag states in implementing international rules and standards, and backs proposals to extend the IMO’s charter and allow it to review the overall performance of its members. The policy statement also recognises the importance of port states in the fight against unsafe shipping. OECD members will actively work with port states and appropriate authorities to encourage a culture of safety and environmental consciousness in as many jurisdictions as possible. Classification societies come in for particular scrutiny, with the OECD committee keen to publicise those ship inspection agencies that are not applying adequate standards. Member countries will also consider the possibility of a licensing system, perhaps operated by the IMO, “aimed at ensuring that classification societies meet acceptable standards of performance”. Another area in need if improvement in the new safety drive is seafarer training and conditions of work, the OECD says. While accepting that “there is a clear place for crews that are low cost and efficient”, the policy statement stresses that “substandard crews or substandard crew conditions should not be tolerated”. Those shipowners and other industry parties that maintain high standards should be rewarded through, for example, reduced classification fees, cheaper insurance premiums, fewer and less time-consuming port state inspections, and lower port charges. Publicity is another weapon that could be used to greater effect in the war against substandard shipping, the committee notes. Pressure on those who operate or use dangerous ships “must not be eased in any way”, the OECD committee insists. Those who flout standards “should face strong disincentives and penalties and these should not be permitted to be simply added to the list of risks against which the perpetrators can already insure”. Irresponsible players “must not be permitted by the international system to profit unfairly from their actions”. Andrew Spurrier, April 15 2002 http://www.lloydslist.com/
Name and number, please The best ideas are often the simplest, though simple ideas sometimes turn out to be complicated to put into effect. Here is a simple idea. Let us make it easy to see who owns a ship. That is of course what the US and others are pressing the International Maritime Organization (IMO) to do, in response to last September’s terrorist attacks. The argument is that there is a pervasive lack of transparency in the ownership of vessels, especially where they fly the flags of countries with open registers, or ‘Flags of Convenience’ in the parlance of the International Transport Workers’ Federation. The corporate veil protecting the owners of so-called ‘brass plate’ companies set up in countries with open registers can be very effective in keeping out prying eyes. It is natural that anybody, especially with little experience of the industry, should want to attack such arrangements, and prise open the brass plates to find out who is really behind the ownership. In practice, it could be very difficult to achieve this. There are tricky issues of law and state sovereignty involved. More practically one could go through the exercise of lifting the corporate veil only to find holders of bearer shares. In the course of trying to make ownership more transparent, one could end up spending a fortune and taking an awful lot of time at IMO and other places. This would be justified if security really were significantly enhanced. The trouble is that finding out who is the true beneficial owner of a vessel may not help anybody very much. Anybody likely to be known to
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the authorities would conceal themselves behind an apparently legitimate front man. You will not end up with a piece of paper saying, MV Dodgy Trader, owner Mr OB Laden. So identifying beneficial owners is a simple idea but it does not work out so well in practice. There is another idea doing the rounds at IMO at present, and this one does have a lot of merit. Ships have their names painted on their sides, together with, on the stern, their ports of registry. The port of registry is the link with the flag state and the official paperwork on board can be used to confirm the identity of a ship. The only problem is that some rapid work with a paintbrush can change a ship’s name very quickly. Similarly, a forger has little trouble creating a false identity with genuine-looking official documents. Many vessels have their original names embossed on the hull but few vessels sail under one name throughout their working lives. So, a ship’s name embossed on the hull and then painted over is not in itself a cause for suspicion. For many years London-based classification society Lloyd’s Register (LR) allocated every vessel, whether classed by LR or not, a number. The Lloyd’s number is now the IMO number. The obvious thing to do would be to emboss and paint the IMO number conspicuously on the hull. It is such an obvious idea that the real wonder is that it has not been done long ago. Capt P Mukundan of the crime-fighting agency International Maritime Bureau (IMB) says that he strongly supports this proposal. He says that if it goes ahead, it should apply to all vessels and be implemented within a reasonable time frame. Any exemptions would always, argues Capt Mukundan, give an avenue for criminals to explain away unmarked vessels. It would be possible to erase and alter embossed numbers but it would be difficult and time consuming. The measure would make vessel hijackings much more difficult and deter the use of ‘phantom ships’ trading under false identities. Automatic identification systems for vessels are going to be very useful but the low-tech measure of embossed IMO numbers would also go a long way to foiling the crooks. It needs to be brought in quickly. David Hughes, April 17 2002 http://business-times.asia1.com.sg/shippingtimes/
Mystery ship was in hands of unpaid crew, not al-Qa’eda India’s coastguard was left severely embarrassed yesterday after one of the crew on a ship it linked to al-Qa’eda after two AK-47 rifles were found on board effectively debunked the claim. Ejaz Mohammed Chaugule, a 22-year-old Muslim recruited by a Mumbai crewing agency, revealed that Al Murtada was the victim of owner neglect rather than a participant in terrorist activities. It seems the long-unpaid and unfed crew decided to undertake a freelance fixture simply to secure provisions. Following a dispute over the cargo of livestock, the unauthorised charterer sent in armed heavies. After overpowering the assailants, the seafarers simply decided to abandon the vessel, which had lost power. Mr Chaugule wanted to follow in his father’s footsteps and become a seafarer. After training for three years he secured a $150-a-month engine cadet post on Al Murtada, joining the ship in Dubai last November. He has yet to be paid a penny. The vessel limped its way from Dubai to Marerca in Somalia, all the while sending desperate messages to Lebanese owner Assam Nidal Beaninu to pay salaries and arrange for provisions, fresh water and fuel. “There was no response from the owner, so when [the master] was approached by a Dubai agent to transport cattle he accepted the offer as a chance to make some money,” said Mr Chaugule. “Some of the cattle died while loading and some died in transit. The agent was furious and wanted the contract cancelled. “He also wanted $30,000, which he had spent refuelling the vessel and buying provisions and water.” The agent hired a Somalian warlord to settle matters by force. However, the crew managed to overpower two Kalashnikov-toting gunmen and locked them in a cabin for a week. “Those were the firearms that the Indian Coast Guard found on board the vessel after we were forced to abandon it,” said Mr Chaugule. “After we had run from Somalia the fuel pump and dynamo gave way and the ship drifted in stormy seas for six days.” The radio system then collapsed, making it near-impossible for the crew to send out an SOS. However, they somehow managed to activate the emergency
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system and send out a Mayday call which was heard by American frigate USS Vicksburg. “We were rescued by a helicopter, which put us on board another tanker which was headed for Kandla port,” said Mr Chaugule. “We finally disembarked at Kandla, and then dispersed. “Even when the Al Murtada was drifting, and we were sending out distress calls, the owner never made any attempt to save the ship, which had absolutely no motive power. “That was the reason why the captain decided to abandon it.” The Kandla authorities should have informed the coastguard that the ship had been abandoned, but for some reason failed to do so. Now that the full facts have come to light India’s coastguard has been forced to drop its claim of an al-Qa’eda connection. It has also emerged that, at the same time as the crew were working without pay, the vessel’s registration with the fledgling flag of São Tomé e Principe also lapsed. The country’s former deputy commissioner of maritime affairs, Hilmi Nader, told Lloyd’s List that the ship’s São Tomé certificates ended on January 8 and were not renewed. Shirish Nadkarni in Mumbai and David Osler, July 19 2002 http://business-times.asia1.com.sg/shippingtimes/
Il pubblico, i mass media e il marittimo invisibile Tutti coloro che salgono sulla passerella di una nave ancorata lungo la banchina, guardano l’equipaggio rimasto a bordo in modo piuttosto bizzarro. Per alcuni, essi sono un aggeggio della nave, una specie di macchina, un apparecchio curioso. Per altri, sono una presenza strana ed imbarazzante, una seccatura alloggiata sotto coperta. In generale un persona di bordo viene vista dalla gente di fuori come una non-entità. La sagoma vaga e indistinta dell’individuo errante sul ponte si scorge appena. I visitatori in genere hanno cose ben più importanti di cui occuparsi, che di perdere tempo a discernere, identificare, e comprendere veramente quell’uomo. Per loro i membri d’equipaggio non esistono. Tutto qui. Le persone comuni che vivono a terra, i terrestri, vedono al contrario il marittimo come un personaggio reale e vivo, la causa ordinaria degli incidenti, il responsabile del naufragio di navi quali il Titanic o l’Exxon Valdez che ha inquinato in modo massiccio le acque chiare dell’Alaska. La cosiddetta opinione pubblica, quell’insieme vago ed appena distinguibile di individui facilmente influenzabili di solito desiderosi di dare agli ascoltatori e ai telespettatori dei giudizi falsi, condivide con i media l’impressione che i marittimi esistono soltanto per essere incolpati quando qualcosa in mare va male. Gli operatori della marina mercantile dovrebbero essere coloro che meglio conoscono i professionisti che maneggiano questo strumento chiamato nave (dal quale dipendono per il proprio sostentamento e per quello di molti altri). Essi tuttavia sono ancora meno giusti e decenti nei loro giudizi. Guardano il marittimo come lo strumento purtroppo necessario per far navigare la nave ed il cui pregio più apprezzato è quello di essere disponibile in grande quantità e a basso costo. Egli non è un individuo ordinario con un cervello, un cuore, un’anima, ma una specie di schiavo moderno impersonale, pronto a lavorare per lunghe ore unicamente perché ne ha bisogno. Di conseguenza, non si guarda all’equipaggio come ad un gruppo composto di persone qualificate e ben formate che esercitano una professione onesta, ma come ad una necessità inevitabile da riunire nel modo più irrazionale, inviare al minor costo sul luogo di lavoro e poi, al più presto, dimenticare completamente. Infatti, le agenzie di reclutamento, che sono i padroni del processo di selezione, basano la loro attività su fattori puramente economici, in quanto il rapporto costo-efficacia costituisce il fattore più importante, e spesso l’unico, nel reclutamento dei marittimi. Se il richiedente può mostrare un certificato di competenza conforme al STCW ‘78, rivisto nel ‘95, e sembrare ragionevolmente in buona salute, non c’è altro che possa interrompere il processo di reclutamento, se non l’ammontare del salario. Più questo è basso e meglio è. Una volta scelto, qualunque sia la nave a cui è destinato, convenzionale o altamente tecnologica, il marittimo raggiunge il suo nuovo ambiente di lavoro, che spesso gli è totalmente sconosciuto. Maneggia strumenti complicati che spesso non ha mai visto prima, coabita con un gruppo di compagni che possono arrivare ad essere perfino di 26 nazionalità
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diverse, ed inizia motu impromptu, senza guida, a familiarizzare con la nave; tutto ciò inevitabilmente dà luogo a molti problemi futuri. A complicare e confondere l’intero processo, egli dovrà anche far fronte a barriere culturali e linguistiche. Altri problemi più gravi attendono il marittimo che lavora a bordo di una nave battente bandiera ombra. Egli manca anche dei più ordinari diritti di un lavoratore migrante ed è solo contro la bandiera, la legge e il contratto di lavoro, che a volte non è altro che quattro pagine di geroglifici incomprensibili. Per questo il marittimo oggi ha l’impressione di essere una persona non considerata e non essenziale, di cui ci si sbarazza facilmente dopo averla usata. Motivazione, ambizione, stima, soddisfazione nel lavoro, lealtà, impegno, sono parole irrazionali che non fanno più parte del suo bagaglio culturale. Egli raggiunge una nave con un solo obiettivo, fare abbastanza denaro da investire, una volta a casa, in un’attività più degna. Egli sa che armatori di navi prepotenti, spinti da managers avidi, gli chiedono di essere flessibile, il che vuol dire che deve lavorare molto per sostanzialmente meno, senza lamentarsi in un ambiente ostile, accettare di vivere in condizioni miserabili e svolgere il proprio dovere sotto la pressione e lo sforzo dettato da ragioni economiche per il profitto di qualcun altro e tutto ciò, naturalmente, nel più grande silenzio! Operatori di navi sotto-standard dovrebbero essere scacciati dalla superficie dei mari grazie al peso di un’opinione pubblica che si preoccupa e desidera essere d’aiuto. Ma i marittimi e l’industria marittima non ricevono nessun aiuto di questo tipo. Altre industrie sono in una posizione migliore. I disastri aerei sono descritti in dettaglio dalla stampa mondiale, e se la causa dell’incidente è stata un bullone difettoso che tiene il motore all’ala, ciò viene ampiamente spiegato. La stessa cosa avviene se il pilota ha superato la pista d’atterraggio. Che si tratti di incidenti meccanici o di errori umani, l’opinione pubblica li considera come una conseguenza normale quando si lavora, e la gente continua a volare. E’ stato ripetutamente detto all’opinione pubblica, e senza mezzi termini, che l’industria marittima è condotta in modo professionale da marittimi competenti e ben formati che ogni giorno conducono, senza rischio, migliaia di navi, che costituscono un contributo essenziale al commercio mondiale. Ma questa verità incontestabile è controbilanciata in maniera massiccia e mal informata dai media che seguono gli incidenti in mare come quelli della Scandinavian Star, Herald of Free Enterprise, Sea Empress, Haven, Moby Prince, Exxon Valdez ed altri. Ciò ha portato ad un atteggiamento ostile nei confronti dell’ampiamente pubblicizzato “errore umano”. Se l’errore è umano, è quindi colpa del marittimo. E’ molto difficile spiegare all’opinione pubblica che è l’elemento umano e non l’errore umano il maggior colpevole di un gran numero di incidenti in mare. Ed è ancora più difficile farlo comprendere a dei professionisti. Il fatto che la maggior parte delle navi cisterna e dei traghetti attraversino la Manica senza mettere in pericolo l’ambiente o delle vite umane, non è percepito con l’ammirazione che meriterebbe. L’opinione pubblica è largamente influenzata da ciò che i media mostrano; le immagini di un uccello di mare invischiato nel greggio vengono trasmesse giorno dopo giorno, fino a che ciò non diventa sinonimo di una tragedia provocata dai marittimi. Oggi ci si ricorda meno delle 900 vittime del disastro dell’Estonia affondato nel Baltico che non di quel povero uccello. Il Lloyd’s List, il quotidiano marittimo maggiormente conosciuto e letto, stampa 17.000 copie al giorno e si pensa che raggiunga un pubblico di 100.000 lettori. Fairplay, Trade Winds, Seatrade, Tecnologie del Mare, Uomini e Navi, Avvisatore Marittimo e altri stampano soltanto qualche migliaio di copie l’uno. Essi non possono competere in nessun modo con il Sun (4 milioni di copie), con il Wall Street Journal (1.800.000 esemplari), il Daily Telegraph (un milione), il New York Times o il Washington Post. Alcuni funzionari, operatori, assicuratori, charterers, esperti in salvataggio, controllori, piloti di porto e marittimi leggono il Lloyd’s List e uno o due altri quotidiani. Coloro che promulgano ed applicano le leggi che colpiscono direttamente e concretamente le strutture marittime internazionali, raramente lo scorrono, mentre leggono attentamente ogni giorno almeno tre o quattro dei grandi giornali che ho menzionato. Ciò può spiegare perché, sotto la forte pressione dell’opinione pubblica influenzata da rapporti il più delle volte scritti da giornalisti
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incompetenti sull’affondamento dell’Exxon Valdez, il Congresso degli Stati Uniti abbia in fretta approvato all’unanimità nel 1990 l’Oil Pollution Act, una decisione inutile e costosa. L’Exxon Valdez affondò a causa di un errore di navigazione. L’OPA non corregge alcuna procedura di navigazione, semplicemente legifera che a queste navi basterebbe un doppio fondo. Tuttavia l’industria marittima non è senza controlli per ciò che riguarda la sicurezza delle navi e la prevenzione dei disastri ambientali a causa dell’inquinamento. La classificazione delle navi è la funzione prima e tradizionale delle Società di Classificazione. Il concetto di “classe” trae la propria origine dal bisogno degli assicuratori di sapere quali sono i rischi accettabili durante le operazioni normali della nave in mare per garantire una copertura assicurativa. All’inizio sul mercato c’era un’unica società di classificazione riconosciuta, la Lloyd’s Register of Shipping, alla quale poi se ne sono aggiunte altre. Oggi le 11 società più importanti e che godono di maggiore reputazione sono raggruppate nella IACS, l’Associazione Internazionale delle Società di Classificazione. Altre società vorrebbero entrare in questo club selezionato. In Italia, il RINA, Registro Navale Italiano, è la sezione tecnica dell’Amministrazione Marittima che effettua i controlli richiesti dalle convenzioni internazionali e concede i relativi certificati. Il RINA attualmente fornisce questo servizio alle Amministrazioni Nazionali di circa 70 paesi marittimi. Come gli altri 10 membri dell’IACS, il RINA assiste le compagnie marittime nell’adeguarsi alla legislazione riguardante la sicurezza in mare e la prevenzione dell’inquinamento marino. Grazie alle sue considerevoli conoscenze tecniche ed alla sua esperienza, il RINA ha certificato 650 compagnie per gli standards ISO 9000 e, dal 1995, coopera attivamente all’ispezione delle navi con le Amministrazioni Nazionali Portuali come US Coast Guards, Australia Maritime Safety Authority (AMSA), UK Marine Safety Agency, Netherlands Shipping Inspectorate, France Affaires Maritimes, e molti altri. Fino al 31 marzo 1997, il RINA ha ordinato 170 fermi di 130 navi per un totale di 1672 infrazioni. Altre Agenzie hanno fatto anche meglio, quelle cioè che hanno partecipato presto al Memorandum di Parigi sul Controllo degli Stati nei Porti. I membri dell’IACS sono attivamente impegnati nell’applicazione del STCW 78/95 - sugli standards di febbraio di quest’anno ed il cui?formazione dei marittimi - emendato il 1 obiettivo è quello di migliorare la formazione, le conoscenze, il carico di lavoro, e altri aspetti che riguardano la qualificazione dei naviganti. I giornali danno spesso molto più rilievo alle bandiere ombra (Flag of Convenience, FoC). Ci sono notizie più piccanti in questo regime d’iscrizione marittimo ampiamento deregolato che raggruppa la maggior parte delle 76.000 navi che solcano i mari di tutto il mondo. I rapporti tra stampa e FoC sono generalmente duplici, negativi in caso di incidente in mare, e fastidiosamente sensibili quando si tratta di scrivere editoriali ben pagati! Ma le bandiera ombra hanno molta più attrattiva per armatori poco scrupolosi. Dunque per controbilanciare la loro influenza malsana e fermare la perdita d’iscrizione al registro nazionale, alcune Amministrazioni Marittime hanno deciso di istituire un registro d’iscrizione parallelo, conosciuto come “secondo registro”, o “registro bis”. La Norvegia (NIS), la Germania (DIS) ed altri paesi - l’Italia li raggiungerà senza dubbio presto - offrono ormai agli armatori la possibilità di selezionare equipaggi di ogni nazionalità, generalmente i meno cari sul mercato del lavoro, un bonus fiscale ed altri benefici marginali: tutto ciò per scoraggiare a lasciare il registro nazionale. Tale opzione, benché risolva alcuni problemi, ne crea degli altri. Il benessere, la protezione nazionale e i benefici sociali studiati in special modo per i marittimi sono certamente un’eredità dei paesi che nel passato erano tradizionalmente orientati verso la navigazione, ma che soffrono ora il declino della loro flotta a causa della partenza delle navi verso le FoC. Queste nazioni tradizionalmente marittime avevano creato strutture come lo Shipping Office in Gran Bretagna o l’Ufficio del Contenzioso in Italia, che garantivano che i marittimi fossero nutriti e pagati secondo i contratti di lavoro e le leggi del paese, e che l’alloggio a bordo fosse adeguato e pulito. Lo scopo di queste strutture pubbliche era di controllare e rettificare i cattivi trattamenti e gli abusi, nonché di porre fine allo sfruttamento dei marittimi. Ma l’industria marittima di oggi, con la sua competitività globale, non vuole ostacoli sulla sua strada. Di conseguenza, queste posizioni sono state abbandonate, anche se la legislazione protettiva resta ancora in vigore. Le bandiere ombra vogliono operare senza costrizioni, senza cinture di sicurezza! Data la loro organizzazione minima ed inutile, le amministrazioni FoC sanno pochissimo
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sulle persone che lavorano a bordo delle loro navi e non vedono l’utilità di impegnarsi in attività senza profitto come il concepire e l’applicare leggi buone sull’impiego o fornire garanzie sociali. Le semplici regole marittime dei Registri FoC, quando esistono, danno poco riconoscimento alle persone che lavorano sotto la loro bandiera e la loro organizzazione incompetente ed inefficace è incapace di assicurarne l’applicazione. Il Registro di St Vincent & Grenadines si trova in un modesto ufficio in Svizzera, iscrive diverse migliaia di navi e controlla il tutto con tre ispettori. Cipro ha un grande ufficio a Limassol, 3000 navi iscritte e 9 ispettori. Queste due amministrazioni, insieme a Malta, Romania ed altri paesi, accumulano ogni mese senza eccezione il massimo d’incidenti e di fermi di navi effettuati secondo il Memorandum di Parigi, per la mancanza di norme per la sicurezza e la salute. Diciamo la verità, le bandiere ombra offrono ad armatori poco raccomandabili un ambiente senza leggi in cui tutta l’autorità è nelle loro mani egoiste. Di conseguenza, il carico di lavoro diviene insopportabilmente stressante ed oneroso, a causa della mancanza di controllo e della pressione imposta da regole economiche irrealistiche, dettate dalla competizione. La routine quotidiana a bordo è di 14/15 ore di lavoro, e quando si arriva o si lascia un porto, può facilmente arrivare a 16-18 ore, con brevi momenti per riposare, quando la possibilità di dormire in modo sufficiente è molto difficile, in particolare su una piccola nave sempre sensibile alle cattive condizioni di tempo e alle vibrazioni dello scafo. La fatica può uccidere! Lunghe ore di guardia, lavoro eccessivo, e mancanza di riposo portano ad una grande varietà di condizioni come depressione, problemi cardiaci, disturbi digestivi e un maggiore rischio di ferite. La fatica può essere causa di disturbi psicologici e fisiologici accompagnati da stress emotivo. La caduta d’attenzione e l’ansia aumentano il rischio di incidenti. Il revisionato STCW e le Convenzioni dell’ILO impongono un limite massimo di lavoro a bordo di 14 ore al giorno e di 72 ore la settimana con un minimo di 10 ore di riposo al giorno o di 77 ore la settimana, che devono essere riportate su un registro. I tradizionali orari in mare, 4 ore di lavoro seguite da 8 ore di riposo, a bordo di navi d’alto mare, e i 4/4 o i 6/6 sono stati adottati quasi universalmente nel cabotaggio. Questi ritmi non creano stress di per sé, ma non sono adattati al ciclo di sonno dell’uomo e hanno un effetto secondario che deteriora i ritmi circadiani e diminuisce l’efficacia del lavoro umano accrescendo nel contempo i tempi di reazione in situazioni d’urgenza. Sfortunatamente gli equipaggi sono, ogni giorno, chiamati a lavorare molto più del tempo base di 8 ore. Uno studio recente ha evidenziato che a bordo delle navi dell’UE, il 38% dei comandanti e il 23% dei comandanti in seconda lavorano ogni giorno una media di 5,3 ore e gli altri ufficiali di coperta una media di 4 ore più del ciclo di 8 ore al giorno. I marinai lavorano da un minimo di 4 ad un massimo di 10 ore di più rispetto al contratto di 8 ore giornaliere. I camionisti hanno uno stretto controllo delle loro ore di lavoro e di riposo e sono spesso controllati dalla polizia della strada. I conducenti di treno hanno un programma di lavoro molto ben organizzato, che normalmente non eccede le sei ore giornaliere, e si riposano fino al giorno dopo. I piloti dell’Alitalia volano 40 ore al mese. MA I MARITTIMI, OVUNQUE SIANO NATI, LAVORANO 24 ORE SU 24. Il controllo nei porti da parte dell’Autorità Marittima non è ancora abbastanza efficace nel vigilare convenientemente tutto ciò. Ma le cose vanno migliorando rapidamente e al momento opportuno vedremo dei buoni risultati. La schiavitù è stata bandita soltanto due secoli fa! La riduzione spietata del numero dei membri dell’equipaggio prodottasi negli ultimi due decenni in seguito all’automazione navale, è stata riconosciuta come la causa più comune della fatica a bordo delle navi. Dalle navi che trasportano fino a 6000 containers pieni di carico prezioso, agli Ultra Large Crude Carriers con 500.000 tonnellate di liquidi pericolosi, sono governate da un manipolo d’anime solitarie. Livelli minimi di sicurezza non corrispondono alle realtà degli scopi del commercio e della distribuzione del lavoro, ma ogni tentativo di fermare la riduzione degli equipaggi è neutralizzato dalla tendenza a costruire navi ad alta tecnologia la cui gestione richiede sempre meno operatori. Tutti coloro che partecipano alla rapida espansione della rivoluzione tecnologica portano un elemento di responsabilità collettiva nel ricercare la soluzione ai conflitti dell’interfaccia uomo/macchina. La situazione richiede una ferma decisione ad invertire la rotta verso una
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dignità umana a bordo. Per distribuire in maniera equa il carico di lavoro senza perdere efficacia anche con un equipaggio ridotto, è necessario che si accetti un nuovo concetto di modus operandi in cui ogni marittimo è un navigatore. Ciò comporta un cambiamento profondo nella tradizione ed implica che ogni membro d’equipaggio, dai meccanici agli uomini di ponte, venga preparato ad effettuare una guardia in maniera sicura quanto un ufficiale di coperta, e sia pagato di conseguenza. Purtroppo tanto i sindacati quanto gli armatori sono unanimi nel rifiutare un tale approccio del problema. I cappellani che visitano le navi in porto conoscono bene i salari e le condizioni di vita dei marittimi. Essi sono i primi a vedere quanto duramente la maggioranza dei marittimi si guadagna la vita. Non si chiede che una nave sia un albergo a quattro stelle, ma neanche che sia un campeggio. Una nave è un’impresa che fa del profitto, ed i cui benefici devono a giusto titolo tornare agli armatori in misura proporzionata al loro investimento finanziario, ma è ancor più giusto che una percentuale adeguata di tale profitto vada ai marittimi per i loro sforzi lavorativi. Invece i cappellani incontrano spesso la collera e il risentimento dei marittimi imbrogliati sul poco che spetta loro. Anche la distribuzione della posta avviene a volte in ritardo. Il morale tocca il fondo in maniera persistente. Ciò che i cappellani vedono, i giornalisti non lo vedono e dunque nemmeno i lettori. Per l’opinione pubblica, il marittimo è praticamente invisibile. Le navi del futuro potranno pure avere un equipaggio di due uomini, ma il futuro del marittimo dipenderà non da soluzioni tecniche, bensì da soluzioni etiche. Vi ringrazio per quanto potrete fare per aiutare coloro che sono impegnati a riportare l’attenzione sulla dignità del marittimo. Augusto com. Meriggioli, 24 ottobre 1997 Presidente dell’Associazione Professionale Capitani Marittimi Giornalista ed Editore di "Uomini e Navi", Genova http://www.stellamaris.net/
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2. SERVE UN PASSAGGIO
«Quando state cercando la soluzione a quello che vi è stato detto essere un problema architettonico, ricordate che potrebbe non essere un edificio» Peter Cook e Ron Herron agli studenti «L’idea della spendibilità, il bisogno di immaginare l’architettura come una disciplina aperta, il bisogno di leggere la città - o ciò che la sostituirà - non come una serie di semplici edifici, quanto come una serie di eventi intersecantesi all’infinito. E ancora: il bisogno di immaginare la progettazione di alloggi come estensioni dell’emancipazione umana, protesi per la sopravvivenza, e non semplici case». Archigram
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intervista a Beppe dott. Caccia Assessore alle Politiche Sociali del Comune di Venezia (23.05.2002)
Diego Segatto: Senza entrare direttamente nella realtà dei marittimi, che sappiamo essere una questione per lo più invisibile alla collettività, come i cittadini di Mestre vivono e vedono attualmente la realtà del porto di Marghera? Beppe Caccia: Credo che la percezione diffusa della presenza della realtà portuale nella nostra città veda prevalere fin’ora essenzialmente l’estraneità, come categoria di una relazione che non c’è. Ma il discorso riguarda Venezia come Mestre, non c’è differenza dalla città d’acqua alla città di terraferma…al di là della rete degli operatori economici legati alle attività portuali, per chi non lavora nell’indotto dell’attività del porto non c’è la percezione dello stretto legame che intercorre tra porto e città. È un mondo a parte… nonostante per anni, storicamente, ad esempio sulla vicenda portuale abbia molto pesato la storia del movimento operaio, della sinistra politica in questa città…una delle sezioni più forti dell’allora Partito Comunista era proprio la sezione dei portuali. Addirittura sembrava che il porto dovesse esprimere uno degli ultimi candidati sindaci della prima repubblica, prima della svolta del 1993. Nonostante questi elementi, in cui è riconosciuto un peso economico, quindi anche sociale, politico del porto come realtà produttiva in città, la percezione invece diffusa da chi non ha direttamente a che fare con il ciclo delle attività economiche portuali è l’invisibilità del porto…quindi non c’è solo l’invisibilità del marittimo come categoria e composizione sociale ma c’è un’invisibilità del porto come realtà produttiva e sociale nel suo complesso, anche di tutte quelle attività che sono ben salde e ben radicate a Venezia o nella terraferma insomma. Questo perché? Credo che le ragioni di fondo siano di diverso ordine. C’è per esempio tutto il vecchio ordinamento dell’organizzazione dell’Autorità Portuale fino all’ultima riforma legislativa che faceva effettivamente del porto, e allora del suo Provveditorato, una realtà scollegata dal punto di vista della gestione delle sue attività dal contesto istituzionale cittadino. Ci sono quindi delle ragioni di ordine legislativo, ci sono delle ragioni che si sono storicamente accumulate di ordine urbanistico, il fatto che la natura extra-doganale (quindi extra-territoriale) delle attività che si sviluppavano in alcune aree portuali comportasse la chiusura, la preclusione fisica di queste aree…un esempio per tutti quello del muro di Santa Marta, la separazione fisica della recinzione, della perimetrazione dell’area portuale per ragioni di sicurezza e doganali, rispetto alle attività che lì si svolgevano e che in parte si svolgono. Ma lo stesso discorso potrebbe essere fatto per il porto commerciale e industriale in terraferma, dove esiste al di là delle recinzioni un’ulteriore barriera fisica che è costituita urbanisticamente dall’area industriale che fa un po’ da cuscinetto tra il tessuto urbano e la stessa area di pertinenza portuale. In più io credo che ci sia un’altra ragione storico-sociale, che è quella che paradossalmente la percezione città del porto è stata condizionata da un modello produttivo di tipo fordista centrato sullo sviluppo del ciclo industriale dell’attività pesante. Per molto tempo, e questo vale soprattutto per la terraferma, il porto è stato visto soltanto come una struttura di supporto per quanto attiene alla fornitura delle materie prime e alle raffinerie e al polo petrolchimico, è stato visto soltanto come un’appendice dello sviluppo industriale centrato sul peso determinante del ciclo dell’attività pesante, con tutte le conseguenze anche devastanti dal punto di vista ambientale e tragiche dal punto di vista della salute, sia per i lavoratori che per la popolazione. Quindi il fatto che il porto fosse visto soltanto, nella percezione diffusa in città fino alla fine degli anni ‘70 e primi anni ‘80, come la struttura che assicurava il transito delle petroliere e l’approvvigionamento di raffinerie del polo petrolchimico ha contribuito ulteriormente a sminuire l’importante rilievo che già allora le attività portuali avevano rispetto alla città nel suo complesso, rispetto alle due città, una città bipolare se vogliamo. Percui alcuni elementi che sono poi intervenuti tra la fine degli anni ‘80 e i primi anni ‘90, alcune trasformazioni del ruolo del porto hanno sicuramente poi avuto riflesso evidente anche sulla
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trasformazione della percezione in città del ruolo del porto…penso ad esempio al boom dell’attività croceristica, la sua crescita significativa, segnata poi non a caso negativamente con pesanti battute d’arresto sia dalla guerra nel Golfo prima, nel ‘91, dagli eventi bellici nei Balcani tra il ‘92 e il ‘99 con fasi alterne e poi più recentemente dalla fase post 11 settembre, tutti questi momenti in cui la guerra è tornata a riaffacciarsi come possibile scenario nel bacino del Mediterraneo hanno segnato delle battute d’arresto per l’attività turistica legata alla presenza di alcune grandi compagnie di crociere nel porto di Venezia e intorno al terminal passeggeri in particolare. Ecco, nonostante queste battute d’arresto legate a precise situazioni e contingenze storiche, il trend, la linea di tendenza è quella invece una crescita di queste attività e un forte investimento anche da parte dell’Autorità Portuale è stato fatto su questo. Già questa presenza per cui c’è anche un interscambio legato all’arrivo in porto, alla partenza, alla crociera…molte di queste comitive arrivano in aereo a Tessera, poi vengono trasferite con navette al porto, oppure si è sviluppato tutto un indotto legato alla presenza dei passeggeri delle navi da crociera a Venezia, percui l’organizzazione per il giro di questi passeggeri, del giro turistico classico per Venezia… questo ha contribuito a rendere più visibile, più evidente questa presenza di attività portuali così come anche la fine, la crisi della monocultura industriale legata all’attività pesante e lo sviluppo invece di altre attività, diciamo la diversificazione dell’attività del porto industriale e commerciale e il legame sempre più evidente tra questa diversificazione delle attività industriali e commerciali in tutto l’entroterra, il porto come una delle tante attività infrastrutturali (e molto significativa dal punto di vista della quantità di merci in arrivo e in partenza movimentate) hanno messo il porto direttamente in comunicazione con tutta la rete produttiva dei distretti, della piccola impresa di tutto il nord-est, quindi con le ampie reti produttive che si distendono nell’entroterra ben oltre Mestre. E questo ha contribuito a far sì che si sviluppassero molte delle attività di servizio legate a questo crescente ruolo di interscambio del porto. Tutto questo diversificarsi sul lato commerciale e industriale e la crescita dell’attività croceristica ha sicuramente contribuito a rendere più evidente il rapporto tra attività economiche legate alla presenza portuale e la città…ha contribuito a una maggiore ricaduta e distribuzione di ricchezza in città legata anche alle attività portuali, insomma il quadro si è sicuramente arricchito, tant’è che oggi quando si può contare su un indotto che è di quasi 18 mila addetti a vario titolo nelle attività portuali, senza contare l’importante apporto della cantieristica legata alla presenza della Fincantieri, è evidente che siamo di fronte comunque alla prima industria della città, alla prima attività economica della città. Teniamo conto che nel frattempo il polo petrolchimico è passato dai 30 mila fra impiegati direttamente al petrolchimico (indotto che ha registrato nel ‘72 la punta massima dei livelli occupazionali) a poco più di 3-4 mila lavoratori impiegati Enichem e attività di manutenzione indotte dalla presenza dell’industria chimica. Le proporzioni oggi sono molto evidenti, anche solo questo dato numerico dà la misura di quanto il porto pesi. Poi alcuni interventi urbanistici legati anche alla capacità che la gestione, di cui va dato atto pubblicamente, del Presidente Boniccioli e al Segretario generale Razzini…quest’accoppiata ha funzionato, ha ricercato fortemente negli ultimi anni il rapporto con la città, il rapporto con le sue istituzioni ma anche il rapporto con il suo tessuto economico e produttivo e il rapporto anche con il suo tessuto sociale e partecipativo diffuso. Quindi diciamo che la presidenza Boniccioli e la direzione generale di Razzini hanno dato una forte impronta…secondo me sono tra quelli che in Italia meglio hanno interpretato, tradotto poi in politiche di rapporto con la città il dettato della riforma delle attività portuali. Hanno interpretato questa parte della città non più come lobby che tenta di pesare in città… D.S.: Quindi anche Porto Marghera potrebbe giocare un ruolo importante in questo rilancio? B.C.: Sì, tenuto conto che qui c’è un problema grossissimo, che è legato alle bonifiche, sulle prospettive. Questo pesa molto sul porto…tutto il tema della ripulitura dei canali, della bonifica dei canali portuali, industriali e commerciali, dei terreni perché è evidente che tutto quello che si può fare in termini di impianto di nuove attività economiche e produttive anche legate alla realtà del porto, dipende molto dall’impatto delle bonifiche. Tutto questo
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ha sicuramente contribuito a cambiare i rapporti tra porto e città, la relazione porto-città, ma credo che ancora prevalga nel senso comune diffuso questa sensazione di estraneità, insomma…voglio dire, in una qualsiasi piazza di Trieste, o di Genova, o di Napoli ci si accorge immediatamente di essere in una città portuale, in città che poi magari hanno anche tante altre opzioni, che non vivono di una monocultura portuale, che hanno una storia altrettanto ricca della nostra…però a piazza Ferretto a Mestre non si pensa di essere in una città portuale, ma neppure in piazza Mercato a Marghera si ha la sensazione di essere a poche centinaia di metri dal waterfront, questa percezione non c’è…per tutta quella serie di ragioni che molto sommariamente ho cercato di elencare, che sono storiche, sociali, urbanistiche…ma salta all’occhio la differenza con le città di mare o le altre città portuali italiane od europee che siamo abituati a conoscere o a presentare ecco… D.S.: Con queste premesse, perché un mestrino o un abitante di Marghera dovrebbe preoccuparsi o quantomeno guardare alla realtà dei marittimi? B.C.: Intanto dovrebbe preoccuparsi a guardare complessivamente alla realtà del porto…io credo che dopo aver impostato un grosso lavoro insieme alla Provincia di Venezia e all’Autorità Portuale di ricerca sulla composizione sociale, sulle condizioni, sui bisogni dei lavoratori del mare, dobbiamo aprire un’ulteriore fase: andare a guardare, scomporre, disaggregare quel dato sui 18 mila tra lavoratori diretti o indiretti che ruotano intorno al porto e che vivono e lavorano sulla terraferma. Il lavoro che noi abbiamo fatto e di cui saremo in grado di mostrare e discutere i risultati in tempi brevi prima dell’estate deve avere dal mio punto di vista un suo naturale sviluppo che è quello dell’indagine, della ricerca su questi lavoratori, capire in quali forme questi 18 mila sono messi a lavoro, con quali rapporti contrattuali, con quali forme di organizzazione del lavoro. È un universo che rimane rispetto alla città sottratto alla vista, credo ad esempio che oggi come oggi il porto sia uno dei maggiori “datori di lavoro” precario o intermittente proprio per la sua organizzazione, buone parte di questo lavoro che c’è nell’indotto collegato alle attività portuali sia un lavoro che ha queste caratteristiche cosiddette “atipiche”…così come è di grande interesse per la città avere finalmente la dimensione di ciò che rappresenta la presenza nomade, l’attraversamento della città da parte del lavoro dei marittimi, intanto perché presenta un dato quantitativo impensabile…quando ragioniamo su una cifra compresa tra le 180 mila e le 200 mila presenze annuali noi abbiamo una realtà nomade che attraversa la città e la duplica, queste sono le dimensioni del fenomeno. Esiste questa città mobile, nomade e invisibile che tra le altre cose è un mercato del lavoro globalizzato ante-litteram, cioè un mercato del lavoro che fin dalle sue origini presenta caratteristiche multinazionali, multietniche nella sua composizione che ne fanno un microcosmo della globalizzazione dei lavori, quindi da questo punto di vista è molto interessante perché poi come la globalizzazione è uno stadio produttivo, sociale ed economico unico ma non omogeneo, al tempo stesso anche il mercato del lavoro imbarcato, il mercato del lavoro marittimo è fortemente frammentato e differenziato al suo interno, nel senso che poi, come sappiamo, ciascuna nazionalità, ciascuna figura professionale imbarcata risponde a rapporti contrattuali e normativi a condizioni di vita e di lavoro che sono fortemente diversificate, siamo in presenza di un ventaglio che va condizioni di eccellenza a condizioni schiavistiche, diciamo semi-schiavistiche a bordo di alcune navi. Non solo. La nazionalità poi di queste persone determina anche dei rapporti diversi con i porti di transito e di sbarco, perché ci sono anche trattamenti differenziati rispetto alla possibilità addirittura di scendere dalla nave e poi in molti casi di circolazione in area portuale, circolazione all’esterno dell’area portuale e in città. E questa cosa rende, io credo, molto interessante per la città l’occuparsi di cosa succede al di là di questo confine un tempo fisico e oggi invisibile che separa il porto dal tessuto urbano. Io credo che sia inevitabile nel medio ma anche nel breve periodo che la città in tutte le sue articolazioni si “prenda cura” di questa composizione che l’attraversa, di questa popolazione nomade e invisibile che comunque costituisce un elemento del panorama economico e sociale urbano, non si può far finta di non vedere…come non si può far finta di non vedere i 4-5 mila invisibili che lavorano nei gironi infernali della fornitura,
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della sub-fornitura, dell’appalto, del sub-appalto all’interno della Fincantieri e allo stesso modo non si può far finta di non vedere nè quella grossissima fetta di lavoro precario intermittente che lavora qui, ben radicata nel nostro territorio nell’indotto portuale e neppure il popolo nomade degli equipaggi che attraversa la città, insomma. Ma perché? Vediamola non soltanto dal punto di vista sociale dei bisogni di questa composizione sociale, vediamola anche da un altro punto di vista: 180-200 mila marittimi che attraversano ogni anno il porto di Venezia sono anche un “mercato” delle attività commerciali della città. Noi quando presenteremo la nostra ricerca è chiaro che ciò su cui lavoriamo è la costruzione di una rete di servizi adeguata ai bisogni di mobilità…di cura anche proprio sanitaria di queste persone che attraversano la città, di servizi di cui hanno bisogno, mobiliteremo anche, per esempio, l’AsCom (l’Associazione dei Commercianti mestrini e veneziani) a rendersi conto di come ci sia un potenziale mercato che ha, come dicevamo prima, disponibilità di tempo e di reddito fortemente differenziate, che è tutto nell’interesse delle attività della città coinvolgere e “catturare” anche, benevolmente, da questo punto di vista…si tratta di rendersi conto che esistono e duplicano nell’arco dell’anno la città e che vanno considerati quantomeno alla stessa stregua con cui vanno considerati i 14 milioni turisti che ogni anno attraversano la città storica. Certo, è una cosa molto diversa lavorare imbarcati e fare turismo oggi a Venezia, però questo è un investimento che io credo vada comunque fatto. D.S.: Quali sono le sue prospettive, sui processi da tempo innescati dal volontariato e dalle amministrazioni (visto che ha già introdotto la ricerca) e più recentemente dagli artisti di Ms3 e dall’associazione StellaMaris friends? B.C.: Devo dire che, come del resto sempre accade, è stato il volontariato ad accorgersi di questa presenza prima delle istituzioni…se pensiamo che per alcuni anni quella sulle condizioni di vita e di lavoro dei marittimi è stata una battaglia solitaria, quasi “da matto”, di poche figure…Padre Mario Cisotto come cappellano del porto ma penso anche ad altre figure come Antonio Blasi, il rappresentante nel porto di Venezia dell’ITF, il sindacalista della CGIL trasporti e del sindacato internazionale dei marittimi che opera, come possiamo immaginare, con notevolissime difficoltà proprio per quelle caratteristiche di differenziazione degli statuti giuridici contrattuali molto diversificati dei marittimi, poi volevo dire che ci siamo accorti anche noi di questa realtà e su questa realtà in termini conoscitivi intanto un primo investimento andava fatto…è ovvio che anche per noi conoscere questa realtà è in qualche modo finalizzato poi ad aprire delle prospettive che è la risposta ai bisogni di queste persone, dopo il riconoscimento di questa presenza bisogna io credo trarre delle conseguenze chiamiamole “operative”, in termini di politiche sociali per queste persone… indico molto velocemente alcune piste di lavoro per quanto ci riguarda, e che avremo modo di illustrare in occasione della presentazione della ricerca: la prima pista di lavoro è affiancare al comitato portuale (che deve rappresentare le categorie economiche, le organizzazioni sindacali, le istituzioni locali di Provincia e Regione, della Camera di Commercio, delle organizzazioni territoriali)…affiancare come accade nei più importanti porti europei un comitato etico-sociale del porto, cioè costruire un luogo che sia riconosciuto anche istituzionalmente, che abbia pari dignità rispetto al comitato portuale che affianca l’Autorità in tutte le principali scelte, un luogo dove invece si rifletta sulle ricadute sociali dell’Autorità Portuale, sia sui marittimi sia sui lavoratori del porto e sulla città in generale, o che sia un luogo dove si vada a definire insieme in termini partecipati delle politiche per queste persone, per questi lavoratori, per questi uomini del mare. Seconda pista di lavoro è cercare di tradurre l’importante sforzo che è stato fatto sulla conoscenza e la ricerca di questa realtà in un osservatorio permanente sul lavoro marittimo e portuale…potrebbe essere riconosciuto sia a livello universitario ma anche a livello internazionale dall’ILO (l’Organizzazione Internazionale del Lavoro), sia dal Ministero dei Trasporti…si potrebbe costruire qui un qualcosa che abbia un senso per la nostra realtà locale e anche dentro la cornice nazionale e quanto meno europea. Terza questione è quella che in qualche misura in una logica di rete vanno ripensati molti dei servizi del nostro contesto cittadino su misura di questa presenza: citavo prima la questione dell’assistenza sanitaria…è chiaro che per
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le emergenze il porto è attrezzato 24 ore su 24 con un efficiente servizio di emergenza e pronto soccorso, ma poi molto spesso questi “nomadi del mare” che attraversano anche il porto di Venezia hanno bisogno di cure sanitarie rispetto ad altre patologie, eccetera…e a sé nella rete dell’assistenza sanitaria e cittadina attrezzata per questo, si è mai posta questo problema della presenza dei marittimi che molto spesso non sono nelle condizioni di essere assistiti dal servizio sanitario nazionale. Era per fare un esempio ma potrei farne un altro: come riusciamo a tradurre il riconoscimento di questa presenza dal punto di vista delle politiche della mobilità? Qualcuno si è mai messo (penso all’Actv) a pensare insieme all’Autorità Portuale, agli opertatori economici dei porti, ai sindacati dei marittimi come permettere a queste persone che magari sbarcano per 6, 7, 8, 10 ore, di raggiungere rapidamente il centro di Mestre o di Venezia e poter (qua dicevo: risorsa anche per l’economia cittadina nel suo complesso) fare shopping, aquisti, in centro raggiungere servizi, attività che ci sono nel tessuto cittadino…cioè come evinciamo dal punto di vista di alcune politiche della mobilità, della realizzazione di alcuni servizi di collegamento rapido fra le banchine e la città…perché al di là poi del riconoscimento di discorsi astratti bisogna tradurre le cose nella materialità di servizi… D.S.: …a volte si tratterebbe semplicemente di rivelare ciò che già c’è… B.C.: …ma penso anche al lavoro che è stato fatto dagli artisti sulla mappa…è importante perché è anche l’efficace rappresentazione visiva e simbolica di questo rapporto tra realtà portuale e marittimi con la città insomma, e tutta la riflessione fatta sulla segnaletica ad esempio. E qua, l’ho lasciata per ultima non perché sia meno importante, è come mettiamo nella condizione questa idea assolutamente irrinunciabile del seamen’s club, quindi di una struttura che sia dedicata proprio all’assistenza diretta e a fornire servizi sia di comunicazione sia più banalmente la possibilità di una doccia, del cambio dei soldi, quelle cose che conosciamo che caratterizzano e connotano l’attività di un seamen’s club come riusciamo a renderle operative e a lavorare con l’Autorità Portuale, Provincia e Comune per farle effettivamente funzionare al meglio, mettere nella condizione lo sforzo che è stato fatto fin’ora sul versante del volontariato di operare in termini di soluzioni immediate, che diano una risposta immediata ai problemi che l’impianto di uno o più seamen’s club in termini di prospettiva di strutture stabili, eccetera…da questo punto di vista la struttura che è stata allestita a Venezia Marittima, la necessità tenendo conto dell’articolazione di punti anche molto distanti tra di loro, di un’analoga struttura a Marghera deve vederci impegnati…un primo passo è stato fatto mettendo a disposizione due container abitativi di proprietà dell’amministrazione comunale la cui localizzazione non è stata ancora decisa da Stella Maris’ friends e Autorità Portuale, anche perché questi vanno allestiti, vanno dotati di servizi…devono essere, come dire, la concretizzazione immediata di qualcosa che però allude a strutture più stabili e sicuramente poi più dignitose, più adeguate di un doppio container insomma. D.S.: Un nodo cruciale per il seamen’s club credo sia anche la collocazione strategica della struttura, in modo che si ponga come luogo di contatto tra porto e città. Per grandi linee il sogno delle persone che lavorano nell’associazione (Stella Maris’ friends) che si stanno impegnando in prima linea sullo scenario è quello di fornire appunto non solo un aiuto concreto ai marittimi sotto il profilo umano, ma anche di dotare la città e il porto uno spazio “altro” dove sia possibile il contatto e lo scambio tra la cultura e il vivere di mare e di terraferma. Quali possibilità potrebbe offrire per la città uno spazio di questo tipo? Lei ha un “sogno” a riguardo? B.C.: A queste domande rispondo con un concetto che secondo me dobbiamo far passare rispetto al seamen’s club. Il seamen’s club non può essere pensato in questa vecchia logica del porto perimetrato, cioè il seamen’s club anche nella sua localizzazione e anche nella progettazione poi concreta, architettonica di questa struttura, sia nella collocazione delle sue strutture provvisorie sia nella sua progettazione dev’essere pensato come un “luogo-
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soglia” e collocato sullo snodo di una cerniera. Cioè noi non possiamo pensare il seamen’s club soltanto nei termini di servizio ai marittimi da collocare in un contesto portuale, questo è il modello che storicamente si è dato anche nei porti del nord europa di seamen’s club, strutture di servizio dignitose…qua manca, andrebbe fatta e sarebbe una cosa importante. Io direi, proprio in virtù di questa consapevolezza nuova che abbiamo della relazione portocittà, potremmo pensare qui di fare un salto ulteriore: costruire un luogo-soglia, quindi non soltanto uno spazio di erogazione di servizi per i marittimi ma un punto di incontro, di contaminazione tra il mondo nomade del mondo marittimo e la città, un luogo anche di interscambio, di contaminazione culturale, un luogo di incontro tra culture e storie diverse…un po’ una porta d’accesso alla realtà del porto e alla realtà del mare per i cittadini di terraferma o della città storica e allo stesso tempo una porta d’accesso alla città per il popolo nomade del mare. Io la vedo così…concettualmente va pensato e poi realizzato tenendo conto di questo elemento, percui anche la progettazione architettonica e la localizzazione del seamen’s club sia nella versione “ponte” temporanea sia nella sua versione definitiva dev’essere pensata in questi termini, come quella di un luogo-soglia, porta d’accesso che ha una duplice entrata e uscita e collocata su un “luogo cerniera”. Questa scelta non è e non sarà neutra e va fatta con grande intelligenza, con grande comprensione poi dei processi sociali che stanno alle spalle dell’idea del seamen’s club ma soprattutti dei processi sociali che noi vogliamo attivare ed innescare con la realizzazione di questo spazio, di questa struttura.
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low-tech versus high-tech «Il tema del recupero di un’area industriale dismessa, situata a stretto contatto con sistemi residenziali economico-popolari, pone il problema di un intervento fortemente connotato sul piano formale, senza necessariamente dover proporre soluzioni “definitive” a costi elevati. In sintesi si vuole innescare un processo di trasformazione del sito che possa far leva sulla creatività degli utenti-gestori: un’officina sociale per la produzione di immagini architettoniche anche a costi ridotti. Si può puntare pertanto sulla smontabilità, sulla riciclabilità, cercando di lavorare su involucri, su pelli che possano mutare nel tempo, su sistemi di tramezzature non convenzionali, mutuati dal mondo delle arti figurative e dal panorama architettonico contemporaneo, utilizzando tecnologie povere, di recupero e fonti energetiche alternative. Da qui possono scaturire le proposte più fantasiose, la ricerca di “nuovi materiali da costruzione” , ma anche il recupero di oggetti dismessi da cicli produttivi obsoleti opportunamente smontati e riciclati». Marina Montuori È dalla sua condizione di “svuotamento”, dalla cessazione dei cicli produttivi e dall’abbandono che Porto Marghera può acquisire una rinnovata aura di territorio per l’immaginario collettivo. Quest’occasione va colta con la presa di coscienza da parte della comunità e dei suoi “consulenti progettuali” che tale ambito possiede delle risorse, del potenziale (culturale oltre che fondiario) da far emergere. Nel particolare caso della realtà dei marittimi, quali interventi possono essere pensati per facilitare la fruizione da parte loro delle risorse del territorio? E quali per evidenziare le tracce per lo più invisibili del loro passaggio? Nell’elaborazione del progetto artistico Ms3, agli autori era subito parsa evidente la necessità, in mancanza del Seamen’s club e dei fondi necessari al momento per la sua realizzazione, di “rivelare il pulviscolo” esistente e di inventarsi una sorta di “Seamen’s club diffuso”, un network di servizi collocati all’interno e ai bordi dell’area industriale, dentro la città, a cui i marittimi potessero agevolmente giungere sfruttando a dovere il poco tempo di franchigia a loro disposizione. Tale è il senso della mappa PortPASS prodotta: una rete di stazioni, banche, ristoranti, locali etnici, farmacie, bar, telefoni pubblici e uno strumento di orientamento in un ambiente urbano privo di landmarks che richiamino a qualche idea di accoglienza. Si tratta di un intervento low-tech per eccelenza se consideriamo i significati che richiama in termini di recupero di materiali già esistenti (anche di scarto, quindi un riciclo) e di utilizzo di tecnologie a basso costo; se poi compiamo uno spostamento concettuale, il low-tech può essere considerato con la valenza delle relazioni interpersonali e ciò che esse comportano in termini di “terreno” su cui operare. Ovviamente non significa che lowtech sia sinonimo di semplicità, ma è comunque qualcosa che parte dalla base, dalle radici. Le relazioni sono i collegamenti (anche di causa-effetto) che si instaurano tra individui, tra esseri viventi, tra materie prime, tra oggetti, e tra tutti questi trasversalmente. Qualsiasi materia, concetto e oggetto è interpretabile secondo le relazioni che questo/a instaura o può instaurare con qualcos’altro: anche l’architettura è un campo di energie relazionali tra materiali da costruzione, tra attori del processo edilizio, tra fruitore e ambiente circostante. Il mondo è ricco di relazioni latenti potenzialmente attivabili che intessono le architetture invisibili del vissuto e di ciò che non lo è ancora: l’arte relazionale, l’architettura intesa come processo partecipativo e gli operatori culturali per il territorio percepiscono queste potenzialità e si occupano di innescare i possibili processi creativi nell’ambito delle relazioni sociali - dove vi sia la necessità di produrre occasioni in situazioni territoriali lacerate, stagnanti o non ancora sviluppate - trasformando ciò che è latente in ciò che è possibile attraverso strumenti non convenzionali come le pratiche artistiche di relazione, l’autocostruzione assistita, lo spostamento concettuale e percettivo con interventi di diverso
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tipo nell’ambiente urbano il cui scopo è condurre a interpretazioni altre dello spazio. Questo punto di vista offre a ciascuno indistintamente una posizione di potenziale artista nel suo campo, in quanto ogni essere umano possiede capacità creative consone alle proprie inclinazioni e attitudini, configurabili nel dinamico sistema creativo collettivo con un coinvolgimento a più livelli nel progetto, dall’ideazione alla partnership. L’apporto intellettuale e materiale di tutti i soggetti interessati a condividere realmente la visione è indispensabile alla concretizzazione della stessa: la ricchezza del progetto sta nella pluralità dei punti di vista e nell’allargamento della partecipazione (per fasi) in termini di risorse umane. Come ogni struttura, anche quella delle relazioni è passibile di danneggiamenti e persino di crolli. Questo lo conosce bene ognuno di noi, con esperienze vissute sulla propria pelle quando gli è capitato di scontrarsi con le idee, gli atteggiamenti e le esigenze altrui. Spesso questi strappi si possono ricucire con piccoli o grandi sforzi, ma cosa succede quando le parti in causa sono comunità più o meno numerose, parti sociali o autorità cittadine? A volte basta davvero poco per mandare in frantumi una situazione, a testimonianza della delicatezza (e comunque della positiva dinamicità) delle relazioni se queste non sono instaurate sulla base di presupposti fondamentali, condivisi, difficoltà che aumentano proporzionalmente alla pluralità dei contenuti e dei punti di vista. È in quest’ambito che dovrebbe entrare in gioco il ruolo del mediatore, spesso una figura politica, che tuttavia raramente riesce nel suo intento a causa della frequente incapacità di comunicare con un linguaggio adeguato oppure con un atteggiamento eccessivamente vincolato alle norme e agli interessi di vertice. Lo sforzo comune andrebbe preso da entrambe le parti in quanto anche la comunità che ama il proprio habitat dovrebbe adoperarsi per intraprendere un dialogo praticabile. Tale è il possibile campo di negoziazione/traduzione in cui intervenire e interloquire che l’arte e l’architettura relazionale - nel ruolo di attivatrici di processi di crescita culturale - vogliono proporre e mettere in atto: un intrinseco ruolo politico svolto non tanto dall’autore-attore del processo creativo (sia egli artista-catalizzatore, parte sociale, partner economico o amministratore) ma piuttosto dall’intero campo di relazioni messe in gioco di fronte a un obiettivo comune. L’area del waterfront industriale costituisce di fatto uno strappo tra il tessuto urbano e sociale di Mestre-Marghera e il suo porto. Questa tesi si propone ora di presentare quanto il sottoscritto e il collettivo dell’associazione StellaMaris’ friends stanno elaborando in sintonia con le autorità locali per creare le adeguate condizioni di accoglienza per i marittimi e una rinnovata coscienza cittadina a riguardo. La partecipazione in assenza di comunità La parola comunità evoca in alcuni una sensazione piacevole, un senso di fiducia e di tranquillità. Ma vivere in una comunità richiede anche un prezzo da pagare: la libertà, intesa come autonomia, diritto all’autoaffermazione, diritto di essere se stessi. La crisi della comunità è tutta qui: ai nostri giorni sembra che quasi nessuno sia disposto a scambiare la propria libertà con i benefici che derivano dal fare parte di una comunità. Lo stato di costante precarietà in cui la maggior parte delle persone sono tenute dai gruppi dominanti, che hanno fatto della liberalizzazione e deregolamentazione le parole d’ordine e il principio strategico più osannato e perseguito, rende ancora meno appetibili i legami comunitari, sempre meno efficaci nel loro ruolo di assicurazione collettiva contro le incertezze vissute a livello individuale. Sono ormai in molti a pensare che la metropoli, con tutta la sua durezza e violenza, sia ancora lo spazio che ci dà la possibilità di essere più liberi (di occupare e attraversare territori, di consumare, di assumere diverse identità, di non partecipare). Gli abitanti della metropoli, in massima parte, esercitano queste libertà secondo un’ottica nichilista che non ha altri fini se non quello di soddisfare il desiderio individuale di arricchirsi e di consumare (cfr. Ilardi). In questa situazione che speranze ha di realizzarsi lo ‘scenario’ così descritto da Careri: «tutti gli abitanti recupereranno l’istinto alla costruzione del proprio spazio di vita. L’architetto, come l’artista, dovrà cambiare mestiere: non sarà più costruttore di forme isolate, ma di ambienti completi, di ‘scenari di un sogno ad occhi aperti’. L’architettura farà così parte di un’attività più estesa e come le altre arti scomparirà a vantaggio di un’attività unitaria che
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considera l’ambiente urbano come terreno di un gioco di partecipazione»? Perché si realizzi è necessario che settori sempre più ampi della popolazione si convincano che il fine della partecipazione non è resuscitare la comunità tradizionale (che quasi nessuno ormai vuole), ma contribuire a realizzare nuovi spazi e forme di convivenza che non costringano l’individuo a rinunciare alla propria soggettività, a restringere i propri margini di libertà. In questo senso è necessario che ogni pratica partecipativa soddisfi alcuni requisiti. In primo luogo l’abitante deve essere messo in condizioni di rafforzare la propria soggettività, nella convinzione che ogni sforzo fatto di interessarci agli altri rischia di fallire se non troviamo in noi stessi la forza di tale interesse. Ogni interazione deve diventare inoltre un’occasione di ‘gioco’ che renda l’abitante sempre più cosciente del suo potenziale di creatività e risvegli in lui quella volontà di ‘rovesciamento’ (détournement) che è essenziale per cambiare il senso di tutto ciò che serve il potere e lo mantiene in vita. Un altro principio consiste nell’evitare ogni comportamento autoreferenziale e nel rinunciare ad affezionarsi al ruolo che ciascuno di noi svolge nell’ambito dell’istituzione o dell’organizzazione di cui fa parte. Alessandro Giangrande (dalla prima sessione del workshop sull’architettura partecipata all’Università Roma Tre, Roma, 4-5 aprile 2002)
Campo Boario, Roma Ararat è nato con l’idea di trasformare un confine in uno spazio pubblico. Per confine si intende quell’insieme di distanze e differenze che ci dividono da chi arriva in città dopo essere stato costretto ad abbandonare il proprio Paese di provenienza. Tali distanze e differenze non trovano ancora in questa città luoghi dove dispiegarsi, restando perlopiù impercorribili. Per chi vive in città e necessariamente si confronta con l’evidenza dei fenomeni d’immigrazione, non esiste un percorso di avvicinamento, ci si ritrova sotto gli occhi la presenza dell’altro senza aver coperto alcuna distanza nel tentativo di avvicinarsi e di comprendere. Questa evidenza, accompagnata dalla banalizzazione che ne fanno spesso i media, e dalla criminalizzazione sociale alimentata dalla destra nazionalista e xenofoba, rende tale confine trasparente e allo stesso tempo insormontabile, condannando all’emarginazione e al silenzio culture compresenti in città ma che non si può dire che convivano in assenza di spazi di rappresentazione della propria identità ma soprattutto di relazione e di confronto con il resto della cittadinanza. Nel tentativo di dare spazio a questo dispiegarsi di differenze, stiamo cercando, ormai da tre anni, di dare a questo confine, così evidente al Campo Boario, la visibilità, la consistenza e la vivibilità di uno spazio pubblico. L’Ararat è stato il primo passo verso l’elaborazione al Campo Boario di uno spazio pubblico, incerto e dinamico, dove si possa, attraverso spazi e comportamenti conviviali, d’ascolto e di espressione, frequentare e abitare quelle distanze e quelle differenze. Entrando nelle delicate dinamiche di convivenza nell’area siamo venuti a contatto con il grande sforzo di solidarietà e di promozione interculturale svolto dal Villaggio Globale da più di dieci anni. Un lavoro sul campo fatto di impegno e presenza nella gestione quotidiana di difficili convivenze, di contenimento del degrado, ma anche di progettualità. Qui, infatti, è nata l’idea di un progetto di recupero attento e solidale di quel territorio, che fa della caoticità e della marginalità del Campo Boario, la principale risorsa per un rilancio non solo urbanistico ma anche ambientale e sociale dell’area. A questa idea abbiamo aderito con l’intento di istruire un laboratorio di ricerca interdisciplinare, in un territorio paradigmadico di una realtà caotica ma viva e per larghi tratti solidale, quale è il Campo Boario. Oggi, davanti alle ennesime ipotesi di riqualificazione dell’area invitiamo l’amministrazione e la cittadinanza a comprendere che Il Campo Boario è un luogo unico a Roma, espressione caotica, ma anche estremamente complessa delle contraddizioni della città contemporanea, un luogo che non ha bisogno di una tabula rasa per essere reinventato, ma di un’attenta operazione di ascolto e di interazione creativa, affinché la marginalità che lo connota si possa emancipare e dar luogo ad un laboratorio unico nel suo genere, dove l’arte possa contribuire, calandosi al centro delle contraddizioni, a elaborare nuovi modelli di convivenza. Stalker, Laboratorio d’arte urbana (2002)
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StellaMaris’ friends - onlus Mission L’Associazione svolge attività di utilità sociale, rivolte alla gente di mare, a qualunque razza, nazionalità o religione appartenga, nei settori dell’assistenza sociale, socio-sanitaria, della ricerca, della formazione, della promozione e tutela dei diritti civili. Per realizzare tale scopo l’Associazione si propone di: - Promuovere e sostenere iniziative socio-assistenziali, culturali, spirituali, sportive e ricreative, intese a migliorare le condizioni di vita e di lavoro dei marittimi; - Promuovere e all’occorrenza gestire centri socio-ricreativi per gente di mare, dove i marittimi possano trovare, in un ambiente sereno, quei servizi tipici dei Seamen’s club presenti nei maggiori porti del mondo e auspicati dalla Raccomandazione Internazionale ILO 173; - Visitare ed assistere i marittimi sulle navi; - Visitare ed assistere i marittimi qualora ospedalizzati o in carcere; - Ospitare e temporaneamente i marittimi in situazioni di bisogno; - Favorire i contatti con i familiari, amici e Paesi d’origine dei marittimi, con tutti i mezzi di comunicazione adeguati allo scopo (telefono, internet, posta elettronica, ecc.); - Tutelare e promuovere i diritti dei marittimi sanciti dalle Convenzioni Internazionali; - Mettere a disposizione dei marittimi gli strumenti bancari attraverso cui poter effettuare rimesse alle proprie famiglie, in special modo effettuare versamenti in valuta, ed operazioni di cambio finalizzate al trasferimento degli emolumenti ai Paesi d’origine; - Promuovere, organizzare e partecipare ad attività finalizzate alla conoscenza e alla sensibilizzazione circa le problematiche del mondo marittimo e del personale navigante, come manifestazioni di ogni genere, conferenze, dibattiti, tavole rotonde, convegni; - Curare la pubblicazione di studi del settore; - Effettuare attività di educazione, formazione ed istruzione anche extrascolastiche nelle materie inerenti alla realtà della gente di mare; - Promuovere attività culturali, sportive, d’incontro e di amicizia per favorire l’integrazione fra lagente di mare e la città; - Promuoveere la giustizia e la solidarietà fra la gente di mare anche con interventi coordinati con organizzazioni del lavoro e della fratellanza; - Stipulare accordi e convenzioni con altre istituzioni ed associazioni, sia nazionali che internazionali, corrispondenti alle finalità sopra indicate; - Partecipare in società, enti, associazioni o istituzioni pubbliche o private nell’ambito degli scopi statutari; - Promuovere, ricercare e incentivare ogni altra attività che comunque porti beneficio alla gente di mare. L’Associazione può svolgere le sue attività in collaborazione con qualsiasi altra istituzione pubblica o privata nell’ambito degli scopi statutari oppure associarsi con altre istituzioni. L’Associazione nelle sue varie attività si ispira: - Alla Convenzione Internazionale ILO 163 e alla corrispondente Raccomandazione ILO 173 riguardante il Welfare dei marittmi a bordo e nei porti: - Ad esperienze esistenti e consolidate in campo internazionale esperibili presso altre Associazioni analogamente impegnate in servizi di assistenza ai marittimi, e connesse a network mondiali come l’organizzazione internazionale ecumenica ICMA (International Christian Maritime Association) e l’ICSW (International Commettee on Seafarer’s Welfare).
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Soci fondatori Persone fisiche: Robin Ambrosi, libero professionista Fabrizio Berger, architetto Federico Bertazzo, libero professionista Alberto Cigana, laureato in psicologia Vito de Angelis, pilota del porto Roberto Fattore, consulente sistemi informativi Emilio cap. Gamba, amministratore agenzia marittima Andrea Jester, managing director Renzo Jester, ex broker navale Alberto Laggia, giornalista Stefania Mantovani, maestra d’arte Giacomo Martino, sacerdote Alberto Piovan, impiegato Diego Segatto, studente in architettura Enrico Testolina, promotore finanziario Enti: Autorità Portuale di Venezia Associazioni culturali: artway of thinking Stella Maris - onlus (Genova) ZonAnomala Consiglio Direttivo: Andrea dott. Jester, Presidente Emilio cap. Gamba, Vicepresidente Robin Ambrosi Renzo rag. Jester Alberto dott. Piovan Diego Segatto Federica dott.ssa Thiene Struttura organizzativa Per meglio organizzare le molteplici idee che l’associazione si prefigge di realizzare la progettualità è stata suddivisa in tre grandi tematiche che riguardano i corrispondenti punti dello statuto: 1. Welfare dei marittimi: Visitare ed assistere i marittimi sulle navi. Visitare ed assistere i marittimi qualora ospedalizzati o in carcere. Ospitare i marittimi in situazioni di bisogno. Favorire i contatti con i famigliari. Tutelare e promuovere i diritti dei marittimi. Mettere a disposizione dei marittimi gli strumenti bancari. 2. La costruzione degli edifici di stellamaris: Promuovere e gestire centri socio ricreativi per gente di mare (in particolare si intende la realizzazione architettonica e la gestione dei centri Seamen’s Club. 3. La comunicazione e la promozione: Promuovere e sostenere iniziative socio assistenziali, culturali….intese a migliorare le condizioni di vita dei marittimi.
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Promuovere, organizzare e partecipare ad attività finalizzate alla conoscenza ed alla sensibilizzazione circa le problematiche del mondo dei marittimi. Curare la pubblicazione di studi del settore. Effettuare attività di formazione ed educazione. Promuovere la giustizia e la solidarietà tra la gente di mare. Stipulare accordi e convenzioni con altri istituti…partecipando anche in società, enti, ecc. che promuovano gli stessi scopi. Ovviamente questi temi sono sinergici tra loro e non posso essere visti come compartimenti stagni ma possiamo vederli come contenitori in cui per talenti, esperienze e capacità, le persone possano più facilmente dare il proprio contributo. Questo si traduce nella creazione dei tre gruppi che lavorano distintamente sulle singole tematiche sopra elencate, trovando punti di condivisione con gli altri gruppi: GRUPPO WELFARE lavora sul Welfare dei marittimi. GRUPPO COSTRUZIONI lavora sulla costruzione delle strutture. GRUPPO COMUNICAZIONE lavora sulla comunicazione e la promozione. L’obiettivo finale è la realizzazione di un piano dei lavori pluriennale autosostenibile, per fare questo è necessario redigere un progetto fatto ad obiettivi che trovano la loro attuazione con la realizzazione dei singoli progetti aventi risorse umane ed economiche chiare. Alcuni di questi progetti dovranno essere pensati come remunerativi al fine di sostenere quelli che hanno solo voci di spesa. La costruzione del progetto generale fatto a singoli capitoli dà la possibilità di uscire per trovare affiliazioni e sostenitori che sposino l’iniziativa singola o l’iniziativa generale di StellaMaris’ friends.
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“Welcome in Venice” project Il finanziamento di progetti culturali e con finalità sociali è sempre un tema difficile da affrontare. Molti progetti interessanti spesso non riescono a trovare il sostentamento economico necessario e naufragano nel momento di farsi concreti per due ragioni principalmente: in primo luogo la mancanza di una cultura diffusa per il sostengo di attività culturali, sociali e artistiche da parte del sistema economico (questo problema è contestuale al paese in cui si opera) e in secondo luogo l’assenza di non sempre disponibili capacità d’iniziativa nel “fund rising” (l’allestimento dei finanziamenti). La fortuna di un’associazione come StellaMaris’ friends è l’essere composta da un gruppo eterogeneo di individualità che mettono le proprie capacità e professionalità al servizio di obiettivi comuni. In questo caso si tratta del benessere dei marittimi e dell’informazione legata alla loro realtà, obiettivi che rendono necessaria una serie di iniziative tra loro connesse (vedi paragrafo precedente) e che richiedono un sostegno finanziariamente adeguato, consono anche al profilo culturale (e di immagine) dell’ambito veneziano. Per far fronte ai numerosi interventi previsti nel territorio, dall’allestimento di sedi operative e d’accoglienza all’organizzazione di eventi pubblici, StellaMaris’ friends ha puntato sul programma di finanziamenti dell’ITF (International Transport workers Federation), il più potente sindacato internazionale dei trasportatori con base a Londra e operante in molte nazioni del mondo attraverso referenti locali (Andrea Blasi per l’Italia). L’ITF ha finanziato sino al 2002 progetti in qualsiasi parte del globo dove vi fosse lo scopo di rispondere alle convenzioni e ratificazioni ILO o di prestare dei servizi per agevolare la condizione dei marittimi in generale. Con ogni probabilità dal 2003 questo genere di supporti economici si sbilancerà verso iniziative a carattere di interscambio culturale internazionale e il sostegno per la crescita di progetti a lungo termine per i marittimi nei paesi del Terzo Mondo. È proprio nel periodo che va da giugno a luglio del 2002 che l’Associazione ha confezionato il complesso incartamento necessario a giustificare l’elargizione di somme importanti (attorno ai 120 mila euro), incartamento contenente dall’atto notarile di Costituzione dell’Associazione, Statuto, resoconto delle attività svolte fino a quel momento, bilancio finanziario dell’anno precedente, struttura dell’Associazione e risorse umane, voci di spesa, ecc., fino alla più stratificata serie di allegati che spiegano in dettaglio tutti questi aspetti e molte altre voci, tra cui ovviamente i progetti futuri da appoggiare, puntualmente interrogate nei moduli denominati appunto “attachments” (per approfondimenti http://www.itf.org.uk/ itf_trust/grant_applications.htm). Ricordo sinteticamente le condizioni di vita a bordo delle navi e i conseguenti servizi di base con i quali rispondere in terraferma: 1. Lunghi periodi di isolamento durante la navigazione > telefono internazionale, servizio posta, Internet, ecc. 2. Scarse relazioni sociali e disorientamento nei luoghi di approdo > trasporti, servizi di orientamento, strutture ricettive. 3. Riduzione dei tempi di socialità a bordo a causa dei lunghi orari di lavoro, del sistema dei turni e della riduzione degli equipaggi > luoghi di socializzazione a terra, telefono internazionale. 4. Riduzione del tempo libero anche nelle soste nei porti > trasporti, club o strutture ricettive vicine alle navi, rapidità d’accesso a centri commerciali. 5. Scarse strutture ricreative a bordo delle navi e nei porti di approdo > strutture ricreative. Di seguito sono riportate alcune delle cartelle componenti l’istruzione del progetto denominato “Welcome in Venice”.
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3TELLA -ARISg FRIENDS /.,53 NO PROFIT ORGANISATION 3EAFARERSg WELFARE FACILITIES AND SERVICES MAP
0/24 /& 6%.)#% )4!,9 MIN BY MINI BUS
3HUTTLE SERVICE TO BE IMPROVED REQUEST THROUGH TOLL FREE NUMBER
3HIP VISITING -%342% $/7.4/7.
3EAMENgS CLUB -ARGHERA ENVISIONED LOCATION ESTIMATED OPENING 6ENICE 0ORT !UTHORITY CONCESSION
#)49 /& 6%.)#%
-!2'(%2! $/7.4/7.
3(/00).' #%.42% #/--%2#)!, 0/24 !2%! -ARGHERA
).$5342)!, 0/24 !2%! -ARGHERA -ALCONTENTA
4/52)34)# 0/24 !2%! 6%.)#%
3TELLA -ARISg HEADQUARTER TO BE ESTABLISHED
!DMINISTRATION &ILIPINO "ALITA EDITING
SERVICES MANAGING MINI BUS PARKING WEBSITE EDITING DOCUMENTS ARCHIVE STAFF MEETING POINT
/), 0/24 !2%! -ARGHERA -ALCONTENTA
,IVE IN CONTAINERS ENVISIONED LOCATION TO NEGOTIATE WITH THE MANAGING COMPANY OF THE CENTRE
3EAMENgS CLUB 6ENICE CURRENT FACILITIES AND SERVICES PRE PAID PHONE CARDS PHONE CENTRE TELEPHONE BOOTHS INTERNET POINT TO BE IMPROVED FAX SERVICE INTERNATIONAL NEWS CORNER POSTAL SERVICE MONEY REMITTANCE TO BE IMPROVED LEGAL SERVICES CRISIS INTERVENTIONS TO BE ESTABLISHED RECREATIONAL ROOM KITCHEN TEA ROOM SHOP 3ATELLITE 46 ROOM
M
KM
proposte di nuovi interventi (elaborati progettuali di tesi)
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fari segnalatori di accesso ai gates Il primo problema che si pone a chi percorre l’area del porto di Marghera è l’orientamento. Benché tra i marittimi esista quella pratica informale di trasmissione informazioni, chiamata "radio poppa" dal capitano Gamba (vedi l’intervista a pag. 36), vi è un dato di fatto: le banchine di sbarco e imbarco alle quali attraccano le navi non sono minimamente segnalate, anzi, non hanno nemmeno un nome o una qualsivoglia codificazione numerica che le collochi in un sistema riconoscibile, leggibile. La nominazione dei 7 gates (vedi mappa PortPASS e mappa dei servizi StellaMaris’ friends) si è concretizzata con l’azione artistica "allegato d’acqua" dalla necessità di fornire un minimo riferimento geografico agli studenti e agli artisti per leggere l’esperienza. Eppure si è rivelato uno strumento fondamentale e fino a quel momento mancante nello scenario di chi lavora in quella realtà portuale. Ma nominare i gates è solo un primo passo, dal momento che le banchine si mimetizzano nell’ambientazione industriale e alcune sono parte integrante di inaccessibili e confinate proprietà. Credo che il passo necessariamente successivo debba essere l’installazione di attrezzature segnaletiche, lungo i tracciati stradali in prossimità dei gates, che aiutino i marittimi a raggiungere in modo più agevole i servizi e a ritornare all’imbarcazione, sia di notte che di giorno.
faro
numero gate
mappa porto-città
76
vista notturna con layouts retroilluminati
77
500 cm
1
2
7
Gate
8
3
4 5
100 cm
6
elementi costruttivi 1. plexiglass traslucido bianco 2. traversi di irrigidimento 3. involucro di alluminio verniciato (3 mm) 4. elemento centrale portante cavo 5. mappa del porto, protezione in plexiglass trasparente, lampade di illuminazione 6. zavorra stabilizzante 7. lampada al neon 8. pannello fotovoltaico
78
5
contestualizzazione (il numero riportato sul faro è puramente indicativo)
gate 1
gate 2
79
gate 3
gate 4
80
gate 5
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una festa per i marittimi Un evento per far incontrare la città con una realtà altra che gli è propria, ma dimenticata ai bordi dell’insediamento urbano (e nemmeno troppo distante). Un’occasione per sensibilizzare la cittadinanza ad accorgersi del proprio porto e della componente umana che vi lavora può essere fornita da una festa pubblica nei siti più centrali del tessuto urbano, attraverso degli espedienti con i quali l’arte e la creatività giochino con l’immaginario collettivo per rovesciarne i luoghi comuni. Il 27 settembre è stato dichiarato dall’IMO “World Maritime Day”. La proposta è che Marghera e Mestre facciano propria tale festività e la adottino per rendere omaggio alla componente sociale del mondo marittimo che ogni anno percorre la terraferma veneziana, senza dimenticare che essa contribuisce a nutrire anche il suo indotto economico. Una “festa del marittimo” dove risvegliare il senso collettivo di partecipazione alla vita pubblica e la coscienza sui fenomeni che animano la città, anche se questi sono lontani dallo sguardo quotidiano. Un pensiero potrebbe essere rivolto alla diffusione di un segno in città, attraverso l’organizzazione non di un episodio isolato ma protraendo la festività non ad un giorno solamente bensì ad una settimana con eventi collaterali alla festa: - per il primo anno un’esposizione artistica allestita dai ragazzi del Liceo Scientifico G.Bruno, protagonisti di “allegato d’acqua” e tutt’ora attivi in un dialogo con gli artisti di Ms3 per trasferire alla città la loro esperienza; - conferenza annuale al Centro Culturale Candiani sullo stato delle operazioni. Il fulcro della festa è costituito dai containers portastorie e dalle iniziative a carattere culinario: il cibo è un potente veicolo dei valori di un popolo e riesce istintivamente a riunire attorno a un tavolo o a un fuoco genti di ogni cultura e provenienza.
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In progetto della festa potrebbe essere condotto con la compartecipazione dei seguenti enti: Patrocinio: StellaMaris’ friends - onlus e altre associazioni culturali che operino per l’interscambio culturale Sponsors: Comune di Venezia Autorità Portuale di Venezia Provincia di Venezia AsCom (Associazione Commercianti) Collaborazioni: Comitato di quartiere Marghera Estate Village Associazioni multietniche Locali tipici ed etnici del territorio (allestimento degli stand gastronomici)
artigianato etnico stand gastronomici cucina etnica containers portastorie bancarelle
tendone elaborato dal progetto di "Renzo Piano Bulidng Workshop" per l’UNESCO Neighbourhood Workshop a Otranto
< Allestimento della festa in Piazza Ferretto (Mestre)
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I containers portastorie Il container è oggetto emblematico delle strategie di movimentazione delle merci nel mercato globale da circa 40 anni, ideato per velocizzare i tempi di trasporto attraverso rapide operazioni di carico/scarico, in serie, facilmente stoccabili, paradigma del pensiero taylorista. Normalmente ne troviamo in grandi quantità in prossimità degli scali intermodali di carattere portuale, ferroviario, logistico e da qui su qualche camion: quindi appartenente al contesto periferico estremo, al di fuori della vista e della dimensione urbana del centro cittadino, non uso quest’ultimo a incrociare lo sguardo con ciò che rudemente Porto Marghera, molo A esibisce la propria funzione senza mascherarsi dietro il premuroso maquillage dell’estetica quotidiana. Collocare un container in un luogo centrale e costantemente frequentato, attraversato a tutte le ore come Piazza Ferretto, agorà mestrina, costituisce uno stimolo scioccante per i passanti (nel significato che Walter Bejamin dà alla parola shock nel contemporaneo), costringendoli a confrontarsi con ciò che non è abituale, totalmente decontestualizzato.
Verso Fusina-Malcontenta
Tale operazione gioca sul senso di spaesamento vissuto dai fruitori dell’esperienza, che vivono così lo spostamento percettivo necessario a entrare nel gioco della festa. Questo salto concettuale è favorito anche dall’allestimento dei containers che, non più chiusi e inaccessibili come siamo soliti vedere, diventano invece dei luoghi di attraversamento: al loro interno la dimensione ludica e di spaesamento viene amplificata e orchestrata a seconda dell’effetto ricercato, come è di seguito illustrato.
Deposito in via Altobello, non lontano dal centro di Mestre
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Container "on_board" La finalità del primo container è dare la temporanea sensazione di trovarsi all’interno di una nave mercantile, o meglio trasferire al passante le impressioni più forti che si vivrebbero al suo interno: il senso amniotico di isolamento, solitudine, separazione, di ambiente macchinico e poco accogliente è suggerito da uno spazio claustrofobico e opprimente, una crepa nel pensiero lineare dei "terrestri", coloro che non navigano. È il paradosso rispetto a quanto scriveva Le Corbusier in Vers un architecture nel capitolo I piroscafi, allora monumentale simbolo delle nuove conquiste dell’ingegneria navale e nelle intenzioni di quell’epoca trasferibile al contesto edile. Il sogno razionale e funzionalista standardizzato dei pianificatori si è trasformato ancora una volta nell’incubo di chi vive gli spazi progettati.
pannelli in plexliglass: testi tematici sul mondo marittimo, caratteri fluorescenti
telaio dell’allestimento in tubi innocenti diffusori audio: il continuo brusio del motore
tende di tessuto nero opaco
tende di nylon
lampade al neon
il fondo del container intriso di nafta ne emana l’odore
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Container “seamen’s point” Il secondo container rappresenta l’esatto opposto del primo. È la metafora del passaggio a una situazione confortevole, rilassata, ludica, di dialogo, ovvero tutto ciò che normalmente i marittimi possono trovare in quella che chiamano “una casa lontano da casa”, ovvero il Seamen’s club. Questo spazio è pensato anche per l’incontro con dei rappresentanti dell’associazione StellaMaris’ friends per spiegare le finalità della loro attività e su come sia possibile fornire loro un aiuto concreto.
teli colorati (souk o batik)
lampade al neon
rivestimento in pannelli di legno wafer
contenitore per le bevande sedute imbottite di gommapiuma
tatami o tappeto in canapa
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La ricchezza di un’installazione di questo tipo sta nel suo carattere smontabile e facilmente trasportabile, il che potrebbe farne un allestimento mobile, nomade come il marittimo, una festa esportabile e girovaga, testimone e narratrice di storie come lo è chi è sradicato, chi per scelta o per obbligo è svincolato da un luogo fisso o dalla terra natia. È un evento costruibile con tecniche semplici, low-tech, ma che riflette uno scenario ben più complesso. Ma questa è una della possibilità offerte da una professionalità collocata in un ambito di relazioni sociali e per il sociale, una scelta etica che propone l’architetto stesso come “costruttore di situazioni” per far emergere relazioni altre, come produttore di conoscenza per risvegliare la coscienza collettiva e rendendo così possibile rivelare potenzialità inespresse.
Cliobangkok+Infosign, paper fish in plastic water, realizzato in seno alla IV Biennale Internazionale delle arti, Quarrata
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il caravanserraglio Negli ultimi mesi del 2001 il Comune di Venezia ha donato all’associazione StellaMaris’ friends due containers abitativi provenienti dal campo nomadi di Zelarino, ora dismesso. Il Consiglio direttivo si è interrogato sul luogo più opportuno dove collocarli ed ha deliberato la proposta di sistemazione in prossimità del centro commerciale Panorama (cfr. mappa dei servizi, pag 74). Infatti una delle necessità prime dei marittimi è fare compere nei grandi shopping mall, dove si trova un pò di tutto, compresi telefoni pubblici e sportelli di cambio valuta, e dove si accettano più facilmente dollari americani.
L’area del centro commerciale Panorama, evidenziata, in ideale prossimità del porto
Questo intervento va naturalmente negoziato con il consorzio che gestisce il complesso commerciale di quell'area e va trovata una soluzione progettuale che renda anche esteticamente plausibile la presenza di containers abitativi nel posto, attraversato da intensi flussi di traffico carraio e pedonale. La partecipazione attiva dei gestori commerciali è più che giusificata: non va sottovalutato il potere d’acquisto che i marittimi sono in grado di mettere a disposizione. In tale struttura provvisoria, dal momento che è pensata per sopperire alla temporanea mancanza del Seamen’s club a Marghera, i marittimi possono trovare rifugio leggendo un giornale, bevendosi un caffè, mentre attendono il pulmino per il trasposto alle banchine. Anche chi fornisce il servizio di trasporto può trovarvi riparo mentre attende i marittimi impegnati a fare acquisti, ma forse ancora più importante è l’occasione d’incontro che può esercitare una struttura dignitosa aperta ai flussi e agli scambi spontanei, come un semplice tetto può fare.
Caravanserraglio a Ribat-i-Saraf, Iran
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Il caravanserraglio di Ribat-i-Saraf fu costruito nel 1200 per ospitare e proteggere le carovane durante i loro spostamenti.
La parola “caravaserraglio” richiama l’architettura degli ospizi fortificati eretti lungo le strade commerciali che attraversavano il Medio Oriente e l’Asia Minore, nel periodo del tardo medioevo europeo. Queste strutture accoglievano carovane di mercanti e viaggiatori che si avventuravano nei lunghi viaggi che mettevano in comunicazione civiltà lontane lungo la via della seta, ricoprendo a piedi e con i mezzi di locomozione di allora distanze enormi. Possiamo soltanto supporre che in questi luoghi di incrocio forzato, per ripararsi dalle tempeste e dai predoni, si siano create situazioni interessanti, tanto conlfittuali quanto di scambio, di contaminazione reciproca e di mutua conoscenza. Il caravanserraglio di Marghera, collocato appunto in un tale spazio commerciale, potrebbe rifarsi a esperienze di questo tipo, dove il luogo che ospita servizi viene associato alle possibilità di scambio spontaneamente offerte dall’attraversamento, o meglio dalla frequentazione di luoghi di sosta, d’incrocio. In fondo si parla del tema (latente) delle stazioni (autobus, treni, aerei, battelli), spesso luoghi di relazione forzata, quindi anche di relazione in crisi, negata dalla rapidità della consumazione di tali spazi che ci inducono forse, in mezzo a una folla in movimento, a cercare più l’isolamento che il confronto. Di fondamentale importanza risulta quidi pensare a questo intervento come ad un attrattore, anche in termini di spettacolarizzazione mediatica, un esempio che non passi inosservato e rimanga impresso non per la sua precarietà visiva ma per il suo valore comunicativo, un richiamo per la coscienza collettiva verso l’altro che attraversa i suoi stessi spazi, verso chi vive una condizione di marginale esclusione benché partecipi ai cicli di produzione delle ricchezze di quella Nomadi del Sahara marocchino in un rifugio, attenstessa società disattenta o ignara. dono la fine di una tempesta di sabbia tamburellando alcuni strumenti locali
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Il progetto
Una collocazione ottimale è la sede estiva del Marghera Estate Village, con il quale vi potrebbe essere unâ&#x20AC;&#x2122;integrazione; gli altri periodi dellâ&#x20AC;&#x2122;anno suggeriscono, come evidente, un intervento riqualificante
planimetria 1- pannelli di onduline traslucido montati su telaio ligneo 2- trave principale (IPE 300) 3- pavimentazione in lastroni di cemento 4- trave secondaria (IPE 240) 5- sedute in materiale plastico e postazione telefonica
4 5
3
2
90
400 cm
1
sezione longitudinale 6- cornice in profilati metallici 7- copertura in lamiera grecata 8- pilastro in acciaio (Ă&#x2DC;160 mm) 9- lampade tubolari al neon fissate al telaio di supporto 7 6
8
350 cm
9
1500 cm
vista notturna con accesi i neon interposti allâ&#x20AC;&#x2122;onduline
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3. UNA CASA LONTANO DA CASA
«È interessante osservare come oggi la questione delle identità costringa l’architettura alla dimensione di prodotto e come tale che essa sia soggetta alle leggi del mercato e della comunicazione. Questa novità, nonostante faccia inorridire molti, può invece considerarsi assolutamente sana, specialmente per una disciplina come l’architettura che in alcuni paesi sta per ammuffire sotto la retorica dell’autoreferenzialità e del compiacimento della propria genealogia». Anna Barbara
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intervista ad Andrea dott. Razzini Segretario generale dell’Autorità Portuale di Venezia (19.04.2002)
Diego Segatto: Attualmente il Porto di Venezia è uno scenario in notevole fermento dal punto di vista dell’ammodernamento delle proprie infrastrutture e del rilancio nell’immagine, con ingenti spese in termini economici e di energie umane. Perché “il Porto”, intendendo con esso la complessità delle figure e autorità che riunisce, dovrebbe interessarsi al problema dei marittimi includendolo nel proprio programma di ristrutturazione? Può trarre qualche vantaggio dal miglioramento del loro problema umano e sociale? Andrea Razzini: La parte sociale delle attività economiche resta una delle componenti fondamentali per cui l’economia esiste…non si può disgiungere la ricchezza che l’uomo produce con i suoi sforzi dalla parte sociale, altrimenti c’è qualcosa che non va: è praticamente impossibile non dedicarsi a un lavoro e come tale anche quello del marittimo è la componente fondamentale di garanzia di una funzione che è quella del trasporto in mare e quindi rappresenta il naturale contesto in cui il porto e tutto quello che può accadere in generale nel mondo dei trasporti non potrebbe sussistere se non fosse composto dalla sua base sociale naturale, quindi non è che il marittimo è diverso dal trasportatore o da tutti quelli che hanno un ruolo in qualsiasi attività di produzione, in questo caso di servizi…ha la sua dimensione! Probabilmente quello che si può evidenziare è che il tipo di sviluppo nel quale ormai il mondo è indirizzato modifica l’umanità del marittimo ma non il suo status, perché se fosse così avremmo dei componenti di rivoluzione sociale. E invece non è vero. Mentre le percezioni che noi abbiamo di questi status si modificano con il modificarsi delle persone che li identificano, questo sì…che poi in poche parole significa che ci sono mestieri dove ad esempio la marineria italiana europea aveva un grandissimo ruolo trenta o vent’anni fa e dove adesso invece queste marinerie sono completamente diverse, perché sono diverse dal punto di vista della componente umana perché sono esplicitate da culture diverse, ma lo status e l’attività sono quelli di prima. Questo segnala semplicemente la migrazione del bisogno… D.S.: Cosa intendiamo per marinerie? A.R.: È uno di quei mestieri tradizionalmente considerati “duri”…per ogni trasportatore, il sogno sarebbe quello di tornare a casa la sera e questo non è sempre possibile, a seconda delle tratte che lui deve garantire e questo tipo di composizione di desiderio, c’è l’ha anche un marittimo, però il marittimo non tornerà a casa sua la sera dopo la sua giornata di lavoro quindi chi, salvo gli “appassionati” del tema marinaro, chi si dedica ai mestieri del mare, quindi agli imbarchi di ogni ordine e grado, o a termine o stazionario o annuari o costanti portano queste persone lontano da casa per un numero considerevole di mesi o comunque di anni se visto in una prospettiva di carriera, questo tipo di lavoro è fatalmente legato al bisogno di lavoro che migra a seconda del censo delle popolazioni che si dimostrano disponibili. Nel caso appunto italiano sono rimaste poche le aree che esprimono tradizionali vocazioni a queste…noi le definiamo “locazioni”…ma bisogni di questi impieghi, perché la ricchezza complessiva del paese promette anche impieghi diversi per le persone, quindi uno si imbarca di fatto o per periodi molto limitati in Italia, o perché ha competenze specifiche (parliamo degli ufficiali o dei sotto-ufficiali, ecc.) e con ingaggi tra l’altro non trascurabili e viceversa la presenza dei marittimi poco specializzati comincia appena a venire…ormai è una tradizione consistente reperita in paesi che si sono affacciati al mondo o di fronte allo sviluppo economico da relativamente poco tempo. Per questo c’è una lettura anche non totalmente negativa, come dire…sono i primi segni di sviluppo di quei posti che procureranno rimesse e costruiranno economie…
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D.S.: Quindi capire quello che sta succedendo nelle navi e nei porti significa capire quello che sta accadendo a livello globale... A.R.: Eh sì, perché il porto non è una cosa che può essere vista in forma puntuale, può essere amministrata puntualmente ma non vista puntualmente perché è il naturale casello (facendo un paragone con le autostrade, che magari sono più familiari) di una grande autostrada che però è grande come tutti i mari…che è quella dell’industria marittima che non ha una dimensione nazionale, se avesse una dimensione nazionale staremmo parlando del traghetto Messina-San Giovanni insomma… D.S.: Ma per un porto trascurare questo aspetto, anche dal punto di vista dei vantaggi che può trarne, cosa può significare? A.R.: Beh, qui serve dire due cose: innanzi tutto non è presente nella cultura dei porti in generale la sensibilità al punto di dire che uno la trascuri questa cosa, il porto da un lato è abituato (soprattutto i porti antichi, come il nostro) ad avere un confronto col marittimo che arriva molto naturale, perciò da un lato non c’è trascuratezza mentale, mancanza di apertura mentale…è normale; è arrivata una nave, sopra ci sono i suoi marittimi che scenderanno a terra e si uniformeranno a quelle che sono le abitudini locali. Quindi c’è un’apertura mentale tale da rendere questa dinamica “normale”, e questo è un argomento. Dopodiché oggi c’è una sensibilità sulla cultura dell’accoglienza, come concetto, crescente, il che vale sia per i marittimi che per le cose che trasportano, cioè per le merci, perché tradizionalmente non esisteva una cultura del servizio in senso lato, quindi sia alle persone che alle cose se non legata, se non soprattutto dal secondo dopoguerra in qua, allo stretto indispensabile…e questo perché il nostro non è nato come un paese ricco, di conseguenza molte sensibilità arrivano con la possibilità di essere affrancati dai bisogni di base…anzi, noi abbiamo esportato immigrazione per talmente tanto tempo che siamo adesso alle prese con i primi segni rovesciati che ci danno la dimostrazione non solo che importiamo immigrazione da meno di dieci anni di fatto, ma che c’è una cultura del diverso che viene a cui noi non eravamo tradizionalmente preparati perché eravamo noi i diversi che andavano! Quindi non c’è in realtà una trascuratezza di questa funzione nel senso scolastico…non c’è un disegno per cui non ci interessa, c’è una maturazione invece di una cosa che adesso ci interessa o che ci si accorge di cui c’è bisogno insomma, perché c’è una sensibilità diversa in genere sull’accoglienza delle cose e delle persone. Quindi nasce oggi di fatto, sicuramente avvertita non solo a Venezia e non solo in Italia (anche grazie alle persone che vi lavorano, che si sentono investite di responsabilità in questo campo), una sensibilità di questo genere al punto da sentire il bisogno di organizzarsi, sostanzialmente. D.S.: A tal proposito vorrei entrare nel merito di come gli ultimi eventi su scala mondiale possano aver influito sulla sicurezza…11 settembre in primis, cosa sta comportando per il porto la questione della necessità di intensificazione della sicurezza…qualche conflitto in tal senso? A.R.: Beh questo…non è un conflitto, anzi, è diventato un acceleratore perché, direi contro ogni previsione, la reazione che hanno avuto gli Stati Uniti nel momento in cui hanno subito questi attacchi terroristici di queste proporzioni non è stata una negazione come poteva anche “forse” risultare naturale…la negazione verso l’altra civiltà in sostanza, o altre civiltà…in realtà c’è un’ondata di apertura culturale che forse prima non c’era, invece questo si avverte, quindi quest’enorme disgrazia che è diventata anche un problema, sì ha risvegliato una serie di misure e di attività per aumentare i controlli di sicurezza attivi ma, io ritengo, fortunatamente non disgiunta dalla volontà di aprirsi in realtà dal punto di vista delle conoscenze per lo meno, non dico a tutti i livelli, ma a molti più livelli di prima dei fatti terroristici quindi…questo gli Stati Uniti forse lo dimostrano più degli europei che da questo punto di vista si sono sentiti meno colpiti, e nei fatti lo sono stati meno colpiti, forse sono più aperti alle civiltà del mediterraneo quindi più avvezzi alla convivenza, anche forzatamente,
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e di conseguenza di stomaco più profondo, viceversa gli americani sono più sensibili di noi, almeno sotto certi aspetti perché noi abbiamo vissuto troppe storie di scontri etnici, anche recentemente, per non dirci parzialmente “usi”… D.S.: Assuefatti? A.R.: Assuefatti…sì, mentre così non è per gli americani insomma…sono più “civili” da questo punto di vista, anche al loro interno per certi aspetti, meno sensibili verso “gli altri” tradizionalmente, sono più freschi di cultura no? Almeno io li vedo così, soprattutto in questa circostanza. Adesso sono desiderosi di recuperare probabilmente comprensione… credo siano cose che andrebbero analizzate su un livello sociale, macrosociale e io non sono molto bravo in questo, però nel porto, nel nostro porto è assolutamente radicato il rapporto direi normale o franco con chi scende dalle navi negli ultimi cinquant’anni di ogni nazionalità. Poi ci sono delle novità, la gente di religione musulmana che viene da tanto tempo, per non andare a scomodare le radici ottomane, frequentano da tanto tempo i mari adriatici, tirrenici, è in crescita (per esempio) ma è anche in crescita quella filippina che invece è di religione cattolica, per modo di dire cioè ci sono persone che vengono da paesi più lontani magari di quello che un tempo non si vedevano, ecco…questo è un po’ un dato insomma…però non c’è nemmeno curiosità del diverso, perché è talmente naturale! Perché la gente del porto considera questa cosa normale. Invece nasce attorno al porto e anche dentro la voglia di offrire servizi direi di accoglienza con gradi crescenti e quindi, siccome si è imparato insomma, in tempi relativamente recenti, a farlo per le merci, adesso viene evidente fare il confronto che siamo molto più preparati per le cose e meno per le persone, ma per le persone abbiamo capito che servono cose tutto sommato “banali”…però non è che non ci siano per i marittimi: non ci sono! Non ci sono per nessuno. D.S.: Venezia forse è già preparata a questo…anche per la sua lunga storia marittima e per la sua vocazione turistica… A.R.: Si, esatto… D.S.: …forse per Mestre è più difficile perché… A.R.: …ma Mestre non ha qualcosa di diverso dalla città di Venezia, io non ci vedo questa grande divisione. C’è la tradizionale suddivisione fra zone nell’ambito della laguna di Venezia e quindi c’è una tradizionale e locale visione dei luoghi piuttosto provinciale…e quindi si pensa che non ci siano permeabilità, che in realtà ci sono, solo che abbiamo dei grossi concentramenti: abbiamo la città bella, che viene da tutti visitata, la grande vetrina o il grande polo di attrazione che a sua volta è poi diviso, no? Perciò dico, è abbastanza tradizionale la suddivisione dei luoghi di questa grande città…per cui uno ha la polarità, la “centralità” chiamiamola, della città storica, ha il litorale più dedicato alla vacanza o alla mostra del cinema o a certi tipi di attività del tempo libero, poi caso mai abbiamo le isole con le loro particolarità interne e diversità anche culturale a volte, la zona nord della laguna caratterizzata da un certo tipo di insediamento più rurale che non urbano, la città dove si dorme e si vive e si studia per la maggior parte che è il corpo vivo della città che è Mestre, la zona dove si lavora che è praticamente la zona industriale. E quindi c’è una divisione in realtà in comparti di questa grande città che ha molti concentramenti…la sua unicità poi in fondo è qui, al punto poi che queste concentrazioni di persone o di funzioni ne caratterizzano…o meglio il nome di questi posti ne caratterizza la funzione. Però se uno li vede appena un po’ dall’alto e li somma scopre che è una bella grande città…forse non “una grande città”, ma “una città grande”, perché questo sì si può dire…non è invece come nelle altre città dove all’interno della cinta tradizionale diciamo avviene tutto, più o meno avviene tutto, piuttosto mescolato. Qui è molto separato invece, tutte queste cose sono funzioni separate da dei periodi diversi con esigenze diverse con interventi spesso massicci e quindi in realtà non c’è divisione fra le cose, sono “concentrazioni di fatti”, e quindi secondo me le
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persone identificano questi fatti come diversità e invece non è vero, perché se uno toglie un insieme di questi non è che non succeda niente! Succede qualcosa! E quindi la tradizionale o supposta non frequentazione di Mestre della laguna è un fatto che…sì, probabilmente sembra vero, però se lo vediamo da Padova no. E quindi, poi ci siamo spostati di molto poco…è un po’ complesso il discorso però dopo, rivisto nei fatti, certo la genesi per esempio della portualità tende ad andare verso l’entroterra anche nella sua storia, quindi viene concepita come un’espansione della Venezia insulare in terraferma, tradizionalmente, e poi anche storicamente questo è così, ma così è la nascita di Mestre. Però e così ancora il fenomeno dello spopolamento del centro storico…che poi non è il fenomeno di “spopolamento cittadino” perché il saldo è interno al comune, per cui mai più una città normale si domanderebbe perché la gente traslochi da un quartiere all’altro (perché la dinamica formale è essenzialmente questa) e che questo costituisca un problema, ecco…è successo a centinaia di città europee di vedere il centro storico “perdere” gli abitanti a favore di qualcos’altro. C’è chi ha centri pieni di banche, chi ce li ha pieni di negozi o di attività professionali o di funzioni complesse. E quindi questo ha cacciato per motivi sostanzialmente economici, perché chi aveva casa la vendeva volentieri ad un prezzo importante o chi si vedeva aumentare l’affitto andava cercare un affitto più basso in una periferia, ecco…e questo è successo anche qui, non è una dinamica diversa, qui la funzione prevalente è diventata il turismo che ha spostato un “pezzo” della popolazione, anziché essere le banche, le industrie, i centri commerciali, i centri amministrativi…non è che Roma abbia, per esempio, fenomeni diversi, Roma o città con capoluogo amministrativo, o Bruxelles…Bruxelles ha ricevuto una “devastazione” se la si vuol vedere dal punto di vista sociale precedente, dalla presenza del grande centro amministrativo dell’Unione Europea…O Strasburgo, levitazione dei prezzi, nuova espansione edilizia, lo svuotamento della compagine degli abitanti del centro, però in cambio ha avuto ricchezza, funzioni arricchite o complesse eccetera e quindi rivista così, tornando alla sua domanda “Mestre non vive o ha una difficoltà con l’affaccio” probabilmente sì se la si vede da vicino e la si contestualizza ai luoghi portuali di Porto Marghera che però si chiama Porto Marghera proprio perché è nata così, il Porto e poi Marghera insomma, è proprio nata così cioè prima la zona industriale/portuale e poi il quartiere urbano alle sue spalle…quindi se uno non deve andare a lavorarci tradizionalmente non ci va; questo non è un fatto distopico, è un fatto naturale…adesso invece con la realizzazione del Parco di S. Giuliano credo che…già c’era una certa vitalità tra la zona diciamo a nord del Ponte della Libertà e Mestre sul bordo lagunare, con attività ludiche e per il tempo libero eccetera, adesso con un parco per esempio il dialogo tra acqua e terra diventerà molto più semplice perché è più accessibile sostanzialmente, però se lo vogliamo vedere dal punto di vista naturale era naturalmente inaccessibile perché le paludi non sono un posto dove uno riesce ad andar facilmente. Una laguna infatti è questo, quindi bisogna anche vedere da che punto di vista lo consideriamo…comunque tornando appunto a noi, io credo che c’è anche un interesse rinnovato della città (nel suo complesso) che si accorge di avere una cosa che ha avuto tra l’altro periodi difficili e periodi facili, però alla fine è una specie di gioiello: si tratta di tenerlo pulito…non è nuovo, questo è vero, l’ha detto già anche lei, però è il più grande del paese come estensione…Anche gli altri, anche le altre città portuali non hanno ricevuto negli ultimi trent’anni grandi danari per, diciamo, mantenere così…bene il loro patrimonio infrastrutturale, perché il nostro stato non ha neanche mai professato una grande cultura della manutenzione (che non gli è propria…), ma non è propria neanche a noi che non siamo come cittadini proprio tutti educati. Insomma, queste sensibilità vengono avanti, sono ancora lontane, ad esempio sono supplite dalla grande umanità delle persone del sud, però dal punto di vista organizzativo e collettivo approdare in un porto del sud o in una città portuale del sud appunto, trarre la supplenza della singola umanità dell’individuo, dal punto di vista organizzativo, non il marittimo…il cittadino non ha niente! Come servizi…ho li ha molto scadenti, quindi queste affermazioni vanno riportate in una colonna di confronto. D.S.: Infatti, per grandi linee il sogno delle persone che lavorano nell’associazione (Stella Maris’ friends) che si stanno impegnando in prima linea sullo scenario è quello di fornire
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non solo un aiuto concreto ai marittimi sotto il profilo umano, ma anche di dotare la città e il porto uno spazio “altro” dove sia possibile lo scambio e l’integrazione tra la cultura e il vivere di mare e di terraferma. A.R.: …questa è una cosa nuova. Forse l’integrazione è già una parola più ambiziosa secondo me, in un progetto del genere. Per me è favorire una “conoscenza” perché “integrazione”, almeno stando al dizionario, vuol dire che per forza o per effetto di qualche motivo due cose, due fatti, due fenomeni si compenetrano. Forse non è desiderata questa cosa da tutte e due le parti o contemporaneamente. Però credo che per minimo la “conoscenza” sì e credo sia un po’ la novità, io credo che questo [indicando il programma della tesi, nds] sia un buon progetto perché…intanto che la conoscenza sia quella, dopo vediamo se c’è l’integrazione: è un passo successivo. C’è anche gente pericolosa che ha professato l’integrazione con metodi sbrigativi, quindi non è detto che ci si debba per forza integrare, può darsi che non ci si piaccia, però conoscersi secondo me sì insomma. Noi dobbiamo poi vederla nel caso anche del mare, della cultura marittima ci sono tanti fatti per cui l’integrazione non avviene neanche dopo anni di frequentazioni perché ci sono delle diversità tali…ecco, non si deve sfociare all’intolleranza, se vogliamo proprio dire, con l’inciviltà…poi ci si può anche fermare alla conoscenza e al rispetto del diverso, credo sia un po’ il tema a cui noi eravamo forse abituati o preparati al contrario cioè…se uno va al censo del nostro paese cent’anni fa e guarda il censo dei paesi che oggi forniscono le braccia all’attività marittima, che è una cosa interessante da fare, di anni ne sono passati cento ma i denari nelle tasche sono sempre uguali…e quindi le Filippine, ad esempio quasi ormai già affrancate, paesi del subcontinente indiano che invece sono in testa in questo senso, sono ancora più poveri di quello che ci poteva essere qui cento o centocinquant’anni fa. E però comincia anche per loro una forma di apertura, di sviluppo, di integrazione (se vorranno) ma gli italiani non è che si siano integrati dappertutto nello stesso modo. Negli Stati Uniti si sono integrati ad esempio, in altre realtà dove sono emigrati (a parte che la nostra è una forma di civiltà molto antica quindi più avvezza allo scambio culturale e all’integrazione), ma per altre comunità non è stata così, la comunità dei neri d’America non è integrata negli Stati Uniti, eppure c’è quasi da più tempo dell’emigrazione europea per certi aspetti. D.S.: Sì, però credo si possa anche parlare di conoscenza da parte della cittadinanza mestrina del waterfront portuale… A.R.: …sì, di riconoscerlo…di conoscerlo e riconoscerlo, questo senz’altro, qui c’è una storia più profonda perché la zona industriale che “cela” il porto (perché sono due cose che sono nate insieme), fa vedere le fabbriche, non fa vedere il porto, è sempre stata considerata una zona dove si va solo perché bisogna andarci a lavorare…tendenzialmente va anche bene che sia così naturalmente, però oggi è vero che andare a lavorare in un posto appositamente creato, come tante piccole o grandi zone industriali in giro per il mondo, non significa che uno debba andare necessariamente in un posto sfortunato! Anzi, oggi nel nord Italia, fortunatamente, e in Europa i fattori competitivi si basano anche sulla piacevolezza e sulla salubrità dei luoghi, sul fatto che la qualità della vita viene misurata anche, per non dire soprattutto, negli ambienti di lavoro oltre che a casa propria e nell’ambiente urbano diciamo…o in generale dove uno vive quindi qui sicuramente c’è una crescita culturale grandissima, un evoluzione negli ultimi dieci anni…quindi fatalmente è divertente forse anche pensare che la città tutta, non solo Mestre, si può benissimo incuriosire e riscoprire un pezzo di territorio “suo”…non è di un altro…e poi anche come succede nelle cose, più si frequentano e più si conoscono, meno ci si spaventa di cose che normalmente terrorizzano, anche grazie ai mass media molto poco informati, e dall’altra parte più si frequentano e più si conoscono e più si pretende che siano ben tenuti…se no un posto come Piazza Ferretto tenuta male alla fine non favorirebbe la frequentazione del cosiddetto “centro” per esempio… D.S.: …e infatti attualmente per molti è “il gioiello”, almeno stando ai pareri di molti abitanti
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di Mestre… A.R.: …eh…l’abbiamo sistemato un po’…infondo non è che sia un’opera chissà che…sì, è stata una bella opera risistemare una piazza per novità e per interesse, però non è che si sia creato un Moloch, un totem, si è rimessa un po’ in ordine la piazza, pedonalizzate un po’ le zone eppure questo ha aumentato il gradimento di frequentare quelle zone…quindi diciamo che man mano che uno fa belle le zone alla fine la gente ci va volentieri, non è mica una novità…e quindi perché non dev’essere bella anche la zona dove si lavora, alla fin fine. Oggi ce lo domandiamo come mai, prima non c’erano i soldi sostanzialmente e nemmeno la cultura, per cui si andava “al chilo” insomma… D.S.: Quali sono le sue prospettive, in veste di rappresentante dell’Autorità Portuale, sui processi prima innescati dal cappellano del porto assieme a qualche volontario e più recentemente dagli artisti di Ms3 e dall’associazione Stella Maris’ friends? A.R.: Per la prima parte della domanda noi ormai abbiamo preso delle decisioni per cui realizzeremo, nell’ambito della costruzione di nuovi immobili, degli spazi fisici dove potranno essere ospitate attività come quelle che abbiamo iniziato già a vedere qui nella zona di marittima [il mini seamens’ club della marittima, nds], introdotte appunto da associazioni di volontariato, da Padre Mario Cisotto, dedicate di fatto a dare servizi anche ai marittimi che hanno esigenze particolari, questo è l’unico dato ormai riscontrato…quindi anche in prospettiva abbiamo già deciso di dedicare qualche centinaio di metri quadrati a queste attività. E poi abbiamo anche deciso per un caso un po’ particolare che l’area di Via delle Macchine che di fatto sta proprio sulla testa del porto, diciamo sulla “coda” della città di Mestre, tra il cavalcavia e la darsena del Canale Ovest, di realizzare lì questi spazi e anche di dotare questa cosa, di fatto una trasformazione immobiliare ad uffici e a spazi commerciali di cui abbiamo necessità, però includeremo appunto delle condizioni per aprire un Seamen’s club di un certo livello ma includeremo anche la realizzazione di una piscina, quindi di una struttura dedicata ad attività sportive che regaleremo al quartiere e alla città…creeremo un piccolo polo di attività miste, oltre a quelle tradizionali del terziario (quindi uffici, eccetera) altre attività che funzionano da sole per il tempo libero in sostanza, perché poi si parla di questo. D.S.: Mi ha anticipato una domanda sulle vostre future iniziative…visto che già l’Autorità Portuale ha partecipato al finanziamento di una ricerca sociologica sul tema dei marittimi… A.R.: …il finanziamento della ricerca è stato importante…noi l’abbiamo sostenuto per un terzo, ma per gli altri due terzi Comune e Provincia hanno dimostrato una sensibilità senza precedenti…perché non ci sono precedenti. Quindi il finanziamento della ricerca ci ha consentito di (adesso siamo ancora prima della presentazione del rapporto finale) andare un po’ più a fondo nell’avere informazioni perché, come dicevamo, non c’era sensibilità e quindi non c’era mai stata l’esigenza di interessarci all’argomento e qui il pregio è stato di chi si è occupato di queste persone direi anche con un approcio nuovo…beh, lei prima ha detto una cosa che io non condivido: non c’è un “problema dei marittimi”…ci sono “i marittimi”, il problema non c’è, ci sono loro e bisogna e vedere se siamo in grado (bisogna vedere se c’è anche la libera iniziativa perché non è mica solo il settore pubblico che se ne deve far carico…) di prendere iniziative per occuparsi di questi bisogni, che non sono bisogni straordinari, abbiamo capito insomma…alcuni sono bisogni di base, basta dare infrastrutture di un certo tipo con costi compatibili alle finanze di questi lavoratori, che sono lavoratori che hanno paghe da marittimi e le paghe da marittimi non sono paghe elevate…perché sono paghe molto basse, e qui si entra in un altro discorso…quindi se siamo capaci di fornire servizi decorosi di base (e anche non solo di base) a basso costo, questo è lo scopo principale. Luoghi dove poi possano avvenire queste due cose e quindi credo che qua ci siamo. Dopodichè le iniziative del progetto Ms3 sono state invece di grande incoraggiamento, perché non era scontato che occuparsi di questo fenomeno fosse anche
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una cosa interessante! In fondo non era scontato…invece queste iniziative puntate, come si diceva prima, sulla cultura della conoscenza del diverso e anche sulla curiosità direi, complessivamente viste, invece sono diventate più leggere, più…secondo me un pò di frontiera probabilmente, però hanno testimoniato una vivacità che in fondo c’era ma non era mostrata, ecco…questo ti incoraggia, fa venire voglia di impegnarsi credo tutti di più, non solo l’Autorità Portuale che sicuramente ha le sue responsabilità nell’amministrare un porto che si vuole in crescita e quindi un porto in crescita che ha delle ambizioni deve occuparsi di migliorare complessivamente tutto, non può occuparsi solo di un paio di cose insomma, e questo è non dico un accessorio però certamente per dimensione è un’attività marginale, ma diventa molto rappresentativa, no? Secondo me di un evoluzione culturale che questo porto vive perché se avessimo detto solo cinque anni fa che facevamo questo probabilmente l’Autorità Portuale avrebbe detto “cosa assolutamente inutile” o “sei matto?”, “sei filantropo”, ecco. Oggi no. Pensi sia utile, quindi partecipa, sollecita, non è vista come una cosa settaria legata a una piaga sociale…e qua secondo me toglie dignità anche all’argomento perché è più complesso, insomma. D.S.: Quali sono le figure o enti che dovrebbero mobilitarsi per ratificare la Convenzione ILO 163 sui diritti dei marittimi? A.R.: Il Ministero degli Esteri…non compete a nessun altro…o al Presidente del Consiglio, che poi tra l’altro in questo momento sono la stessa persona [Silvio Berlusconi, Presidente del Consiglio in carica e Ministro degli Esteri ad interim, nds]. D.S.: Che contributo può dare, secondo lei, una tesi di laurea in questo contesto? Nella fattispecie in architettura , in questo caso… A.R.: Beh, in generale una tesi di laurea dovrebbe ampliare le conoscenze e quindi divulga un po’ di più le cose…mah, in architettura potrebbe anche occuparsi di dare, osare a disegnare di fatto o per lo meno elencare le funzioni di un luogo del genere, anche se dicevamo prima in fondo stiamo parlando di organizzare un luogo di servizi per il tempo libero piuttosto efficienti nei collegamenti e soprattutto a basso costo…qui non so se l’architetto ci dà delle risposte, ma se fosse possibile non sarebbe male. D.S.: Quello che sto tentando di elaborare, anche a livello personale nella tesi, è di non risolvere l’argomento solo attraverso l’edificio, ma anche con un programma di avvenimenti… A.R.: …le specifiche, non dico di arrivare a misurarle con i metri quadri, però quasi insomma, sarebbe l’ideale caduta, e questo può aiutare…comunque noi abbiamo lanciato per quella realizzazione, anzi lanceremo fra poco, un concorso di progettazione, quindi prima un concorso di idee, le migliori diventano aggiudicatarie del preliminare da cui sceglieremo il definitivo, quindi lì dentro a noi basterebbe adesso qualche idea che abbiamo maturato naturalmente, quanti metri quadrati, che tipo di servizi, a che piano li si mette, vicino o lontano dalla piscina o dalla strada e dalla fermata dell’autobus, dati tutto sommato semplici, ma di fatto sono cose semplici, dopo si tratta solo di concretizzarle…però qui è bello pensare che se c’è un concorso di idee ci sia qualcuno che si inventi qualcosa di originale non è male! D.S.: All’interno dell’Associazione in due, tre architetti stiamo lavorando a un diagramma funzionale in quest’ottica… A.R.: …esatto! Secondo me questo è il tema, può aiutare qui, ad arrivare…non a uno standard, perché poi sarebbe bello che ogni porto “si arrangi”, sennò è come la differenza fra mangiare le cose del luogo e… D.S.: …un po’ come McDonald o un distributore di benzina costruito in serie, standardizzato…
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A.R.: …ecco sì…McDonald che, poveraccio, è tanto attaccato…diciamo lì è molto standardizzata la dieta del McDonald, però ha un pregio: che costa poco, non bisogna dimenticarlo questo, no? Perché per chi non ha danari…poi non tutti ne hanno abbastanza per assaggiare le prelibatezze, però diciamo, ci sarà una via di mezzo fra questo e uno standard, ma uno standard in fondo non ci è richiesto, anzi, noi ci si distingue e ogni porto fa da sé quindi in questo caso è anche figlio della sua storia, ci sono porti che vivono le crisi che noi avevamo dieci anni fa per esempio, e altri che vivono le fortune che uno aveva magari trent’anni fa, quindi dobbiamo calarci nelle varie realtà. D.S.: E una domanda più…”ambigua”, visto che si inoltra a un livello più personale…qual’è il suo sogno per il Seamens’ club? Immaginando una proiezione anche utopica, perché no). A.R.: Mah non lo so, io non ho una particolare visione se non quella di vedere ordinatamente un luogo dove per le parti che ormai sono state evidenziate, i cosiddetti servizi di base, queste persone abbiamo un punto di riferimento…dico “ordinatamente” perché il sogno è che sia pulito, che sia ben tenuto, frequentato in maniera civile da tutti, sia dai marittimi sia da chi passa di lì, quindi aperto, ecco…e che in fondo riesca magari un po’ vivace, che le persone che vi siano dentro siano un po’ vivaci…e sufficientemente e anche moralmente oneste… perché ogni tanto è successo no? Che qualcuno si approfitta di chi non conosce le cose, di chi non sa la lingua, di chi non conosce il cambio…sufficientemente trasparente per cui ci si possa fidare in maniera ragionevole, di un posto che in fondo è il primo, o che può diventare il primo punto di riferimento per chi non ci conosce come luogo, come città, come persone, come porto. E quindi di solito chi arriva un po’ spaesato in un posto nuovo e viene ben trattato ha generalmente un buon ricordo. Personalmente spererei che vada così, di non vedere né alimentate né immaginate situazioni di ambiguità, di sfruttamento, di piccole furbizie che magari noi sappiamo che nella città di Venezia accadono a volte a discapito dei turisti non proprio accorti, in fondo i marittimi non è che siano diversi come persone… D.S.: …e che magari hanno già sofferto i loro patimenti a bordo… A.R.: …sì, non sono arrivati proprio con la rilassatezza della vacanza, che poi magari viene punita da qualche brutta esperienza che uno fa da chi incontra. Quindi per questo motivo in più siano persone, quelle che frequenteranno questi luoghi sufficientemente “pulite” proprio…da ricordarsi che offrono una “carta d’identità” della nostra comunità; non cose particolari, che siano semplici. Ecco io spero che sia così, il mio sogno…se fosse il contrario sarebbe un incubo eh! Più che un sogno, vedere che le cose vadano bene …sarebbe un incubo vedere che vanno male insomma…o l’assenza di servizi o di istruzioni o di presenza, in fondo dà un’idea troppo vecchia, del mondo industrializzato di una volta, troppo spersonalizzata dico io…ecco, farsi conoscere in maniera decente, senza strafare, se no altrimenti si diventa anche antipatici…ecco, queste sono le cose che spererei che accadessero, in generale. Poi sarebbe carino riuscire a organizzare delle iniziative, secondo me sono una della cose più semplici che le persone che non si conoscono anche a livello di civiltà possono effettivamente fare, cioè assaggiare cibi diversi contemporaneamente… secondo me è la cosa che tendenzialmente dovrebbe, non dico affratellare, ma generalmente favorisce la conoscenza quindi se fosse possibile immaginare delle iniziative proprio gastronomiche partendo da qui insomma…con le varie tradizioni promosse dalle varie persone…un filippino che fa un suo piatto in cambio di uno spaghetto nostro per esempio mi sembrerebbe una cosa simpatica, da fare in poco tempo per vedere com’è …una cosa così, uno spazio libero di cucina, se fosse possibile immaginarlo, però penso sarebbe una cosa simpatica perché queste persone non sempre hanno la possibilità di alimentarsi secondo le loro tradizioni o di incuriosirsi di quelli che per noi sono fatti importanti come l’alimentazione, quindi far capire questo è anche un modo di presentarsi.
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D.S.: E tornando al Seamen’s club, dove lo immagina fisicamente collocato? Lei prima ha avanzato la proposta di inserirlo nel programma progettuale dell’edificio che verrà in futuro costruito in Via delle Macchine, e io la vedo come una grande opportunità, ma vede la possibilità che possa essere collocato anche in un altro luogo, comunque tra porto e città? A.R.: Ma questo è un posto fra porto e città, è un posto in faccia al porto ma anche in faccia alla città, è relativamente vicino alla stazione ferroviaria, ci sono tutti i bus che vanno e vengono…è nella croce delle direzioni della città e quindi dove l’abbiamo individuato secondo me è il posto migliore in sostanza, poi uno può farlo dove gli pare…penso che sia il posto geograficamente più consono che si possa individuare ai confini del porto e della città, e poi è nel cuore del territorio comunale, nelle direttrici tra l’altro. D.S.: Il fatto è che anche per le esigenze del lavoro di tesi dovrei cimentarmi nella progettazione di questo spazio, ma mi risulta difficile inserirmi nel contesto come quello di un macro-intervento che non conosco [visto che ancora non esiste ma sarà costruito, nds] come l’edificio di cui parlavamo…per questo mi interessa pensare a un altro luogo dove poterlo immaginare, magari in via Fratelli Bandiera… A.R.: …mah…è scomodo per i collegamenti con ogni altro luogo…un posto molto bello sarebbe Forte Marghera, che però è pure scomodo per i collegamenti, quindi…però deve restare in quel quadrante, altrimenti non si dà la possibilità di raggiungere Venezia e viceversa, di prendersi un treno, di andare con tre fermate di autobus in centro a Mestre, di venire dal posto più lontano del porto che è Malcontenta con una certa rapidità…quindi non credo ci sia un posto migliore dal punto di vista dell’ubicazione delle direttrici, dopodiché bisogna anche ricordarsi che Porto Marghera e il Porto di Venezia sono due porti, avremo addirittura due Seamen’s club…e passare da zero a due in poco tempo sarà un grosso salto, però penso che li faremo complementari come servizi, quindi bisogna vederli un po’ così. Certamente quello di Venezia avrà una funzione mentre quello di Marghera può stare anche aperto tutta la notte, cioè può fare un sacco di cose diverse ed essendo in centro città facilmente controllabile, non solo collegato, è in una zona che in questo momento si sta grandemente trasformando, ha la città alle spalle e le navi davanti e anche il marittimo si sente a posto in fondo, perché è vero che vuole visitare le città ma se ha anche poco tempo deve raggiungere questi posti con una certa rapidità e sarà sempre più così, quindi… D.S.: Tra l’altro vedo questa vicinanza tra Seamen’s club ed edificio di rappresentanza del porto anche come una possibilità in più per la costituzione del cosiddetto “comitato sociale”. A.R.: Sì appunto, poi è comodo per tutti. Poi essendo un posto pieno d’uffici molti dei quali dedicati ad attività portuali va bene, nel senso che il marittimo fa parte del porto, ognuno vedrà che gira lì, che si muove, non ghettizzato o spostato, quindi io non penso ci siano posti migliori come ubicazione, poi bisogna vedere cosa siamo in grado di fare come progettazione.
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verso un’architettura…per i marittimi La disponibilità e l’impegno dell’Autorità Portuale a inserire, nel programma progettuale della sua futura sede, le funzioni preposte a soddisfare i bisogni dei marittimi, apre uno scenario decisamente interessante e un grande passo avanti nella costruzione del Seamen’s club di Porto Marghera. D’altronde la sensibilità dell’Autorità Portuale si è già concretizzata con la cessione, in zona Marittima a Venezia presso il Terminal crociere, di 200 mq (a un canone ricognitorio annuo a dir poco vantaggioso) da destinarsi a un piccolo Seamen’s club del porto turistico e già in attività dall’inizio della stagione (maggio 2002). Per prepararsi alla futura edificazione a Marghera, come prima cosa il gruppo costruzioni di StellaMaris’ friends si è messo al lavoro recuperando precedenti ricerche e approfondendole attraverso la consultazione di siti web di altri seamen’s club nel mondo e attivando il network globale delle associazioni legate al “seafarers’ welfare”. Abbiamo già visto come la Raccomandazione 173 dell’ILO (International Labour Organization) fornisca esplicite indicazioni per quanto riguarda le strutture e i servizi da agevolare ai marittimi per dar loro la possibilità di favorire l’uso delle risorse dei luoghi d’approdo (vedi pag. 39). Anche se va ricordato che sono ancora poche le nazioni nel mondo ad aver ratificato tale Raccomandazione, il Seamen’s club è un luogo che per quello che rappresenta e offre costituisce già un fenomeno su scala globale: i marittimi, gente senza un luogo, in realtà di luogo ne hanno uno in quasi ogni nazione (o almeno così dovrebbe essere). Questo ci permette di codificare le attività che complessivamente si svolgono al suo interno, ma anche di aggiungerne alcune, considerando che una realtà come quella della comunità nomade dei marittimi possa offrire alle città di Marghera e Mestre un’occasione per la conoscenza della realtà del porto e di una condizione di vita, di conoscenza del viaggio che si è per lo più persa. Il Seamen’s club di Marghera potrebbe costituire il “luogo-soglia” (come lo ha chiamato l’Assessore Beppe Caccia, pag. 61) dove la gente del mare incontra la gente della terraferma e viceversa, ospitando sia i servizi riservati ai marittimi che servizi e attrattori di utilità comune. Di seguito sono elencati gli spazi che abbiamo identificato per rendere questo possibile, riportando uno schema funzionale elaborato sulla base di un ragionamento che riunisce a grappoli funzioni reciprocamente legate, dando un’indicazione di massima riguardo alle priorità dei servizi e alla loro consequenzialità spaziale. Questa lettura permette di disegnare già una minima organizzazione degli spazi come strumento utile alla progettazione effettiva. Questo dossier, costituito dalla breve descrizione in dettaglio dei singoli ambienti, dando generali suggestioni sui requisiti da rispettare, è stato poi consegnato all’Autorità Portuale.
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Servizi di 1° livello sala lettura
Servizi di 2° livello
Servizi di 3° livello
biblioteca
Benvenuto a bordo (depliant + mappe)
giardino invernale
Internet cafè
giardino estivo
cabine telefoniche Trasporto motorizzato (pulmino Stella Maris’ friends)
sala del pensiero (dumia)
living room shopping corner ambienti del personale Accoglienza (ambienti d’ingresso e Reception)
Direzione/Segreteria (vendita schede tel.) garage
alloggi / foresteria
ufficio consulenze infermeria
magazzino Servizi igenici
Seamen’s club diffuso (eventi in città)
servizio postale ufficio cambio
docce + spogliatoi
bar sala giochi
sala video / auditorium
campetto all’aperto basket / calcietto
cucina
centro benessere / massaggi palestra
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StellaMaris’ friends o n l u s
Garage autorimessa / magazzino Nell’autorimessa trova posto il parcheggio per i due pulmuni dell’associazione Stella Maris’ friends che svolgono il servizio di trasporto tra imbarcazioni e città. Il magazzino annesso deve essere facilmente accessibile anche con i pulmini parcheggiati ed avere una capienza sufficiente per contenere stoccaggi anche ingombranti. Requisiti dimensionali minimi: 45 mq Accoglienza: ambienti d’ingresso e reception L’ingresso al Seamen’s club deve essere il primo segno tangibile di accoglienza della gente di terraferma verso i marittimi. Deve quindi presentare un senso di calore, di invito, di ospitalità che si traduce in termini di presenza umana (la reception), di colori non aggressivi o deprimenti, di comunicazione funzionale efficace in modo che i servizi offerti dalla struttura siano di facile raggiungibilità e semplice fruibilità (segnaletica). È richiesta la presenza di grandi bacheche informative e di un guest-book dove poter segnalare/lasciare il proprio passaggio nel luogo. Questo spazio va pensato come uno snodo principale per gli altri ambienti e quindi possibilmente aperto. È ipotizzabile l’installazione di diffusori olfattivi (fragranze) e musicali. Requisiti dimensionali minimi: 50 mq Direzione / Segreteria Ufficio gestione del Seamen’s club. Ospita le attività direttive condotte da 3 o 4 persone con a disposizione computers, fotocopiatrice e arredi per l’archiviazione come scaffali e armadi. Requisiti dimensionali minimi: 25 mq Ufficio consulenze È richiesto un luogo per l’incontro in privato con la singola persona o il gruppo che richieda assistenza sindacale o spirituale. In base a queste due funzioni potrebbe essere opportuno pensare a due ambienti separati. Requisiti dimensionali minimi: 25 mq Ambienti per il personale Le persone che prestano servizio presso il club devono avere a disposizione uno spazio dove potersi temporaneamente separare dall’attività lavorativa, rilassare, riposare. Oltre agli spazi esterni collettivi serve quindi anche un ambiente dotato di un letto, un divano, qualche espediente per il relax. Requisiti dimensionali minimi: 20 mq Bar / Sala giochi Spazio ludico del club, attrezzato con videogames, biliardo, tennis da tavolo, bancone bar, tavolini, un televisore a parete, scaffale per i giochi da tavolo. Può essere pensata una progettazione più vivace dell’ambiente. Va posta l’attenzione sulla ventilazione de locale. Requisiti dimensionali minimi: 40 mq Cucina Si tratta di un locale dove poter disporre delle minime attrezzature per potersi preparare il cibo e consumarlo, quindi ingombri del mobilio come fornelli e lavandini ma anche per qualche tavolino e sedie. Requisiti dimensionali minimi: 20 mq Sala video / auditorium È il luogo dove vengono proiettati film e video, ma anche dove vengono organizzate rassegne e incontri aperti alla cittadinanza (ipotizzabili 100 posti a sedere); è necessario riporre l’attenzione anche sulla corretta ventilazione dell’ambiente, sulla corretta illuminazione e sull’acustica e i dettagli del design.
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Poichè è un ambiente che sarà usato saltuariamente (sempre meno del resto della struttura), salva la possibilità di affittarlo ad utenze esterne, si può pensare di organizzarlo su dimensioni modulari attraverso pareti mobili che possano sistematicamente parcellizzarne l’estensione rendendolo così fruibile per altre attività collaterali, proiezioni e incontri di minor portata, ad esempio. Requisiti dimensionali minimi: 150 mq Servizi igenici I servizi igenici dovranno supportare le necessità di un massimo di 50 marittimi al giorno, più il personale e la gente della città che verrà a visitare il luogo. Requisiti dimensionali minimi: standard per 10 persone Spogliatoi / docce Tra i requisiti indispensabili per un buon club deve esserci la possibilità di curare l’igene personale. Inoltre va considerata l’opportunità di svolgere attività sportive. Requisiti dimensionali minimi: standard per 10 persone Infermeria Servizio di base per le emergenze. Requisiti dimensionali minimi: 15 mq Living room / shopping corner Ambiente di socializzazione e attesa per la fruizione dell’internet cafè o delle cabine telefoniche. Divani comodi, morbidi e colori vivaci. È in collegamento aperto con la sala lettura, ma privilegiando qui la lettura dei giornali internazionali e delle riviste, contenuti in uno specifico mobile. Lo shopping corner è un mobile espositore contenente i gadget e l’oggettistica campione in vendita. Requisiti dimensionali minimi: 25 mq Internet café Tra le necessità di un marittimo forse la più importante è quella di comunicare con casa. Il collegamento in internet dev’essere garantito da almeno 10 postazioni multimediali, sufficientemente isolate l’una dall’altra per permettere una adeguata privacy. I requisiti ambientali del locale sono l’areazione costante per il ricambio d’aria e lo studio di un’illuminazione che non porti riflessi sui monitor. Requisiti dimensionali minimi: 35 mq Phone center Quello telefonico è il servizio in assoluto più usato dai marittimi. È richiesta l’installazione di almeno 10 cabine. Requisiti dimensionali minimi: 35 mq Campo sportivo polivalente Tra le raccomandazioni ILO vi è anche quella non secondaria che spinge a promuovere le possibiità di compiere attività fisica. È pertanto richiesta la progettazione di un piccolo campo sportivo da affiancare alla piscina che verrà fatta costruire dall’Autorità Portuale, un campo dove poter svolgere attività polivalenti come basket e calcietto. Ipotizzabile l’uso di un pallone pressostatico come copertura invernale. Sala lettura / Biblioteca Luogo dedicato specificamente alla lettura, quindi luminoso, silenzioso e dotato di tavoli per la lettura e scaffali per i testi e il materiale audio/video. Colori rilassanti che non distraggano, preferenza per il legno, finestre ampie ma adeguatamene schermate. Requisiti dimensionali minimi: 30 mq per una sala lettura e 60 mq per la biblioteca che sarà pensata per custodire materiale bibliografico, audio e video della cultura marittima.
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Giardino (estivo/invernale) Quando il marittimo è a bordo sogna la terra. Questo senso di terra va restituito nel calore e nella matericità delle superfici, ma anche esibendo un gioco composto da spazi verdi. Il giardino esterno (estivo) sarà giocato sugli spazi d’accesso e sull’intorno del Seamen’s. Il giardino interno utilizzando piante ed espedienti compositivi come un patio interno coperto (ad esempio la living room o un altro spazio) o a microambienti come quelli progettati da Roberto Burle-Marx, nei giochi cromatici di Lina Bo Bardi e nelle cromie “domestiche” di Luìs Barragan. Foresteria (alloggi) Spazio riservato al pernottamento dei marittimi che possono o desiderano fermarsi al Seamen’s club per la notte. In genere non sono frequenti questo tipo di presenze, ma avere a disposizione almeno 5 posti letto in altrettante camere singole è un notevole segno di preparazione all’accoglienza. Centro benessere Una piccola palestra, una stanza per il massaggio, una sauna. Attività e servizi per noi banali ma difficilmente fruibili per il marittimo. Sala del pensiero (dumia) Questo spazio ha come riferimento un piccolo edificio costruito nei pressi di Ramallah, in Palestina: una semplice cupola con tre fori, intonacata di bianco, senza simboli per rispettare una religiosità universale. La dumia (silenzio) del Seamen’s club non deve necessariamente seguire questi principi strutturali, ma comunque richiamare quei principi spirituali per poter godere di un luogo dove astrarsi nella preghiera, dove poter pensare in solitudine, ma una solitudine differente da quella carceraria della cabina della nave, bensì più vicina a un’esperienza di comunione e del ritrovarsi, condiviso da tutte le religioni del mondo. Requisiti dimensionali minimi: 40 mq
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globale versus locale: due esempi Hamburg, Germany
Di fronte al porto nel quartiere San Pauli, vicino al molo, si intravede il logo di Stella Maris mentre ci si avvicina
Un salotto in piena regola, dotato di poltrone, un bel televisore e il caminetto (di cui i marittimi vanno pazzi)
Reception
Sala giochi
Refettorio
Disimpegno
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Durban, South Africa
Veduta dal giardino
Lâ&#x20AC;&#x2122;ingresso
Reception
Il bar
Sala giochi
Conversazioni e relax nel lounge
Biblioteca, incontri ufficiali
Cappella
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un progetto per Porto Marghera
futura sede dell’Autorità Portuale e conseguentemente del Seamen’s club
sito concordato per l’elaborato di tesi tracciato del nuovo ponte strallato (2006)
Vista aerea (fotopiano) dei più rilevanti interventi architettonici tra porto e città
Elaborare un progetto per il Seamen’s club inserito nel contesto più grande (e per ora sconosciuto) della nuova edificazione della holding portuale, si presentava come un’operazione non del tutto sensata. In fondo si trattava di immaginare un intervento che in modo plausibile concretizzasse il programma funzionale (pag. 105) e che magari servisse ai futuri progettisti come materiale di base. Così, su proposta della prof. Montuori, si è concordato uno spazio altro per la progettazione che funzionasse da laboratorio, da tavolozza sperimentale sulla quale applicare quanto fino a quel momento era stato solo pensato. Il sito in questione propone il recupero e l’integrazione di un fabbricato industriale dismesso (ora sede di un’officina per riparazione autocarri), collocato a fianco del Centro Sociale Rivolta, lungo via Fratelli Bandiera ma al contempo posto in un’interessante allineamento con il ponte strallato di futura edificazione. Un’altro luogo in perfetta sintonia con la filosofia “tra porto e città”.
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Stato di fatto
L’ingresso del fabbricato (a sinistra) e il C.S.Rivolta (a destra, dove cominciano i “pezzi” di spray-art). Sopra svettano le gru del porto industriale
L’area si trova arretrata rispetto al fronte stradale, anteponendo un’ampia zona di parcheggio sul quale si affaccia un edificio a tre piani in ottimo stato
Fatiscenti coperture e murature lasciano scoperto lo scheletro strutturale in calcestruzzo armato. I test ne riportano lo stato di salute, proponendo una sua riconversione piuttosto che una costosissima demolizione
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All’interno della proprietà vi sono spazi sufficienti per allestire un ampio giardino per i marittimi. Anche il retro del fabbricato offre spazi per la progettazione di verde attrezzato
Attualmente l’edificio si presenta come una rovina contemporanea, classico esempio della necessità di riconvertire spazi industriali dismessi, grande tema progettuale e sociale da circa vent’anni
Il perimetro dell’area presenta altri piccoli episodi di architetture in disuso e più o meno degradate, alcune recuperabili (come questa) e altre (la maggiorparte) da demolire
Lo spazio voltato costituisce una suggestione molto forte per questo corpo di fabbrica longitudinale, richiamando una sua possibile esaltazione sostituendo la copertura in eternit con una tecnologia “leggera”
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per
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Il progetto
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Lâ&#x20AC;&#x2122;area interstiziale tra via Fratelli Bandiera e il complesso può continuare a svolgere la funzione di parcheggio, ma anche costituire una zona fruibile per feste, mercati etnici, non dimenticando il ruolo del vicino centro sociale
il so ver e3 gat A) (CI
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verso
il por
to
470 cm
60 cm
1035 cm
Ogni pilastro misura alla base 30 cm di spessore e 50 di profondità. Lo spazio utile tra pilastro e pilastro è di 560 cm. I pilastri hanno un profilo di profondità variabile (vedi sopra): sono collegati da travi a L al colmo, mentre all’altezza di 300 cm sorreggono il carroponte su travi a T sempre in c.a. Il tema progettuale più immediato si offre nell’interloquire con l’apparente rigidezza di questo schema, che suggerisce un’organizzazione regolare delgi spazi, e metterlo in discussione in alcune sue parti dove è richiesto.
area del benessere
area di incontro, gioco e relax
ambienti di servizio
area del sapere
area dello spettacolo
Ricordando infatti che il Seamen’s club dev’essere un’esperienza in grado di riattivare una sensibilità percettiva “castrata” da lunghi periodi di permanenza, in un ambiente estremamente rigido, opaco, claustrofobico e standardizzato, il programma progettuale richiede una forte componente ludica, animata, scossa da vibrazioni che, seppur studiate e dosate, vadano a stimolare i sensi attraverso soluzioni sia funzionali che formali, spostando l’immaginario e la visione da ciò che ricorda il linguaggio ambientale della nave. Queste riflessioni, riportate in scala progettuale, vanno poi mediate con altri aspetti necessari in quanto veri punti di riferimento per i marittimi a terra, come il senso di domesticità, di focolare, ma anche di apertura, di respiro e, aggiungerei, di trasparenze.
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Lasciare che lo sguardo non si fermi, ma che attraversi le trasparenze di giochi cromatici e sensazioni nebulose, come nei souk dei mercati marocchini…
Progettare gli interni come aree di transizione e non come rigide zone, attraverso l’allestimento di superfici verticali trasparenti (sopra, il mercato di Marrakesh, a sinistra le installazioni spaziali in lycra dell’artista brasiliano Ernesto Neto)
La forza dell’elemento terra e della luce calda nelle cromie si associano per produrre il senso aurorale dell’illuminazione radente, filtrata, come nelle albe e nei tramonti. Lavorare sulla maglia di pilastri forzando la continuità con setti di tamponamenti esterni murali, per restituire un senso di domestica matericità (immagine a sinistra AFG Architetti; Cliostraat le altre)
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Il muro alto collega il fabbricato principale al garage-magazzino mascherando il prospetto sud. Ma una porzione (rivestita di acciaio curtain) slitta aprendo un varco verso i portoni dellâ&#x20AC;&#x2122;auditorium che consentono una fruizione estiva di un auditorium ampliato al giardino
Un foro quadrato di 2 mentri di lato lascia intravedere dal muro blu una porzione di cielo, come lo scatto di una polaroid ma in continua mutazione
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Le superfici trasparenti del lato sud-est sono schermate da brise-soleil in doghe di legno
Anche le chiusure che guardano a sud-ovest sono schermate per proteggere l'ambiente interno dai caldi raggi solari di mezzogiorno. La Dumia si presenta al visitatore a destra dellâ&#x20AC;&#x2122;ingresso principale, circondata da canne di bambĂš colorate
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Vista del bancone-bar
Giochi di trasparenze visti da un tavolo del ristorante. Da destra: la parete in tessuto semi -trasparente della reception, la parete in doghe lignee sottili distanziate dello internet-cafè e a sinistra le chiusure vetrate protette dai brise-soleil
Con le spalle verso le cabine telefoniche. A destra la sala giochi con biliardo, tennis tavolo e in fondo il caminetto
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Il caminetto, vera gioia dei marittimi, è lâ&#x20AC;&#x2122;elemento classico del focolare che riesce a ricostruire sensazioni domestiche
A sinistra un passaggio porta verso i servizi, la mediateca e lâ&#x20AC;&#x2122;auditorium, mentre a destra trova spazio il giardino invernale (da allestire con piante) che funge anche da sala lettura
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pianta, prospetti
nord
Dumia: casa del silenzio «Un esperimento di “convivialità nella differenza”, in una località a metà strada tra Gerusalemme e Tel Aviv che sarà chiamata, con Isaia (32,18) Nevè Shalom (in ebraico) e Wáhat as-Salam (in arabo e cioè «Oasi di pace» o, più semplicemente, «Dimora di pace». Emilio Butturini Nevé Shalom / Wahat as-Salam è un villaggio cooperativo nel quale vivono insieme ebrei e palestinesi di cittadinanza israeliana. Equidistante da Gerusalemme e Tel Aviv-Giaffa, è stato fondato nel 1972 su un terreno di 100 acri; nel 1977 vi si insediò la prima famiglia, nel 1995 le famiglie residenti erano salite a 26; attualmente vi risiedono 42 famiglie, circa 160 persone (altre famiglie si insedieranno a breve). […] Dumia, la casa del silenzio: è uno spazio per la meditazione, la riflessione e la preghiera, in cui vengono promossi incontri tesi a promuovere riflessioni e ricerche sull’incidenza dei valori etici e spirituali sull’educazione e sulla costruzione della pace. da http://www.unicef.it/nevè%20shalom.htm
Uno spazio semplice, eppure denso di significati
Dumia e’ un luogo interreligioso, una costruzione architettonica e un evento sociale in sintonia con i tempi correnti e le esigenze sempre più interetniche della società contemporanea. In Italia non e’ mai stato costruito appositamente un luogo interreligioso sebbene molte comunità religiose siano sempre più disposte al dialogo e alla relazione (come i frequenti incontri ad Assisi sottolineano). Dumia e’ un evento che travalica i confini di BIG Torino per iI porsi come antenna captante dei fermenti più attivi della società italiana di inizio millennio. Brigata Tognazzi per BIG Torino, 2002 da http://www.dumia.org/
La dumia di alluminio a Big Torino, by Brigata Tognazzi
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Dumia dei marittimi pianta e sezione scala 1:100
800 cm
5
4
7 6 600 cm
1 3
8 2
9
1 - rivestimento esterno in pannelli di acciaio curtain 2 - passerella lignea 3 - rivestimento interno in cartongesso 4 - rivestimento in lastre di titanio 5 - copertura in vetro su struttura radiale metallica 6 - tenda bianca (mascheramento raggi solari) 7 - struttura portante: travi a C accoppiate (250 mm) 8 - pedana rialzata coperta da tappeto 9 - scavo riempito dâ&#x20AC;&#x2122;acqua
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Il pozzo di luce inonda, attraverso la tenda bianca, lo spazio circolare puro privo di simboli. La luce viene amplificata dalle pareti, anchâ&#x20AC;&#x2122;esse bianche. La pedana rialzata di 40 cm trova posto un tappeto sul quale sedersi o genuflettersi, per pregare ma anche per favorire incontri conviviali.
Il rivestimento esterno in acciaio curtain rieccheggia il linguaggio industriale dei silos che caratterizzano tutta la zona portuale, ma in questo caso la trasformazione di cui è capace lâ&#x20AC;&#x2122;architettura nel rielaborare le relazioni esistenti tra materiali da costruzione, definisce un nuovo significato costruttivo e funzionale.
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conclusioni La realtà dei marittimi rappresenta senza dubbio una condizione estrema tanto nelle sue prerogative sociali quanto ambientali. È questa eccezionalità che contribuisce a farne una specie di “cartina tornasole” di situazioni a raggio più esteso, globale, che in parte e in entità variabile rispetto a ciascuno coinvolge ambiti della nostra vita di “terrestri”. Eppure quella dei marittimi non è l’unica crepa che percorre i territori dell’insediamento urbano e della cultura contemporanea. I movimenti migratori dall’Africa e dall’Est europeo verso le nostre coste sono sicuramente fenomeni macroscopici e più facilmente ricoscibili dal punto di vista della visibilità, dal momento che sembrano apportare una “minaccia” ben più concreta alle nostre identità (reali e presunte), alle nostre risorse. All’interno della città stessa, senza spingersi troppo lontano, esistono delle pieghe che racchiudono situazioni marginali o degradate, territori di bordo generati dalle sedimentazioni della crescita urbana o dagli spostamenti delle funzioni produttive. È sufficiente pensare in termini di nuove rendite fondiarie per rivitalizzare o integrare un habitat? La situazione attuale sembra dichiarare il contrario, dal momento che attuali e future forze conflittuali emergono da un pensiero di cieca matrice capitalista, tanto che su scala globale l’asse del conflitto, una volta tra est e ovest, si è progressivamente allineato tra nord e sud, ovvero tra ricchezza e povertà. Stanziale versus “di-stanziale” si propone come grande tema del nostro tempo, momento in cui anche chi si occupa di architettura necessita di una ridefinizione del proprio ruolo, dei propri obiettivi. Gli artisti e architetti del progetto Ms3 hanno messo in atto un emergente modello di pratica artistica (community-based public art), basata sulla relazione con il contesto locale considerato e sulla partnership con i soggetti sociali, come potenziale creativo che interviene e induce trasformazione e rigenerazione. Questa pratica si inserisce nelle esistenti metodologie di trasformazione del territorio che trattano problemi pubblici e gli autori di Ms3 si collocano tra gli esistenti soggetti che pur non essendo enti amministrativi costruiscono politiche pubbliche. La crisi della rappresentanza politica da una parte e una concezione dell’arte e dell’architettura come pratiche diffuse di pubblica utilità, hanno creato uno spazio fertile in cui attività auto-organizzate riescono a trattare problematiche sociali, con effetti di produzione di beni pubblici e di nuove forme di aggregazione. Le pratiche di relazione e comunicazione messe in atto hanno mostrato la potenzialità, di un’arte dal forte contenuto antropologico, di offrire una visione alternativa alla contingenza, offrendosi come processo creativo collettivo che accompagna nella rivisitazione e ri-definizione del rapporto con il potenziale inespresso in termini di luogo, beni, partnerships possibili, espressione individuale, conoscenza e consapevolezza collettiva. Tale modello si serve dell’osservazione, dell’ascolto, della partecipazione, dello spostamento percettivo e concettuale, del coinvolgimento emotivo e sensoriale dei fruitori, mai spettatori; agisce come catalizzatore su nuovi scenari possibili, mediatore tra le parti sociali, veicolo di trasformazione. In questo elaborato di tesi ho tentato di condurre il lettore attraverso una realtà piuttosto che ad un oggetto architettonico, che si presenta per necessità solo in fine: come dei marittimi ci si è incamminati, anche se virtualmente, dalla nave (condizione estrema) a un territorio inospitale ma implementabile nei servizi e infine a un’agognata “casa lontano da casa”. Quello che ho cercato di comunicare è che il primo approcio a queste problematiche può (forse deve) essere di tipo relazionale e non prestazionale, cosa quest’ultima che è invece cara a chi traccia “segni forti” sulla mappa. Qualcuno invece ha affermato che “la mappa non è il territorio” (era l’antropologo Korzybski). Una riflessione profonda su ciò che sto per affrontare nel campo professionale, confrontandola con recenti e fresche esperienze progettuali svolte da giovani gruppi in tutta Italia, da cui ho tratto a piene mani in questa tesi, mi ha portato ad elaborare un pensiero su ciò che
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potrebbe significare “architettura relazionale” nel contesto disciplinare, mutuandolo dalla filosofia del low-tech e spostandolo verso un campo di relazioni sociali. Le difficoltà stanno nel considerare la disciplina come uno schema rigido, quando invece non lo è affatto dal momento che l’architettura è da sempre vitalmente connessa al terreno sociale in cui si sviluppa e in un rapporto viscerale con l’arte che le dà la capacità di trasformare, creare metafore e comunicare, oltre che essere utile e produrre profitti. Argomento centrale della contemporaneità, in differenti ambiti, è l’immaterialità. In campo artistico c’è chi ha trasformato questa tematica in termini di rapporti con il sociale e spostando l’interesse dall’oggetto verso il processo creativo, protraendo il tema sino alle sue estreme conseguenze, ovvero la dissoluzione dell’arte come attività specifica: dal movimento Dada, passando per la Body art, l’arte povera, la Public art e Fluxus, ma soprattutto con l’artista tedesco Joseph Beuys il cui testamento rieccheggia ancora forte, ora più che mai, nelle energie di una giovane arte votata al dono. Si potrebbe anche parlare dell’emergere del terzo settore, le associazioni e le organizzazioni non governative che operano nel campo dello sviluppo sociale e culturale, testimoni anch’esse delle nuove spinte provenienti dal basso e di nuove professionalità trasversali. Tali pratiche di interazione sociale dimostrano di poter produrre fenomeni di apprendimento, in cui la produzione di beni pubblici non è esclusivamente l’esito di una funzione tecnico politica, ma tornano ad essere un processo culturale dei cittadini per ricucire il rapporto sociale ed affettivo tra gli abitanti e i loro ambienti di vita. La sfida che tali politiche pongono alle amministrazioni è prima di tutto il ripensamento dell’orizzonte istituzionale e normativo, anche munendosi di nuovi strumenti operativi e di indagine che utilizzino linguaggi altri rispetto ad approci eccessivamente scientifici, deterministi o settoriali. È possibile allora pensare a un rinnovato ruolo dell’architetto come costruttore di situazioni altre, in cui pur mettendosi a disposizione con nuovi strumenti, primo fra tutti l’ascolto, non perda la sua identità di “designer”, per dirla come Peter Cook, ma che al contrario riacquisti un ruolo di progettista (ripeto, non solo di prodotti edili e utensili) legato al territorio e alle istanze di chi lo abita e in esso produce, non di chi lo sfrutta. Già negli anni ‘60 e ‘70 erano emerse forti energie radicali in tal senso con il movimento situazionista prima (un situazionista vi direbbe che il movimento non è mai esistito), subito dopo con esperienze come Archigram e ancora con i teorici dell’architettura partecipata, tutti in aperto conflitto con le logiche razionaliste e funzionaliste del Movimento Moderno e dei CIAM. Ma tutte si sono poi esaurite con uno sfogo nell’utopia a dimostrazione che evidentemente i tempi non erano ancora maturi per superare il concetto strumentale di “evento shock” e produrre invece, come si sta facendo ora, processi di crescita culturale a lunga scadenza. L’immaterialità in architettura oggi viene considerata ed esplorata nella fucina della cosiddetta “terza avanguardia”, fabbrica di ambientazioni digitali orientate alla ricerca nel contesto ipertecnologico e di scenari in cui reinventare e proporre nuovi modi di vivere per il futuro. Un’altra scelta etica, a cui mi sento più vicino, può invece indirizzarsi alle architetture immateriali (dinamiche e imprevedibili forse più di qualsiasi altro algoritmo) delle relazioni sociali, in cui ciascuno possieda gli strumenti per costruirsi le condizioni di abitabilità più vicine al proprio sentire e dove l’architetto possa assurgere anche al ruolo, altrettanto non semplice, di costruttore-agevolatore di situazioni. In definitiva, si avverte uno spostamento emergente, un bisogno di creatività che, come sta portando l’arte nel suo essere madre verso il dono, può portare l’architettura nel suo essere struttura verso l’accoglienza.
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Ararat / Campo Boario Stalker - Laboratorio d’arte urbana, Roma http://www.stalkerlab.it/
Lucy Orta - Architetture corporali Avaguardie Permanenti - lecture Venezia, IUAV (Tolentini), 12.01.2001
Didier Fiuza Faustino - Architecture performance sabotage Avaguardie Permanenti - lecture Venezia, IUAV (Tolentini), 09.02.2001
USE - Uncertain States of Europe Multiplicity http://www.useproject.net/
Paper fish in plastic water - Simple tech for a complex world Cliobangkok, in collaborazione con Infosign (Rangsit University, Bangkok) nell’ambito della IV Biennale Internazionale delle Arti di Quarrata. Quarrata (Pistoia), 16 / 22 maggio 2002
Architecture for a changing world Rassegna Internazionale Premi Aga Khan d’Architettura Udine, Venezia, Torino 2002.
CityScapes / Imaginary Territories RAQS Media Collective, ZonAnomala, Nomads&Residence Public chat, curated by the Documenta11_Education Project Hotel Reiss, Kassel, 17.07.02
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Testi Le catene degli schiavi del mare Anna Morelli In “ALTREconomia”, n°22 (novembre) 2001
L’abitare autogestito John F. C. Turner Cooperativa Edizioni Jaca Book 1978, Milano
I lavoratori marittimi - profili sociali e nuove domande di servizi Valentina Longo, Graziano Merotto, Devi Sacchetto, Valter Zanin Ricerca finanziata dal Comune di Venezia, dall’Autorità Portuale di Venezia e dalla Provincia di Venezia Padova/Venezia, 2002
La città di latta Paolo Desideri pre.testi, costa & nolan Genova, 1995
Il Cappello di Feltro - Joseph Beuys, una vita raccontata Lucrezia de Domizio Durini Edizioni Charta Milano, 1998
Significati del confine Piero Zanini Bruno Mondadori Milano, 1997
Waterfronts - Cities reclaim their edge Ann Breen, Dick Rigby McGraw-Hill, Inc. New York, 1994
Agonia di Los Angeles Mike Davis I Tascabili Datanews Roma, 1994
Storie di architettura attraverso i sensi : nebbia, aurorale, amniotico... Anna Barbara Bruno Mondadori Milano, 2001
Luis Barragàn - The quiet revolution Federica Zanco Skira Editore Milano, 2001
Verso un nuovo assetto del sistema urbano Bruno Dolcetta in “Urbanistica”, n.59-60 1972
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I territori abbandonati AA.VV. in “Rassegna”, n. 42 1990
Urbanistica Off_line 1.5 Atlante di Urbanistica a cura del corso di G. Longhi Cd-Rom multimediale Venezia, 1997
Theory of the Dérive Guy-Ernest Debord in “Internationale Situationniste”, n.2 1958
Introduction to a critique of Urban Geography Guy-Ernest Debord in “Les Lèvres Nues”, n.6 1955
Alla ricerca di un mondo migliore Karl Popper Armando Armando S.r.l Milano, 1989
Lina Bo Bardi Istituto Lina Bo e P.M. Bardi Charta Milano, 1994
Roberto Burle-Marx - The Lyrical Landscape Montero Marta Iris Thames & Hudson London, 1997
La villa imperiale di Katsura Arata Isozaki, Yasushiro Ishimoto Giunti Barbera Firenze, 1987
Vers un architecture Le Corbusier Longanesi Milano, 1973
People of the Sea Proceedings of the XX World Congress Apostolatus Maris Vatican City, 1998
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Globo conteso - Fondamenta. Venezia città di lettori AA.VV. A cura di Daniele del Giudice Comune di Venezia, Beni e Attività Culturali, Cultura e Spettacolo Venezia, 2002
The politics of interculture - Myths, realities and dreams In “Korsdrag_Crosscurrents”, n° 4-5 Stockholm, 2001
Lo stretto indispensabile Franco La Cecla, Piero Zanini In “Terraferma”, catalogo dell’esposizione a cura di Riccardo Caldura Edizioni Charta Milano, 2001
The Electa Book Pavillon of the Venice Biennale Built by Permasteelisa Edited by Francesco Dal Co Electa Milano, 1993
Il Lavoro del futuro Gazeta Wyborcza intervista Jeremy Rifkin In “Internazionale”, n. 423 Roma, 2002
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