Le Acli con chi perde lavoro e redditoe si sta impoverendo a causa della crisi

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CONSIGLIO NAZIONALE Roma, 20 aprile 2013

Le Acli con chi perde lavoro e reddito e si sta impoverendo a causa della crisi Relazione di Gianni Bottalico, Presidente nazionale

«Non potete immaginare quante persone mi chiedono aiuto, ma ultimamente sono spaventato. Non sono solo gli operai a rivolgersi a me ma anche gli imprenditori. Rivolgo un appello a coloro che ci governano perché facciano presto e si rendano conto che non ce la facciamo più». Mons. Luigi Conti, vescovo di Fermo (Omelia ai tre suicidi per crisi di Civitanova Marche)

«E, per favore, non lasciatevi rubare la speranza!». Papa Francesco, vescovo di Roma (Omelia domenica delle Palme)


1. Una emergenza mai vista

Negli ultimi tre mesi sono successi degli eventi di portata storica tanto sul piano ecclesiale che su quello civile, senza dimenticare anche la specifica storia delle Acli le quali in qualche modo, con il rinnovo della Presidenza Nazionale sono state anch'esse toccate dalle novità di questo pur breve periodo di tempo. Tuttavia vi è un tema ancor più urgente a cui vorrei dedicare il primo pensiero, ed è quello del dilagare della crisi. Siamo in piena emergenza, di una gravità mai vista e non sappiamo dove ci porterà. Il Paese è nella bufera senza che si intravedano al momento vie di uscita. Allora voglio dire a noi ed alla classe dirigente tutta del Paese: usciamo dai nostri palazzi, usciamo dalle nostre sicurezze e guardiamo a cosa sta succedendo alle fasce di cittadini più vulnerabili ed alle categorie produttive più esposte alla concorrenza internazionale. La situazione ha superato ampiamente i livelli di guardia. L'Istat ci ha detto di recente che tra disoccupati, inattivi e sottoccupati si sfiora la cifra drammatica di 6 milioni di persone, almeno un quinto della popolazione si trova in condizione di povertà, e coloro che stanno ancora un po' meglio vedono vistosamente calare il proprio tenore di vita. È uno stillicidio di posti di lavoro persi (ormai anche di quelli a più alta specializzazione) e le piccole e medie imprese muoiono come mosche. E quando una azienda chiude ben difficilmente potrà riaprire. Sono interi segmenti produttivi che si perdono e dai quali l'Italia è scalzata via da una concorrenza agguerrita ed impari. Ormai tutti hanno compreso che non siamo di fronte ad una qualsiasi crisi congiunturale ma alla crisi che sta cambiando alla radice la struttura sociale, economica, e se non stiamo attenti, anche quella istituzionale del Paese. Si assiste da anni ad un progressivo impoverimento dei ceti medi e lavoratori. Stiamo passando da una società opulenta, con una maggioranza di “garantiti” nei confronti dei rischi della vita (la famosa società dei due terzi) ad una società fatta in maggioranza di gente che farà sempre più fatica a tirare avanti, di lavoratori poveri, di famiglie in difficoltà, di imprenditori sull'orlo della disperazione, di anziani indigenti, di esodati, di giovani disoccupati e senza prospettive. Le politiche di riduzione dei costi e dei diritti del lavoro, di tagli al welfare, di privatizzazione delle risorse 2


pubbliche stanno creando un nuovo esercito di disperati, che rischia in prospettiva di mettere a dura prova la tenuta dell'ordinamento democratico. La massiccia deindustrializzazione che sta provocando la desertificazione industriale di interi territori, indebolisce la nostra principale vocazione economica, quella manifatturiera. Lo voglio dire con chiarezza: è insensato pensare che l'Italia se la possa cavare col turismo e l'agro-alimentare, che pure costituiscono settori molto importanti. Siamo un Paese senza materie prime e se non puntiamo tutto sull'ingegno che abbiamo nella creazione e trasformazione dei prodotti, saremo presto fuori dal novero delle nazioni più avanzate. Credo che per le Acli sia importante mettersi in questo ordine di idee, quello della drammatica straordinarietà della crisi attuale, per definire la nostra iniziativa politica, per meglio modulare la nostra azione sociale ed i nostri servizi, per leggere alla luce della fede le difficoltà che incontriamo nel cammino in questo momento storico.

2. Fare presto: il lavoro è la questione centrale

Nel lungo cammino di regressione sociale ed economica che l'Italia ha vissuto a partire dagli anni Novanta, quando il nostro Paese, divenuto meno strategico nel quadro delle alleanze internazionali, dopo la caduta del comunismo, ha iniziato a subire gli attacchi speculativi della finanza internazionale, il 2013 segna un punto di svolta. Da qualche mese ormai l'area del disagio sociale, delle vittime mietute dalla crisi sta superando i livelli fisiologici. Non basta più la Caritas, non bastano gli ammortizzatori sociali in deroga, per i quali peraltro, si indugia a trovare i necessari finanziamenti. La mancanza di lavoro, la povertà, l'ansia per il futuro e lo spettro della fame stanno iniziando a diventare fenomeni diffusi e sempre meno controllabili. O si cambia o si profila il rischio che i fenomeni che sono in gestazione superino ampiamente la capacità di governarli. E per cambiare, a detta di tutti ormai, occorre affrontare con maggiore decisione l'assoluta priorità costituita dal lavoro. Al punto in cui siamo non interessa tanto sapere quale dottrina economica abbia fallito. A noi delle Acli, come a milioni di lavoratori e famiglie, interessa definire una 3


nuova prospettiva verso cui muoverci ed identificare alcuni punti concreti di buon senso su cui scommettere da subito per il futuro. Il lavoro può essere riscoperto non solo come il grande malato della crisi, ma anche come la forza attraverso la quale ricostruire una società più giusta e solidale, uno sviluppo più sobrio e lungimirante, una democrazia capace di dare regole e senso all’uso della ricchezza. Dobbiamo, quindi, innanzitutto prendere atto che l’Italia oggi, pur con le sue peculiarità nazionali, rappresenta uno specchio della situazione in cui versa l’Occidente in cui una ristrettissima fascia di cittadini, già ricchi, ha tratto enormi benefici dai nuovi modelli finanziari e da un commercio internazionale fortemente deregolamentato, a scapito della stragrande maggioranza dei cittadini che per questa stessa ragione sono divenuti più poveri e stanno perdendo molti posti di lavoro a causa delle delocalizzazioni. Anche in conseguenza di ciò le disuguaglianze in Italia sono lievitate in una maniera a dir poco vergognosa e soprattutto diseconomica, perché ciò mina la capacità di consumo delle famiglie: secondo recenti dati della Banca d’Italia (dicembre 2012), il 10% delle famiglie italiane detiene il 46% della ricchezza totale del Paese mentre la metà più povera delle famiglie italiane ne detiene appena il 9,4. In giro per l'Italia ed in giro per l'Occidente c'è molta ricchezza immobilizzata, sottratta al normale ciclo economico, perché accumulata nelle mani di pochi, perché nascosta al fisco. E ciò non riguarda solo la piaga annosa dell'evasione fiscale o il fenomeno preoccupante dei capitali immessi dalla criminalità organizzata, fenomeni sui quali non occorre mai abbassare la guardia, e sui quali le Acli sono impegnate anche attraverso la campagna “Riattivo il lavoro” per gli addetti delle aziende confiscate alle mafie. Per dimensioni la piaga dell'evasione ha a che fare con la destinazione presa dagli ingenti guadagni dei fondi speculativi. In questi anni sono aumentati i profitti finanziari mentre è diminuita la quota di ricchezza destinata alle imprese, ai lavoratori, alle famiglie. Si è dunque assistito ad uno spolpamento dell'economia reale da parte della finanza speculativa, ad una compressione dei salari e del

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welfare per poter fare in modo che chi era già molto ricco potesse guadagnare ancora di più. Gran parte di questa ricchezza è finita nei cosiddetti paradisi fiscali. Sebbene se ne sia parlato poco in Italia, deve far riflettere quanto sta emergendo da una grande inchiesta finanziaria denominata “Offshore Leaks”, un'indagine realizzata da una équipe di giornalisti provenienti da tutto il mondo sui nuovi paradisi fiscali del terzo millennio. Finalmente qualcuno, purtroppo non ancora le autorità pubbliche, cerca di vedere che fine fa quel fiume di denaro che viene sottratto ai lavoratori, alle famiglie, alle imprese, agli enti pubblici dalla speculazione finanziaria e che ha provocato l'attuale depressione economica. Stanno emergendo delle cifre da capogiro. L'ammontare dei capitali illeciti trafugati nei paradisi fiscali ammonterebbe intorno ai trenta mila miliardi di dollari, una cifra pari ai pil degli Usa, della Cina e dell'intera Europa messi insieme. Da questo scandalo internazionale che vede coinvolti anche nomi eccellenti del nostro Paese, occorre trarre qualche conclusione: non è possibile continuare con un sistema che tassa all'inverosimile i piccoli lavoratori e imprenditori e consente a chi sottrae gran parte della ricchezza nazionale una sostanziale immunità fiscale. Va anche detto che questo è potuto succedere perché non si è voluto finora regolare in modo efficace la finanza. Quindi uno dei provvedimenti più urgenti e importanti per salvare il lavoro è quello che riguarda le regole a cui sottoporre gli operatori finanziari: una netta distinzione tra le banche commerciali che finanziano imprese e famiglie, dalle banche d'affari che rischiano i capitali sui volatili mercati finanziari; e soprattutto un limite invalicabile alla speculazione, costituito dalla capacità di rispondere dei rischi da parte dei soggetti che li intraprendono e di non scaricarli più sui contribuenti. L'obiettivo di una nuova e più equa distribuzione della ricchezza – che sta nel dna delle Acli ieri come oggi – lo si può ottenere solo a partire dal lavoro. Per quanto possa sembrare ingenuo, visto il difficile momento che attraversiamo, credo che non 5


si debba smettere di ricordare che il lavoro deve essere per tutti. Quanti paradossi, inaccettabili e pericolosi si annidano in questa crisi. Intanto, è una crisi di sovrapproduzione, sia di merci che di profitti. La ricchezza però è così mal distribuita che ai più iniziano a mancare i soldi per i consumi. Il mito di una competitività che, oltre il buon senso di una sana e flessibile organizzazione produttiva, spinge ad aumentare i carichi di lavoro ed a contenere i salari di chi il lavoro ce l'ha, contribuisce ad escludere l'esercito che si ingrossa dei senza lavoro. Un non senso, considerando poi che la storia procede in avanti e tende ad una progressiva riduzione degli orari di lavoro, anche se in questo tempo si fa di tutto per non vederlo. Quindi risulta opportuno, anche se siamo in una fase di crisi, riaprire una riflessione che coinvolga tutti i ceti sociali su come fare in modo di lavorare meno, lavorando tutti. Allora un altro nodo di fondo da affrontare è il seguente: quale punto di equilibrio si può trovare fra due esigenze opposte, la prima quella di dare reddito attraverso il lavoro, per favorire i consumi e far ripartire l'economia, al maggior numero possibile di lavoratori; e la seconda quella di rimanere competitivi in un mercato globale dove il costo del lavoro ed i diritti dei lavoratori sono in gran parte del mondo ridotti al un livello per noi ormai irraggiungibile e culturalmente ed eticamente inaccettabile? Credo che qui debba entrare in gioco la politica, perché altrimenti una risposta arriva comunque, per inerzia. Mi riferisco ad un processo già ampiamente in atto che è quello della tendenza a livellare verso il basso, verso standard di tipo asiatico, le retribuzioni, il tenore di vita ed i diritti dell'Europa. Ha fatto scalpore, qualche giorno fa la proposta di un cartello di undici multinazionali, di proporre per la Grecia salari di 250 Euro mensili per sfruttare l'abbondante manodopera a basso costo in un Paese stremato dalla crisi. Dinamiche simili si stanno insinuando anche in Italia. Ma noi possiamo accettare la soluzione che offre la “mano invisibile” del mercato? Essa non si preoccupa certo della sostenibilità sociale, della stessa salvaguardia del nostro tessuto economico e produttivo. Allora, credo che la risposta al problema del lavoro in Italia va costruita anche con la politica. C'è un ampio consenso sul fatto che occorra al più presto rilanciare i consumi, sia rivedendo la tassazione su lavoro e imprese, sia con un minimo di politica dei redditi. Ci si sta rendendo conto anche che le esportazioni, per quanto 6


vitali, non bastano da sole a salvare la nostra manifattura.Allora, se vogliamo evitare un inesorabile deterioramento verso modelli produttivi e sociali di tipo asiatico, dobbiamo compiere uno sforzo straordinario per fare sistema. In questa prospettiva sembra volgere anche la proposta lanciata da Confindustria la settimana scorsa di una alleanza fra lavoratori ed imprese, che però, a mio avviso andrebbe estesa anche ad altri due soggetti fondamentali per l'economia che sono le famiglie ed il settore pubblico. Solo così questa alleanza per il lavoro, sostenuta da adeguate e coerenti politiche industriali nazionali ed europee, potrebbe avere quella capacità di mobilitare il Paese sull'urgenza di rilanciare il lavoro e di salvare quel che resta del nostro sistema produttivo.

3. La politica sia all'altezza delle sfide

La crisi senza precedenti che stiamo attraversando può essere superata non solo affrontando le drammatiche emergenze, ma cogliendo le opportunità che ci vengono offerte di guardare lontano, di ripensare l’economia, la società, la politica, le istituzioni, di ridare speranza alle nuove generazioni. Le scorciatoie ideologiche non sono più tra gli strumenti oggi utilizzabili, ma non possiamo nemmeno pensare che l’assenza di una cultura politica possa essere semplicisticamente compensata da un buon approccio pragmatico. Dobbiamo ricostruire le coordinate fondamentali. E’ necessario superare lo stallo democratico riannodare il filo fra popolo e istituzioni e ricostruire un sistema culturalmente adeguato e rappresentativo della società. Anche sul piano strettamente politico è necessario ribadire con forza che nessuna soluzione tecnica, sia essa istituzionale, elettorale, legislativa, può sostituire la politica. Il risultato però è che lo scenario politico uscito dalle elezioni di febbraio non risponde più a nessun schema. Abbiamo di fronte un lavoro di lunga lena. Intanto abbiamo bisogno di più Europa. E' pur vero che abbiamo affrontato questa crisi con lo scudo della moneta unica, tuttavia appare sempre più chiaro il deficit di democrazia che ha accompagnato la gestione dell'Euro. Senza maggiore condivisione e solidarietà, l'economia europea rischia di rimanere strangolata da una 7


gestione tecnocratica della moneta. L'Euro in questi anni ha favorito l'economia tedesca a scapito però delle altre economie europee. Ma da qualche tempo anche la Germania comincia a scontare i limiti del proprio tiepido senso di cooperazione. Il prossimo settembre si terranno le elezioni tedesche: è auspicabile che anche la Germania si renda conto che né loro né noi avremo possibilità di ripresa solo puntando tutto sul rigore di bilancio e sulle esportazioni, senza cambiare rotta e porre un freno all'impoverimento dei ceti medi e rilanciare i consumi dei ceti lavoratori e delle famiglie. Sul piano interno vediamo la politica italiana ancora bloccata nel groviglio prodotto dalle ultime elezioni e le fibrillazioni conseguenti che si sono registrate in occasione dell'elezione del Capo dello Stato. Stiamo assistendo da qualche giorno ad un passaggio delicatissimo, frutto dell'imprevisto esito delle scorse elezioni politiche le quali non hanno indicato un vincitore bensì hanno decretato l'esistenza di tre minoranze. I partiti devono sentire la responsabilità per la gravità della situazione che si è venuta a creare sul voto per il Capo dello Stato. La preoccupazione è massima ed impone a questo punto il coraggio di una scelta la più condivisa possibile, capace di andare al di là delle convenienze di parte per sciogliere il nodo del Quirinale. Ogni altra votazione a vuoto, ogni altro giorno perso rischia di apparire come un affronto al Paese, nel quale ogni giorno c'è gente che perde il lavoro o la casa, ci sono aziende che chiudono, ci sono persone che soccombono schiacciate dalla crisi. È evidente che oggi la situazione è ancora più complicata di quanto lo fosse già giovedì scorso, all'inizio delle votazioni per il Quirinale. Non solo per lo stallo sui risultati, che poteva anche essere preventivabile visto che nessuna parte politica dispone dei numeri per eleggere da solo il nuovo presidente della repubblica. Ciò che non si poteva immaginare è che si giungesse ad un punto cosi basso di confusione, di slealtà e di frammentazione, e che l'artefice principale di tutto ciò fosse il Partito Democratico che in due giorni ha fatto fallire le candidature di due fra le sue personalità più rappresentative, quelle di Franco Marini e di Romano Prodi, che esso stesso aveva proposto.

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È stato incredibile assistere ad un mese di sterili corteggiamenti da parte del Pd al Movimento Cinque Stelle, che hanno fatto perdere tempo prezioso ad un Paese che ha bisogno urgente di un nuovo governo. A questo ha fatto seguito mercoledì scorso una repentina svolta verso un accordo di larghe intese con il centro destra, un accordo che molti non hanno capito nel Pd e che comunque lo stesso Pd ha prontamente disatteso il giorno dopo, a cui è seguito un ulteriore cambio di strategia, scegliendo il candidato che avrebbe dovuto compattare il centro sinistra e che invece è divenuto occasione per un regolamento di conti fra bande e clan in un partito in cui ognuno fa ciò che vuole ed in cui chi ha manovrato dall'esterno le mosse dei grandi elettori non può essere ritenuto meno responsabile del segretario, che ha annunciato le sue dimissioni, per il disastro compiuto. Dopo quel che è successo negli ultimi due giorni sembrano ridursi al minimo le speranze di poter fare l'unica cosa che i cittadini chiedono dal 26 febbraio scorso: la formazione di un governo che affronti l'emergenza economica e sociale, faccia le improrogabili riforme istituzionali prima del ritorno al voto. Sembra profilarsi invece sempre più concretamente la possibilità, non certo positiva per il Paese, di un nuovo ritorno alle urne in tempi brevi. Credo che questa rappresenti una prospettiva da scongiurare perché non farebbe che rimandare l'avvio di quelle riforme di cui il Paese ha bisogno. Credo che se vogliamo riflettere sulla riforma della politica, dobbiamo innanzitutto chiederci cosa sia la politica oggi, a che cosa essa si sia ridotta. Le numerose recenti indagini della magistratura hanno messo in evidenza un preoccupante livello etico del ceto politico, una scarsa propensione al rispetto della legalità, una potenziale disponibilità alla collaborazione con ogni forma di criminalità organizzata in cambio di consenso. La battaglia per la costruzione di un’etica condivisa è la premessa per il successo di qualsiasi riforma. Questa battaglia avrà senso e sarà tanto più efficace quanto più diventerà patrimonio di tutte le forze politiche, di tutti i soggetti collettivi e di tutte le persone di buona volontà. Le ideologie ottocento/novecentesche costringevano l’elettorato a collocarsi entro schemi prestabiliti. Le robuste teorie facevano sì che la politica, cioè l’azione collettiva rivolta all’interesse generale, fosse proiettata verso scenari futuri di assetto 9


della società, desiderabili e auspicabili, che traevano la loro ragion d’essere dalle condizioni sociali e materiali a cui ciascuno apparteneva. Il degenerare del dibattito politico contemporaneo, la riduzione della proposta politica a semplici istanze corporative, al desiderio di affermazione di interessi particolari immediati, il venir meno di una forte tensione etica nella lotta politica, fa sì che il senso profondo della politica, inteso come sintesi orientata al bene comune, sia sempre meno rintracciabile. Oggi molti commentatori, ma anche molti personaggi che calcano la scena politica, lasciano intendere che le dinamiche politiche si siano ormai ridotte ad un concatenarsi casuale di eventi a cui i protagonisti cercano di rispondere sulla base di interazioni dettate da istinti primordiali quali l’istinto di sopravvivenza individuale o di gruppo, l’interesse di parte, il desiderio ancestrale di conquista del potere, l’istinto di prevaricazione, la volontà di vittoria sugli avversari (e le cronache di questi giorni non fanno che confermare queste impressioni!). In ultima analisi la politica viene ridotta ad una tecnica per la conquista del potere finalizzata alla massimizzazione degli interessi individuali o nella migliore delle ipotesi degli interessi di gruppo. Una tecnica ispirata quasi esclusivamente alla volontà di vincere la competizione democratica. E vince chi è in grado di interpretare meglio di altri gli umori, i sentimenti, i bisogni, i desideri della popolazione. La capacità di convincimento, attraverso un uso spregiudicato dei media, vecchi e nuovi, sono in questo senso indispensabili, non solo per comunicare i propri schemi di lettura della realtà e le proposte di soluzione dei problemi, ma spesso per creare virtualmente i problemi e presentare la propria forza politica come unico soggetto in grado di risolverli. A questo proposito credo che come a suo tempo è stato messo sotto osservazione l'uso a fini politici della televisione, oggi si debba prestare molta attenzione anche a chi si propone come unico depositario delle “verità” e delle decisioni della rete. Il Movimento Cinque Stelle ha sicuramente introdotto degli interessanti elementi di novità nelle modalità dell'impegno politico, tuttavia accanto a ciò credo sia opportuno anche segnalarne i rischi, o quantomeno i punti ancora da chiarire. Un conto è suscitare delle discussioni e tener conto degli umori che si manifestano nelle reti sociali più frequentate. Un altro conto è pretendere di trasformare questo in una espressione di deliberazione e di consenso. Chi sono e cosa rappresentano coloro che cliccano, che garanzie ci sono sulla regolarità delle consultazioni? Inoltre credo 10


che vada rilevato che l'atteggiamento di chi esclude a priori qualsiasi mediazione e si dichiara irremovibile sulle proprie posizioni su tutti i fronti, costituisca la negazione di un autentico atteggiamento politico, che non può esser precluso ad ascoltare anche le ragioni degli altri in vista del bene comune. Ci sono dei nodi istituzionali che non possono essere più rinviati, a cominciare dalla legge elettorale. Tuttavia la possibilità di affrontare tali riforme dipenderà dagli sviluppi del quadro politico successivi all'elezione del Capo dello Stato. Credo che le Acli non possano sottrarsi, come in altre stagioni decisive per il Paese, alla definizione di una loro proposta. La legge elettorale è il primo dei temi in materia istituzionale su cui dobbiamo avviare una discussione per la sua riforma. Dopo un ventennio in cui la nostra democrazia ha sperimentato leggi elettorali maggioritarie, il bilancio non è dei più esaltanti. Sono state incentivate le spinte populiste e le derive leaderistiche, anziché il consolidamento di un bipolarismo autentico, basato sulla diversità dei progetti politici concorrenti. Alla fine le ultime elezioni ci hanno ricordato che l'alternanza non si ottiene neanche in presenza di generosissimi premi di maggioranza (la cui costituzionalità peraltro non è mai stata dimostrata e di recente l'attuale presidente della Corte Costituzionale Franco Gallo, ha sollevato fondati dubbi, così come avevano fatto già alcuni dei presidenti emeriti della Consulta). La conservazione di elevati livelli di capacità rappresentativa, data la struttura molto articolata e variegata del sistema partitico italiano, parrebbe piuttosto consigliare un orientamento verso formule di tipo proporzionale, eventualmente corrette. Sulla ricerca di un rapporto equilibrato tra le giuste esigenze del miglioramento degli standard di governabilità del sistema e la capacità rappresentativa può essere utile prender spunto, senza assolutizzarle, da due esperienze straniere. Quella spagnola e quella tedesca. C'è poi tutto il capitolo che riguarda la riforma dei partiti nella prospettiva di miglioramento dei livelli di efficienza del sistema. Non c'è infatti solo il problema dei costi della politica, che pure va affrontato. Dobbiamo fare attenzione però a distinguere fra ciò che va cambiato con decisione ed il principio, oggi ancora valido che una qualche forma di finanziamento pubblico alla politica, anche su base 11


volontaria, è necessaria per impedire che siano solo più i ricchi ad occuparsi di politica. Serve equilibrio, nel contempo vanno superati sia le resistenze corporative, di casta, come si dice, sia le suggestioni populiste. Infatti chi insegue ciecamente gli umori della piazza sui tagli ai costi della politica prima o poi verrà travolto da chi si dimostra più radicale. Credo che Giovanni Bianchi abbia fatto un'osservazione saggia su questo quando ha scritto che il punto non è che la politica appare alla gente troppo costosa, ma che rischia di apparire inutile quando questa non decide sui problemi che assillano i lavoratori e le famiglie. La riforma dei partiti politici passa oggi necessariamente anche attraverso la definizione di strategie di democratizzazione interna. Allo stato attuale, con partiti personali, partiti azienda, partiti web, ritorna attuale il problema dell’interpretazione del concetto di metodo democratico, cui si riferisce l’art. 49 della Costituzione, nello stesso senso dichiaratamente attribuito dall’art. 39 Cost. al metodo (democratico) di organizzazione

interna

delle

organizzazioni

sindacali.

Questa

prospettiva

renderebbe non solo conforme, ma addirittura costituzionalmente necessaria una legge che sottoponga tutti i partiti a una disciplina omogenea di organizzazione interna democratica, in modo che non possano ripetersi quelle situazioni che abbiamo visto di totale discrezionalità dei capi. Inoltre, l'ipotesi di dare il via ad una Convenzione per le riforme per affrontare il nodo della forma di governo e quello della riforma del bicameralismo, oltre ad essere una proposta già avanzata in passato dalle Acli, appare adesso utile ed interessante. Sia su questi temi di carattere istituzionale, sia sui temi economici e sociali ci potremo avvalere del contributo della Fondazione Achille Grandi, il cui ruolo sarà sempre di più quello di creare dei collegamenti fra l'Associazione ed i molti aclisti impegnati nelle istituzioni a tutti i livelli.

4. I cattolici italiani significativi anche in questa nuova fase

Un cambiamento enorme sta investendo la Chiesa Cattolica. A chi paventava il ritardo nell'attuazione del Concilio, soprattutto al livello della Curia romana, ed a chi 12


temeva che il 50° del Concilio fosse passato un po' troppo sotto silenzio, nel giro di un mese sono arrivate delle rassicurazioni fino a poco tempo fa inimmaginabili. Prima il gesto di portata storica, di libertà e di amore, delle dimissioni di Joseph Ratzinger, che proprio martedì scorso ha compiuto 86 anni ed a cui esprimiamo gli auguri e la riconoscenza delle Acli. Poi l'ascesa al soglio di Pietro del gesuita Jorge Mario Bergoglio, arcivescovo di Buenos Aires, un immigrato italiano di seconda generazione, dalla disarmante semplicità di vita, pari solo alla radicalità ed alla forza della sua testimonianza cristiana. Il quale, per di più ha voluto assumere il nome di Francesco da guida di quella Chiesa che il Poverello di Assisi avrebbe voluto più evangelica e molto meno mondana. Ma il nome Francesco evoca anche una radicalità ed una austerità di vita cristiana, ben lontana dagli stereotipi attorno ad un santo che si vorrebbe in beata armonia con il creato. Quella pace, infatti, era ed è il frutto dell'assunzione della croce. Quello che si prospetta, dunque, non sarà verosimilmente il profilo di un papa “buono” e accomodante, ma quello di un papa che con gioia e speranza si fa carico delle croci che affliggono la famiglia umana nel nostro tempo. Padre Bergoglio, di estrazione popolare e figlio di emigranti, aveva già visto, da guida della Chiesa Argentina, in quali condizioni poteva ridurre una nazione, l'applicazione delle ricette neo liberiste, senza scrupoli di natura etica e sociale. Ed aveva scelto di stare dalla parte delle vittime della crisi e dei più poveri. Da arcivescovo di Buenos Aires padre Bergoglio ebbe a dire che a nessuno deve mancare il pane e il lavoro. Questa è anche la priorità sulla quale operare la riforma dell'economia e della finanza su scala globale. Ci si attende dunque dal nuovo pontificato un richiamo ed uno stimolo, fatto più di segni e di stile che di parole. Il rinnovamento della Chiesa passa anche dall'abbattimento di quegli idoli contemporanei (come il profitto senza limiti) che sono di ostacolo alla carità ed alla fraternità fra le persone, che tolgono la serenità alle famiglie e rendono la società meno umana.

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I cattolici possono ancora svolgere un ruolo da protagonisti. Come ha osservato lucidamente il sociologo Mauro Magatti, “quando il mondo cattolico è debole, contraddittorio, diviso, complessato rispetto alle altre culture o agli altri gruppi sociali, il Paese declina. Quando il mondo cattolico è coraggioso, ardito e unito, il Paese vive”. Ecco dunque l’importanza dell’autonomia che ci riguarda come cattolici e come Associazione. C’è una autonomia superiore a quella politica, ed attiene alla capacità delle Acli di essere libere nel fissare i propri obiettivi e di formulare i propri giudizi. Questa, a mio avviso, è la forma più importante di autonomia, da cui scaturisce anche l'autonomia rispetto ai partiti. Per queste ragioni credo che la presenza dei cattolici nella società, ed in particolare del cattolicesimo democratico e sociale, sia oggi più necessaria che mai. In un mondo dominato dall’avidità del profitto vi è l’esigenza di parlare di giustizia, di rispetto della persona, di diritti sociali universali per i lavoratori, di lavoro dignitoso e decente che deve essere la condizione irrinunciabile di qualsiasi concorrenza. E queste questioni cruciali sono spesso sostenute da quella galassia di esperienze sociali e politiche che si richiamano al pensiero sociale cattolico, senza cui rischierebbero di non essere neanche messe più a tema nel dibattito politico. Fra questi temi va annoverato anche la condanna della guerra e del terrorismo. In particolare desidero esprimere la solidarietà delle Acli all’ambasciatore degli Stati Uniti, David Thorne, unita allo sdegno per l'attacco terroristico alla Maratona di Boston. Inoltre, la comunità internazionale deve trovare con urgenza una soluzione diplomatica al conflitto che ormai da due anni insanguina la Siria, i cui eccidi spesso hanno colpito la presenza cristiana in quel Paese ed hanno mietuto molte vittime di civili innocenti. Deve altresì proseguire il ritiro delle truppe occidentali dal martoriato Afghanistan. In particolare, credo che la situazione economica e sociale in cui versa il nostro Paese imponga di accelerare questo ritiro, facendolo divenire uno dei primi atti del nuovo governo, insieme alla riduzione delle spese militari cominciando da quelle per

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l’acquisto degli F35 non procedendo più al loro acquisto e indicando la destinazione delle risorse risparmiate. 5. Le Acli come soggetto costituente

In una fase così complicata come quella attuale ci si deve attendere una capacità politica che raccolga in un nuovo progetto ispirato alla giustizia sociale le istanze che emergono nel Paese. Questo è il vero compito dei cattolici, in particolare lo è per le Acli, la cui politicità consiste in primo luogo nell’attenzione prioritaria a ciò che emerge sul territorio individuando i nuovi bisogni, le nuove emergenze. E le Acli dispongono di banche dati formidabili costituite dai dati relativi agli utenti dei servizi. E' qui che nasce la politicità delle Acli, da una attenta lettura di questi dati e dalla capacità di riflessione ed iniziativa politica per porre nel dibattito pubblico ed all’attenzione delle comunità ecclesiali, le nuove emergenze sociali che scorgiamo tra la gente. Presto il Caf presenterà i nuovi dati relativi alle dichiarazioni dei redditi, che costituiscono un indicatore molto interessante sulla condizione di famiglie, lavoratori e pensionati. E con dati provenienti anche da altri servizi potremo pensare di svolgere indagini estremamente interessanti sia dal punto di vista organizzativo che da quello socio-politico. Inoltre, in raccordo con la altre realtà del terzo settore dobbiamo esplorare le vie che portano ad un nuovo mutualismo popolare in campo previdenziale, sanitario, abitativo, formativo per sopperire alle sempre più numerose lacune del welfare pubblico. Possiamo pensare a strategie in varie direzioni: dalle politiche di sussidiarietà e mutualità per proteggere il reddito delle famiglie, a politiche di mutualità fra lavoratori in raccordo fra i nostri vari servizi e altri soggetti pubblici e privati. Politiche per compensare la perdita di lavoro degli over 40 pensando alla costituzione di un albo nazionale delle imprese virtuose che assumono o si impegnano ad assumere gli over 40 scaricati da aziende fallite o in difficoltà. Politiche in tema di conciliazione famiglia-lavoro ed iniziative sociali per la determinazione di fondi e bandi per il

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sostegno alle imprese. Questi sono solo alcuni degli ambiti in cui si può sviluppare la nostra progettualità sociale in tempo di crisi. Nel periodo che va dal 2013 al 2015 verranno celebrati importanti anniversari storici che, se coinvolgono la memoria collettiva del Paese, nello stesso tempo toccano da vicino il Movimento aclista che in essi ritrova le sue radici e l’inizio della sua storia, che si accinge ormai a sfiorare il traguardo dei settant’anni. Come è noto, alla fine dell’agosto 1944 fu decisa la nascita delle Associazioni Cristiane dei Lavoratori Italiani, le nostre ACLI, alle quali il Papa Pio XII conferì da subito un particolare compito. Infatti, in un’udienza del marzo 1945 , egli definì le ACLI “cellule dell’apostolato cristiano moderno”, ravvisando in esse quel soggetto che avrebbe potuto fare da ponte fra l’apostolato ordinario delle parrocchie e il mondo del lavoro. Via via che il territorio nazionale veniva liberato, la nascita del sindacalismo democratico

implicava

anche

la

prima

strutturazione

delle ACLI,

sicché

legittimamente noi possiamo affermare che la nascita del nostro Movimento è avvenuta , per così dire, progressivamente, chiamando alla responsabilità le forze vecchie e giovani del Movimento cattolico. L’approfondimento della nostra dimensione associativa passa quindi ancora oggi attraverso un recupero e un’attualizzazione delle nostre radici. Noi fummo soggetti costituenti alle nostre origini che coincisero con il plasmarsi del nostro ordinamento istituzionale, e ci dobbiamo sentire nel presente ancora soggetti costituenti capaci di rigenerarci e di essere significativi per la Chiesa e per la società. In questa direzione credo che rappresenti un fatto positivo anche l’aver ritrovato una dimensione unitaria, attraverso il completamento della Presidenza, e della Direzione a meno di tre mesi dall’ultimo Consiglio Nazionale che mi ha eletto presidente. Già è stato avviato un lavoro secondo le tre direttrici indicate nello scorso Consiglio Nazionale: il rilancio della vita associativa attraverso innovazione, sussidiarietà, solidarietà; l’uso delle risorse economiche e finanziarie secondo criteri di responsabilità, sobrietà, trasparenza e condivisione; e la definizione di un profilo politico e sociale basato su partecipazione, competenza e corresponsabilità che ci 16


consenta di continuare ad essere una voce qualificata e significativa sul piano pubblico e sui territori. Credo che in questo modo abbiamo creato i presupposti per poter sviluppare in questa fase difficile la nostra indole di soggetto costituente. E vorrei concludere proponendo un brano di un documento che fu una delle massime espressioni di quello spirito costituente di cui fu capace il cattolicesimo sociale e democratico da cui si originarono le Acli, il Codice di Camaldoli, laddove in tema di redistribuzione dei beni economici affermava: “Un buon sistema economico deve evitare l'arricchimento eccessivo che rechi danno a un'equa distribuzione; e in ogni caso deve impedire che attraverso il controllo di pochi su concentramenti di ricchezza, si verifichi lo strapotere di piccoli gruppi sull'economia". Scritto nel 1943, ma così attuale settant’anni dopo! Che anche le Acli di oggi possano contribuire a generare idee così lungimiranti per il bene del Paese!

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